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Primo capitolo del libro L’educazione

Amicizia, solidarietà, relazione

Ruggero Chinaglia Incominciamo il corso L’educazione, che, non nascondo, presenta delle difficoltà date le questioni che pone. Ma, con il contributo di ciascuno, ci sarà modo di affrontarle in termini di équipe, di ricerca.

Il progetto, lungo i vari appuntamenti, è di svolgere varie questioni che si pongono nell’educazione intesa come dispositivo di parola. Ciò comporta un’esplorazione per quanto attiene alle logiche e alla struttura della parola. Oggi, il primo incontro verte sui termini amicizia, solidarietà e relazione.

Per porre la questione di cosa si tratta quanto all’educazione e alla parola, cominciamo con un esergo tratto dal saggio di Nietzsche Sull’avvenire delle nostre scuole, nel quale dice: “La cultura comune a tutti è la barbarie”.

Dunque, cos’è l’educazione, come intendere questo termine e la questione che l’educazione pone? Ma non la così detta buona o cattiva educazione, le buone maniere, l’etichetta, ma l’educazione come ciò che dà l’orientamento, la direzione, l’indicazione verso la qualità delle cose.

Nel corso esploreremo quale sia l’orientamento, la direzione, l’indicazione che occorre affinché si ponga l’eventualità della qualità, come qualità della vita, per ciascuno che la intenda non come sopravvivenza, ma come dispositivo della qualità, per ciascuno che miri alla qualità e che alla qualità si rivolga.

Questo non vale per tutti. È un’utopia pensare che ciò possa valere per tutti e, oltre a essere un’utopia, è anche la negazione della constatazione che non va affatto da sé che ci sia l’approdo alla qualità, quand’anche ve ne sia l’istanza e l’esigenza. L’approdo, infatti, comporta un itinerario, un cammino, un percorso, una vicenda; comporta lo sforzo intellettuale come sforzo della ricerca. Qualità che è da intendersi come lo specifico, l’unicum, l’unicità di un dettaglio, di un caso, di una vicenda, quindi come caso di cifra.

Per constatare come la questione della qualità non sia per tutti e non sia nemmeno così diffusa, basta scorrere le recenti vicende che sono accadute in Italia quando, attraverso giornali, radio e televisioni, veniva scandito con insistenza e con forza, uno slogan a proposito di quei ragazzi che a Tortona sono stati protagonisti del lancio di sassi sulle automobili dal cavalcavia dell’autostrada. Lo slogan che viene periodicamente ripreso e scandito quando a essere autori di episodi, magari incresciosi, sono ragazzi e giovani, recita che costoro lo fanno perché hanno la testa vuota. Dice che si tratta di teste vuote.

È uno slogan che caratterizza più gli autori dello slogan stesso che non coloro ai quali è rivolto, nel senso che dire che si tratta di teste vuote è un modo dell’ottimismo, come dire che non c’è da preoccuparsi, in quanto sono cose che possono capitare a chiunque abbia la testa vuota. Invece no, non è così. Effettivamente, non c’è da preoccuparsi, ma occorre occuparsi, leggere e intendere queste vicende e le cose che accadono, perché non sono casuali, non accadono per una sfavorevole congiuntura astrale, ma sono la conseguenza, il frutto di qualcosa che è in corso.

Si tratta di interrogarsi intorno a quel che accade per intendere se non sia la conseguenza di un insegnamento, di un messaggio, di una ideologia che è in corso da dieci, venti, trent’anni se non addirittura nell’ultimo secolo, e che le cose che accadono sono la conseguenza, il frutto di questo messaggio, di questa ideologia e di una certa impostazione così detta mentale.

Negli ultimi anni c’è stato un notevole incremento di episodi di cui i giovani sono stati protagonisti, e che sono stati colti e indicati come indicatori di un disagio, dai suicidi più o meno collettivi con i gas di scarico delle automobili, al caso Maso e di altri ragazzi che hanno ucciso i familiari, agli incidenti stradali del sabato sera, al lancio, appunto, delle pietre sull’autostrada.

