Diciottesimo capitolo del volume La realtà della parola
La città della differenza. Dove vivere, come vivere, senza vergogna
Ruggero Chinaglia Oggi c’è una bella novità. Chi ancora non ha acquistato la rivista? Abbiamo tre copie della “Città del secondo rinascimento” intorno alla scrittura della qualità. Caso vuole che ci sia anche un mio articolo, accanto a uno di Mariella Borraccino, Mangiare, non mangiare. L’anoressia, il dilemma, i dispositivi di vita; invece il mio s’intitola L’amore senza fine, l’odio senza rimando, e è tratto dalla conferenza tenuta a Ferrara. Poi ci sono vari contributi intorno ai modi in cui interviene la qualità nell’impresa, nell’industria, nella clinica, nella cucina, nella produzione, nella salute. È interessante. Costa solo cinque euro. È quasi inspiegabile come mai costi così poco una rivista così bella, no? Lei l’ha già avuta?
Giampietro Vezza No. Mi domando: il valore non è nel costo.
R.C. No, è chiaro che no. Questo una volta si sarebbe detto un prezzo politico. Allora, ci sono tre copie.
Concetta Carella Sì, una la prendo io.
R.C. Una per lei. Ne restano due. Una per Sofia, ne resta una.
G.V. La prendo io.
R.C. La prende lei, quindi lei Fernanda, di quella conferenza, rimarrà all’oscuro in tutto e per tutto.
Fernanda Novaretti Non ci sono altre copie?
R.C. Queste avevamo, per il momento. In copertina c’è un dipinto di Frasnedi, sembrava Balla, ma è Frasnedi. Il titolo è L’occhio della collina. Questo è l’occhio della collina di Alfonso Frasnedi. Bello.
Ci sono altre testimonianze questa sera? Altri interventi, notazioni, anche tenendo conto del dibattito di lunedì sera, cui alcuni erano assenti, ma altri c’erano? Oppure anche a prescindere; ci sono notazioni, domande, suggerimenti, indicazioni?
C.C. La volta scorsa, giovedì, mi pare lei abbia detto che la pulsione è senza controllo. È da capire.
R.C. Sì, lei come ha capito?
C.C. Allora, beh, non ho avuto tanti problemi per capire, perché è stata una delle ultime cose che lei ha affermato, però mi è sembrata proprio l’affermazione centrale, importantissima, perché sembrerebbe che proprio da lì, scaturisca molto. E poi diceva che la pulsione nulla ha a che vedere, se ho scritto bene, con il volere, con il sapere, con il potere, e quindi mi piacerebbe che precisasse un po’ meglio. Perché, per come ho capito io, la questione sarebbe centrale, è proprio ciò da cui parte tutto.
Tuttavia sapere, volere, potere, non sembrano direttamente collegati. È da articolare, mi pare, la questione.
R.C. Certo, bene, questo è importante. Altri? Ci sono altre domande?
Barbara Sanavia Una domanda. Così, pensieri… Secondo me, la pulsione è la forza della domanda o per la domanda. E invece leggendo il titolo di stasera…
R.C. Ecco, che è?
B.S. Che è, se ricordo bene, La città della differenza. Come vivere, dove vivere, giusto?
R.C. E basta?
B.S. Poi, c’è il comunicato.
R.C. No, ma c’era anche un seguito nel titolo.
B.S. Il secondo titolo non me lo ricordo. Ho visto il primo.
R.C. Ah, perchè lei ha preso visione del primo comunicato, poi in effetti è stata fatta un’aggiunta: Come vivere, dove vivere, senza vergogna.
B.S. Poi, ho letto il comunicato, però non è facile, è la parola differenza che mi ha colpito, cioè fare la differenza, il che vuol dire…
R.C. Fare la differenza, lo dice lei.
B.S. Sì ognuno può, ciascuno può fare la differenza.
R.C. Sì, questo è un modo di dire piuttosto diffuso: “fare la differenza”. QQuesta cosa fa la differenza” oppure, “Tizio fa la differenza”.
B.S. Cioè, la differenza è la responsabilità, in questo senso “fare la differenza”. Nonostante l’aggiunta del titolo… senza vergogna… Sì, ci sta.
R.C. Ci sta. Bene, abbiamo la sua approvazione. Ma, la responsabilità, diceva, come s’inserisce in questo?
B.S. Cioè, non accettare tutto quello che succede, non delegare agli altri le cose che non vanno bene, ma fare, ciascuno fa. Dovrebbe essere così, agire in direzione di quello che si avverte che non va, senza delegare a altri questo compito.
