Quattordicesimo capitolo del volume La realtà della parola
Il mito della famiglia
Ruggero Chinaglia Accade talvolta, per alcuni spesso, per altri quasi sempre, che, parlando, facendo, incontrando persone, svolgendo la propria attività, pensando alle cose dette e fatte intervenga un fastidio, un’irritazione, un’arrabbiatura come spesso viene definita, proponendo l’adiacenza a una zoologia fantastica, un disturbo, un attrito, una contrarietà, qualcosa che è ritenuto giustificare una reazione.
Questa reazione è per lo più considerata normale, naturale, umana e raramente ciò induce a analizzare il fantasma di padronanza, il fantasma di fine, il fantasma di possessione che sono correlati del fantasma di genealogia.
Fantasma materno, cioè l’idea materna che ognuno ha della padronanza, della necessità di dovere padroneggiare quello che avviene, di potere inscriverlo in una casistica e di giustificarlo in nome di un concetto morale e religioso. Per lo più, l’insorgenza di quello che è chiamato attrito, arrabbiatura, irritazione, contrarietà, disturbo e quant’altro, è attribuita a altri, all’Altro, alla sua condotta, al suo modo, oppure al destino, alla sfortuna, alla società, al mondo, nella loro imperfezione.
Per lo più ognuno spera che venga ristabilito l’ordine normale delle cose o ci sia chi lo ristabilisca, chi commini la giusta sanzione o punizione, per avere riparazione. E su questo schema può instaurarsi, concretizzarsi, stabilirsi, fissarsi ogni sorta di credenza.
Sull’idea materna dell’origine e del destino sorge la fiaba che ognuno si racconta, si rappresenta e racconta per giustificarsi, per giustificare la propria condotta, le proprie manchevolezze, le proprie defaillance, i propri deficit e, giustificandosi, confermarsi come soggetto, soggetto dell’origine, della sfortuna, del negativo. Soggetto.
Sta in questo giustificazionismo, in questo modo di mantenere la propria idea di sé e la propria soggettività, il modo dello spreco, lo spreco della vita.
Lo spreco della vita è il modo più diffuso di scherzare con la vita, cioè con la morte, pensando che ci sarà sempre modo di fare meglio, di avere ragione, di riscattarsi, senza porsi la questione del come e del perché accade quel che accade; con l’idea vittimistica che ciò che accade di sbagliato, di negativo sia per una volontà contraria di qualcuno, ente o persona che sia.
E ognuno si racconta e racconta la fiaba del personaggio che ritiene di essere per via della propria origine, per via della famiglia da cui è originato, per via delle caratteristiche negative che hanno inficiato, sin dall’origine, ogni buona intenzione.
Ma anche la fiaba materna, ossia la fiaba che racconta della propria idea materna dell’origine, della famiglia, di sé, è materia intellettuale, cioè materia della parola. E la fiaba è il primo racconto in cui si dispongono le cose per l’analisi. Non per essere ritenute tali o per essere purgate, cambiate, rovesciate: per l’analisi! A condizione di non considerare la fiaba con realismo, cioè di prenderla come reale, come se fosse la realtà dei fatti.
La fiaba non racconta i fatti, non è costituita dai fatti. La fiaba è costituita dal racconto, dalle cose che entrano nel racconto e si dispongono. E all’analisi si dispongono anche i personaggi della fiaba, che possono essere il padre, la madre, la famiglia, gli amici, gli altri, i parenti, i fratelli, le sorelle, i figli, i nonni; questi sono indici della parola, non sono personaggi reali; sono indici della parola e della sua logica particolare.
Il processo intellettuale in cui si situano la fiaba e il suo racconto esige di non respingere la fiaba come se si trattasse di un falso racconto. No! Il racconto è vero, ma non è reale.
Ciò che si racconta è vero, ma non è reale. E ciò che si racconta esige l’analisi per cogliere questo scarto tra il vero e il reale.
Questo scarto esige l’instaurazione del transfert, cioè della simbolizzazione metaforica in cui capire che ciò che si racconta è vero, ma non è reale. Qualcosa d’altro si produce raccontando. E ciò che si produce raccontando contribuisce al chiarimento, alla chiarezza, all’analisi che trae all’assoluzione. Non alla soluzione, ma all’assoluzione, ossia alla dissoluzione del fantasma materno.
Tutto ciò accade non per volontà, non per magia, non per buona intenzione, ma per via dell’analisi, dove si tratta di cogliere l’integrazione tra quel che si dice, quel che si racconta e la logica particolare della parola, che non è, come comunemente si ritiene, la logica che ognuno ha, per cui ognuno avrebbe la sua logica, no. Nessuno ha la sua logica. La logica è la particolarità della parola.
Chi credesse di avere la sua logica, già si crede pazzo. Ognuno ha la sua logica e fa quel che vuole. Chi risponde alla sua logica, fa il pazzo. Questa è la pazzia. Per ciascun caso si tratta di cogliere la particolarità, ma non è che ognuno ha la propria logica. È da individuare. Il pazzo crede di averla e quindi fa il pazzo, o l’altra faccia che è il normale.
