Nono capitolo del volume La realtà della parola
Sessualità e mimetismo
Ruggero Chinaglia Alcuni elementi del dibattito di questa sera procedono dal film della settimana scorsa Tutto sua madre, opera del regista francese Guillaume Gallienne, un film abbastanza recente, del 2013, e particolarmente interessante, perché affronta la questione della sessualità e del mimetismo. Prima di addentrarci nella questione, sentiamo se ci sono domande o annotazioni da parte di chi ha seguito gli incontri precedenti.
Fabrizio Moda Io vorrei chiedere la precisazione tra mimetismo e identificazione.
R.C. A partire da cosa?
F.M. L’identificazione, ho sentito e letto che è un processo indispensabile alla formazione, alla riuscita. Mentre il mimetismo sembra come un’identificazione cui manca qualcosa, una fotocopia senza Altro, un qualcosa che indica una predestinazione. Però, appunto, non mi è chiaro quando c’è identificazione e quando c’è solo mimetismo.
R.C. Quindi lei dà per scontato che ci sia questo e quello.
F.M. Beh, mi pare che l’identificazione non sia una cosa naturale. Mentre facilissimo sarebbe il caso di mimetismo; per l’identificazione c’è bisogno di un dispositivo, di un certo tipo di formazione.
R.C. E cosa chiama identificazione?
F.M. Non lo so esattamente, ho letto di una prima, seconda e terza identificazione come un modo necessario, che però s’instaura molto difficilmente; ma c’è il mimetismo che invece predomina.
R.C. Lei dice che sono due cose antitetiche?
F.M. Sì.
R.C. E questa antitesi si compie per quale motivo?
F.M. Da quello che ho capito, di solito non si compie l’identificazione, mentre il mimetismo sarebbe quando si dice “tale padre, tale figlio”. Si tratterebbe di un pregiudizio larghissimamente diffuso, cui per gnosi, per predestinazione, per mentalità, per una serie di fantasie comunissime ci si rivolge come metodo facile per orientarsi nella vita.
R.C. Nei termini in cui lei espone la questione dell’identificazione e del mimetismo, sembra trattarsi quasi della stessa cosa.
F.M. No, mentre mi è chiaro il mimetismo non mi è per nulla chiaro come si produce l’identificazione.
R.C. Il mimetismo le è chiaro?
F.M. Sì, nel senso che noto che il mimetismo è predominante in moltissimi aspetti della vita nella maggior parte delle persone.
R.C. E come lei si accorge dell’instaurazione del mimetismo?
F.M. Per esempio, nel film La fabbrica di cioccolato ci sono due personaggi, una signora e una bambina, che hanno gli stessi identici atteggiamenti, vestiti, modi di fare, capigliatura e quant’altro. E questi aspetti in comune, come il modo di vestire o certi atteggiamenti, mi sembra di ritrovarli in tantissime persone che si attengono a un’idea che, in modo diretto o contrappositivo, fa riferimento a mamma e papà o anche a altre figure, e potrebbero riguardare l’assunzione di un certo ruolo, come in caserma o in certi sport.
R.C. Si tratta dell’imitazione?
F.M. Già qui ci sono due termini diversi, lei dice. Sembra quasi una conferma di un se stesso già dato a priori.
R.C. E tenendo conto del film che abbiamo visto, dove individua il caso di mimetismo? Se c’è.
F.M. Nel caso del film, la mamma era addirittura maschile, forse era l’attore stesso che recitava due ruoli, quindi il figlio si vedeva tale e quale alla mamma.
R.C. Sì, e quindi?
F.M. E quindi rimaneva inchiodato a questa figura di riferimento, cercando di andare per quella via che la mamma, in qualche modo, lui pensava gli indicasse.
R.C. Sì, ma quale via? Di quale via si trattava?
F.M. Nel caso specifico, verso un certo indirizzo sessuale, sessuale nell’accezione comune, senza che ci fosse nessuna particolare astrazione e nessun rivolgimento alla qualità della vita. Semplicemente così, qualcosa di comune, di standard, un seguire quello che si suppone siano le volontà di mamma e papà.
R.C. Così diventa un caso psicologico, una modalità per seguire o non seguire qualche volontà. Diventa un caso zoologico; mimetismo zoologico, mimetismo ambientale. Certo, anche l’ambiente ha la sua incidenza, ma occorre cogliere il mimetismo nel caso in questione, come in ciascun caso, non il mimetismo come una sorta di ontologia, in cui qualcuno può incappare.