R.C. Esatto, bene.
Pulsione è un termine che ha introdotto Freud, indicandola come forza costante in direzione del valore. Forza, spinta. Come questa forza, questa spinta, questa tensione, linguisticamente, trova il suo modo? Come domanda. Per cui, pulsione è anche domanda.
Come accorgersi della pulsione? Per via di domanda. Per via dell’istanza che si può chiamare curiosità, istanza di sapere, istanza pragmatica, istanza intellettuale, istanza di ricerca, istanza di valore. Questa istanza non va senza la tensione, senza tendere, e l’idea che questa tensione possa essere tolta dalla vita è assurda. Eppure è ciò che è sostenuto ampiamente da una certa sloganistica che invoca la calma, lo stare, anziché il tendere. Non il tendere ideale verso una fantomatica miglioria dell’universo, bensì tendere verso la soddisfazione, che è soddisfazione della domanda! Non c’è da sovrapporre la domanda alla richiesta, perché non necessariamente la pulsione si formula come richiesta.
La domanda esige di essere capita, intesa, analizzata, per cogliere quale sia la direzione. La direzione non è unica, non è universale, non è uguale per tutti. Si tratta di trovare quale sia la direzione della domanda, e questo esige il lavoro di ricerca e anche dispositivi pragmatici. Non è una questione di studio, non sta già scritto da qualche parte, in che direzione la domanda vada. Certamente è costatabile che contro la domanda sorgono rallentamenti, costrizioni, evitamenti che si giocano sulla presunzione che la pulsione corrisponda al volere, alla volontà, e si tratti di adeguare, per esempio, il fare al volere fare, al sapere fare, al dovere fare.
Già questo, è un modo dell’adeguamento della parola, della forza, della tensione che c’è nella parola, alla soggettività, cioè alla padronanza sulla forza, sulla parola, sulla domanda, per esercitare un controllo, secondo il principio economico, secondo la presunzione di conoscere quale sia la questione che la domanda pone, attraverso una sorta di codifica, di applicazione del senso comune, della lingua comune, di una risposta comune a ciò che la domanda propone.
Freud ha dedicato un saggio specifico, Pulsioni e loro vicissitudini, a indicare che non è un tragitto lineare quello della pulsione, quello della domanda ma, anzi, presenta vicissitudini! È un cammino, un percorso, un itinerario da fare, per capire, per cogliere la direzione, tra abbagli e cantonate.
La presunzione di sapere, dove conduce? Conduce all’idea di sapere dove stia e quale sia la soddisfazione, credendo di procurarsela a prescindere da quale sia l’istanza effettiva, secondo i dettami del luogo comune, del discorso comune, della fisiologia comune, di una psicologia comune, di una mentalità comune, che prescrive una psiche comune: la psiche umana, che è un’idea di padronanza, di controllo, di reggimento, una prescrizione al reggimento, alla comunanza, a una significazione comune.
Una delle proprietà della parola è la libertà. La parola è libera. È libera di divenire cifra, non è libera di chissà ché, è libera di andare e venire. È libera di divenire cifra, perché la tensione è in direzione della cifra. Ma, come approda? Come la parola approda alla cifra? Come la pulsione approda alla cifra? Questo non è già noto. Nemmeno la cifra è nota. E il processo di qualificazione è particolare, specifico, esige analisi e cifratura. Esige l’ascolto. Esige la disposizione all’ascolto. Esige la disposizione a cogliere sfumature, piegature, molteplicità, respiri, scarti, varchi in quello che, invece, il discorso comune abolirebbe in nome di una codifica generale, di un’applicazione del senso, del sapere, senza variazione e senza differenza.
E invece la questione si gioca proprio sulla differenza e sulla variazione, ciò per cui abbiamo equivoci, malintesi, menzogne del nome e del significante, che sembra dire una cosa e ne dice un’altra, sembra proporre un senso e ne scaturisce un altro. Se non c’è l’ascolto delle faglie che si producono parlando, uno va dritto per la sua strada, con le significazioni del senso comune, con le significazioni del discorso in generale e poi si stupisce se non approda mai al valore, al valore di un dettaglio, al valore di un particolare, al valore delle minuzie. Ciascuna minuzia dà il suo contributo per cogliere la direzione della domanda.