Pazzo, normale: due modi di pensare di avere la propria logica e di potere agire di conseguenza. E questo comporta il mantenimento di ogni idea materna, di ogni idea di fine, di origine, di padronanza, senza metterle in questione, senza attraversarle, ma portando alla giustificazione.
Non c’è psicanalisi, non c’è cifrematica senza la logica della nominazione, che è la logica particolare della parola. E senza la nominazione, senza l’indagine che riguarda la nominazione, la particolarità di questa logica, tutto diventa psicologia, sociologia, discorso comune, fantasma materno, convenzione, superstizione, religione, morale.
Non c’è la particolarità, non c’è il caso di valore perché ogni cosa deve essere ricondotta al luogo comune, al caso comune rispettando l’appartenenza – dove ognuno la pensi e la situi – mantenendo le caratteristiche per cui quest’appartenenza trova giustificazione.
Sorge così il criterio dell’analogia, del caso generale e ognuno diventa il paradigma del comportamento che mantiene la sua appartenenza, la sua origine e si sforza di dimostrare la conformità alla sua origine. E non potrebbe essere altrimenti.
Per mantenere questa posizione, questo status, occorre negare la parola, negare la particolarità, non tenere conto di quel che si dice, puntando al proprio essere e al proprio avere. Ognuno dice: “Ma io sono così, so come sono, so quel che faccio, so perché lo faccio, sono padrone di me stesso”. E questa è la condanna alla soggettività, alla negazione della parola. Così, ognuno che abbia questa volontà di essere soggetto si situa nella dicotomia, nell’alternativa fra ciò che può essere, fra un’idea di bene e un’idea di male, fra un’idea di riuscita e un’idea di rovina, con tutte le variazioni che possono intervenire su questo tema.
Caratteristica comune è che, in questa concezione, si tratta sempre del vittimismo; ognuno si dà come vittima: vittima della sfortuna, del negativo, dell’Altro, dell’origine. Vittima. E non tiene conto del racconto, di ciò che interviene con il racconto, ma solamente dell’ontologia del personaggio, dell’origine del personaggio e del presunto destino del personaggio.
Tutto ciò è regolato dal principio di unità, e il principio di unità comporta la circolarità: inizio e fine, idea di padronanza, idea di possessione. Ciascuno si dà nella dissipazione di questa unità, dove possono emergere la varietà e la differenza. Invece, dove vige il principio di unità, vige il personaggio stabile. Anche il racconto è tolto, perché potrebbe incrinare il personaggio. Nessun personaggio regge totalmente al racconto, perché è impossibile contenerne e padroneggiarne gli effetti: l’intervento del transfert, della struttura, della memoria.
È impossibile padroneggiare tutto ma, abolendo il racconto, abolendo e togliendo l’analisi, questo diventa possibile e s’instaura il purismo. Già il vittimismo è un modo del purismo.
Ogni soggetto combatte una guerra santa che ha come fine la redenzione, ossia la purificazione. È il frutto di una negatività dell’origine e occorre compiere una purificazione, un’espiazione per giungere alla redenzione. Allora l’unità è ritrovata e il cerchio si chiude. Lì è possibile la salvezza.
Ognuno agogna la salvezza. Spera nella salute e agogna la salvezza. Ma salvezza e salute sono nozioni antagoniste. Per la salvezza occorre l’osservanza – che è il principio di unità, l’osservanza al fantasma di padronanza – invece per la salute importa l’istanza di qualità; non l’osservanza, ma l’istanza di qualità.
L’idea di salvezza comporta quella di redenzione. Ma da che cosa il soggetto deve redimersi? Da quale colpa?
Per questa nozione di redenzione vige l’idea di riscatto e di ricatto. Ognuno deve riscattarsi, deve redimersi, deve salvarsi. Ma, come fare per salvarsi? Da cosa salvarsi? Qual è la colpa che ognuno si attribuisce per intraprendere il processo di redenzione? Senza colpa non c’è la necessità di redimersi. La redenzione è la redenzione dei peccati.
E questa, che può sembrare una questione meramente religiosa, è invece ciò che regola ogni relazione sociale, ogni visione del mondo, ogni giustificazione. Perché c’è chi si giustifica? Da cosa si giustifica? Per confermare che cosa? Quale giustizia? Per riscattarsi da che cosa? Da quali ingiustizie? Per ricattare in nome di che cosa?
Colpa, punizione, redenzione, salvezza partecipano a una concezione algebrica della vita, dove tutto si somma e deve costituire un’equazione dove il resto sia zero. Il mantenimento di questa idea di equazione da cosa è dato? È dato dall’ontologia, dall’idea di essere e di dovere continuare a essere così. È una concezione gnostica della vita, dove non esiste la parola, dove non esiste il tempo, dove non intervengono differenza e variazione.
Ognuno è regolato dalla propria idea di essere. È il principio di sufficienza. Ognuno che vive in questa concezione vive secondo il principio di sufficienza, evitando ciò che può mettere in questione la propria idea di sé. Questo è il soggetto, il soggetto sufficiente, il soggetto normale, che si presume normale.
