Sesto capitolo del libro La lampada di Aladino
Aladino, il cibo, il fumo
Ruggero Chinaglia Abbiamo annunciato la settimana scorsa un intervento introduttivo di Maria Antonietta Viero. Maria Antonietta Viero è imprenditrice, scrittrice, autrice del libro La ballata del Moro Canossa che abbiamo presentato in varie città, nel Veneto e altrove, e questa sera testimonia di alcune note attorno alla Lampada di Aladino e la pelle.
Maria Antonietta Viero Il sintomo, che percorre la fantasia di morte, non conosce la gravità del male umano, percorre la linguistica, nella parola, indicandone i termini: linguistica non esplicita, non tradotta, ma da indagare. La rappresentazione del sintomo: come può essere irta la verità? Come leggere i segni senza che questi stiano in un principio deterministico causale, perché il segno non sia segno di qualcosa, perché questo qualcosa non è predeterminabile? Dell’accadere c’è complicità? Come capire la complicità che ci riguarda dell’accadere? Contrastare la pulsione, economizzare il rischio, osare, contrapporre il luogo comune a giustificazione, a garanzia di appartenere al genere umano, quando già il viaggio indica l’andare in direzione della sua qualità, verso la sua cifra, quando dell’accadere qualcosa dell’ascolto si è instaurato, può comportare, sì, qualche guaio, che l’inconscio, in quanto logica, non pone in una scala di più o meno gravità.
Questione di arbitraria combinazione, tracce che si producono nell’atto stesso di seguirle nel viaggio della vita. Un guaio, una falla, un deragliamento: come reperire i termini per riprendere la rotta e ammetterli proprietà di quel viaggio? Se qualche guaio accade, forse è perché è stata sospesa la parola originaria? Perché qualcosa si è insinuato come senza rischio, senza scommessa, in assenza di assoluto? Forse. Forse si è instaurata la superstizione, il tabù, il luogo comune, il sistema, la lingua propria, il debito umano per partecipare così alla festa dei mortali, retta su un principio di parità. Ma anche il guaio offre la chance d’intendere, offre la sua occasione di vita. Anche ciò che può sembrare una circostanza avversa può divenire pretesto per il viaggio e la sua proprietà. Questo, nel dispositivo intellettuale esige l’occorrenza del suo attraversamento. La sospensione della parola originaria comporta l’alternativa, ma la vita non ha alternativa. Se bene/male, positivo/negativo non stanno più dietro, come modi ossimorici del due, l’inconciliabile da cui le cose procedono, ma si pongono dinanzi, al servizio di un soggetto che si fa tale per far da padrone su vita o morte, allora ciascuno non pensa alla morte, ma ognuno ci pensa, cioè ognuno si lascia andare, cede alla paura, e la paura poggia sempre sulla fantasia della fine delle cose, della fine del tempo. Nascita-morte, il cerchio si chiude. Quanto e quando un compromesso fantasmatico, cioè questa idea della fine, impedisce che il fantasma di morte come operatore frastico della ricerca della lettera che, anziché compiere la sua scrittura nell’etica, tenti la rappresentazione nel segno di una scrittura tangibile e senza malinteso come segno del male? Quale lettera, fantasma di morte come idea della differenza, percorre il dovere di rappresentarla come segno di una comunicazione senza la funzione di morte? L’instaurazione dell’alternativa vita-morte è un esibire l’animale fantastico anfibologico come forma dell’Altro, nell’idea del despota, del tiranno, del vampiro. Questo animale ruota attorno al nome del male e al significante del male. Per un verso la morte è come sostanza; per l’altro proviamo con questo enunciato: “Non toccatemi”. Questo che si presenta come un segnale di pericolo pone in rilievo che c’è qualcosa di sostanziale, per cui potresti toccarmi, farmi male. “Non toccatemi”. Se mi tocchi, muoio. Devo difendere la mia pelle. La nota salta sul rigo, si fa iceberg, chiama all’ascolto. Non toccatemi, perché, il solo tocco del dito, la pelle si fa scudo di mille innumerevoli aculei, perché il nemico non invada, non segua il disegno, inganno che il tocco del dito ha rilasciato nel suo dermatografismo e non entri, non violenti, non sporchi. Un delirio di invasività, cui segue un delirio di purificazione. Ma la pelle, questione complessa, lancia il segnale, segnale d’allarme sull’orlo della vita; lancia la sua richiesta di aiuto estremo che il professionista, specialista di sezione non coglie. E porta fuori strada, per seguire attentamente la prassi giusta. Non entra nell’integrazione, resta un mattone a parte. E così l’interlocutore non si instaura e l’ascolto sfuma. Ma la pulsione, per fortuna mai paga, decisa verso l’essenziale dell’occorrenza, impone il suo modo a chi si trova nel viaggio. E altri segni si aggiungono. Difficile instaurare l’Altro in quel che si dice cercando, perché l’ascolto non delega altri a capire. La sordità resta. La pelle riguarda l’immagine del corpo. Come non vederne i segni allo specchio senza che l’idea di morte come fantasma di morte avanzi quanto alla non ammissione, per esempio dell’età, della forma, dell’immagine? Inammesso è il figlio, che non diventa padre per età. Il figlio non ha da diventare padre, come nell’iniziazione, perché non può prescindere dal padre stesso. E entrambi procedono dal due, da quell’inconciliabile da cui procedono le cose. Negato il figlio, l’Altro diviene unità e l’intero diviene il tutto anziché l’integro, l’integrazione. Se il figlio non è ammesso, la pelle è toccabile, palpabile, diventa intollerante, intollerabile, urticante, una ribellione in atto, un prurito che allude a una chiusura non più contenuta. “Noli me tangere”. Cristo così si rivolge a Maddalena e alle altre donne, dopo la risurrezione, prima di ascendere al Padre. Come dire: del corpo non c’è sostanza. Il corpo è intoccabile. L’idea che la pelle faccia scudo, barriera impermeabile, protezione per il dentro del corpo, isolando così un dentro-fuori, fa una rappresentazione sostanziale del corpo soma. Come sostanzializzare il nome, come sostanzializzare la parola? Da volgere in occasione perché ancora si indaghi, perché si indaghi sull’onda anomala che porta il significante silente, tradotto in sostanza per l’euforia del nome. Intoccabile. L’appuntamento, con l’occasione che la vita ci offre non sono cedibili: vanno accolti e integrati. E il rilievo che ciascuno, cogliendo, ammette nel dispositivo della parola originaria è già sulla via della particolarità, quella a cui quel rilievo è rivolto, un rilievo che appella a un gesto di sollievo.