Qui c’è un racconto. Il film è un racconto, ci racconta qualcosa. Questo film, in particolare, è il racconto che avviene, in alcuni momenti come testo narrato, in altri come testo d’immagini, ma si tratta sempre di racconto. Ciascun film è un racconto. Anche dove sembra trattarsi di cose così come sono, occorre cogliere che in ciascun film si tratta di un racconto. Racconto di chi? Occorre capire qual è il protagonista del film, che racconta quella vicenda, e non sempre è così evidente. Qui avviene per lo più il cedimento al caso psicologico, al caso comune.
Guillaume racconta la sua traversata di un fantasma genealogico che sembrava orientare la sua “sessualità” – sessualità tra virgolette – in quanto sessualità di un personaggio, cioè il figlio di, il personaggio del figlio di… Figlio di mamma? Figlio di papà? Figlio di…
Figlio di vuole dire rappresentante di una genealogia, esponente di una relazione non originaria, di una relazione che trova i suoi termini nella parentela, nella procreazione, nella filiazione. Guillaume si trova in una famiglia non già come traccia della parola, ma come famiglia naturale, dove ci sono la mamma, il papà, i fratelli, le zie, in un contesto rappresentato dalla relazione sociale. In questo contesto Guillaume si rappresenta e rappresenta la famiglia in certi termini. Quali sono questi termini?
Guillaume rappresenta la madre come donna amabile, come donna che lo ama, come donna che ama, contraddistinta da una certa freddezza e da un certo calore, in grado di passare dalla calorosità alla glacialità in maniera istantanea. Piuttosto mascolina, piuttosto scostante, irascibile, bella, “molto bella”. Ma questa bellezza, rispetto alla raffigurazione che viene data nel film, non è così immediata, non è così rappresentata. È la mamma che Guillaume sogna di amare e da cui essere amato; da cui ritiene di essere amato, in quanto figlia!
Questo ci dice Guillaume: la mamma desidera una figlia e lui crede di essere una bambina. Rispetto a questa credenza, chi si oppone? Il padre, l’unico a non credere che Guillaume sia una bambina. Il padre, piuttosto autoritario, forte, sportivo, non crede a Guillaume, nella sua rappresentazione di essere una bambina.
Poi ci sono i fratelli, che sono chiamati “i ragazzi”! Nel film i fratelli sono chiamati i ragazzi, rispetto cui c’è Guillaume. Quindi non ci sono il papà, la mamma e i fratelli, ma ci sono il papà, la mamma, i ragazzi e Guillaume. E Guillaume ritiene di dovere essere come la mamma, perché pensa che la mamma voglia che così lui sia.
Guillaume presume di essere desiderato dalla mamma e che si tratti di desiderare ciò che la mamma vuole; mentre il padre non desidera, non desidera affatto che Guillaume sia né come vuole, né come pensa di volere essere, né come la mamma vuole. Rispetto al racconto, nel film la questione forte è quella del padre, non già la madre che lo desidera, la madre che gli indica come essere. Se c’è una posizione forte è quella del padre.
Il padre, qui, non è negato, non è tolto, anche se è criticabile perché non capisce che Guillaume è una ragazza. Questo è il testo del racconto: il papà non capisce che Guillaume è una ragazza, nonostante tutti gli sforzi che egli fa per convincerlo. E per un verso Guillaume si sforza di assomigliare alla mamma ma, soprattutto, tenta di convincere il papà rispetto a questo principio di somiglianza cui si ispira.
Sta qui il mimetismo: nel principio di somiglianza che nega l’immagine, l’alterità dell’immagine, a favore di un personaggio che deve essere rappresentato e cui si deve assomigliare. Che cosa produce questo sforzo di somiglianza? La negazione della sessualità!
Da dove procede questa necessità di assomigliare a? In questo, non si tratta dell’identificazione. E tanto meno si tratta di quella stortura psicoletteraria, chiamata l’identificazione con la madre, o con il padre, o con qualcuno, che non c’entra nulla con l’identificazione. L’identificazione è con la causa, non con qualcuno! Con la causa, che può essere causa di godimento, causa di desiderio, causa di verità. I problemi cominciano quando la causa, anziché rimanere irrappresentabile, viene raffigurata, rappresentata, concretizzata in qualcosa o in qualcuno. Così la causa è tolta, resta il qualcosa o il qualcuno che diventa la rappresentazione della causa, ma non è la causa, è la sua rappresentazione.