Presumersi normale è una condanna a morte. Vuole dire evitare l’arte, evitare la cultura, evitare l’invenzione, evitare la differenza, evitare l’imprevisto, la novità. Ma come si fa a evitare tutto questo? Vuol dire imbrigliarsi in un recinto, vivere nel recinto. I soggetti vivono nel recinto, comportandosi in modo conforme, conformandosi all’osservanza del loro principio di unità.
In questo mondo, da cui è tolta la parola, vige non tanto la qualificazione delle cose che intervengono, ma la classificazione. Ogni cosa è classificata e può ripetersi in quanto tale. Anzi, deve ripetersi per potere mantenere la classificazione. E vige il principio di patologizzazione.
Il “disturbo” è patologico, l’irritazione può diventare patologica, l’arrabbiatura è chiaramente un indice di patologia. E i disturbi aumentano sempre e la patologia si arricchisce, in questo modo, di voci sempre nuove.
Il soggetto difende la sua appartenenza, appartiene strettamente alla sua origine. Rivendica questa appartenenza. Si lamenta di questa appartenenza, ma la rivendica, evitando di indagare su quel che accade, perché quel che accade è ritenuto un segno dell’appartenenza. Deve essere un segno dell’appartenenza. Ognuno rivendica l’appartenenza al clan, all’insieme, alla classe, all’origine.
Quest’idea di appartenenza è il modo con cui viene negata la famiglia. Ognuno oscilla tra l’idea che ha della famiglia d’origine e l’idea che ha di una famiglia ideale cui avrebbe voluto appartenere, cui punta di appartenere se interviene il cambiamento, puntando al cambiamento. Ma, cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia, e mantenendo il realismo dell’origine, la credenza nell’origine, il principio di padronanza, il principio di unità, la credenza è mantenuta, l’appartenenza è mantenuta e ognuno si situa in un sistema genealogico, in un sistema di ruoli, in un sistema di vita, in un sistema di relazioni, in un sistema di riferimento.
Togliendo la parola, ognuno sta in un sistema, e stare in un sistema ha delle implicazioni ben precise. Il sistema inizia e finisce. È questa la caratteristica del sistema: ha un inizio e una fine. Quindi, conformandosi al sistema, ognuno si è conformato all’idea che c’è un inizio e una fine delle cose e attende la fine anche in modo, per così dire, non consapevole, ma inequivocabile. La logica del sistema prevede, prescrive che finisca. Ogni sistema finisce. È la legge della termodinamica che lo prescrive e non c’è sistema che non sia termodinamico.
La parola non è termodinamica, non segue i principi termodinamici. Non è che uno si rende conto di applicare alla propria vita le leggi della termodinamica, però lo fa. Vigendo il principio di fine, lo fa. L’idea di fine produce un adeguamento sistematico. Questo adeguamento sistematico lo possiamo chiamare fantasma materno, cioè il fantasma che ogni cosa finisca. L’idea di sistema nega la famiglia dove, invece, si tratta degli indici della parola: padre, madre, figlio, famiglia originaria. Non papà, mamma, nonni, nonne, famiglia naturale, ma la famiglia dove intervengono gli indici della parola, la famiglia come traccia, traccia della parola. Non come luogo, come traccia.
Può instaurarsi la famiglia come traccia credendo di vivere in un sistema di relazioni sociali? No. Occorre che s’instauri la logica della nominazione.
Cosa vuole dire logica della nominazione? Vuole dire la logica del due, dove si tratta dell’apertura, non dell’alternativa tra una cosa e l’altra, ma del due. Logica diadica. Alto-basso non costituiscono un’alternativa fra l’alto e il basso, ma costituiscono alto-basso, cioè apertura. Non l’esclusione di uno dei due termini, ma dove vigono entrambi: si tratta della contraddizione. Apertura, contraddizione. Cioè, la contraddizione non va scissa, tagliata, per stabilire quale termine sì e quale no. Contraddizione.
A partire dalla contraddizione si apre un altro panorama, dove, dal due e dal suo modo, procede la logica singolare triale, il tre. Quindi, logica del due e logica del tre. Questa è la parola.
La parola introduce la logica del due e la logica del tre, anziché la logica dell’alternativa esclusiva che è stata tramandata dalla filosofia greca. Logica che ammette la contraddizione senza dovere scegliere l’alternativa tra una cosa e l’altra. È anche la logica che ammette il tre, la simultaneità del tre. Un esempio? L’Altro.
La funzione di Altro non si riesce a immaginare. E va insieme alla funzione di rimozione e alla funzione di resistenza. Sogno e dimenticanza: Altro.
Qualcosa si dice e non è racchiuso in un significato, perché in quel che si dice c’è metafora, c’è metonimia e c’è abuso linguistico che produce una sfumatura differente, una piega differente. E quella parola non ha un significato stabile, ma nel racconto assume un valore particolare per quel caso!