R.C. Bene. Molte sono le questioni che sono state poste da questo intervento e molto interessanti. Quindi vediamo, nel corso della sera, di dare un’eco anche a queste proposte. E, per cominciare, provo a dare qualche nota sia in relazione al dibattito sorto la settimana scorsa sia a queste note che si situano in una traversata. È stato molto interessante il riferimento a Cristo che, dopo la resurrezione, non prima, pone la questione dell’assenza di contatto “Noli me tangere”, che, quindi, non sta tanto a indicare il divieto di toccare, ma l’impossibilità di toccare, la constatazione che non c’è contatto possibile. Noli me tangere, non c’è più contatto. Quindi, né contatto umano, reciproco, vicendevole, né contatto con la sostanza. E non c’è più contatto nemmeno con le sue rappresentazioni, non c’è più contagio, non c’è più contaminazione, non c’è più infezione che sono le rappresentazioni del contatto nei vari discorsi. E che ciò avvenga dopo la resurrezione non è casuale; dopo la resurrezione, cioè dopo che il significante, dopo che il figlio, funzionando, risulta differente da sé. Cristo non muore, ma risorge in quanto compie il funzionamento del significante che, appunto, differisce, differisce da sé, risulta inidentico e, dunque sfugge alla presa, al contatto, sfugge a ogni presa sostanzialistica e la resurrezione prelude all’ascensione, quindi al corpo in gloria, al corpo non più somatico, al corpo non soggetto alla genealogia e alla circolarità.
Il fantasma di morte occorre distinguerlo dal fantasma di morire. Il fantasma di morte è operatore frastico, notava Viero, cioè è operatore lungo la funzione di morte. Pulsione di morte che non ha nulla a che vedere con il desiderio di morire, come è stato più volte tradotto. Non c’è desiderio di morire né desiderio di morte, ma c’è pulsione di morte come pulsione di scrittura, pulsione perché la frase si scriva, pulsione perché il significante, differendo, funzionando, si scriva. E in questo funzionamento la resurrezione, la resurrezione del figlio.
Il mito di Cristo indica che la pulsione di morte comporta la scrittura, comporta la resurrezione, non già l’idea di morire come viene tradotta psichiatricamente. E, infatti, vita e morte costituiscono la questione aperta e non già l’alternativa fra la vita e la morte. Desiderare la morte sarebbe già ipotizzare l’alternativa fra la vita e la morte, conoscere la morte a tal punto da desiderarla; ciò è completamente assurdo. Non c’è chi possa desiderare alcun che, perché non c’è chi possa conoscere alcun che. Come già dicevamo la settimana scorsa, la conoscenza è un miraggio del discorso occidentale, è un miraggio legato a un’idea di sostanza.
Il desiderio è un paradosso, non è un sentimento, non è qualcosa che possa venire coniugato in “io desidero questo”, “io desidero quello”. Non si tratta del desiderio. Nella formula “io desidero” si tratta di un’idea di padronanza che nulla ha a che vedere con il desiderio. Non basta dire “io desidero” perché si tratti del desiderio. Io desidero è la negazione del desiderio, infatti, il desiderio è qualcosa di paradossale secondo la logica particolare, e che non si lascia certo racchiudere nella possibile coniugazione e nell’attribuzione di un oggetto al desiderio.
Quindi, non c’è conoscenza della morte, non c’è desiderio della morte, non c’è conoscenza del desiderio. Nel viaggio si tratta propriamente di esplorare il paradosso del desiderio. Paradosso in che senso? Perché ciascuna formula che tenta di padroneggiare il desiderio, si trova esposta alla differenza da sé del significante che sembra rappresentare il desiderio, che dunque, in questo senso, ne rappresenta il paradosso, perché il significante, dividendosi da sé, mai giunge a significare l’oggetto del desiderio, perché l’oggetto è causa di desiderio e il significante che apparentemente lo rappresenta, mente, ossia differisce. Per cui il desiderio è preso in un processo che mai giunge alla sua fine.
La cosa interessante di questo processo, lungo cui si svolge il paradosso del desiderio, è che ciò comporta il sapere, il sapere come effetto, il sapere che non si trasmette! Non c’è chi possa trasmettere il sapere, perché il sapere si effettua lungo il funzionamento dei significanti, lungo la loro menzogna, lungo il loro differire. Il sapere è cioè sapere effettuale, cioè temporale, e l’effettuarsi del sapere contribuisce a capire e a intendere l’idioma, la particolarità, la logica particolare a ciascuno, la logica particolare a ciascuna cosa. Quindi, il sapere segue l’atto di parola e il suo funzionamento, non lo precede! E capire segue la supposizione e non già la certezza. Capire procede dalla supposizione, dall’ipotesi, e comporta un processo di messa in questione. Quindi, la supposizione è essenziale per capire, supposizione che sta nel varco instaurato dalla resistenza del significante, cioè nella sua differenza da sé. Di supposizione in supposizione accade di capire. Supponendo, capisco, e quel che si capisce è la supposizione, non già la sostanza. Cioè, la supposizione è il modo, la via dell’ammissione. Ammissione di che cosa? Ammissione del funzionamento del significante. Avventurarsi nella supposizione è già ammettere che le parole non sono tali, ma che, entrando in un processo di qualificazione, variano e differiscono.