A fronte delle varie campagne per la prevenzione o la repressione di ciò che muove questi episodi, c’è da chiedersi che cosa sia stato effettivamente avviato come indagine per intendere come e perché queste cose accadono. Non sono episodi solamente da condannare, ma da leggere in termini clinici, cioè sono da leggere e da intendere per capire quale sia la logica per cui avvengono.

Ciò riguarda l’educazione. L’educazione non è solamente rivolta ai giovani affinché non commettano certe cose, ma è rivolta a ciascuno in quanto lavoro incessante di indagine, di ricerca, di analisi, di elaborazione per cogliere, per leggere, per intendere quel che accade e intervenire come occorre.

Ecco l’effettiva educazione da cui nessuno è esente, e che non è limitata a qualcosa da impartire secondo determinati canoni, ma può avvenire con la lettura dell’attuale, e per leggere quel che accade nell’attuale occorre avere inteso come e perché, quale sia la logica o le logiche che sono in gioco caso per caso.

Peraltro, è ciò che accade nella scuola. Il modo di condurre l’educazione nella scuola occorre si avvalga di intendere, man mano, ciò che sta accadendo nel dispositivo della classe, per capire perché alcuni fanno certe cose, altri ne fanno altre, in che relazione questo si combina con l’insegnante, con i compagni, con il particolare dispositivo rappresentato da insegnante e alunni, da una parte di essi rispetto a altri e nelle svariate e infinite combinazioni che questo può dare. Cioè, non intendendo la classe come qualcosa di stabile, ma in un continuo movimento, in un continuo processo di trasformazione. La classe non già come un insieme inerte, ma come un collettivo che risente delle logiche della parola, sia dell’identificazione, sia del transfert.

La scuola ha la chance di dare effettivamente un contributo all’educazione, dato che costituisce un dispositivo dove i ragazzi, fin dalla più giovane età, trascorrono svariate ore del loro tempo in una combinazione di gioco, di lavoro, di studio, di insegnamento. Questa combinazione può risultare di formazione e di educazione, anche se questo non va da sé. Infatti, non basta passare insieme del tempo per approdare a aspetti di qualità, a un insegnamento che comporti un messaggio, che dia delle acquisizioni e che comporti l’instaurazione, per ciascuno, del cervello artificiale.

Il cervello artificiale è il dispositivo dell’indagine, della ricerca, dell’ascolto, e comporta una certa inquietudine verso le cose, non ritenendo che siano sempre le stesse, sempre uguali, già date, già acquisite e che vogliono dire per tutti la stessa cosa. La scuola si costituisce come dispositivo per l’instaurazione del giudizio e non già per il mantenimento dei pregiudizi, delle credenze, delle superstizioni.

Anche qui ci soccorre Nietzsche con una precisa notazione, sempre tratta dal saggio Sull’avvenire delle nostre scuole, dove dice: “Occorre avere non soltanto dei punti di vista, ma anche dei pensieri”, come dire, occorre non avere solo pregiudizi, punti di vista, soggettività. Soggettività, cioè “Io la penso così”. Sì, ma in base a cosa? “Così, a naso”!

Occorre avere dei pensieri, cioè occorre vi sia l’instaurazione del giudizio, occorre intendere la logica per cui qualcosa è giudicato in un modo piuttosto che in un altro. Occorre avere dei pensieri non nel senso di avere delle preoccupazioni, ma nell’accezione di pensiero proposta da Nietzsche, che mi sembra interessante, come ricerca del perché, del modo, di quale sia, di volta in volta, ciò che è opportuno fare per giungere al compimento, per giungere alla qualità di quel caso, di quel dettaglio, di quella cosa. In questo senso avere un pensiero: avere un indirizzo, una traiettoria, un orientamento non per partito preso, per un’ideologia preesistente, per una superstizione, per una appartenenza religiosa o ideologica, bensì per una valutazione specifica di quella circostanza, di quel caso, di quel dettaglio.

Questo non va da sé, nemmeno può avvenire per tutti, ma occorre che vi sia l’opportunità e che siano almeno poste le condizioni affinché ciò avvenga per chi a questo mira, per chi avverte l’esigenza della qualità, e non che già da parte delle istituzioni, da parte di chi è preposto a questo, vi sia uno sbarramento.