Questo ha delle conseguenze enormi, perché è impossibile riprodurre qualcosa che si dice, il valore di quello che si dice e come influisce, con i suoi effetti, per chi lo dice. Ciò comporta che non c’è la normalità, non c’è il comportamento, non c’è l’uniformità, non c’è il caso standard, non c’è la possibilità di ricondurre al vocabolario ciò che si annuncia. Bisogna intenderlo nella particolarità, nella specificità del caso. Non c’è la possibilità di assimilare un caso a un altro. Non c’è la casistica. Non c’è sistema. Non c’è lingua comune. Non c’è la prescrizione di capire senza parlare perché “tanto le cose stanno così”. No, le cose non stanno mai così. Non stanno proprio!
Occorre che ci sia la qualificazione, la precisazione, con cui ciascuna cosa tende al valore, non a essere standardizzata. Allora la famiglia non è più riconducibile al luogo d’origine, all’idea di origine, ai personaggi con cui ognuno si rappresenta un ruolo, un’idea, una fantasmagoria. La famiglia non è la somma di papà, mamma, fratelli, sorelle, nonni, zie.
Come papà, mamma, fratelli, zie instaurano la madre, il padre, il figlio nel loro statuto di indici?
La madre come indice del malinteso, il padre come indice del nome, il figlio come indice della differenza di ciascun significante da sé. Tutto ciò esige un’elaborazione, una dissipazione dell’adeguamento della parola alla cosa, e esige l’ascolto.
Che cosa si sta dicendo nel racconto che sto facendo della mia vicenda? Della vicenda familiare, della vicenda del lavoro, della vicenda amorosa, della vicenda sessuale? Che cosa si sta dicendo? Quanto di Altro interviene rispetto alla rappresentazione che ne ho avuto sin qua, rispetto a cui io posso dire “Sono così”? Questo è inimmaginabile, è inimmaginabile non facendone l’esperienza.
E nella concezione genealogica di appartenenza a un’origine, a una classe, a un sistema, a un clan, a una famiglia naturale, ognuno deve conformarsi e differenziarsi, perché o è in accordo o è in disaccordo, o è dentro o è fuori, cioè non si situa nell’apertura, ma nell’alternativa, dove dentro e fuori si situano come alternativi: o dentro o fuori.
Allora, c’è chi deve andare via di casa, deve andare via dalla famiglia che lo significa. Deve andarsene, partire. Non può vivere nella stessa città, deve andare in un’altra città, perché lì c’è il marchio dell’origine. E bisogna andarsene, liberarsi, fuggire, perché la famiglia così intesa diventa una prigione da cui evadere. Questa è una delle fantasie più comuni, che padre e figlio non possano vivere nella stessa città, nella stessa casa, nella stessa via, che non possano convivere nella stessa impresa: se entra il figlio deve uscire il padre! I casi sono molteplici.
È di questa fantasmagoria della famiglia, ma anche dell’insorgenza del mito della famiglia, che narra la vicenda di Michele Silenzi.
Chi è Michele Silenzi? Chi ha mai visto o incontrato Michele Silenzi? Nessuno ha incontrato Michele Silenzi o ne ha mai sentito parlare? Michele Silenzi è il protagonista del film Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores.
Cosa narra la vicenda, la storia, il film di cui è protagonista Michele Silenzi?
Michele Silenzi è a scuola. Sta ascoltando una lezione e, mentre ascolta la lezione, a un certo punto nota che la sua compagna Stella – alla quale è molto interessato – sta scambiando qualche parola con altri compagni con i quali parla di una festa, la festa di Halloween. Michele, che è interessato a Stella, è tuttavia convinto che Stella non abbia nessun interesse per lui. Anzi, che Stella sia interessata a altri. Allora pensa che per conquistarla sia necessario andare alla festa con un vestito da supereroe, nella fattispecie si tratta dell’Uomo Ragno.
Ma, perché Stella non è interessata a Michele? Perché Michele pensa che Stella non sia interessata a lui? Perché lui è figlio di un poliziotto, di un semplice poliziotto, che per di più è morto, ma non compiendo un’azione eroica, è morto nell’adempimento del suo dovere, cioè senza lasciare nessuna fama. È morto e basta.
E la mamma, chi è la mamma? È un altro poliziotto, anche lei poliziotta. E è sempre in giro, non si cura di lui.
E come può Michele, figlio di due poliziotti, per di più uno morto, potere aspirare a Stella che gira il mondo? È stata di qua, è stata di là. Adesso, per un fortuito caso, è arrivata nella sua città, ma viene da un altro mondo. Quindi, Stella non si occupa di lui e i compagni lo deridono, lo sbeffeggiano, addirittura lo prendono di mira con quelli che oggi si definirebbero atti di bullismo. Lo vessano, è una vittima dei compagni più forti. A questo punto giunge la notizia che due di questi compagni sono scomparsi, fuggiti da casa, non si trovano più.