L’ammissione del funzionamento è anche l’ammissione del figlio. Il figlio, ossia il significante che funzionando differisce da sé, è essenziale per la dissipazione del fantasma di genealogia, ossia del fantasma di morire, dell’idea che ognuno è soggetto alla morte. Ammettere che il significante differisce è qualcosa di difficile, praticamente qualcosa che il discorso occidentale non accetta, perché ha come conseguenza che mai si può giungere alla comprensione reciproca o alla conoscenza di sé o dell’Altro. Chi propugna la comprensione reciproca o la conoscenza di sé o conoscenza dell’Altro, abolisce l’ammissione del figlio, abolisce il funzionamento del significante, abolisce il sapere effettuale, abolisce il mito di Cristo, abolisce la resurrezione, è soggetto alla mortalità delle cose, alla finibilità; senza funzionare, le cose finiscono. Il funzionamento è l’assicurazione che le cose non finiscono, perché, funzionando, le cose non finiscono.
Funzionando, le cose incontrano un’usura particolare, che è la metafora e la metonimia, usura che non consuma le cose, ma le rende assolutamente differenti e varie, infinitamente. È curiosa questa accezione di usura senza esaurimento, senza consumo, senza consunzione. Usura linguistica, usura per cui le cose, ciascuna cosa, può entrare in un processo di qualificazione e qualificarsi, una questione assolutamente essenziale. Ma perché questo processo mai può giungere alla comprensione reciproca e alla conoscenza di sé? Perché le cose non stanno in una linea né in un sistema, ma procedendo dal due e secondo la particolarità, quindi secondo la logica singolaretriale, ciascuna cosa si trova in un dispositivo infinito. Infinito, senza linea, senza allineamento e senza sistema. Le cose si trovano nell’immortalità. E questa cosa bellissima è proprio ciò che fa paura al discorso occidentale, perché impedisce la classificazione, impedisce di ordinare le cose secondo uno schema prestabilito, impedisce la codificazione preventiva, impedisce ciascun sistema disciplinare che è garantito dalla finibilità.
Allora, c’è questo incredibile paradosso nel discorso occidentale che si avvolge attorno a ciò che fa più paura, cioè la mortalità, e sembra non potere farne a meno. L’idea di fine, che è ciò a partire da cui ognuno ha paura, è ciò che caratterizza il discorso occidentale. E proprio perché non c’è comprensione e non c’è conoscenza possibile, ciascun atto, ciascuna volta, impone il processo d’indagine, il processo di ricerca. Ciascun atto induce a una costrizione logica, la costrizione di capire e d’intendere la particolarità; ciascuna volta.
Comprendersi vorrebbe dire che la particolarità non c’è, che possiamo vivere sul ricordo, su un’idea di comunanza che, tanto, pensiamo allo stesso modo la stessa cosa. Ma questo è un miraggio sostenuto dalla teoria dell’informazione, ma è un miraggio. La comunicazione è un’altra cosa e non segue la teoria dell’informazione. La comunicazione esige di capire e di intendere ciascuna volta il particolare e lo specifico di quel dettaglio, per cui ciascuno, nel viaggio, si trova in questa costrizione, che è la costrizione logica di capire e intendere la particolarità; e capire non è un atto volontario. La costrizione non comporta il volere capire, comporta di capire, di non potere fare a meno di capire, per procedere. Ma non basta volere capire, si tratta di capire e, per capire, occorre non cancellare la memoria e non vivere di ricordi, cioè non sostanzializzare le cose, non riferirsi al caso precedente, all’analogia, alla somiglianza, allo schema come noto e ripetitivo. E non è possibile prevedere quando, come e cosa capisco. A un certo punto le cose si capiscono, nel viaggio, per questa costrizione, che è la costrizione procedendo il viaggio, nel gerundio del viaggio.
Nessuno può costringersi a capire, nessuno può essere costretto da altri a capire “Voglio farti capire”. Eh, “Voglio farti capire”, “Vorrei capire”. No! C’è una costrizione logica per cui, a un certo punto, le cose si capiscono. E quanto spesso accade di sentire la formula “Non so, non capisco e, dunque, non faccio”, come se il fare dovesse seguire cronologicamente al sapere e al capire, in assenza della simultaneità, facendo delle cose una successione, una cronologia? “Non so, non capisco” sono enunciati che indicano come il sapere e il capire non preesistano all’atto di parola, alla sua procedura, al suo funzionamento. Infatti, senza discernere, come capire? Come capire senza l’ironia, senza la questione aperta, senza il due da cui le cose procedono, quindi senza l’ossimoro? Come capire senza separare il grano dal loglio come dice il Vangelo? Come capire facendo di ogni erba un fascio? Come capire affastellando, come capire affascinando, come capire se le cose fanno fascio, come capire senza distinguere, senza discernere? Come capire senza supposizione, che procede dal due, lungo il funzionamento?
Ma c’è chi dice: “Per me è impossibile capire”, presentandosi come soggetto incapace di capire e si attesta su questa presunta incapacità negando la parola originaria, il dispositivo, la procedura e instaurando un discorso di padronanza assumendo l’autismo, asserendo che ciò che differisce e varia gli risulta incomprensibile perché non è sostanziale, perché non è soggettivo, perché impone uno sforzo intellettuale. “E io, in quanto soggetto, sono incapace di sforzo intellettuale”, perché, per definizione, il soggetto è soggetto debole, malato, incapace. Che sforzo, che intellettualità può venire dal soggetto che è soggetto alla sostanza, soggetto alla morte?