Questo film non pone la questione dell’alternativa tra l’omosessualità e l’eterosessualità. Anzi, ha il merito d’indicare che si tratta della sessualità senza alternativa tra omo e etero. La sessualità non è né omo né etero, e non è caratterizzata da una scelta di genere. La sessualità non è sessualità di genere, anche se questo non è ancora inteso a nessun livello. Non c’è un genere sessuale. La sessualità è una proprietà del vivere, è l’aspetto della politica, del programma di vita di ciascuno.
Qui sta la sessualità che non è caratterizzata né dalla somiglianza né dall’estraneità. È caratterizzata dalla politica, dall’assenza di rappresentazioni che aboliscono il tempo, la causa e il modo di vivere secondo la parola, per la necessità pulsionale. La necessità che la domanda indica. Non c’è una necessità generale. Questa è la questione.
Non c’è una necessità generale, non c’è una sessualità generale omologabile. I termini della sessualità non sono mai acquisiti una volta per tutte. Si specificano man mano nei termini della politica del vivere. Politica del tempo, vivendo. La sessualità esige che il tempo non sia dato per finito. Esige che non prevalga l’idea che le cose finiscono, che il tempo finisca e che ogni cosa è sotto questa minaccia.
La minaccia della fine del tempo toglie la sessualità, facendo sì che ognuno sopravviva. Se al vivere è tolta la sessualità, c’è la sopravvivenza. Che cos’è la sopravvivenza? È l’attesa della fine. Ognuno vive nell’idea che quello che sta facendo finirà. È contrassegnato dal negativo, dalla fine e quindi non ha nessun valore. La sessualità si rivolge al valore. Negando il valore, la sessualità stessa è negata.
Tutto ciò si svolge in maniera narrativa, cioè la vita stessa è nella parola. Non è tracciata dalla fantasmatica che corrisponda alla nascita e alla morte. Questa può essere la vita zoologica, la vita animale, ma la vita di ciascuno nella parola ha termini e aspetti differenti. Non è marcata dall’idea di fine. Questa è la vivenza. Vivere nella parola è il particolare modo della vivenza, senza l’ipotesi di una predestinazione e senza l’ipotesi di una fine comune.
Tutto ciò esige il non adeguamento all’idea di genere. Chi si adegua al genere diventa personaggio della fiaba del genere. Qual è la fiaba del genere? È che si nasce, si vive e si muore! Questa è la fiaba del genere umano. Bene, chi ritiene di appartenere al genere, appartiene a questa fiaba. Non ha granché da dire né granché da fare, evidentemente. Si accontenta della fiaba, si adegua e vive nella sua mitologia di attesa predestinata della fine. È pieno il mondo di personaggi così. Per lo più, ognuno vive così. Gli umani vivono così, senza tenere conto della domanda, senza tenere conto di quel che accade, sperando di vivere bene. Ognuno spera di vivere bene. Vuole vivere bene!
Così mi diceva oggi una ragazza: “Io vorrei tanto vivere bene. Però, non voglio fare niente. Bisogna che avvenga così, ma io non avrei nessuna intenzione di sforzarmi per questo. Voglio solo vivere bene”. Mentre adesso vive male. Ma, perché vive male? Perché ci sono sintomi che le impediscono di fare alcune cose. Peraltro, dice, sono “tutte sciocchezze”: “Perché sono le cose che aveva mia mamma, quando ha avuto la depressione”. Quindi sono cose già note! Se le ha avute la mamma, non sono problemi veri! Poi, sono cose che ha avuto già anni prima e che adesso si stanno ripetendo, ma con alcune aggiunte. Però, non vorrebbe fare niente per capire. Vorrebbe solo sapere come fare per vivere bene.
Questa è la domanda del genere umano: sapere come fare per vivere bene! Ma, capire, no!
Capire, cosa vuol dire capire? Ognuno dice: “Io so già”. So già che questo sintomo corrisponde a un attacco di panico, quest’altro corrisponde a un’ansia, quest’altro corrisponde a qualcosa della depressione. “Io lo so”. “So già”. Ma questo sapere non vale a attraversare il sintomo, a capire i termini della domanda e andare in direzione della riuscita. No, questo sapere proprio non basta! Però, ognuno dice di sapere. Crede di sapere. Vuole sapere. Magari senza capire. Magari senza ascoltare. Magari senza interrogarsi sulla domanda.