Quisquiliae. L’importanza essenziale delle quisquiglie. Il latino indicava con questo termine i ritagli, gli scarti, ciò che veniva buttato via dalla lavorazione delle grosse pezzature. Le quisquiglie che si buttano. Ecco, le quisquiglie linguistiche sono invece ciò che risulta essenziale per cogliere sfumature e particolarità decisive. Scarti, varchi, controsensi, doppi sensi. In molti casi risulta insopportabile che vi sia un doppio senso, un controsenso, un senso non proprio preciso, qualcosa che lascia nel dubbio e lascia aperta l’interpretazione, e è proprio nell’intervento dell’interpretazione che qualcosa si chiarisce.
Traduzione, interpretazione, trasmissione. Nulla è già scritto e nulla è già detto. Man mano le cose si dicono, si precisano, si chiariscono e giungono a una proposta mai definitiva, perché la lingua non cessa di prodursi, il dire non cessa, la tensione non cessa. E nella tensione, nell’atto in cui la tensione interviene, interviene il tempo, la spinta, la logica, interviene una combinazione, una combinatoria per cui le cose non sono mai le stesse. Non sono mai le stesse!
La libertà della parola non subisce restrizioni, se non da parte di chi tenta di contrapporre a questa libertà una propria impostazione, in quanto presume di avere già il senso, il sapere, la verità da dimostrare. L’idea di dimostrazione, l’idea di giustificazione di una propria verità va contro la parola.
A cosa è dovuto questo? È dovuto al fatto di avere un’idea di sé e che questa idea di sé deve essere mantenuta e dimostrata contro ogni altra evenienza. Ognuno ha un’idea di sé e quell’idea deve essere confermata, dimostrata, mantenuta. Questa si chiama soggettività. Questo si chiama opporre alla pulsione un tappo, un blocco. Vuol dire negare la libertà della parola, negare l’itinerario che procede da questa libertà e contrapporre una verità come causa all’effettualità che si produce parlando.
C’è chi sembra parlare, ma in realtà nega ogni disponibilità all’acustica, cioè agli effetti che dalla parola si producono. Come accade questo? Applicando al dire, a quel che si dice, una mannaia, per cui le cose che si dicono sono da valutare o in senso positivo o in senso negativo. Non è da cogliere la sfumatura, la variazione, qualcosa che si annuncia come differenza, rispetto a qualcosa, magari detta poc’anzi. Quello va assolutamente negato e va invece ribadita la presunta propria verità. Così non c’è più il viaggio delle cose, il viaggio della parola, il viaggio della vita. C’è l’idealità delle cose, la propria idea che deve essere mantenuta: l’idea di sé, dell’Altro, delle cose, per mantenere il giudizio, come giudizio positivo o negativo. Questa idea del giudizio, tra positivo e negativo, altro non è se non l’applicazione del ben noto giudizio universale.
Perché aspettare che il giudizio universale si compia chissà quando? È molto più pratico farlo subito, così ognuno applica il metodo del giudizio universale a quello che ha dinanzi a sé, anche dietro di sé, come ricordo, come fantasia, come idealità.
Ciascuna cosa è in viaggio. La lingua dice questo: ciascuna cosa è in viaggio e non è mai detta. E il viaggio non è mai finito. Il viaggio non è ripartibile tra l’andata e il ritorno, è viaggio infinito in direzione del valore. È viaggio senza ritorno.
Ma chi è disposto a ammettere che non c’è ritorno? In quanti modi questa idea di ritorno interviene a condizionare l’idea di “andata e ritorno”? “Un tanto per andare e un tanto per ritornare?”. Quanto tempo? “Un tot per andare, un tot per ritornare”. “Faccio questa cosa, ma che ritorno ne avrò?”. “Un tanto per fare e un tanto per avere”. Andata e ritorno. Quanto metterci? Quanto dura? Quanto tempo ci vuole? Bene, allora io dedico questo tempo a questa cosa. Che cosa possa accadere nel viaggio conta poco. Quello che importa è quanto tempo. Quanto per andare? Quanto per tornare? Che ritorno avrò? Ma andare dove e tornare da dove? Questo ritorno dove conduce? Tornare da dove?
L’idea di ritorno presuppone che il viaggio di andata sia finito! Altrimenti, come presumere di tornare se non perché l’andata è finita? Il ritorno si ha solamente a partire dall’idea di fine.
L’idea di ritorno è idea di fine. Il ritorno all’origine, il ritorno al paesello, il ritorno alla famiglia, il ritorno alla natura. Il ritorno! Ognuno ha il suo ritorno: il ritorno economico, perché non sia un viaggio a perdere. Ma, a perdere che cosa? Perdere tempo? Perdere valore? Perdere forza? Perdere sicurezza? Che cosa ognuno teme di perdere?