“Non so, non capisco, non so cosa questo voglia dire, non capisco cosa questo possa volere dire”. È proprio lo sbigottimento. “Non so, non capisco. Ma queste cose a me, venire a dire queste cose a me! Ma non so, non capisco. Ma mi dica lei cosa vuole dire questo! Cos’è, cos’è questo?”. Ti estì? Cos’è? “La sostanza, mi sia svelata la sostanza! Posso io formulare un’ipotesi attorno a cos’è questo? Cosa posso io pensare in merito a dove conduce?”. E no! Questo avvierebbe il viaggio, avvierebbe un itinerario. “E come faccio io che devo stare ben piantato come sono, altrimenti le mie certezze sarebbero abbattute?”. “Potrei capire cose – oddio! – che potrebbero incrinare la mia identità. Eh no, perbacco! Potrei capire cose che mi sono vietate, che non devo capire, che non devo sapere. Potrei sapere quello che non devo sapere!”.
Che cosa rende gli umani pari? Che non sanno della morte. E se io, aggirandomi, andando di qua e di là, potessi poi venire a sapere qualcosa che non devo sapere? Potrei venire cacciato da questo paradiso terrestre e trovarmi chissà dove, in un altro mondo. La soggettività, palla al piede degli umani, è il corollario della mortalità, dell’idea di mortalità, che però è anche, paradossalmente, garanzia di stare tutti insieme, di tenersi compagnia, di condividere lo stesso destino e, quindi, di potere accettarlo. Accettazione della mortalità che passa attraverso la presunzione di potere conoscersi. E è attorno a ciò che è avvenuto e avviene il naufragio intellettuale di quella che viene chiamata psicoterapia, e che consiste nell’accettazione della mortalità, nella prescrizione all’accettazione della condizione umana, della condizione di soggetti, ossia nell’ideale di padronanza, nell’ideale di conoscenza, nell’ideale di sapere, di conoscere quali sono i propri limiti e di gestirli. Questo sarebbe il successo del soggetto: il controllo di sé e la gestione dei propri limiti. Questo sarebbe il soggetto adeguato, il soggetto ben adattato e ben adeguato.
Ognuno ignora quale sia il suo fantasma, però lo segue, ne dipende, vi obbedisce tanto più quanto più elude la clinica della parola, la logica della parola e tanto più quanto più applica i dettami del soggettivismo. E ognuno, in quanto soggetto, ritiene di dovere stare in buona compagnia, di farsi compagnia, e infatti quel che è inviso agli umani è la solitudine. La relazione sociale è un apparato di prescrizione del mutuo soccorso secondo i canoni del tenersi compagnia.
Soccorso, altruismo, aiuto non sono la stessa cosa. Il soccorso è la forma altruista di aiuto, cioè è ispirato dal pericolo di morte e mira a evitare la morte, prestare soccorso per evitare la morte. Mentre l’aiuto esige il viaggio, la direzione, il dispositivo di direzione. L’aiuto esige la trasformazione intellettuale, esige che il viaggio approdi alla qualità. E quindi non è facilmente localizzabile l’aiuto, non è facilmente prestabile. Come si dice? Prestare aiuto. Non chiunque può prestare aiuto, perché l’aiuto viene dall’Altro, viene dalla differenza assoluta perché non c’è chi conosca il bisogno di altri. E la solitudine è la condizione del dispositivo in cui l’intervento dell’Altro produce l’aiuto.
Il discorso comune pone, come prova estrema di equilibrio, di benessere, di stare bene con se stessi. L’importante, dice lo psicopompo di turno, è stare bene con se stessi. E questa formula è diffusissima. Voi aprite la televisione e c’è sicuramente il Pinco Palla che dice “Eh, stare bene con se stessi è proprio il massimo”. Che cos’è la felicità? È stare bene con se stessi! Che cos’è la tranquillità? È stare bene con se stessi.
Cecilia Maurantonio Anche volersi bene.
R.C. Beh, è la condizione. Volersi bene, così posso stare bene con me stesso. “Stare bene con se stessi”. È veramente paradossale questa formula dove l’idea di solitudine è significata da un’idea di compagnia, dove la solitudine sarebbe stare con, stare con se stessi. È veramente incredibile il modo con cui il discorso occidentale respinge la nozione di solitudine, tramutandola in una sorta di compagnia, se pur paradossale: compagnia di se stessi.
E chi è questo se stesso con cui si tratterebbe di stare? È l’idea di sé? Si tratterebbe di stare bene ognuno con l’idea che ha di sé? È l’idea dei propri guai, l’idea dei propri limiti, cioè l’accettazione dell’immagine macabra che ognuno ha di sé, la rassegnazione. Si tratterebbe di stare rassegnati, pur con le rappresentazioni più terribili che uno può avere di se stesso. E una volta accettato, una volta rassegnato, ognuno conseguirebbe il benessere; una volta rassegnatosi, ognuno riuscirebbe a stare con se stesso e con tutte le sue paturnie! Oppure il se stesso sarebbe la coscienza di sé o la coscienza dei propri guai o dei propri limiti o del proprio essere? Chi, dunque, può stare con se stesso?
Ora, di cosa si tratta nella solitudine? Ecco la questione, perché viene confusa la solitudine con lo stare soli, con l’essere soli. Ma siccome ciò è assurdo e inaccettabile, ognuno pensa di aggirare lo star da solo volgendolo con lo stare con se stesso. Già non è più da solo, perché ha tutte queste varie rappresentazioni che gli tengono compagnia, tutto mirando a eludere la solitudine. Ma cos’è la solitudine? È una proprietà di chi? Di ognuno? La solitudine è proprietà del soggetto?