Come Guillaume quando dice alla mamma: “Sai, ho incontrato Anna, il mio primo amore di quand’ero bambino”. “Ah sì, bene. Come sta lui?”, chiede la mamma! Guillaume rimane un po’ perplesso: “Anna… Lui…?”. La mamma capisce o non capisce? La mamma sa o non sa? La mamma che è così bella, così buona, che lui ama così tanto, riamato, perché loro si vogliono un bene dell’anima, “Anche se la mamma è di pessimo umore, praticamente da quando sono nato”. Ma, allora, pensa, è colpa mia? La mamma è di pessimo umore, per colpa mia? La mamma che a un certo punto dice a Guillaume: “Beh, ma di cosa ti lamenti?”. Guillaume le racconta che si è innamorato di un ragazzo, che però non gli corrisponde, e la mamma dice: “Vabbè di cosa ti lamenti. Ce ne sono tanti”. “Tanti cosa?”. “Sì, ce ne sono tanti”. “Ma, tanti cosa?”. “Ma sììì, tanti omosessuali”. E Guillaume dice: “Omosessuali? E cosa c’entrano gli omosessuali? Io sono una ragazza, mi sono innamorata di un ragazzo. Cosa c’entra l’omosessualità?”.
Perché la mamma voleva una ragazza. È nato lui, che è “una ragazza” a tutti gli effetti per la mamma e per il suo amore verso la mamma. Cosa c’entra l’omosessualità?
Guillaume non trova l’intesa con la mamma. La mamma è scontrosa. La mamma non gli corrisponde. In nessun caso può dire di avere un’intesa amorosa con la mamma. In ciascuna conversazione, quel che emerge è questo dato: non trovano l’accordo, non sono mai nell’intesa. E questa è la chance per Guillaume! La chance di accorgersi che la mamma è un personaggio della fiaba familiare, ma la famiglia si discosta dalla fiaba. Qualcosa nella famiglia non ricalca i personaggi della fiaba! Con la mamma non c’è intesa. Non basta più assomigliare alla mamma. Si staglia un’altra struttura, che non è più la mamma, è la madre.
Un altro statuto per Guillaume: non è più il figlio di mamma! Non è più l’esponente di una procreazione, tanto più che il papà non lo riconosce come bambina. E dunque avverte un’altra istanza, l’istanza del padre come indice del nome e dell’autorità, mentre la madre è indice del malinteso. Guillaume non riesce a essere o diventare l’elemento unificante di questi personaggi. Il mimetismo, con cui ha cercato l’unificazione della famiglia come entità naturale, non tiene. Non c’è corrispondenza tra la mamma e la madre. Non c’è corrispondenza tra il papà e il padre. Non c’è corrispondenza tra Guillaume e i fratelli. Non c’è corrispondenza tra Guillaume e le ragazze. Non c’è somiglianza tra Guillaume e i fratelli. Eppure il padre è lo stesso, direte voi! No, evidentemente! Non è lo stesso padre!
Il padre non è mai lo stesso. La madre non è mai la stessa. Gli indici nel racconto di ciascuno, nella vita di ciascuno non sono mai gli stessi rispetto a un’altra vita, rispetto a altri. Non ci sono figli della stessa mamma. Non ci sono figli dello stesso papà. E il fratello certifica proprio questa alterità. Non c’è somiglianza con il fratello. Non c’è unità familiare dei fratelli o dei genitori o tra genitori e figli. Nessuna unità, nessuna unione, se non mimetica.
Il mimetismo si regge sul principio di presunta unità che dovrebbe ricondurre la famiglia a un’entità, a un’ontologia, a un principio di genealogia, all’idea di origine comune, quindi a un principio d’incesto. Il mimetismo si regge sull’idea d’incesto da evitare!
Come evitare l’incesto? Ecco la sessualità bicorne, omo e etero, sul principio di unità che, a un certo punto, deve diventare principio alternativo, per evitare l’incesto. Sul fantasma di origine comune sorge la necessità di evitare l’incesto. Come evitare l’incesto? Ecco l’alternativa fra omo e etero sessualità. Un’alternativa fantasmatica.
La famiglia è modo della contraddizione, non è principio di unità. È modo della contraddizione. È modo dell’apertura. È la traccia di questo modo. Come negarla? Attraverso il principio di unità, cioè il principio di credere a una comunanza di origine, per far sì che la relazione originaria – che ha il suo modo nell’ossimoro – la relazione come apertura, diventi relazione sociale, cioè relazione genealogica.
E questa è la via del vittimismo, perché il personaggio che sorge dal mimetismo si giustifica attraverso l’agente che deve rappresentare la relazione con la stessa origine. Quindi, con il principio d’identità. E ognuno recrimina contro il destino infame che l’ha messo lì, in quel posto, in quella discendenza, in quella relazione in cui bisogna evitare il male, il negativo, l’incesto e tutte le rappresentazioni che conducono alla fine delle cose, alla fine del tempo. Con la necessità di evitare. L’evitamento è il metodo della salvezza.