Porre le condizioni è difficile, comporta una formazione, comporta vi sia in prima istanza, per chi deve porre le condizioni, una ricerca in corso in questa direzione. E, dunque, l’aggiornamento dell’insegnante non va disgiunto dalla sua formazione, come formazione intellettuale alla ricerca, all’indagine, come formazione alla parola, alla qualità, alla civiltà della parola. In Italia, in Europa, sul pianeta a tutt’oggi, noi assistiamo nelle varie sedi a una civiltà del discorso, non a una civiltà della parola. Questo dato lo preciseremo meglio, perché ha delle implicazioni rilevanti rispetto a ciò che stiamo facendo.

Prima questione: non dare nulla per scontato, nulla come già acquisito, cioè non improntarsi alla logica della sufficienza. La sufficienza è pensare che qualcosa è già acquisito, è già dato, è già fatto, è già detto una volta per tutte, e questo equivale a cessare ogni funzione di educazione. Se questo è il messaggio, se questo è ciò che viene inteso da chi ha a che fare con noi, allora termina ogni educazione nell’accezione che proponevo prima, cioè come dispositivo della ricerca verso la qualità. Qui sta il difficile della cosa.

Proviamo a considerare gli elementi del titolo di questo corso L’educazione. Come pensare a sé e all’Altro. C’è un accento posto sull’educazione e un accento posto sul come pensare, cioè sul pensiero come logica, come logica delle operazioni, come logica del perché accadono le cose, del perché e del come. Il pensiero indaga su questo, l’operatore opera in questo senso. E ancora nel titolo troviamo a sé e all’Altro. Ma come intendere questo sé? Pensare a sé qui non è inteso nel senso del se stesso, ma nel senso del sé come oggetto che sta nella parola, oggetto che è causa di godimento, di sapere e di verità. Si tratta del sé che viene dall’autòs, quel sé che indica l’imparalo da te, il ricercalo da te, l’indagalo da te. Autòs: ciascuno ricerchi da sé, faccia da sé, osi da sé. Autòs, non in quanto se stesso, non da solo, ma da sé.

Cosa vuole dire ciò? Che io esisto in un dispositivo dove ci sono altri, ma nessuno degli altri può fare al posto mio, nessuno degli altri deve fare per me, né io per altri. Ciascuno faccia da sé accanto a altri, senza negare che altri esistono.

Occorre intendere, però, di cosa si tratta quanto al sé e quanto agli altri, perché è da ciò che dipende il modo dell’amore, dell’amicizia, della solidarietà, della sessualità. E proprio da questo modo, da come per ciascuno esistono i vari elementi nel suo dispositivo, i vari elementi delle logiche, dipende se ci sarà l’approdo alla qualità. Ovvero, se si instaura l’attesa che qualcuno faccia al posto mio, non approderò a nulla, tanto meno alla qualità. Occorre vi sia progetto, programma e che ciascuno compia il progetto secondo il modo opportuno, che io non so già quale sia, che lui non sa già quale sia, ma che può emergere dall’integrazione dei modi.

È chiaro che se sino dalla più giovane età un ragazzo è bersagliato da tutta una serie di informazioni in base a cui può credere di dovere stare attento al male, alla malattia, alla morte, alla fatica, al dispendio, di dovere risparmiarsi, di dovere cercare di fare il furbo, di dovere arrangiarsi secondo le varie superstizioni, è poi difficilissimo che con i suoi mezzi possa svolgere e articolare questa massa di informazioni che vanno nella direzione del pericolo del male, della morte, della malattia, del negativo senza che vi sia mai un elemento clinico, cioè qualcosa che si rivolge alla sua qualità, anche dove sembra destinato al male, al negativo, senza che vi sia analisi e clinica delle cose, senza che vi sia ascolto, ma sempre con l’applicazione di una sanzione, di una legge severa, di una prescrizione o di un divieto che, in modo implicito, testimonierebbero l’esistenza del negativo, del male, di tutta una serie di cose da evitare, di una cappa sotto cui bisogna stare.

Non è difficile che un bambino, un ragazzo si adegui a questo, che si adegui al senso comune, ai luoghi comuni e che realizzi con la sua condotta, con le cose che dice, con le cose che fa, queste stesse prescrizioni e divieti, questa stessa ideologia del negativo, rappresentata da ciò che possiamo chiamare l’ideologia del discorso occidentale, ossia la scienza del discorso, il logos.