Solitudine è la singolarità. La solitudine è la condizione del sé, il sé che non è se stesso, ma l’oggetto, l’oggetto singolaretriale e, dunque, specchio, sguardo, voce; tu, io, lui. Oggetto, cioè quanto nella parola viene contro, ciò che fa da ostacolo, ciò che è causa: causa di godimento, causa di desiderio, causa di verità. Oggetto in perdita, imprendibile, oggetto invisibile, irrappresentabile, oggetto che non è mai se stesso: è il sé che nessuno può conoscere e con cui nessuno può stare in compagnia.
E come è potuto accadere che il sé, l’oggetto che è singolaretriale e che ha come sua condizione la solitudine, la singolarità e la trialità perché è causa di godimento, di sapere e di verità, è tu, io, lui, specchio, sguardo, voce, punto di caduta, punto di fuga, punto di oblio, che, appunto, l’oggetto irrappresentabile si sia trasformato in soggetto e sia diventato il se stesso con cui potere stare bene insieme? Chiaro che è una rappresentazione soggettiva perché così diventerebbe padroneggiabile e controllabile. E che vi sia l’oggetto su cui non c’è presa è ciò che più disturba ciascun discorso che vorrebbe, invece, stabilire l’ordine delle cose, in quanto ciascun discorso si pone come discorso di padronanza, come discorso di controllo.
Infatti, l’oggetto è invisibile, è imprendibile, eppure è ciò che causa: causa la domanda, la pulsione, il viaggio, la ricerca. L’oggetto è inquietante, è assolutamente inquietante perché è irrelato, è senza relazione sociale, senza compromesso e espone ciascuna cosa alla sua particolarità. L’oggetto non è affatto noto e non è facile da individuare, comporta quello che chiamavamo il servizio intellettuale, comporta il viaggio come viaggio intellettuale, comporta lo sforzo. E, attraverso lo sforzo, l’oggetto è indotto dalla pulsione.
Dunque, è tutt’altra cosa rispetto a ogni forma disciplinare che presume di sapere già come stanno le cose. Ma per via di oggetto e della logica singolare triale le cose non stanno, vanno e vengono, sono esposte a un movimento non circolare, non rettilineo che comporta per ciascuna cosa un ritmo e una lingua, l’aritmetica e la linguistica di ciascuna cosa. E per via di questa aritmetica e di questa linguistica ciascuna cosa entra nel racconto in modo non generico, non casuale, non fatalistico, non banale e sollecita all’ascolto, perché il cammino di ciascuna cosa non è predeterminato.
Qual è l’istanza, la tensione, la tendenza? Non sono già dette, non sono già date, non sono già assegnate. Come capire qual è l’istanza del mio progetto che, se la contraddico e il progetto si arena, io posso anche morire? Non c’è da scherzare! Il problema è che non si può scherzare, perché senza l’ascolto di questa istanza, effettivamente entriamo nel discorso occidentale, cioè entriamo nella mortalità. Entrando nell’alternativa fra la vita e la morte noi potremmo incappare, anziché nel modo in cui la vita si scrive, nel modo in cui la morte di scrive, nel modo in cui la rappresentazione della morte si scrive fino al punto di morirne. E forse che il tumore non è in questa direzione? Il tumore, un’istanza paradossale di vita che va a morire. Non c’è da scherzare, ma c’è da indagare sui modi con cui l’ideologia della vendetta può giungere a realizzarsi. C’è chi lo fa in un modo e c’è chi lo fa in un altro: chi si avvale del cibo, chi del fumo, chi di altri mezzi. Anche per quanto riguarda il cibo e il fumo, chi s’interroga intorno all’aritmetica e alla linguistica del cibo e del fumo? In che modo il cibo entra nel dispositivo, nel viaggio, nella vita di ciascuno? Non è questo che insegue la dietetica con le sue diete, andando per tentativi e cercando di individuare quale cibo si tratta di introdurre o di escludere dalla dieta? La dietetica ha fatto grandi passi nella ricerca del ritmo, ma si mantiene nella logica binaria, cioè nella logica dell’alternativa, e per quanto possa ampliare il confine dei cibi consentiti, ce n’è sempre almeno uno che dev’essere vietato! La dietetica si configura, cioè, come una riproduzione della legge dell’incesto, dove tutti, tutte le donne, tutti gli uomini, tranne uno, tranne una, tranne quell’uno con cui si realizzerebbe l’incesto, cioè l’atto impuro, l’atto che avvelenerebbe la vita, l’esistenza. Dunque, nella migliore delle ipotesi ognuno insegue la sua dieta, ossia insegue quel cibo che gli è vietato per localizzarlo, abolirlo e purificare la sua dieta, la sua alimentazione: finalmente sano perché purificato dal cibo impuro.
Attualmente, si va allungando sempre più la lista dei così detti disturbi dell’alimentazione, come dire che sempre più si allunga la lista dei cibi impuri, delle sostanze impure che costituirebbero il veleno di questo o di quel caso. Il catalogo dei disturbi è sempre più ampio. Chi s’interroga oggi sulla logica dell’alimentazione, del cibo, di cosa si tratta nel cibo? Perché è fin troppo facile intendere di che cosa si tratti nei così detti disturbi dell’alimentazione: dell’idea di alternativa, dell’alternativa fra il grasso e il magro, fra il bene e il male, tra la vita e la morte. È l’applicazione al cibo della logica dell’alternativa e dell’applicazione al cibo dell’idea del corpo come corpo mortale, come corpo rappresentato e significato dal cibo.
È chiaro che chi presumesse di avere individuato la sostanza del male, cibandosene, farebbe la rappresentazione di questa sostanza. Ecco i così detti disturbi dell’alimentazione, dove l’alimentazione non c’entra nulla. C’entra la fantasmatica della sostanza, la fantasmatica dell’incesto applicata alla cucina, alla casa e all’alimentazione. Si tratta sempre della sostanzialità, della significazione delle cose, che è sempre la significazione della morte e del male.