L’idea della perdita. Perdere. Nessuno si chiede cosa si può trarre da un giro in più! Ognuno si chiede cosa può perdere da qualcosa che va oltre l’economia prevista del cammino, del percorso, del tempo, prevalendo sempre l’idea di durata, che è idea di fine.
Così accade, per esempio, che in una conversazione si dicano delle cose, e una è così precisa e importante da richiedere una sottolineatura, quindi l’interruzione, lì, della seduta. Uuh!, apriti cielo! “Ah, ma come, così poco? È durata così poco!? Ma come, io ho pagato perché durasse molto di più!”.
La durata è a scapito di ciò che accade. Ciò che si dice, ciò che accade lì, è trascurato in pieno, perché l’idea è che deve durare! Deve durare, cioè finire. Economia della fine, controllo della fine, padronanza sulla fine. Ciò che resta omesso è ciò che si dice, come si dice, quel che si effettua lì, qual è il valore dell’effetto, che è del tutto trascurato.
L’effetto non si esaurisce lì, ma prosegue, perché produce ulteriori combinatorie, ulteriori agganci, un altro senso, qualcosa in più che non era previsto, che se è ascoltato ha effetti analitici e clinici. Ma il soggetto si oppone a questo, perché vuole esercitare la sua padronanza su quel che si dice, sul tempo e sulla fine del tempo. Soprattutto, il soggetto non tollera la differenza, che è un effetto del tempo. Il tempo, in quanto taglio, ha come effetto la differenza, la differenza assoluta.
Come non cedere all’idea di ritorno, all’idea di padronanza, alla soggettività, all’idea di padroneggiare le cose e di sapere, già prima, cos’è bene e cos’è male? La padronanza è questa: padronanza sul bene e sul male, quindi, il giudizio universale. Ogni soggetto è soggetto al/del giudizio universale e ambisce a essere il giudice sul bene e sul male. Il giudizio universale è questo. E il giudizio soggettivo questo è: giudicare sul bene e sul male.
Perché il giudizio abbia questa caratteristica, ci vuole un postulato: il postulato della colpa. Se non c’è questo postulato, non c’è nemmeno il giudizio universale. Questo è il punto.
Il soggetto si regge sul postulato della colpa! La colpa come fondamento. Di chi è la colpa? “Se accade questo, se mi accade questo, se ti accade questo, se nel mondo accadono queste cose, di chi è la colpa?”. Questo è il quesito mondano: “Di chi è la colpa?”.
Cosa chiede Giuda? “Signore, sono stato io?”. “È colpa mia?”. E rispetto all’idea di colpa, ognuno si giustifica, si scansa, si riscatta, si redime. Vuole liberarsi! Ma è proprio in nome della liberazione dalla colpa che è formulato ogni ricatto! La colpa e il suo agente. Riscatto, ricatto, redenzione, coscienza.
La coscienza è coscienza di colpa. E è necessaria la coscienza perché ci sia redenzione e riscatto, coscienza dell’origine, coscienza della fine, coscienza di sé, coscienza dell’Altro, coscienza dei propri limiti, coscienza delle proprie inclinazioni. Coscienza! Coscienza vuol dire porre un freno alla domanda, perché se c’è coscienza della propria origine, della propria natura, dei propri limiti, il gioco è fatto. Perché fare? Il gioco è fatto! Avendo coscienza, perché sforzarsi? È già chiaro! Con una tale origine, il destino è segnato. Perché sforzarsi? È del tutto inutile. Il soggetto si conosce bene, ha coscienza di sé, sa valutare se è il caso di azzardare o no. E sicuramente non azzarda, altrimenti, che coscienza sarebbe? Il soggetto è il soggetto della coscienza.
La coscienza è la tomba della domanda, perché giustifica la paura, giustifica ogni limitazione sulla scorta del passato, sulla scorta del saputo; sulla scorta. Non c’è avvenire con la coscienza, c’è solo passato, coscienza di sé, coscienza di quel che è stato. E non è sulla base di ciò che è stato che, economicamente, ognuno valuta l’avvenire? Altrimenti, il passato è passato per niente? “C’è stato un passato e questo dà modo di stabilire anche il da farsi” dice il soggetto, sulla scorta del passato, conoscendosi, avendo conoscenza, abolendo l’Altro. L’Altro, che sta nell’intervallo, l’Altro irrappresentabile, l’Altro che è indice del tempo, l’Altro che è indice della trialità.