Il logos ha una prima prescrizione assoluta, che riassume tutte le altre, e è che tutti gli uomini sono mortali! Questa prescrizione aristotelica riassume tutte quelle che dicevo prima e prescrive la via breve; anziché la via dell’indagine, della ricerca, dello sforzo, anziché il superamento della difficoltà dove questa si pone. “È difficile? Allora non lo faccio”, “È difficile? Allora mi devi aiutare”, “È difficile? Te lo fai tu”, è la risposta più comune di chi si imbatte in una difficoltà credendo che non debba esserci, credendo che la difficoltà sia un’ingiustizia, un torto e che in realtà non dovrebbe esserci, perché le cose dovrebbero essere piatte, lisce, andare da sé.

Questa è l’ideologia vigente, e rispetto alla difficoltà, rispetto allo sforzo da compiere c’è la protesta, la ribellione, la rivendicazione, il ricatto. Ciò non è per caso, ma è una conseguenza della logica del discorso che viene dal logos, dal discorso occidentale che adesso vedremo di spiegare in dettaglio. Infatti, si tratta di acquisire una formazione che tenga conto di come funziona la parola, di come funzionano le cose, di come accadono.

Dire la parola è dire le cose, i significanti, le immagini, le parole. La parola è il dispositivo dove nulla è escluso, dove le cose avvengono per integrazione perché nulla è escluso. Quindi, non riguarda solo il verbale, il preverbale, il pensiero, il non pensiero: c’è il verbale, il non verbale, il preverbale, il gesto, il sorriso, il pensiero. Ciascuna cosa sta nella parola, sta nella sua logica particolare e è da intendersi quanto alla sua logica e alla sua struttura, perché non c’è la cosa naturale, non ci sono le cose naturali nella loro naturalità, ma c’è la natura delle cose, ciascuna cosa nella sua natura. Così interviene, per ciascuno, ciascuna cosa quanto alla sua natura, che non è mai la stessa, perché la natura non è naturale. La natura delle cose non è naturale, non è qualcosa che esiste ontologicamente. Questo già Lucrezio aveva cominciato a svolgerlo: De rerum natura. Non le cose della natura, le cose in natura, ma De rerum natura, cioè la natura delle cose, come le cose si strutturano. Natura, struttura. La natura riguarda la struttura delle cose, cioè come entrano nell’attuale.

Come le cose entrano nell’attuale? Come ciascuna cosa entra nell’attuale? Entrerebbe da sé se fosse una cosa naturale, e sarebbe per tutti allo stesso modo, avverrebbe per tutti allo stesso modo. Ma non è così, ciascuno può constatarlo. Non c’è caso che sia uguale a un altro. Ciascuno incontra secondo la particolarità, a suo modo, un caso, un dettaglio, una vicenda, una circostanza e questo esige che venga affrontata come occorre. Non c’è la ricetta, non c’è lo schema che possa essere applicato. Per questo la questione dell’insegnante, oggi, è la formazione clinica, non la formazione psicologica. La formazione psicologica non aiuta a nulla se non a credere che esiste la natura, che esistono le cose naturali, che possono esserci cose che valgono per tutti. Non è così. Occorre indagare sulla natura delle cose, quindi occorre la clinica, l’ascolto, l’intendimento.

Come accade che questa circostanza è “questa” circostanza, imparagonabile con altre? Ciò esige uno sforzo per capire, per intendere. Non serve la comprensione – cosa devo comprendere? – ma l’intendimento, l’ascolto di ciò che sta avvenendo, gli elementi in gioco, la logica di questi elementi, la combinazione in atto.

Lo strumento è la parola, e anche ciò da cui attingere per intendere è la parola, quel che si dice. Occorre distinguere tra quello che Tizio dice e quel che si dice in ciò che Tizio dice, perché altrimenti basterebbe la buona volontà, basterebbero le buone intenzioni. Ma le buone intenzioni non bastano, perché la logica non è la logica delle buone intenzioni: io non so quel che dico, non so già quel che dico! In quel che dico qualcosa “si dice” e l’ascolto sta lì, in questo scarto!