Così come anche la sigaretta e il fumare non sono disgiunti da un’idea di significazione e di localizzazione del piacere e della sua altra faccia, la pena, perché si tratta sempre di confermare, per gli umani, l’alternativa fra il piacere e la pena, il piacere e la colpa, la colpa e la pena, fra la vita e la morte. Si tratta sempre di significare l’alternativa e di riprodurla.
Quindi, attraverso il cibo o il fumo passa la posologia del piacere e della pena, cibo o fumo che devono significare, con la loro assunzione, la somministrazione del premio o della pena. Quante volte accade di sentire che la questione del cibo entra nella posologia del premio o della pena? “Mangia, che ti fa bene!”, “Mangia, se mi vuoi bene!”, “Sei stato bravo, per cui puoi mangiare anche il dolce!”, “Questa sera a letto senza cena!”, “L’ultimo boccone è quello che ti fa bene!”, “Mangia, mangia tutto, perché è l’ultimo boccone quello che ti fa bene”, “L’ultimo boccone è quello che ti fa ingrassare!”, “Mangia, non vedi come sei magro, come sei magra, mangia!”, “Non mangiarlo, che ti può fare male!”, “Non adesso il dolce, il gelato, per carità!”. Ecco la somministrazione del bene e del male attraverso il cibo!
È chiaro che poi ognuno giunge a farsi da sé la posologia del bene e del male, del rimedio e del veleno. E il corpo, allora, deve risentire di questa idea di spazio, di spazialità, e oscillare tra il grasso e il magro, tra il peso e la leggerezza sempre rappresentate dal peso, dunque senza immunità, sempre rappresentate dall’idea di male o di bene come male minore.
Quindi, come intendere in che modo il cibo e il fumo partecipano del sostanzialismo e del relativo erotismo? Quale cibo nutre e quale avvelena? Quale cibo nutre e quale ingrassa? Quale nuoce e quale fa bene? Anche il cibo incorre nell’anfibologia rimedio o veleno, nutrimento o tossico per una fantasmatica algebrica applicata alla vita o alla morte. Ma si tratta d’intendere che la questione è intellettuale, il cibo è intellettuale, è questione intellettuale!
E, dunque, anche il cibo procede dall’ironia, dalla questione aperta e non dall’alternativa fra il bene e il male, fra il grasso e il magro, fra il rimedio e il veleno. “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo. Prendete e bevete, questo è il mio sangue”. Di quale cibo si tratta? Eppure, la questione della dieta parte da questo atto che istituisce l’eucaristia e che dissipa l’idea di sostanza, del cibo come sostanza, del nutrimento come sostanza.
La cena, l’ultima cena, il banchetto, ciascun banchetto è dispositivo intellettuale senza applicazione della vendetta e dei suoi corollari che sono la colpa e la pena. Se voi leggete il Vangelo, è curioso, ma subito prima dell’istituzione dell’eucaristia Cristo indica in Giuda il traditore, dopo di che istituisce l’eucaristia: assenza di vendetta, assenza di ripartizione della colpa e della pena, ironia estrema, perché questo gesto non istituisce l’economia del sangue! “Prendete e bevete, questo è il mio sangue”, non è un gesto d’iniziazione per compiere l’economia del sangue bevendo il sangue, come ciascun rito iniziatico propone, non fa l’economia del male per consacrare il male, ma dissipa la mitologia della sostanza. Nessuna economia, ma transustanziazione!
Chi si appresta alla dieta intendendo che si tratta innanzi tutto d’instaurare la transustanziazione, perché altrimenti ogni cibo rappresenterà l’economia del male per cui ce ne sarà almeno uno che rappresenterà il veleno? E fino a che questa fantasia persiste è sempre una dieta catartica, è sempre una dieta di purificazione, cioè è sempre una dieta che mantiene il presupposto che vorrebbe togliere. Così come il fumo, il fumare, è una rappresentazione del ritmo delle cose, cioè la sostituzione del ritmo delle cose, dell’aritmetica con la rappresentazione della loro finibilità, consumabilità. Ogni sigaretta si accende e finisce, ogni sigaro si accende e finisce, ogni fumata inizia e finisce e sancisce le cose finite: “Ah, adesso che ho fatto, mi faccio una bella fumata!”, “E dopo avere fatto, una bella sigaretta”, “Dopo mangiato, ah, una buona sigaretta!”, “E dopo questo, ah, mi faccio una fumata!”. Ogni cosa che finisce, fumo. C’è un ritmo delle cose? Ma certo, lo scandisco io fumando! La fumata marca e sancisce che qualcosa è finito, che qualcosa finisce, dunque fumo, tutto va in fumo.
E dunque, cos’è la lotta contro il fumo? Di cosa si tratta? Come smettere di fumare? Ma, sopra tutto, perché smettere di fumare? Chi s’interroga intorno a perché fuma, anziché pensare di smettere? Eppure, l’ideologia più comune è che basta uno sforzo di volontà: posso smettere quando voglio. Infatti, come diceva Mark Twain, smettere di fumare è la cosa più facile del mondo, l’ho fatta centinaia di volte! Quindi, più che porsi la questione di smettere, si tratta prima di capire perché fumo. E questo lo affronteremo la prossima volta.
Tutto ciò per dare un’eco alle sollecitazioni che il testo di Maria Antonietta Viero aveva proposto, perché è chiaro che non ci si può accontentare della nozione di corpo come organismo, come serie di apparati che seguono le leggi della termodinamica; è qualcosa che non può bastare più per chi si trova nel passo di capire e intendere come e perché accadono le cose. E lo dimostrano i medici stessi non sapendo che pesci prendere di fronte alle così dette malattie della pelle, o sintomi non catalogati, e altre cose. E anche l’idea di attribuire tutto a una predeterminazione genetica è sempre un modo per riproporre la predestinazione. Occorre integrare le varie cose nella parola, e occorre innanzi tutto non scherzare con la morte, perché ognuno non pensa alla morte, ma ognuno ci pensa. Cosa vuole dire che ognuno ci pensa? Che ognuno, pensando alla morte, cede alla sua superstizione e si lascia andare.