In questa rappresentazione, ognuno sa del male, sa che c’è il male, sa che incorrerà nel male. E bisogna evitare. Bisogna salvarsi! Come salvarsi? Cercando di sapere dove sta il male, per evitarlo. Ognuno cerca la salvezza e non già la salute. Ognuno vuole sapere. Ognuno vuole. Ognuno si fa soggetto della volontà. Importa non già la domanda, la ricerca, la pulsione, il disegno, il progetto, il programma, no! La volontà di salvezza!
Cosa vuoi fare? Cosa vuoi essere? Cosa vuoi avere? Avere e essere. Queste diventano le basi della transitività dell’amore, dove non si tratta più dell’amore, ma dell’amare! “Io amo, non amo, mi ama, non mi ama, non mi ama abbastanza, non mi ha mai amato, non mi amerà mai, eppure io amo. Io amo, ma sarò amato? Sarò amata?”. Il soggetto dell’amare è il soggetto dell’incesto. È il soggetto della relazione come relazione sociale, dove si tratta dell’amare, della transitività. Non dell’amore come indice, ma dell’amare. Amare per essere, amare per avere. Essere per amare, avere per amare. Un cerchio in cui si tratta dell’essere e dell’avere finalizzati, finalizzati a…, cioè che ha la fine dove sarebbe raggiunto lo scopo. Dove lo scopo sarebbe raggiunto, è la fine. Sta lì la fine.
Si potrà mai raggiungere questo scopo, se corrisponde alla fine? Beh, bisognerebbe essere stupidi! Se il conseguimento dello scopo combacia con la fine, cosa faccio? Sancisco la fine? Eh no! Cercherò percorsi alternativi. E a questo s’ispira il mimetismo: ai percorsi alternativi. Cioè percorsi per relazionarsi con se stessi, per volersi bene, perché ognuno è convinto che c’è una parte che gli vuole bene e un’altra parte, no. E quindi bisogna che queste due parti trovino un accordo. “Bisogna che ci sia il dominio della parte che mi vuole bene su quella che mi vuole male”. Che questa parte sia chiamata corpo, mente, psiche… può essere chiamata in qualunque modo. E questa dicotomia che cosa produce? L’erotismo. L’erotismo di sé a sé.
L’erotismo, cioè l’evitamento, il finalismo per evitamento! Questo è l’erotismo: finalizzare qualcosa all’evitamento del male o alla finalità di bene. È la stessa cosa. Non per la riuscita, non per il valore, ma per il fine di bene o per evitare il male. Perché ognuno sa che potrebbe andargli male, anzi, che gli andrà sicuramente male, se non si affida alla buona stella. Ognuno crede di avere una parte sana e una parte malata. Speriamo prevalga quella sana!
Questa è la superstizione degli umani: la salvezza. Salvare la parte sana. E l’altra parte? Così vivere diventa barcamenarsi, perché la parte buona, sana, positiva prevalga sull’altra parte. La relazione sociale è questa: la relazione secondo l’idea di bene. Quale bene? Il bene comune alle due parti. Quindi, ci vuole l’unificazione, l’unità, la chiusura dell’apertura. Chiusura che è l’unica cosa che possa consentire l’unificazione delle parti, unificate le quali, sarà l’apoteosi del fantasma di fine; l’origine che giunge a coincidere con la fine: è la chiusura del cerchio!
Che questo risulti angoscioso, triste, pauroso, terribile è il meno che possa capitare. Non c’è più varco, non c’è più intervallo, non c’è più avvenire. C’è la chiusura del cerchio. Che accadrà adesso? Basta, niente! È la fine! Ciò che accade in questi casi è chiamato “attacco di panico”, ma è un’etichetta che non dice nulla. È una fantasia di fine, con i modi e con gli aspetti che ognuno trova per rappresentarsela. Non è una malattia. È una rappresentazione di un cerchio che si chiude.
Bene, sentiamo allora qualche domanda.
Patrizia Ercolani Volevo dire una cosa. Non so se ho capito bene quando parlava, rispetto al film, dell’unità familiare come fondamento, un tentativo di fondare la famiglia.
R.C. Ecco, esatto. Questa è un’altra modalità. Fondare una famiglia. Creare una famiglia. Così si dice spesso.
P.E. Sì, e questa unità sarebbe dissolta, si dissolverebbe questa fantasia di unità quando s’instaurasse l’indice della madre?
R.C. È il contrario veramente. La madre non è un rimedio, è originaria.
P.E. Tolta la madre.