Se bastasse prendere atto di quello che Tizio, Caio e Sempronio dicono, sarebbe facilissimo. Questa è la lingua comune, è la lingua volgare, è la lingua che Machiavelli chiama la lingua dei litiganti. Occorre uno sforzo in più. Io posso avere l’intenzione di dire una cosa, e invece ne dico un’altra che porta da tutt’altra parte. “Ma no, io volevo dire questa cosa qui”. Sì, ma di fatto hai detto un’altra cosa! E questo può essere colto se c’è ascolto. Ma perché vi sia ascolto non basta la buona volontà, ci vuole la formazione, occorre quanto meno fare l’esperienza, accorgersi che la parola esiste in questo modo, secondo la sua logica e secondo la sua struttura, presa in un funzionamento.

Per ciò prima parlavo di scienza e esperienza della parola. Questa è la questione della psicanalisi, la questione della cifrematica. Non basta la scienza, perché se si trattasse solo di scienza della parola, avremmo una disciplina, e la psicanalisi potrebbe disciplinarizzarsi, diventare una psicologia.

L’insegnante si trova preso nell’esigenza di non trascurare la civiltà della parola, di non trascurare che esiste la parola, che noi siamo costituiti dalla parola, che ciascuno è costituito dalla parola. Poi, certamente, come dicevo prima, c’è chi può lasciarsi andare, abbandonarsi all’ideologia, alla scienza del discorso, cioè ai luoghi comuni, alle superstizioni, alle credenze, alle fantasie senza elaborarle, senza attraversarle e restandone al di qua.

La vita diventa un’esperienza interessante se costituisce un itinerario dove ciascuna cosa non è già data, altrimenti è una noia mortale. Se già tutto è dato, se già tutto è significato, se già tutto vuole dire questo e quello, se il destino è già stabilito e viviamo nella predestinazione, che vita è? Non è vita, è un’attesa della morte e la morte diventa una liberazione.

E invece no, non è detto che debba proprio essere così, c’è l’eventualità che non sia così. Che non sia così, però, non va da sé, occorre fare qualcosa, occorre intraprendere, occorre che vi sia domanda.

Un “compito”, diciamo così, tra virgolette, dell’insegnante è far sì che vi sia domanda, che si instauri la domanda. Cosa vuole dire che vi sia domanda? Domanda: manum dare, intorno al dare la mano. Si tratta allora di darsi la mano, di darsi una mano? O, piuttosto, che per ciascuno ci sia mano, che sorga la mano come mano intellettuale, come mano da cui procede la spinta verso la qualità, la domanda come spinta, la domanda come pulsione?

Non va da sé che ci sia questa spinta, perché non è una spinta naturale. Lo psicanalista, per esempio, esiste nel suo statuto specifico, particolare, perché introduce la domanda anche dove non c’è, con l’offerta di qualcosa che fa sì che vi sia domanda in direzione della qualità. Questa è la missione dello psicanalista. La funzione dello psicanalista è che vi sia domanda, pulsione, che non vi sia chi possa ritenersi soggetto alla morte, senza domanda.

La domanda, che Freud qualificava come pulsione, che troviamo in Leonardo da Vinci come forza, in Machiavelli come virtù, non va da sé, non è naturale, ma si instaura per forza. “Ma questa cosa la devo fare per forza?”. Sì, certo, è l’unico modo con cui le cose si fanno: per forza! “Ma, devo studiare? Devo studiare per forza? Io non vorrei studiare”. Sì, devi studiare per forza! Ma perché si instauri la forza occorre chi si trovi nella funzione di provocarla, una funzione assolutamente artificiale, una funzione intellettuale senza cui la forza non c’è.

Oggi, non è un caso che vi sia l’apologia della depressione, cioè l’apologia dell’assenza di forza. Non è assolutamente un caso in questa epoca di naturalismo, dove tutto deve avvenire democraticamente per naturalità. Allora, nulla accade e se qualcosa accade sono disastri, diciamo così, all’insegna della naturalità.