E allora è proprio lì che si tratta d’instaurare quel dispositivo in cui l’interlocutore non cede alla superstizione, non cede all’idea canonica, al protocollo, alla modalità protocollare, ma fa sì che s’instauri l’ascolto, e con l’ascolto la clinica, e con la clinica la direzione della cura. È un capitolo complesso, difficile, ma sta nella nostra missione.
Ci sono domande, notazioni? Perché le raccogliamo e ne teniamo conto per giovedì prossimo. Ci sono domande o siete rimasti basiti da queste notizie? Lei è rimasta basita? Dica, allora.
Cecilia Maurantonio Lei, poc’anzi, parlava della necessità che s’instauri la transustanziazione.
R.C. Non è che un teorema la transustanziazione, è una constatazione. Non è che bisogna fare chissà quale purificazione del mondo: è una constatazione. Che non c’è più sostanza è una constatazione, ma occorre giungere a farla. Non è che bisogna partire con le bombe atomiche per fare la transustanziazione, è una constatazione.
C.M. Lì dove avviene la constatazione, può esservi l’eccesso? Perché sono due domande. Esiste l’eccesso di cibo o la necessità della dieta? Che possono essere due cose anche differenti.
R.C. Ecco, esatto. Altri, altre domande? Ecco una mano dal fondo.
Pubblico Rispetto alla nozione di corpo come è stata intesa questa sera, volevo porre una domanda. Come intende la cifrematica la questione dei trapianti di organi rispetto, appunto, a come è stato inteso il corpo in questo dibattito?
R.C. Finalmente una domanda seria. Anche quella di prima lo era, però… Poi, altre? Altre domande? È un tema delicato. Capisco che può incontrare vari tabù, varie superstizioni.
C.M. Volevo fare una precisazione dicendo che, con la domanda di prima, c’era anche una proposta.
R.C. Beh, certo, questo era implicito. Poi? Altri? Altri che vogliono dare un contributo per giovedì prossimo? Oh, quasi all’ultimo minuto. Prego, dica.
Sabrina Resoli Mi chiedevo se la pulsione di morte può essere intesa come istanza della differenza assoluta.
R.C. La pulsione non è istanza, è pulsione. Occorre distinguere tra pulsione di morte, pulsione sessuale e istanza della differenza. Sono tre cose.
S.R. Sì, ci penso per giovedì prossimo.
R.C. Ci pensa, eh! Ognuno ci pensa. Sì, pensiamoci. Poi? Altri? Ecco una mano proprio nel centro della sala.
Pubblico Mi viene in mente che di fronte a una malattia che pare di dovere subire, inspiegabile, il primo approccio è di tentare di trovare delle letture, tentare di capirne qualcosa, fare delle ipotesi, trovare delle strade per non arrendersi al fatalismo o affidarsi ciecamente alla medicina. E la guarigione? La questione della guarigione è insita nel percorso? È già strutturata con la ricerca della possibile ragione per cui qualcosa si manifesta in questo modo?
R.C. Può dire qualcosa di più?
Pubblico È sempre difficile capire perché ci si ammala, perché ogni primavera ti viene l’allergia, e tu fino alla notte prima stavi bene, o perché improvvisamente ti viene un tumore che non si capisce da dove venga fuori, perché qualsiasi cosa, quando stai male, senti un estraneo che ti invade e tu non sai da dove viene questa cosa, non eri preparato, non te la meritavi, non hai fatto nulla per cercarla e ti capita.
R.C. Esatto.
Pubblico Per cui la ribellione, penso, è il primo atteggiamento, la frustrazione, e poi mettiamoci la disperazione. Dopo reagisci e cominci a chiedere: “Che cosa posso fare per venirne fuori?”. Allora, può essere che qualcosa, mi è sembrato di avere capito prima dal suo discorso, riguardi una forma di risparmio pulsionale, non lo so, qualcosa che non è stato assecondato o non ci si è creduto, o si è avuto paura di andare fino in fondo rispetto a qualcosa? Non so. E quindi la malattia si situa come in una sorta di contrappasso proprio per farti incontrare quello che avresti voluto evitare, come una sorta di costrizione per affrontare qualcosa. Questo sarebbe il lato positivo, tutto sommato, della malattia: costringersi da soli a qualcosa che si voleva evitare di affrontare; come dire che la malattia non è un vero male. Però occorre, a volte, cominciare a aprire un ventaglio di ipotesi, anche assolutamente irrazionali, apparentemente non logiche. Quando stai male, dici “sto male per questo, sto male per quest’altro, potrebbe essere quest’altra cosa ancora”, anche cose che apparentemente non c’entrano niente con la malattia, ma che ti fanno soffrire.
Può essere che qualcosa, a un certo punto, si comici a configurare come un disegno e arrivi a ipotizzare qualcosa che ti pare verosimile e magari, dopo, guarisci sul serio. Altre volte, di fronte a chi sta male, invece, ti viene da dire: “Guarda, sono così convinto che tutto quello che tu stai facendo, lo stai facendo con grande generosità che ti assicuro che guarirai”. Come dire: mi hai già dato così tanto che ti voglio restituire anch’io così tanto che quello che ti partecipo ti aiuta a guarire. Cioè, è una conferma che non esiste il male, che non sei nel male, che non è vero niente e che è solo un brutto sogno e tu guarirai.
R.C. Questo sarebbe il soccorso.
Pubblico Di fronte alla malattia ti viene quasi da…
R.C. Da soccorrere, sì.