L’Altro, abolito, consente alla coscienza di regnare sovrana.
Dove vive ognuno? A casa sua, tra sé e sé, tra la sua origine e il suo presunto destino, tra le sue abitudini, tra le rimemorazioni di ciò che è stato, assumendosi le caratteristiche dell’origine, cioè vivendo nella fiaba! Nella fiaba della propria origine. Quindi, dove vive? Dove vive il soggetto?
Nel Getsemani, vive nel Getsemani. È in attesa del sacrificio, è in attesa dell’esecuzione della condanna, secondo la prescrizione dell’origine. Vive nell’attesa che si compia la sua coscienza, la coscienza che ha di sé, le previsioni che ha di sé, sulla base della sua buona coscienza. Certamente non vive nella città. Perché la città ha sede nell’intervallo, che è stato abolito propriamente dall’espulsione dell’Altro, in nome dell’alternativa tra il bene e il male, in nome della coscienza, della padronanza, del sapere di sé, della colpa che è ben conscio di avere commesso. Eh, perbacco! Commesso o subito.
C’è un’alternativa: la colpa può essere commessa, ma può essere anche subita. Perché l’altra faccia della colpa, qual è? È il torto subito! Come potrebbe reggersi altrimenti la rivendicazione, che è l’altra faccia del vittimismo? Chi vive nella coscienza di colpa vive nel vittimismo. Chi vive nella coscienza del torto subito, vive nella rivendicazione. Due facce della stessa mitologia da cui procedono la vergogna, la paura e ogni tipo di restrizione giustificata. Il tutto, nell’attesa della liberazione come proposto da ogni religione e da ogni morale. La liberazione dalla colpa, liberazione dal male, riscatto dalla colpa, riscatto dal male, riscatto dal torto.
“Ma verrà il tempo del rinnovamento”. “Arriverà il momento in cui tutto cambierà”: la renovatio, la purificazione, la metempsicosi. Espiando, espiando, espiando ci sarà il momento, finalmente, del raggiungimento della purezza e allora, finalmente, ci sarà il paradiso. E intanto occorre procedere al lavoro di smacchiatura, al lavaggio incessante della colpa. Tutto ciò nega che vi sia la città.
Ognuno vive nella sua prigione, senza la città. Oppure vive nell’attesa di entrare in città, come se la città preesistesse. La città precostituita è la città verso cui esprimere le proprie riserve, è la città assegnata da tutta una serie di nefandezze, di negatività, agognando di fuggire dalla città e di tornare da dove si è venuti, compiuto il processo di redenzione e rimpiangendo la città ideale, stigmatizzando la città così com’è. Evitando, però, la costruzione della città.
La città non è né reale né ideale. Esige la costruzione, il lancio e il rilancio della domanda e il proseguimento del viaggio senza ritorno. Senza domanda la città non c’è. Ognuno può lamentarsi della città solamente perché non dà un contributo, perché non concorre alla città, alla sua costruzione, non dà un contributo alla civiltà, da cui la città procede.
La città che cos’è? Di cosa si tratta? La città è il dispositivo pragmatico in cui compiere il mandato della domanda! Nessuno è padrone della domanda. Ma c’è un mandato della domanda! Un compito, un mandato, una missione. Chi si crede esente da questo ha la coscienza di essere stato cacciato. E che altro? È stato cacciato e porta su di sé il segno dell’origine. La città è un corollario della domanda, non è un luogo, è un dove. Tolta la domanda, non c’è città che non sia connotata secondo il giudizio universale.
In quale città ognuno vive? Facendo questa domanda, è molto istruttivo sentire qual è la rappresentazione della città che ognuno ha. E ogni manchevolezza attribuita alla città, ogni stigma negativo, ogni vizio, è la descrizione di sé. È molto istruttivo formulare questa domanda. Provate a pensare qual è l’idea che ognuno ha della città. C’è chi se la prende con il sindaco, chi con le istituzioni, chi con le strade, chi con la gente, chi dice che sarebbe una bella città, ma purtroppo ci sono anche i cittadini, chi dice che i cittadini sarebbero buoni, ma ci sono le case, le strade che invece fanno proprio schifo. Insomma, qualcosa che non faccia schifo non manca mai.