La questione è quella di un dispositivo artificiale in cui le cose possono accadere per forza. La classe è un dispositivo in cui le cose possono accadere per forza, perché se l’insegnante non è lì a indicare, a promuovere, a forzare, che cosa può mai accadere in classe? La gazzarra nel migliore dei casi.

C’è una funzione che esige la forzatura che procede dall’autorità, dalla capacità, ma non come doti personali, bensì come istanze della parola, come funzionamento della parola. L’autorità si instaura per il funzionamento di un nome, ma non perché uno alza la voce, ma perché c’è un nome che funziona e da quel nome procede l’autorità.

La capacità si instaura perché c’è un significante che funziona, e dal funzionamento del significante procede la capacità, che non è capacità soggettiva, per cui ci sarebbe il soggetto capace e il soggetto incapace, il soggetto debole, il soggetto malato. Troppo facile. Queste sono astuzie della ragione cui ricorre il senso comune quando si arrende alla natura.

Cecilia Maurantonio Come definirebbe la capacità?

R.C. Ciò che procede dalla funzione del significante, come compimento del funzionamento del significante, dell’uno. Mentre l’autorità è ciò che comporta l’incremento, l’aumento che viene dal nome, la capacità è ciò che viene dalla presa del significante, dall’incidenza del significante, dal funzionamento del significante. Allora, la capacità non è “Io sono capace o io sono incapace”, ma è la capacità che procede dallo statuto di quel significante. Potremo esplorarlo meglio. Adesso, forse riesce difficile cogliere immediatamente ciò, ma è giusto per dire che non si tratta dell’ontologia o della naturalità delle cose, ma della natura delle cose, della loro combinazione.

La stessa difficoltà è inevitabile. La difficoltà è difficoltà di parola, difficoltà della lingua, non è difficoltà personale. Difficoltà è un teorema: non c’è più facoltà. C’è qualcosa che non è facoltativo e nemmeno è facile.

Facile, facoltativo, difficile, è la stessa costellazione. Non c’è cosa che sia facile, non c’è cosa che sia facoltativa, questa è la difficoltà! Che non è un optional, ma è costitutiva dell’atto di parola dove, dicevamo, nulla è escluso. Riguarda il dire, il fare, lo scrivere, il pensare, ciascuna sezione delle cose. Per cui non è che si possa scegliere se fare o non fare, se vivere o non vivere. Si tratta di vivere, si tratta di fare, c’è la necessità di fare come occorre. E questa non è la predestinazione, tutt’altro!

C’era uno slogan che andava di moda: “Io devo essere libero di decidere se fare o non fare”. Che libertà è? Non c’è nessuna libertà, è la libertà dello schiavo. È lo schiavo che può scegliere se fare o non fare. La questione della libertà è la libertà di come fare, la libertà intorno al modo del fare, al modo della soddisfazione, perché la soddisfazione sta alla punta del compimento delle cose che si fanno, sta dove le cose che si fanno giungono alla loro qualità; lì c’è il piacere.

Chi dice “Io sono libero di scegliere”, che cosa è libero di scegliere? La morte. È un fraintendimento che nasce dalla soggettività, cioè dall’idea di essere soggetti. Solo in quanto è posta l’eventualità di essere soggetti uno può dire “Io mi ribello a questo”. Ma a cosa si ribella se non c’è soggetto, se non c’è lo “stare sotto”?

L’ideale della rivoluzione è che ciò che sta sotto deve arrivare sopra, deve affrancarsi, liberarsi. Questa è una fantasia che nasce dal logos, dalla scienza del discorso, dove non si tratta mai della domanda, se non nei termini del dialogo, dove la domanda ha già la sua risposta. Si tratta di distinguere tra domanda e richiesta; la richiesta è il modo con cui si enuncia la domanda, non è la domanda, cioè, la richiesta è un pretesto della domanda. La domanda è la spinta in direzione della qualità.

Talvolta, paradossalmente, talune richieste cercano di contrastare la domanda, ma la domanda è domanda inconscia, è domanda secondo la logica particolare della parola, esige l’ascolto, non è immediatamente risolvibile nella richiesta, perché, appunto, c’è la richiesta che è qualcosa che allude alla domanda, ma non la ricopre, non si sovrappone.

