Articolo pubblicato su “Transfinito. International webzine”
INTEGRITÀ E ANNUNCIAZIONE
“L’epiteto, l’insulto, l’offesa, la minaccia, il ricatto, la rivendicazione, la lesione fino all’autolesionismo al suicidio e all’omicidio, sono esempi di toccamenti: erotismo da contatto.”
L’integrità è una virtù del principio della parola. La parola non si può toccare, è intangibile, anàptos da anà apto, anche anèpafos, da an’àfe, intoccabile, afh, toccare. Anche in latino, integro viene da non tangere, intactus. All’integrità della parola segue che sia cattolica.
La parola cattolica è la parola che non manca di nulla, òlos, olotès, intatto, completo, da cui anche salvus, che sta in buona salute, intatto, solidus. “Cattolica” è una virtù della procedura, che, è procedura per integrazione ossia epì anàlepsis, epànalepsis: senza presa e senza contatto. La parola è fuori dalla possibilità di venire presa, e, quindi di venire confiscata; la sua presa è la scienza.
Nella parola non c’è contatto, la sessualità è senza contatto. Dunque, non c’è contagio, non c’è contaminazione.
Cristo, ci racconta Giovanni nel suo Vangelo 20,17, dice a Maddalena: “Noli me tangere”, che è la traduzione di “Mè mù àptu“, (aptein, toccare), non toccarmi, non puoi toccarmi. È impossibile toccarmi, per una questione d’integrità. Per questa integrità è risorto; da questa integrità procede l’assenza di mortalità. Ci voleva Cristo per dirlo, ma ci volevano Armando Verdiglione e la cifrematica per intenderlo.
Perché Verdiglione insiste molto sulla questione della procedura per integrazione? Perché è indispensabile alla salute, quale istanza della qualità.
La psichiatria, che non aveva inteso affatto la questione della parola originaria e della sua procedura, prima di estinguersi completamente a favore della psicofarmacologia, denunciando apertamente il suo scacco, si era attorcigliata attorno alla classificazione dei mali, dei disturbi, delle sindromi, delle patologie e quant’altro, fallendo la clinica della parola, che si rivolge alla cifra e non al male.
Senza la procedura per integrazione sorge il soggetto che spicca per essere soggetto debole, malato e incapace.
La relazione originaria è modo dell’apertura. Quando la relazione è intesa invece come relazione sociale, relazione interpersonale, relazione con l’altro, segue il tentativo d’introdurre nella relazione la gestione dell’oggetto o la gestione del tempo con i suoi modi l’algebra o la geometria del tempo.
La fantasia di padroneggiare la parola sfocia allora nell’edipismo e nel mimetismo. Si tratta di un’ampia gamma di rappresentazioni di sé o dell’Altro che va dal ricatto al riscatto, dalla denigrazione alla degradazione.
Nell’edipismo, si tratta della rivendicazione sessuale rispetto al segreto di mamma, segreto che renderebbe impossibile quell’accesso diretto, cioè senza sforzo, tanto inseguito dal fantasma materno, alla corretta sessualità, sforzo che viene spacciato e rappresentato come fatica.
L’edipismo è rappresentato dal soggetto debole che sarebbe indebolito dalla mancanza. L’altra sua faccia è il soggetto incapace, la cui incapacità è rappresentata per specularità, rispetto all’idea del padre debole.
Nel mimetismo si tratta invece del soggetto che si rappresenta malato. E la malattia sarebbe il segno della genealogia, il segno dell’appartenenza, il segno dell’incesto (quale relazione più che sociale e personale), che proverebbe la discendenza come contrappasso all’impossibile negazione della famiglia come traccia. Per dimostrare che la famiglia sarebbe la sede della genealogia negativa.
È attorno a questo fondamento che sorge la mitologia del rispetto. L’idea del rispetto s’instaura in assenza di integrità e d’immunità. Risulta così chiaro perché il rispetto si confermi come l’altra faccia dello stupro: è solo in nome dello stupro possibile che sorge l’idea del rispetto, considerando che qualcosa potrebbe ferire, colpire, costituire un peso, un torto, senza l’integrità che indica propriamente l’intangibilità di ciascuno e di ciascuna cosa. Niente può essere toccato da alcunché: questo è un aspetto dell’integrità.
L’epiteto, l’insulto, l’offesa, la minaccia, il ricatto, la rivendicazione, la lesione fino all’autolesionismo, al suicidio e all’omicidio, sono pertanto esempi di toccamenti: erotismo da contatto.
E l’idea dello svelamento che ha quale metafora eminente il nudo, la messa a nudo, giunge fino allo spellamento: la pelle viva, la carne viva, il vivo. “Mettersi a nudo”, “mettersi al vivo”: indici di un contatto che giunge fino all’attrito, allo sfregamento, alla fregatura. “Essere punti sul vivo”, “toccare il punto debole”, “colpire il tallone d’Achille”: vari modi di porre, enunciare l’assenza d’integrità.