Da dove viene quest’idea dello schifo, quest’idea di negatività? Dal giudizio universale, dall’idea di colpa, dalla negatività attribuita all’origine. Questo se la parola è tolta, se la parola è abolita, se la soggettività domina. Ma, se c’è parola, allora ciascuno si rivolge alla città, non come città dell’utopia, ma come città dove vivere, dove fare, dove costruire, dove promuovere, dove provocare intellettualmente cose di valore, non limitandosi a vegetare nel proprio orticello.
Abolita la città, è istituita la propria mitologia sull’idea di deserto o di foresta, cioè in nome del soggetto esiliato, cacciato, dove la solitudine sarebbe un guaio soggettivo e non una proprietà del sembiante, dello sguardo. E l’esilio diventa guaio soggettivo, per via della cacciata. E, in quanto soggetto esiliato, ognuno si giustifica rispetto alla negazione della città: “In fin dei conti, che c’entro io con la città? Sono in esilio! La mia città è un’altra. Non è questa! Perché dovrei dare un contributo a questa città, quando la mia è un’altra? Io sono qui praticamente per sbaglio, e non vedo l’ora di tornare alla mia vera città, dove la mia vera natura potrà finalmente avere il riconoscimento che merita”.
Città come animale anfibologico: città del bene, città del male, città del giudizio universale. Entrare in città, uscire di città, andare in città, vivere in città, vivere fuori dalla città. Ma, se la città è abitata dal fantasma di origine e dal fantasma di fine, sarà sempre una città nefasta, che giustifica l’idea di non fare nulla. Così la città diventa un nascondiglio: come stare nascosto in città, come vivere clandestinamente in città.
Se non c’è il contributo alla costruzione della città, non c’è nemmeno la città e possono esserci mille fantasmagorie, ma non si trova la città. La città è negata, la città li respinge, la città è chiusa. “Oh, come sono chiusi i veneti! Questa città, chiusissima!”. Città murata, città turrita, città preclusa. Ognuno ha la sua giustificazione, perché ha della città una rappresentazione sociale, una rappresentazione che fa leva sull’idea di origine, non sulle cose da fare, non sulla domanda e sul progetto e sul programma con cui la domanda trova il suo corso.
La città sta nelle cose che si fanno, lì sta la città! E non è una città che si possa fare una volta per tutte o che sia uguale a se stessa, è la città della differenza, perché è la città del tempo.
Il fare esige il tempo e se il fare non c’è, è abolito il tempo. Allora, la città diventa molto problematica, perché è sostituita dalla segregazione. La città è città della parola, è città se c’è parola. L’omertà nega la città. L’idea che la parola possa ferire, uccidere, l’idea che l’Altro sia debole, incapace, malato sbarra il passo a ogni interlocuzione.
E ancora una volta il giudizio sull’Altro è rappresentazione del giudizio universale, fondato sull’alternativa del bene e del male e sulla sua applicazione. In nome di questo, ognuno è dato come finito e, secondo la migliore eutanasia, va finito. Ciascuno può chiedersi perché negare la parola, la sua logica, la sua esperienza, la sua cifra se è dalla parola che procede la scommessa sul valore della vita, sul valore del vivere. Se è dalla parola che vengono le indicazioni su come vivere e dove vivere con ciò che la parola esige: l’analisi, la narrazione, la conversazione, il racconto, la qualificazione, la valorizzazione; non la degradazione dell’Altro e la denigrazione di sé! Non denigrazione e degradazione. Valorizzazione!
Come contribuire alla valorizzazione della città e di ciascuna cosa, come avviene che ciascuno contribuisca al valore non stigmatizzando il negativo, il male che ci sarebbe nell’Altro, ma contribuisca alla valorizzazione? Questo è il mandato, questa è la missione, questo è il compito! Com’è che questo si capovolge e diventa rivendicazione, denigrazione, degradazione negando la città come città del tempo, città della parola, che sorge per integrazione? Non per purificazione, ma per integrazione!
Un altro modo con cui ognuno avalla l’idea del ritorno è l’idea di guarire. L’idea di guarigione, cioè di restitutio in pristinum, è un’idea di ritorno. Si basa su un’idealità di purificazione, di fine. Ma non c’è guarigione, c’è salute! La questione è l’istanza di salute, non l’idea di guarigione, che vuole dire di essersi applicati un male, e poi purificarsi, per liberarsene. La questione è la salute, non il ritorno come guarigione, il ritorno allo stato primigenio.