Anche nell’educazione l’esigenza di intendere in che direzione va la domanda certamente si pone. Quindi, la questione della domanda è importante perché mette in causa l’insegnante. “Questi ragazzi non hanno curiosità. Non vogliono nulla, non chiedono nulla, non fanno nulla, sono inerti, non hanno interessi”. Ma ci vuole ben qualcuno che promuova la curiosità, l’interesse, la voglia che di per sé di sicuro non c’è. Perché dovrebbe esserci? Voglia di che? Interesse di che? Per volere di chi? Divino? Occorre pure ci sia identificazione, emulazione, spinta, altrimenti perché dovrebbe accadere qualcosa?

Talvolta c’è come una sorta di pudore, di rispetto verso la forzatura, che viene considerata come violenza. “Ma sarebbe una violenza se io forzassi in questa direzione”. Occorre dire che sulle fantasie di violenza è sorta la psicanalisi a Vienna, alla fine dell’Ottocento, è sorta dalle fantasie di violenza che indicavano la logica, un’altra logica delle cose. Se queste fantasie fossero state rispettate anziché ascoltate, non sarebbe sorta la psicanalisi e saremmo rimasti ai manicomi. Se Freud non si fosse posto la questione di intendere, di ascoltare, di indagare queste fantasie, di non prenderle come tali, non sarebbe sorta la psicanalisi e non saremmo qui, forse, a parlare di questo.

Quindi si tratta della forza e della forzatura intellettuale, cioè di qualcosa che dà un orientamento, indica una via e dà un contributo in direzione della qualità. È facile che il rispetto diventi menefreghismo e, d’altra parte, il rispetto è l’altra faccia dello stupro. È solo in quanto c’è una credenza nello stupro che può esservi rispetto, altrimenti, che cosa si tratta di rispettare?

Occorre ascoltare, intendere, intervenire, dare un’indicazione che magari può essere sbagliata, ma darla è meglio che non darla, perché non dare lascia le cose dove stanno. Un’indicazione, diciamo così, anche sbagliata, comporta vi sia un’indagine su quell’indicazione, quanto meno, perché non c’è il soggetto imbecille, il soggetto idiota non esiste proprio. Ciascuno occorre sia situato nella virtù della parola, nell’intelligenza e non, per principio, nell’imbecillità. Questa è la base dell’educazione. Se, invece, viene postulata l’imbecillità, allora, chiaramente, non c’è niente da fare.

Importa la funzione dell’insegnante come promotore, come provocatore, come venditore di curiosità, venditore di pulsione di sapere. Tutto ciò va in un’altra direzione rispetto allo scibile del discorso occidentale, cioè rispetto al ritenere trasmissibili, divulgabili le cose in quanto si sanno già, in quanto già sapute.

Affrontare tutto ciò comporta affrontare la difficoltà della parola e mettere in gioco pregiudizi, credenze, convinzioni, acquisizioni che si credono già consolidate. Comporta l’umiltà, la generosità, l’intelligenza, la tolleranza. Sono le dita della mano della domanda… Ne manca una.

C.M. La lealtà non c’è?

R.C. No. Comunque, intanto abbiamo quattro dita, sono già buone, poi la quinta…

Pubblico Non si può mettere un po’ di affetto?

R.C. Un po’ di affetto? Ma l’affetto c’è se ci sono queste dita, altrimenti abbiamo i sassi sulle autostrade, abbiamo la strage della famiglia, abbiamo l’homo homini lupus, abbiamo il duello continuo.

La questione della solidarietà verte intorno a questo, però occorre attraversare l’ideologia del discorso, l’ideologia del logos per intendere che quel che accade è la conseguenza di questa ideologia. Ideologia che prescrive vi sia il rapporto, che gli uni abbiano un rapporto tra di loro. L’idea di relazione nella scienza del discorso è il rapporto: rapporto sociale, sessuale, di amicizia, di lavoro, cioè rapporto dell’uno con un altro uno, uno che è a fondamento del discorso.