L’integrità è virtù del principio, quindi non c’è aspetto della parola che ne sia privo, sia per quanto attiene la logica sia per quanto attiene la struttura.
L’integrazione è una proprietà della procedura della parola: indica che le cose procedono dall’apertura secondo l’intero e secondo la particolarità e non formano unità, non si riuniscono, non si sommano.
Invece, l’accezione d’integrazione secondo il canone occidentale, risente dell’assenza d’integrità del discorso, risente dell’abolizione dell’intero e viene intesa come ricostruzione dell’unità perduta, in un processo che va dal frammento all’unità: per esempio nella matematica, in cui il termine designa il processo al limite con il quale si determina l’entità di una grandezza come somma delle parti infinitesimali assunte in numero sempre crescente; qui l’intero è sempre ideale e mai raggiunto e il modo è quello della sommatoria. Sia nella biologia, dove il termine designerebbe il grado di unità fra le varie parti di un organismo inteso come l’unità da costituire, e, in questo senso indicherebbe anche il grado di dipendenza delle varie parti, una dall’altra. Sia nella psicologia, in cui il termine designerebbe il grado di unità o, anche, di organizzazione della personalità. Sia nella sociologia, in cui indicherebbe il grado di organizzazione sociale delle sue varie componenti.
Nelle varie discipline, l’integrazione è intesa come supporto di un fantasma evolutivo in cui vi sarebbe il passaggio da uno stato indifferenziato, amorfo, a uno stato differenziato, unificato. L’unificazione, cioè il processo di ri-costruzione dell’intero, procede dall’idea della disgregazione, della rottura, della scissione, quindi da un’idea di degradazione, e nella susseguente riunificazione c’è insita un’idea di purificazione. È la sintesi della gnosi, né più né meno. La stessa nozione di globalizzazione nella vulgata corrente ne risente, perché tenta di contrastare il secondo rinascimento e la parola.
Nella parola originaria ciò che è estremo è ignoto, mentre la conoscenza esige cose mediate e mediabili, nonché transitive, che determinerebbero un accesso diretto alle cose, in termini di fruizione, partecipazione, condivisione. Nell’epoca della globalizzazione, è molto in voga l’importanza dei valori condivisi, l’importanza di condividere le esperienze, di condividere il significato delle cose, di condividere il destino, l’importanza di avere tutti lo stesso accesso, cioè l’importanza di essere tutti idioti: a questo porta l’idea di accesso diretto.
La procedura per integrazione è invece, epì anàlepsis, senza presa; senza contatto, senza conoscenza, senza condivisione. È pertanto impossibile prendere la parola con la propria mano, padroneggiarla. È impossibile manipolarla, tentativo cui mira ogni concettualizzazione.
Nella parola originaria l’integrità, con l’immunità, trae all’annunciazione, dispositivo in cui le cose tendono alla loro qualità, alla loro cifra. Le formulazioni: “Non so se mi piace”, “Lo faccio se mi piace”, “Faccio quel che mi piace”, procedono dall’abolizione dell’intero e dell’integrazione; ciascuna cosa s’integra nell’esperienza perché la procedura è per integrazione, secondo l’intero. Subordinare il fare al piacere risente dell’idea che il piacere sia preventivo, sia soggettivo, che il piacere sia predestinato.
E il dogma dell’immacolata concezione è il dogma dell’immunità. L’immunità è teorema della sostanza: “Non c’è più sostanza” e anche, “Non c’è più peso”, “Non c’è più gravità”. Il discorso occidentale come sistema è sorto per contrastare le proprietà dell’integrità, dell’integrazione, dell’intero e della parola cattolica e il dogma dell’immunità. Se la parola è insostanziale non significa nulla. Nulla di quel che si dice significa algebricamente o geometricamente e nulla pesa, dato che l’immunità è proprietà del tempo che non finisce. Se il tempo non finisce, nulla pesa, nulla è grave. Il peso, la gravità intervengono una volta che sia abolito l’infinito e sia introdotta l’idea della fine del tempo.
Come dimostra il racconto di Luca, 1, 5-20, intorno all’annunciazione di Elisabetta.
Al tempo di Erode, re della giudea, c’era un sacerdote chiamato Zaccaria, della classe di Abìa, e aveva in moglie una discendente di Aronne chiamata Elisabetta. Erano giusti davanti a Dio, osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore. Ma non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni.
Mentre Zaccaria officiava davanti al Signore nel turno della sua classe, secondo l’usanza del servizio sacerdotale, gli toccò in sorte di entrare nel tempio per fare l’offerta dell’incenso. Tutta l’assemblea del popolo pregava fuori nell’ora dell’incenso. Allora gli apparve un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso. Quando lo vide, Zaccaria si turbò e fu preso da timore (Kai etaràczen Zacarìas idòn kai fòbos epèpesen ep’auton).