R.C. Può essere negata, certo.
P.E. Negando la madre si forma questa idea di unità, d’incesto, e quindi questa fantasia di unità, di somiglianza, di simulazione, di mimetismo.
R.C. Somiglianza. Quando mai al cospetto di un bambino non c’è chi non si prodighi a trovare somiglianze: “Ma è tutto sua madre, ma è tutto suo padre”. E lì cominciano le peripezie. Si tratta di essere tutto suo padre o tutta sua madre? Si tratta di avere le caratteristiche materne o paterne? Come bisogna essere? Cosa bisogna avere? Queste sono le domande con cui inizia il calvario!
Le domande del calvario: come bisogna essere? Cosa devo avere? A chi assomigliare? E questa somiglianza trascorre anche nel sintomo, nelle presunte malattie comuni. “Mah”, dice qualcuno, “ho un problema ipertensivo. D’altronde, l’aveva anche mio padre, quindi è evidente…”. Un altro ha dolori di un certo tipo ma, d’altronde, anche la mamma li ha, è proprio caratteristico della mamma avere questi dolori! In quanto figlio di mamma, posso io non avere questi dolori? C’è chi ha il diabete, ma anche il padre aveva il diabete e, quindi, che discorsi! È semplicemente il segno di una genealogia. Non c’è niente da fare… E c’è chi vive tutta la vita nell’incubo, perché il padre o la madre sono morti di tumore! E allora questo “sarà il motivo della fine” e bisogna salvarsi dalla stessa fine.
Anche questo è mimetismo! Mimetismo del bene. Mimetismo del male. Mimetismo degli acciacchi. Mimetismo, cioè segno della somiglianza.
Maria Luisa Biancotto Eredità genetica, il DNA, la memoria.
R.C. Addirittura… Sì, certo. Come non rendere “scientifico” il mimetismo?
M.L.B. Non c’è nulla di credibile?
R.C. Quanti anni sono passati dalla grande scoperta del genoma, che avrebbe rivoluzionato tutto? Dieci? Però, dicono poi gli “scienziati”: “I geni, i cromosomi, effettivamente, non bastano… I geni non bastano… I cromosomi non bastano… Ci vuole tutta una combinatoria particolare… E poi ci sono gli inibitori, i soppressori… Sì, può esserci il gene, ma se non c’è anche l’enzima, e se l’enzima poi è soppresso… Ma è soppresso o non è soppresso?”. Non basta! Non basta nemmeno la mappa genetica, per sancire una predestinazione.
M.L.B. No, non la predestinazione. Non in quel senso.
R.C. La fiducia riposta nel DNA era questa: potere prevedere e quindi intervenire su una predestinazione, che però non c’è.
M.L.B. Si può leggere in un altro modo, invece.
R.C. Certo.
M.L.B. Tutto quello che uno fa in vita in qualche modo lo trasmette, si scrive nella chimica del corpo.
R.C. Quello che fa?
M.L.B. I processi che elabora, da qualche parte, lasciano traccia e questa traccia si trasmette geneticamente e è già un patrimonio di dotazione che uno si può giocare come vuole, evolvere o no, come può, come vuole.
R.C. “Come vuole”? Quindi c’è sempre il soggetto della volontà.
M.L.B. Come vuole, nel senso che è un modo di dire. Si può giocare e basta. Si può mettere in gioco, fare il suo percorso, comunque è un bagaglio di dotazione con cui uno parte, diverso da un altro. Non trovo niente di scandaloso in tutto questo o di impedimento fantasmatico.
R.C. Sì, ognuno ha i suoi pesi e se li deve tenere!
M.L.B. Se non c’è nessuna traccia di legame, nessuna traccia di una storia mi sembra ancora più triste. Non ci sarebbe una struttura.
R.C. La storia c’è. Si scrive in quel che si fa. E si scrive facendo. Non è già scritta. Non è mai scritta. Non c’è modo di giustificare la recriminazione verso il bagaglio. La via è spalancata per ciascuno. Non è detto che sia larga, ma è spalancata. La porta che immette nella via è spalancata. Poi, se ognuno ci vuole mettere i suoi impedimenti, questo è un altro discorso.
M.L.B. Era rispetto alla differenza. Nel modo in cui ognuno affronta le cose, sicuramente c’è traccia di una educazione ricevuta o comunque di dispositivi incontrati, per cui uno impara una cosa o ne affina un’altra, o sviluppa una capacità piuttosto che un’altra. E non so da dove venga che, solo per il fatto che una persona ti guarda in faccia, riesce a farti una caricatura e un’altra invece sta lì imbambolata e non ha capito niente. Da dove viene questa differenza? Forse non è genetica, ma da qualche parte uno arriva a un modus operandi. Potrebbe essere anche da uno della stessa famiglia.