L’analisi esige il lavoro, esige la teorematica, cioè indicare come una fantasia di male, di negatività non ci sia più. L’analisi non è il mantenimento dei propri pregiudizi facendone una cosmesi, è la dissipazione dei propri pregiudizi! Come pensare di avere abolito i propri pregiudizi se poi le abitudini restano le stesse? “Ho abolito tutti i pregiudizi, però mantengo le mie abitudini!”. È un caso un po’ strano. Di solito le abitudini sono rette dai pregiudizi.
Ci sono domande? Questioni che si vogliono chiarire? Qualcosa che ha destato sorpresa?
Sofia Taglioni Io avrei qualcosa da chiedere. Lei ha detto che la coscienza è una coscienza di colpa e è necessaria per la redenzione, però poi dice anche che la coscienza è il freno della domanda e quindi…
R.C. La redenzione non è necessaria, la coscienza è necessaria per la redenzione. Presumendo la colpa, sorge l’idea di redenzione. Ma tutto ciò deve essere messo in discussione. Non è che la redenzione bisogna mantenerla! Cioè, se non c’è il fondamento della colpa, non c’è nessun motivo della redenzione. La redenzione è il corollario della colpa! Ho indicato come si regge una religione: data una colpa, esige un processo di redenzione. Ma la redenzione non è originaria, è successiva alla credenza nella colpa. Non è che la redenzione debba essere praticata, perché suona bene, no, è una questione morale. La redenzione è morale e religiosa. Non è originaria.
Nella parola, nessuna redenzione, perché nella parola bisogna mettere in discussione, mettere in analisi l’idea di peccato. Bisogna metterla in analisi! O la diamo per scontata e la manteniamo? Se non vengono analizzati i pregiudizi e teniamo per buono tutto, che analisi è? Analisi di che? Chimica? Abbiamo qui un esperto di analisi chimica? L’idea di colpa, di peccato, l’idea di male, sono idee! Vanno analizzate! Non vanno attribuite: “Io sono puro perché impuro è quell’Altro!”. E che è, giochiamo ai bussolotti? La colpa ce la teniamo, solo che non è mia, è di un altro! Il peccato ce lo teniamo, solo che non è mio, è di un altro! Il negativo ce lo teniamo, solo che non è mio, è di un altro! Io sono immune, è tutto di un altro. Tutte le negatività stanno là. E allora abbiamo fatto solamente il gioco dei bussolotti. Abbiamo rimpallato. Abbiamo mantenuto tutta l’impalcatura, tutte le credenze, solo che le abbiamo attribuite. L’impostazione soggettiva resta, la visione del mondo resta, solo che io mi metto dalla parte del bene e dalla parte del male ci metto l’Altro.
L’idea del bene e del male attribuibili, così resta, non è analizzata. Occorre invece analizzarla, per giungere a capire se ci sia effettivamente il male dell’Altro, la fine del tempo, la negativa del tempo, cioè se tutto ciò in cui io credo sia reale o no, o se non sia una fantasia, se non sia una fiaba che mi condiziona e che occorre elaborare.
Noi abbiamo letto alcune fiabe e abbiamo colto che c’è proprio questa struttura nella fiaba, una credenza nell’origine, nel male dell’Altro, che viene applicata alle cose, o a sé o alla vita. E finché c’è questa visione è un disastro. Questo indicano le fiabe: che in costanza di credenza nel male, ogni alternativa è possibile. Ognuno si affibbia un’alternativa e non c’è riuscita.
Cosa dice Novaretti? Mi sembra inquieta. No? È tranquilla? Neanche tranquilla. Allora? La città… Lei è urbanista, quindi siamo sul suo campo con la questione della città. Qual è l’urbanistica di questa città, dove vivere senza vergogna? Questa è una questione che non si aspettava, eh?
Fernanda Novaretti Non mi viene in mente una domanda adesso.
R.C. Faccia quella che non le viene in mente. La mente. Dovremo tenere degli incontri sulla psiche e sulla mente, sul modo in cui sono rappresentate sia da alcuni modi di dire, sia da alcuni manuali che prescrivono come devono essere. La mente umana, la psiche umana, ma cosa vuol dire umana? Umana, molto spesso, vuol dire senza la parola.
Sofia voleva aggiungere qualcosa.
S.T. A proposito della domanda sull’urbanistica della propria città. Calvino ha scritto un libro Le città invisibili e a molte città ha dato un nome di donna, l’urbanistica come donna…
R.C. Sì, questo può essere un argomento interessante da svolgere. Ma ho detto cose proprio così soporifere?
F.N. Avevo segnato una cosa sull’acustica, che mi sembrava avesse precisato questa sera. L’acustica come effetto che dalla parola si produce, aveva detto.