Questo non toglie che sia imminente la festa di Halloween, e Michele va a comperarsi il vestito. Ma sfortuna vuole che s’imbatta in due di questi compagni, che lo portano nel bagno della scuola e gli portano via i soldi per il vestito. Non resta che cercare rimedio e andare a comperare un vestito più modesto, in un negozio cinese, dove, per pochi soldi, Michele trova un vestito di un eroe cinese sconosciuto, non meglio identificato, che costa cinque euro e di cui non sono nemmeno chiari quali siano i poteri, mentre ogni supereroe è contraddistinto da alcuni poteri particolari. Di questo non si sa quali siano i poteri.
Michele compra il vestito “a scatola chiusa”, anche perché non c’è altro modo. Va alla festa, ma anche lì viene sbeffeggiato. Praticamente gli viene detto che si è vestito da dissenteria, proprio come punta del riconoscimento; il vestito è un travestimento da dissenteria.
Punto sul vivo, anche un po’ offeso, va a casa, dove però incomincia a scoprire il potere di questo supereroe: il potere di diventare invisibile. Ohibò, è un vestito che ha delle caratteristiche interessanti.
Ha appena preso nota di questo, che il giorno prendendo il vestito, lo trova tutto striminzito. È stato lavato, si è ristretto e non può più essere indossato. E incolpa la mamma di non avere rispettato questo suo vestito da cui gli veniva il potere – che però tiene segreto – il potere di diventare invisibile. E approfitta di questo potere: va in giro nudo perché, se si mettesse i vestiti, questi rivelerebbero la sagoma. Va in giro nudo e va a trovare Stella, che però non lo vede. Pensa trattarsi di una strana entità aliena, lo fa entrare, nasce un corteggiamento e una simpatia tra Stella e questa entità aliena invisibile.
La sorella di Michele, però, si accorge che lui ha acquisito un potere strano. Lo scopre e dice: “Tu non puoi approfittare così di Stella che non sa chi sei, e pensa che sei un alieno. Devi andare da lei, dichiararti e svelare il segreto”. Allora Michele parte e va da Stella. Ma, mentre sta per arrivare da Stella per svelare il suo segreto, Stella viene rapita. C’è un rapimento. Anche Stella scompare come gli altri due compagni. E chi l’avrà rapita?
A questo punto compare uno strano personaggio, Boris, cieco, che lo avvicina e gli svela di essere il suo vero padre. Boris, e non il poliziotto è il vero padre di Michele. E Boris ha un potere straordinario: è in grado di agire sulle menti altrui, legge il pensiero e è in grado di togliere la memoria, perché Boris è uno Speciale. Chi sono gli Speciali? Gli Speciali sono il frutto di una mutazione genetica avvenuta in una popolazione vicina a Chernobyl, dopo la fuga di radiazioni successiva all’esplosione nella centrale nucleare. E Michele è figlio di Boris e di Anna, una Speciale specialissima, che aveva il potere di diventare invisibile.
Ecco da chi ha ereditato Michele il suo potere, dalla mamma. E Boris e Anna sono gli unici due Speciali fertili. Tutti gli altri sono sterili, non possono avere progenie. Solo loro due. Quindi lui è un figlio speciale, anche Michele è un figlio specialissimo, che sempre più riesce a controllare il suo potere e a compiere azioni straordinarie. Grazie alle indicazioni del padre, individua dove sono tenuti prigionieri Stella e gli altri due compagni, uno dei quali era il complice delle sue vessazioni.
Sono in una nave che sta per salpare dal porto e, grazie al suo potere, s’introduce nella nave. Libera Stella, chiama la mamma poliziotta, la quale fa un’operazione brillantissima catturando tutti i complici e acquisisce il merito dell’intera operazione che, chiaramente, era di Michele. A questo punto Michele prende congedo da Boris, il padre, che deve andare in missione per salvare l’altra figlia.
C’è un’altra figlia speciale, che però è stata disgiunta da Michele. Si trova in Marocco e Boris deve andare a cercarla, adesso che Michele è salvo, ha i suoi poteri, ha acquisito il suo statuto di figlio speciale e quindi è destinato a grandi imprese.
E a questo punto cosa accade? Suona la campanella perché la lezione è finita e Michele si risveglia dalla sua fantasticheria. Esce dalla scuola e incontra Stella e, finalmente, le chiede se può accompagnarla a casa, perché era tanto tempo che ci pensava ma non trovava proprio l’audacia per farlo.
La fantasia di Michele regge il tempo di una traversata. Da una famiglia naturale, da una famiglia d’origine, da una famiglia in cui il padre è morto, la madre è criticabile per un lavoro degradante, non c’è mai e è sempre in giro, a una famiglia mitica, dove il padre è speciale, la madre è speciale. E il figlio non è quello sfigato che, essendo figlio di un papà e di una mamma degradati, criticabili, incapaci, viene deriso e vessato dai compagni e tenuto in nessuna considerazione dalle compagne. No, è speciale!
Così può enunciare la sua domanda, può andare in direzione del suo progetto senza vergogna, senza paura, senza più il fantasma di genealogia, cioè senza che le cose possano andare bene, ma anche male e, di fronte a questa doppia possibilità, astenersi dall’osare. In questa traversata non c’è più l’anfibologia, ma Michele si trova nell’apertura, si trova nel viaggio e non ha più paura.