Pubblico Quando invece stai male, provi questa specie di mappatura, anche per capire quando succede qualcosa a chi ti è caro…
R.C. Certo.
Pubblico E, appunto, la questione della guarigione, non so se intervenga già lungo questo viaggio di ricerca, perché qualcosa a un certo punto si sposta, e magari non ha più quell’incidenza che aveva prima. Quindi, mi chiedo se si possa evitare la malattia in qualche modo, se si potrebbe evitare la malattia, l’ammalarsi. O se invece è come un nodo, qualcosa di estremo a cui si arriva, proprio perché non si è riusciti a trovare un’altra modalità.
R.C. Queste sono ipotesi di lavoro molto interessanti. È quasi un programma di ricerca. L’ultima ipotesi è tra l’altro innovativa, per cui non si tratterebbe di evitare la malattia, ma di accoglierla come occasione. Comunque, sono cose che vedremo di svolgere.
Maria Antonietta Viero Armando Verdiglione pone la questione del due come questione dell’autonomia. Mi chiedevo se l’autonomia è un modo del far da sé come modo di togliere l’immunità? Cioè, tra autonomia e immunità rispetto a questa questione.
R.C. Sì, Bene.
M.A.V. Perché sembrerebbe troppo leggero il far da sé. Allora, “chi uccide chi?” sembrerebbe la domanda all’interno.
R.C. Chiaro. Bene. Ci sono altri? Ecco, c’è un’altra mano.
Pubblico Se la malattia fosse appunto un’occasione, quasi una benedizione a volte, perché è un modo per aprire gli occhi verso qualcos’altro.
R.C. Beh, dire occasione è già dire molto. Perché, se poi lei entra nella benedizione, magari subito dopo si pone come maledizione, e allora…
Pubblico Un’occasione.
R.C. Invece, un’occasione è già moltissimo.
Pubblico È come un richiamo a dovere rinunciare alla padronanza che abbiamo su noi stessi e sul mondo. La volta scorsa si parlava di ultimi, e di agire da non professionisti. C’era un signore che diceva che di fronte alle persone con cui lui sta, queste gli chiedono “Ma perché è toccato a me?” Io, adesso, sto frequentando una comunità dove ci sono vari casi di ultimi, oppure di ammalati, ex tossicodipendenti, gente di strada, di rifugiati politici e di rifugiati sociali, come me, però è come se in questa condizione di marginalità, di malattia o di ex malattia, gente che non ha titoli, che non è professionista in qualcosa, però mi sembra che solo in queste situazioni si possa avere uno sguardo nuovo, creare qualcosa di nuovo su tante cose.
Io sono stato sempre un tipo abbastanza difficile, molto diffidente, molto critico su tutto e su tutti, ma lì, in un’occasione particolare quando eravamo tutti attorno a un tavolo, ognuno diceva la sua opinione su un fatto, magari di natura ecologica, ma poi da lì, si è partiti con una discussione più ampia. Si procedeva in una maniera che a me sembrava all’inizio un po’ ridicola, cioè ognuno diceva la sua e scriveva, però era come se fosse un principio di qualcos’altro che non c’è nei dibattiti, nei convegni di professionisti, che non c’è nemmeno, penso, nelle riunioni parrocchiali o di altro tipo. Poi, la volta scorsa l’ho detto a lei privatamente, e ora volevo dirlo al microfono, io la devo ringraziare perché, ascoltando lei, forse per la prima volta ho capito il Vangelo, ammesso che sia lei, sia altri, sia il Vangelo diciate la stessa cosa sotto forme diverse, come lo stare con gli ultimi, l’abbandonare se stessi, l’obbedienza. L’ultimo intervento, la volta scorsa, era sull’obbedienza, l’obbedienza di Cristo al padre se vogliamo, o l’amare il nemico più dell’amico. È un qualcosa che stasera è venuto fuori.
R.C. Bene. Grazie. Ho preso nota di alcune cose.
Lei aveva alzato la mano prima, e poi la signora. Allora, ancora due domande. Prego.
Pubblico Volevo capire meglio il pregiudizio della scienza. Se, domani, il tumore si potesse guarire, qual è il problema? Come si pone tutta la questione? La scienza ragiona così. Non può sempre guardare il caso singolo, lo specifico. A un certo punto bisogna anche, per un’economia intellettuale, generalizzare i vari formulati della teoria generale. Quindi, è questo che volevo chiederle. I meriti della scienza ci sono.
R.C. E noi non li togliamo mica.
Pubblico Poi, la lampada di Aladino, Aladino, il fumo, eccetera. Accendere la sigaretta è un po’ come Aladino che strofina la lampada.
R.C. Bravo!
Pubblico La localizzazione del piacere dell’Altro. Io vorrei meglio capire qual è il fantasma che attraversa la scienza oggi. Anche la scienza è opera dell’uomo e non esiste nessuna verità certa.
R.C. La signora, per concludere. Prego.
Pubblico Volevo chiedere, come la malattia si combina con il cibo? E se si apre una piccola finestra, se si osa andare oltre, con speranza, come rinforzare questa cosa, come riuscire a staccarsi dal dolore? Come ricostruire quello che è dentro alla persona che ha la malattia, che però è in una fase medica quasi positiva? Come fare perché la malattia regredisca, se così si può dire? C’è l’accettazione? Grazie.
R.C. Grazie a lei. Beh, quindi la questione è importante e ha mosso molte sollecitazioni. Ho annotato molte delle che sono state proposte, e quindi la prossima settimana proseguiamo, sopra tutto intorno alle questioni che sono state proposte e che riguardano la salute intesa non in modo ideale, ma in modo effettivo. Non già la salute come qualcosa di idilliaco, incontaminato, di catartico, ma la salute come ciò che s’instaura nel dispositivo della vita.