R.C. Sì, appunto. A meno di non assegnare al termine genetica, un’altra accezione. Già Freud parlava di genetica, ma non nell’accezione del codice genetico, ma della ricerca da fare, perché si tratta sempre della resurrezione e mai della morte. Invece la genetica, per come è impostata oggi, parla dell’origine e della fine, e mantiene questa fiaba del genere. Mantiene l’unità del genere, mantiene il genere con tutto ciò che segue, sessualità di genere, destino di genere, vita di genere.
M.L.B. Genere umano.
R.C. Esatto. Origine, fine, e modalità. E da tutto ciò è tolta la parola. È tolta la domanda. È tolta la particolarità. Invece, occorre tenere conto del particolare e dello specifico e di come avviene la combinatoria. La questione è l’analisi e la cifratura, non l’ontologia. Quindi c’è da fare perché si instaurino il padre con il suo mito, la madre con il suo mito, il tempo con il suo mito, perché ci sia costruzione, che, attraverso l’instaurazione di questi miti, proceda e si compia, senza assumere quelle prerogative fantasmatiche che vengono attribuite ai personaggi come segni di negatività che sarebbe acquisita per via relazionale, per via interpersonale, per via di discendenza. Occorre sfatare proprio questo.
Per ciascuno si tratta della scommessa che riguarda la domanda, i termini della domanda, l’avvenire, i termini dell’avvenire, senza cedimenti. La questione è questa: non cedere alla credenza del male dell’Altro, della negatività dell’Altro. La negatività dell’Altro è anche l’idea dell’ereditarietà negativa.
M.L.B. Ma perché deve essere negativa? Potrebbe essere positiva.
R.C. Lei come si accorge dell’ereditarietà?
M.L.B. Lo dicevo prima, magari uno ha sviluppato certe capacità, un altro non ce le ha. Ne ha di diverse.
R.C. È mai stata a parlare con un medico? Le avrà chiesto quali sono le malattie di famiglia. Non gliele ha mai chieste? Non le è mai stata fatta un’anamnesi? L’anamnesi, cioè la conoscenza del male della sua famiglia, da cui ovviamente lei deve guardarsi. L’anamnesi: la memoria del male della sua famiglia! Se non è una fantasia di negativo questa! Eppure la medicina si avvale di questo metodo. E non solo la medicina. È una prassi vigente. Attraversare questa impostazione richiede un certo sforzo.
M.L.B. Non c’è nulla di vero, assolutamente? Cioè, se un genitore ha un difetto e tu ce l’hai, ci può essere qualcosa che li collega, può essere un occhio o il fegato.
R.C. Possono essere tante cose.
M.L.B. Ma non c’entra niente? È tutta una balla? Sul serio? Non c’è nulla di fondato?
R.C. Adesso vuole trarre una conclusione generale da casi particolari. Occorre considerare ciascun caso come particolare. Ha capito? Non c’è il caso standard.
M.L.B. Ma c’è una metodologia standard.
R.C. Infatti, la ragazza con cui parlavo oggi voleva sapere quanto “durava il percorso”, per capire. E pur facendo presente che nel suo caso il percorso era ancora da cominciare a svolgersi, voleva già sapere quando finiva. La cosa era, non dico del tutto impossibile, ma assurda. Mi dice: “Ma, mi dica almeno nello standard”. Capisce? Nello standard. Riteneva di potere situarsi nello standard. Ma questa ragazza non è avulsa da un contesto, che possiamo chiamare contesto sociale e civile, dove questa modalità dello standard è imperante: modalità della media, dello standard, della mediocrità, nemmeno aurea. Lo standard che ognuno vuole sapere. Lo standard di ognuno che vuole sapere: vuole sapere quando finirà. Quando finirà? Ma chi capisce che ogni accenno alla fine di qualcosa è un’idea mortifera? Chi capisce questo? Fatalità, questa ragazza, quanto all’idea di morte, ci bazzica spesso, ma… “per fatalità”, non per una impostazione!
M.L.B. Era destino che c’incontrassimo.
R.C. Era destino.
M.L.B. Cioè, non indica necessariamente un’idea di morte.
R.C. Cosa?
M.L.B. L’espressione “Era destino che c’incontrassimo”. Può sembrare fatalismo, ma non è che tutto lo sia.