Questo è il film che ho visto io, voi cosa avete visto? Ci sono domande? Prego. Sì.
Maria Antonietta Viero Vorrei sapere quando per Michele comincia il racconto, non della rappresentazione del personaggio, ma del parricidio e qual è il termine che in qualche modo lo incammina su questo. Perché mi sembra di avere capito, questa sera, che c’è una sottolineatura tra i due discorsi del racconto. Il racconto che, in ogni caso, prosegue come giustificazione che mantiene il personaggio e, invece, quel racconto che va incontro alla dissipazione del personaggio. C’è un momento in cui si può ascoltare che il parricidio è inaugurato?
E poi c’è una cosa che avevo annotato. Mi ero chiesta oggi, mentre facevo l’excursus di questo film, se non cominci proprio dalla questione dell’amore, amore che Armando Verdiglione dice essere custode del parricidio. Allora, in questo senso, chiedo se l’amore non conduca all’irruzione dell’Altro, non vada verso la sessualità che si trova nel parricidio, e se la chance non sia venuta da questo. La chance di creare un’altra famiglia per potere trovarla originaria nella dissipazione dell’idea di credenza dell’origine, del destino assegnato.
Poi c’era un’altra questione nel film, mi sembrava, quella che lei diceva prima, cioè che qualcosa trascorre tra il vero e il reale. Allora, tra il vero e il reale potremmo indicarlo nel film, quando la voce, pur nel grido, frantuma lo specchio? In qualche modo, comunque, mi sembra che introduca o che indichi i tre tempi dell’identificazione, quelli che vengono chiamati i tre tempi dell’identificazione.
R.C. Non possiamo attribuire a Salvatores l’adeguamento del film alla cifrematica. Siamo noi che facciamo la lettura. Non è l’intenzione di Salvatores che noi dobbiamo mettere a nudo. Salvatores non ha nessuna intenzione, ha fatto il film. Quali siano le intenzioni di Salvatores, non sappiamo, neanche c’interessa. Ha fatto il film in cui c’è una vicenda e, alla nostra lettura, questa vicenda ha una tenuta clinica. Clinica cosa vuole dire? Che c’è l’indicazione di una tensione alla qualità attraverso l’analisi di alcuni pregiudizi, che si dissipano.
Questa è la nostra lettura. E possiamo trovare gli indici che ci consentono questa lettura, ma non è che c’è la significazione, cioè che il film vuole dire che… che quella cosa significa che… No, nessuna significazione. C’è la lettura della vicenda, ma è una lettura clinica e è una lettura che riguarda lo svolgimento del caso. Il film non trae a nessuna significazione né a nessuna morale, svolge il caso.
Non abbiamo nemmeno gli elementi per dire che fosse nelle intenzioni del regista svolgere questo caso, anche se, sicuramente, nel testo ci sono elementi. Ma quello che importa è la lettura, non il film in sé. Come la lettura di un quadro trascende il quadro, va oltre il quadro. È la lettura che dà un contributo al quadro, non viceversa. Il quadro senza lettura che cos’è? L’opera senza lettura che cos’è? È un pezzo di qualcosa. È la lettura che lo trae al valore, che non è un valore intrinseco, ma è un valore che si aggiunge. Il valore aggiunto.
Il commercio trae al valore aggiunto, l’equivoco nel racconto apporta un valore aggiunto, proprio perché l’equivoco introduce un qualcosa in più. È un più che non fa somma, ma si aggiunge e trae al valore. Così può valere per una parola, per un gesto, per la scrittura, per quel che si fa. L’Altro è indice dell’insignificabile. Non dobbiamo attribuire all’Altro intenzioni e significati. Il racconto è infinito proprio perché non c’è la significazione, ma la molteplicità.
Così, il parricidio non si racconta. Non c’è il racconto del parricidio. Il parricidio è nel racconto. Il parricidio, con la sessualità, caratterizza il transfert. Il transfert ha due facce: il parricidio e la sessualità. Ma non c’è il racconto della sessualità, non c’è il racconto del parricidio. Parricidio e sessualità intervengono parlando, facendo, con la parola, ma occorre che si avvii la struttura della simbolizzazione, cioè il transfert, senza cui c’è il realismo di cui dicevamo prima e ognuno si crede di essere o di avere la ragione o che le cose stiano “così”, perché non ammette la parola, non accoglie il transfert, che è struttura della simbolizzazione.
Chi vive nel realismo, chi ritiene che le cose siano reali, nega il transfert, vive fuori dalla parola, vive tra le cose in quanto tali. Forse a questi si riferiva Freud quando diceva che gli psicotici sono immuni dal transfert. Non si esprimeva così ma, insomma, chi vive nel realismo, chi ritiene di avere le sue buone ragioni, di essere un buon soggetto, di essere stato, di avere avuto, di avere, di essere, cioè si trova a vivere senza rimozione, senza resistenza e senza funzione di Altro, dove vive? Chi nega questo, dove vive? In un cimitero, costantemente davanti alla propria tomba: qui giace il soggetto x, immobile, immutabile, un vero essere. Non ce ne sono pochi di così, di abitanti dei cimiteri, morti viventi possiamo dire. Non sono pochi; ce n’è, ce n’è. Lei ne ha mai incontrati?