Ma l’angelo gli disse: “Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, che chiamerai Giovanni. Avrai gioia ed esultanza e molti si rallegreranno della sua nascita, poiché egli sarà grande davanti al Signore. Zaccaria disse all’angelo: “Come potrò conoscere questo (Catà ti gnòsomai tuto)?” Io sono vecchio e mia moglie è avanzata negli anni”. L’angelo gli rispose: “Io sono Gabriele che sta al cospetto di Dio e sono stato mandato a parlarti e a portarti questo lieto annunzio. Ed ecco, sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole – le quali si adempiranno a loro tempo”.
Intanto il popolo stava in attesa di Zaccaria, e si meravigliava per il suo indugiare nel tempio. Quando poi uscì e non poteva parlare loro, capirono che nel tempio aveva avuto una visione. Faceva loro dei cenni e restava muto.
Compiuti i giorni del suo servizio, tornò a casa. E dopo quei giorni Elisabetta, sua moglie, concepì e si tenne nascosta per cinque mesi e diceva: “Ecco cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna tra gli uomini”.
Luca si sofferma su Zaccaria e nota che quando Zaccaria si accorge dell’angelo, ha uno sconvolgimento, “s’inquietò”, etaràchze, e ebbe paura, fòbos epépesen ep’autòn.
L’angelo non lascia indifferenti. Addirittura sconvolge e atterrisce. Non è l’unico caso in cui nel Vangelo c’è questa emergenza della paura; in questo caso però è ripetuto: anche a Maria l’angelo e il suo saluto producono paura. Di che si tratta? Della profezia che anche senza rappresentazione, senza presentificazione, come intervento della causa, nel suo aspetto di sguardo, non va senza inquietudine, tensione, paura. La paura come sentinella pulsionale.
L’angelo dice a Zaccaria di non temere perché una preghiera è stata esaudita; proprio a questo punto appare l’angelo: dopo la preghiera. La preghiera quale atto di speranza è in direzione del progetto che è secondo l’idioma, l’inconscio. L’inquietudine della profezia è in direzione del progetto, è indice del progetto. Nel dispositivo di direzione, nel dispositivo intellettuale l’inquietudine, un aspetto della tensione, si rivolge all’instaurazione del programma. Progetto e programma di vita. Il progetto non è già noto, non è conosciuto. Sta nella domanda, i cui termini si precisano lasciando che la domanda si svolga, si narri, si formuli, si racconti. Essenziale è non reagire all’emergenza del progetto nella domanda e non reagire a ciò che consente alla domanda di precisarsi: la profezia.
Zaccaria reagisce alla profezia, non accoglie il dispositivo dell’annunciazione e non ammette il figlio. Né ammette l’avvenire. Il fantasma di fine del tempo prevale e Zaccaria nega la profezia stessa. Nega il viaggio in quanto gravato dall’idea di fine. Con l’idea di vecchiaia, Zaccaria significa la fine. L’età intesa in questo modo è un fantasma di fine del tempo.
Luca narra che Zaccaria non parla più, per via del fantasma materno, fantasma di fine che annichilisce la parola di ogni valore. E usa il termine laléin, blaterare, lallare. Non è l’angelo a vietare a Zaccaria di parlare, ma negando l’angelo, negando la profezia, negando l’avvenire, negando il progetto credendo di sedare l’inquietudine, Zaccaria non parla, blatera: cioè Zaccaria è fuori dalla parola originaria. Il fantasma materno situa Zaccaria in assenza di parola, senza dispositivo intellettuale.
La negazione del progetto, la negazione dell’idioma produce il mutismo intellettuale. Zaccaria gesticola (faceva cenni con la testa), blatera, è ottuso, muto, sordo, cofòs, privo d’istanza intellettuale. Questa è la questione di Zaccaria e non solo, anche di chi nega l’avvenire, il progetto, il profitto intellettuale.
Tolto l’avvenire e la sua istanza, la parola sarebbe senza valore e risponderebbe all’ontologia delle cose. Il processo di valorizzazione avviene perché qualcosa, quella cosa, ciascuna cosa, entra in una struttura – narrazione, racconto – in cui non è mai stata e che è originaria.
Tuttavia, il caso di Zaccaria, con la nascita di Giovanni, indica anche che la profezia nella parola è esente da facoltà e il suo adempimento è indipendente dalla volontà di Zaccaria. È adempimento della parola nel suo itinerario in direzione della cifra nel dispositivo, in questo caso con Elisabetta.
C’è da dire anche questo, sulla scorta di Zaccaria: l’inquietudine non è da togliere, non è da sedare. Questo è l’insegnamento clinico di Luca: l’annunciazione avviene in assenza di psicofarmaco.