R.C. Non l’espressione. La metodologia che prescrive di sapere per ogni cosa quando finirà, non c’entra col destino. Questa è una fantasmatica che riguarda il cerchio che si chiude. Il cerchio è già chiuso, quindi bisogna situarsi nel cerchio. E poi è ovvio che in questa mitologia avvenga l’angoscia, o quello che viene chiamato “attacco di panico”, e cioè la negazione dell’avvenire, e l’insonnia, ecc. ecc. Non è sorprendente, perché nessuno vive bene nel cerchio, nel recinto, nella gabbia. Chi può vivere bene nella gabbia o nel cerchio?
Giorgio Fornasier Doris di Mediolanum! [Risate in sala]
R.C. Va bene, come intervento conclusivo!
Non so se ci sono altre domande, altre cose. Lei è la prima volta che viene qui?
Pubblico Qui sì. Ci siamo già visti nell’altra sala.
R.C. Quando eravamo al quartiere?
Pubblico Esatto.
R.C. Ecco, mi pareva. C’è qualche questione, qualche domanda?
Nadia Vidale Diceva prima: l’amore come indice.
R.C. L’amore come indice della ricerca, per esempio. Come indice e custode del parricidio, della ricerca che non finisce e che richiede e esige il parricidio, non la morte del padre, ma l’instaurazione del padre, nell’infinito. La negazione dell’infinità ha delle conseguenze. Ritenere che qualcosa finisca, che possa finire da qui a lì, ha delle conseguenze.
È chiaro che ognuno ritiene che basti sapere, ma questo avremo modo di affrontarlo e discuterlo giovedì prossimo, con il film che ha per titolo Dio esiste e vive a Bruxelles. Quindi, per chi avesse dubbi su Dio, la religione e quant’altro, possiamo affrontarli la prossima settimana.
Maria Antonietta Viero Una questione. La famiglia come modo della contraddizione. Qual è il modo ossimorico della famiglia? Quali sono i termini per dire che è il modo della contraddizione?
R.C. Come quali sono i termini?
M.A.V. Sì, mi viene da pensare. Se io dico alto-basso, dico un modo ossimorico, giusto?
R.C. Che non c’è alternativa fra il padre e la madre. Non c’è alternativa.
M.A.V. Ah, ecco. Ho capito.
R.C. Non c’è possibilità di padre buono e padre cattivo. Non c’è la possibilità della madre buona e della matrigna. Non c’è l’alternativa! Ciascuno statuto è originario e in assenza di alternativa. In questo senso la famiglia è il modo della contraddizione, dove positivo-negativo, bene-male, alto-basso, dentro-fuori non sono in alternativa. Sono in contraddizione, ma non in alternativa.
Dove vige l’idea che in ogni momento Tizio può essere sbattuto fuori casa, oppure debba andare via da casa, vuol dire che questo modo della contraddizione non c’è più e si è volto nell’alternativa. Non è una contraddizione astratta, ipotetica, ma si pone nelle cose che si dicono, nel modo con cui si dicono, nelle cose che si fanno, nel modo con cui si fanno. Tutto ciò è pratico, non è ipotetico. Non è teorico. È analitico e clinico.
La genetica è la ricerca su questo, l’indagine sulla combinatoria delle cose che si dicono e che si fanno. Questa è la genetica attuale che in maniera straordinaria già Freud aveva introdotto nel suo testo. Un’accezione di genetica veramente straordinaria, che non riguarda ciò che è scritto e che può aiutare a prevedere quel che accadrà. No, non c’è previsione. Non c’è visione e non c’è neanche previsione. C’è costruzione! Questo sì. Costruzione, decisione e attuazione, senza cedimento; quindi elaborazione, analisi e qualificazione. Questo è il dispositivo per la qualità. Ciascuno disponendosi a questo. Occorre disposizione, umiltà, occorre generosità.
In questo senso, il film Tutto sua madre è molto interessante. Fornisce indicazioni per non accondiscendere ai banali luoghi comuni sulla sessualità di genere, sull’appartenenza e sulla genealogia. È veramente un testo interessante, molto interessante. Anche il modo con cui il film si conclude, quando Guillaume annuncia alla mamma il matrimonio e dice: “Io e Amandine ci sposiamo”. “Ah sì? – risponde la madre – E con chi?”. Cioè, non c’è verso! Nessun accordo, nessuna intesa.
La madre non è un personaggio addomesticabile. È nella struttura temporale. E non c’è verso che il malinteso sia tolto nelle cose che si dicono. Il malinteso è qualcosa che introduce all’oltre, altrimenti ogni pretesto sarebbe buono per fermarsi. E invece no!