Barbara Sanavia Forse.
R.C. Non c’è l’altra famiglia da cercare per liberarsi dalla propria, la famiglia ideale per riscattarsi dalla propria. C’è da reperire i termini della famiglia originaria, senza necessità di purificazione né di espiazione. Non si tratta di liberarsi, di purgarsi, di espiare le proprie fantasie, ma si tratta di analizzarle e di cogliere la struttura, gli indici e i termini. Un buon esercizio è la lettura delle fiabe, anche la lettura di alcuni film.
Questo film, per esempio, ci consente di leggere la fiaba di Michele e di cogliere la vicenda, la traversata, il caso. Il caso di Michele che non ha più paura. Perché non ha più paura? Perché non ha più l’idea di origine, non ha più l’idea di sé. Vive nella paura chi vive nell’idea di sé. C’è il tempo di un’altra domanda. Chi la fa?
Sofia Taglioni Ma nel passaggio ci sono alcune cose. In Michele in realtà, mi è più chiaro il passaggio dalla famiglia d’origine alla famiglia ideale, dove è avvenuto il cambiamento. Comunque c’è stata una palese ricreazione e necessità, penso.
R.C. Non c’è stato passaggio.
S.F. Non un passaggio, però una proiezione.
R.C. C’è stata la dissipazione dell’anfibologia del padre. Da un padre morto, debole e una madre non all’altezza, al padre eroe, Speciale, alla madre Speciale. Ma né l’uno né l’altro sono il padre: il padre s’instaura dalla dissipazione di questa impossibile anfibologia! Dove non c’è più il padre buono o il padre cattivo, il padre debole o il padre forte. C’è il padre. Il padre come indice del nome, il padre da cui procede l’autorità, il padre da cui procede la crescita.
S.T. Ma, forse, il “sentirsi in grado di”?
R.C. Il “sentirsi in grado di”, viene da questo: dall’instaurazione. Se c’è padre non c’è più paura, non c’è più l’idea di origine, non c’è più l’idea di essere figlio di quel padre, perché il padre interviene come indice e non ha più da significare l’origine. E interviene se l’idea di origine è dissipata.
S.T. Però si riconosce anche nel figlio. Io sento più la riconoscenza, cioè, si riconosce come figlio Speciale.
R.C. Eh, finché si riconosce come “figlio di”, allora è paralizzato. Da una parte è paralizzato e dall’altra si pensa come eroe, in realtà né l’uno né l’altro. Michele trova l’audacia d’incontrare Stella proprio perché non è più nell’anfibologia tra il padre insussistente e il padre eroico, tra l’essere il figlio di quell’origine e il figlio di quell’altra origine, ma non è figlio, Michele. Michele diviene Michele. Non è più “figlio di”, è Michele.
M.A.V. Anche figlio, senza essere “figlio di”. Nella famiglia originaria di cosa si tratta? Padre, madre, figlio.
R.C. No. La famiglia originaria riguarda gli indici, ma nessuno è l’indice, l’indice non può essere assunto.
Se l’indice è assunto diventa di nuovo personaggio. Esige un processo di astrazione questa cosa. Nessuno è figlio, nessuno è padre, nessuno è madre ma, padre, figlio, madre intervengono come indici nella parola e costituiscono la traccia della famiglia. La traccia!
M.A.V. Quindi, mai la famiglia è costituita.
R.C. Mai la famiglia è significata, certo. Questo è il punto. Mai la famiglia è significata, perché se la famiglia viene significata è significata come origine, è significata come anfibologica e nascono problemi, perché abbiamo le due facce della significazione: uno può credersi e va nell’euforia e un altro può credersi e va in quella che viene chiamata la depressione. Allora uno è euforico e l’altro depresso, ma si tratta di rappresentazioni dell’idea di origine. Nessuno è depresso, né malato, né euforico, ma mima la credenza nella sua origine. Mima! Questo è il mimetismo nell’origine.
M.A.V. Allora, quand’è che si può dire che venga dissipata questa credenza? Quando arriva alla dimenticanza? Prendendo a pretesto il film, è con la dimenticanza che questo si è dissipato?
R.C. No, con l’atto.
M.A.V. Quale atto? L’atto mancato?
R.C. L’atto!
M.A.V. L’atto della traversata?
R.C. Tutto ciò si indica nell’atto e quindi nel registro sintattico e frastico per quanto attiene alla ricerca, e nel registro pragmatico per quanto attiene l’impresa. Nessuno può dire di avere fatto, perché nel gerundio non c’è passato. Nessuno può dire che ha superato, “che ha”. È l’atto a indicare che la traversata è in corso.