R.C. Acustica. Che, contrariamente a quel comparto della fisica che si chiama acustica, ha un’altra accezione. Non c’entra con i suoni.
F.N. Mi riferivo a quel saggio di Freud, dove c’è questo termine, acustica.
R.C. La traccia acustica. Lì Freud combina, cerca di mediare. È l’avvio di un’elaborazione per giungere all’acustica in termini non strettamente legati alla fisica dei suoni, ma alla linguistica: l’acustica della parola, non l’acustica del suono.
È sconcertatissimo Moda, a questo punto.
Fabrizio Moda Sì, è la famosa immagine acustica che ritorna. Come idea della voce ha a che vedere con…
R.C. Con?
F.M. C’era un parroco che si lamentava della mancanza di vocazioni, per cui quest’anno non ha neanche un seminarista.
R.C. Un parroco?
F.M. Sì, un parroco, durante l’omelia. Diceva: “Se non avremo più un prete a Padova, come faremo?”. E allora questa cosa della vocazione, della voce, che in cifrematica viene intesa come Dio, volevo chiedere l’attinenza con l’immagine acustica.
R.C. La voce come Dio? No.
F.M. L’idea della voce.
R.C. Ah, l’idea della voce come idea del punto vuoto. C’è da compiere qualche passo, però. Non c’entra Dio.
F.M. Non c’entra Dio?
R.C. Dio è idea originaria. Dio è operatore. Dio è l’operatore per cui, intervenendo l’idea, le cose si dicono e si fanno. Dio è in questo senso, in questa accezione. Nulla a che vedere con una rappresentazione del divino ché, anzi, l’idea di dio come divinità è già la negazione di Dio, la negazione dell’operatore. Ma questo è un altro argomento.
Non c’è cosa che debba ritenersi esente dall’analisi, cioè da che cosa? Dall’assoluzione, dallo scioglimento rispetto a un pregiudizio, rispetto a una sostanzialità che dovrebbe costituire fondamento, significazione.
Abbiamo risposto alla questione della differenza? “Fare la differenza” è un uso improprio, no? Il tempo fa la differenza, se vogliamo dire così. Questo modo di dire “fare la differenza” vuole dire che c’è uno standard e poi qualcosa che differendo dallo standard “fa la differenza”. Questa è di solito l’accezione in cui viene usata questa locuzione.
B.S. Io intendevo come costruzione, fare la differenza è costruzione, insomma.
R.C. Appunto, nessuno può fare la differenza, perché ciò presupporrebbe una differenza standard rispetto a cui ci sarebbe la differenza differente. Invece, la differenza è assoluta e ciascun atto sta in questa, diciamo, libertà di differenza. Differenza assoluta, cioè incomparabile, irrappresentabile, ma è per questo che può avvenire l’arbitrarietà, l’invenzione, la novità. Se non ci fosse la differenza assoluta non ci sarebbe nemmeno la novità. Ogni cosa sarebbe già in una rappresentazione, in una significazione.
Patrizia Ercolani La differenza assoluta potrebbe sembrare inservibile quando c’è.
R.C. Inservibile?
P.E. Che non serve a niente.
R.C. Perché dovrebbe servire?
P.E. Che a volte si scarta o non si apprezza, perché viene valutata o considerata per l’inutilità.
R.C. La differenza è differenza sessuale, cioè temporale. Differenza sessuale, ossia differenza temporale.
B.S. E l’intervallo? Ha a che fare con il tempo?
R.C. L’intervallo è la funzione terza o funzione di Altro, e possiamo chiamarla anche intervallo fra nome e significante. Nome, significante, Altro.
B.S. Quando interviene l’Altro, cioè l’intervallo mi dà l’idea di lasciare che il tempo…
R.C. Intervallo tra lo zero e l’uno. Zero, uno e tra lo zero e l’uno, l’intervallo. Questa è la struttura dell’infinito: lo zero, l’uno e tra lo zero e l’uno, l’intervallo. Nome, significante e tra il nome e il significante, l’Altro. Tre funzioni: funzione di nome, funzione di significante, funzione di Altro. Funzionamento della parola, logica singolare triale, che mai può essere ridotta a una logica binaria. Questo è qualcosa di unico nel panorama intellettuale. La parola non risente della logica binaria, ma della logica diadica, che attraversa altre logiche singolari triali. Quindi, è impossibile ridurla a un sistema. È asistemica. La parola è asistemica. Non rientra nella termodinamica, non rientra nella visione del mondo, è asistemica e asistematica.