M.A.V. Lei ha detto: “Michele non ha più paura”, quando? Quando il ricordo viene dissipato?
R.C. Quando si rivolge a Stella non ha più paura. Rivolgersi a Stella non è atto eroico, è atto. Atto di parola.
M.A.V. Sì, ho capito, di atto in atto, inteso.
R.C. Michele non è mai stato eroe, né tantomeno supereroe. Non è mai stato invisibile, ne ha avuto la fantasia. Ma tutto ciò è nella fantasticheria. Fantasticheria che noi vogliamo racchiudere nel tempo della lezione, oppure di qualche minuto. Ma una fantasticheria può durare secondi, un sogno a occhi aperti può durare millisecondi, e c’è una fantasia che si snoda. Nel film c’è un tempo di giorni, settimane e quant’altro, c’è uno svolgimento.
L’importante è lo svolgimento, che è senza durata, ma occorre che ci sia! E non necessariamente c’è racconto dello svolgimento, sicuramente c’è testimonianza. Come? Con gli atti, con quel che si dice e quel che si fa; come si dice e come si fa. E chi è compreso nella sua soggettività e presume di segnalarsi per la sua monoliticità, ha torto. È agente dello spreco. Tutto là, è agente dello spreco. Eppure accade che ci sia chi è pieno di sé al punto da rappresentarsi e rappresentare lo spreco.
Daniela Sturaro Diceva un dentista, a proposito di denti, che bisognerebbe scegliere i propri genitori. E non mi riesce facile questo abbinamento con il film dove questo ragazzo, sarà pure una fantasticheria, però ha il pregio di un’esperienza, perché non è più lo stesso dopo la fantasticheria. Perché, che cosa avviene in questa fantasticheria? Che c’è l’incontro con un padre che lo induce a affrontare le cose.
R.C. No, no, non è indotto, c’è l’incontro questo sì, ma non con un padre.
D.S. Con un papà, con l’idea.
R.C. C’è l’attraversamento di una fantasmatica realistica sull’origine. Michele non incontra nessuno. C’è l’incontro, ma l’incontro non è con qualcuno. Nella fantasticheria in questione c’è l’attraversamento di una credenza e la sua dissipazione, credenza che si è dissipata.
D.S. Però, in questa fiaba, come in tutte le fiabe, ci sono, non bisognerebbe dire personaggi, però ci sono delle figure. Una di queste è il padre. Ci sono molte figure, non è una cosa semplice. Poi arriva al punto di capire perché quelli che lo deridevano, lo prendevano come oggetto di scherno, riesce a capire perché questo avviene.
R.C. No, allora io ho parlato ai muri, come diceva Lacan. Parlo ai muri. Aveva proprio ragione.
Michele non viene deriso da nessuno. Se è una fantasticheria è una fantasticheria. Ha l’idea di questo. È chiara la differenza tra il realismo e la fantasia? Ha l’idea che… Avere l’idea che accada qualcosa non vuol dire che accada quella cosa lì. Uno può pensare che è in un certo modo, ma è una sua idea. Che ci sia un’idea di essere in un certo modo, non vuole dire che questo sia reale, è un’idea.
L’analisi occorre che consideri quelle che vengono chiamate le proprie idee, che non hanno nulla di reale. Un’idea non è reale. È chiaro? Questo indica il film.
Volete accogliere l’ipotesi del transfert o no? O tutto quello che vedete è reale? Qui il film indica che non c’è niente di reale in una fantasia. Non c’è nulla di reale. È questo il pregio. E lei tira fuori il reale? Ma, dico, allora di cosa abbiamo parlato?
D.S. E, per esempio, quella frase che viene detta: “E tu – rivolta al bulletto – se devi prendertela con qualcuno prenditela col tuo papà”?
R.C. È indicativa di che cosa? È indicativa che se c’è, come dicevo all’inizio, un fastidio, un disturbo, un’incazzatura, questo attinge alle proprie credenze sull’origine, che vanno indagate. Non è che se la deve prendere con il papà. È un modo di dire, cioè è chiaro che “te la prendi con me” perché c’è una metaforizzazione mancata. Bene, avventurati sulle tue metaforizzazioni mancate! E simbolizza.
D.S. E poi una cosa ho notato: i due figli che sono bulli, uno è figlio di un galeotto e l’altro è figlio di un imprenditore; e s’incontrano.
R.C. E certo, è chiaro. Anfibologia del padre! Non c’è il padre che va bene e il padre che va male, perché nell’anfibologia sorgono problemi! E sono problemi sia per quello ritenuto figlio del galeotto e sia per quello ritenuto figlio dell’imprenditore. Il “figlio di” ha solo problemi, perché è figlio della sua idea di origine. Non è chiaro? Occorre analizzare la propria idea di origine! Cioè, occorre fare la psicanalisi delle proprie idee e non la sociologia. Altrimenti leggiamo le riviste di sociologia, di psichiatria o quello che vuole lei. Bene, abbiamo chiarito?
D.S. Sì. Era una lettura anche questa.
R.C. Non ancora. Arrivederci.