Il logos ha come fondamento, come suo postulato, l’unità. La scienza del discorso dice che le cose incominciano dall’uno e finiscono a un altro uno. Bisogna sapere bene, con precisione, quando, come, dove le cose incominciano e dove finiscono, perché ciò consente di avere un completo controllo sulle cose, una buona padronanza, un buon equilibrio, altrimenti siamo stressati. Bisogna sapere quando le cose iniziano, ma soprattutto quando e dove finiscono. Cioè, dire che le cose iniziano, implicitamente dice che finiscono, e l’occupazione principale dell’uomo, in quanto soggetto al logos, è la fine.

“Io so che le cose finiscono” è l’essenza della conoscenza, che è conoscenza della morte. Questa è la preoccupazione, che è come dire che non c’è l’infinito. Io so che le cose finiscono, devono finire, per cui devo prepararmi alla fine. Nel discorso, questa preoccupazione è ciò che sta in ogni cosa, e ogni cosa è sotto questa cappa proprio perché l’uno è posto all’origine. Nella costruzione logica del discorso occidentale non c’è lo zero, le cose cominciano dall’uno, ma non essendoci lo zero non c’è nemmeno l’infinito, non essendoci lo zero le cose finiscono.

Ma, perché non c’è lo zero? Non c’è lo zero perché non c’è l’apertura, non c’è la diade. La logica del discorso occidentale è una logica binaria: o sì o no, o bianco o nero, o vivo o morto, o buono o cattivo, cioè è la logica dell’alternativa esclusiva che non ammette il terzo, non ammette il tre. Quindi, il rapporto è sempre un rapporto esclusivo, o buono o cattivo. “Io ho un buon rapporto con quella persona”, “No, io ho un cattivo rapporto”, “Noi abbiamo avuto un buon rapporto. Avevamo un buon rapporto, ma poi è degenerato. È diventato un cattivo rapporto”, “Noi che rapporto abbiamo? Che rapporto avremo?”, “Dobbiamo precisare i termini del nostro rapporto, in modo sia chiaro se è un buon rapporto o se è un cattivo rapporto, se è bene che finisca subito o se può durare un altro po’”. Questo rapporto è sempre il rapporto tra due contrari, risente dell’assenza di apertura, è un rapporto di un uno e di un altro uno, che sono tra loro in opposizione, antagonisti, o io o te.

Tutto ciò è Aristotele che ce lo prescrive, mica uno qualunque: tertium non datur! O A o non-A, o sì o no, A=A, A non è non-A. Principio di non contraddizione, principio di identità e del terzo escluso, che ne è la conseguenza. Non ci sono santi, così è! Questo rapporto è un rapporto fra due e bisogna stare attenti, perché uno è bianco, l’altro è nero e il terzo è un incomodo, non datur. Cioè, in questa logica, se arriva il terzo si becca uno dei due e l’Altro resta escluso. È sempre una lotta, una guerra contro il terzo.

E chi è il terzo? Ognuno può essere il terzo, la cui comparsa sulla scena è una minaccia, un pericolo. Poiché tertium non datur, se interviene il terzo vuole dire che sono escluso. Fantasia di esclusione che è quanto di più constatabile in ogni contesto.

L’ideologia vigente insiste sulla coppia. C’è stato un momento in cui si diceva “La coppia va bene anche aperta”. Si ammetteva la coppia aperta perché è evidente che senza l’apertura la coppia collassa, si uccide, muore, è la strage. Si diceva coppia aperta per indicare che c’è la necessità dell’apertura, ma quello che non veniva colto era che già la coppia rappresenta l’apertura. La coppia non è che una rappresentazione del due che è, appunto, l’apertura. Il due, ossia la diade. La logica diadica sovverte la prescrizione aristotelica: il due è costitutivo delle cose, il due è il modo, il due è la relazione.

Quando noi parliamo di relazione fra una cosa e l’altra cosa, questo fra è relazione. Infatti, il fra implica linguisticamente la diade che non si rappresenta in due cose. Se si rappresenta in due cose è solo per soddisfare il principio aristotelico del terzo escluso, ma se noi non dobbiamo soddisfare Aristotele – e noi non lo dobbiamo soddisfare, nessuno ce l’ha prescritto – allora possiamo prendere atto che c’è la logica diadica, il cui modo è dato dalla figura retorica chiamata ossimoro.

Ossimoro vuole dire acuto-sciocco, alto-basso, bianco-nero, caldo-freddo, cioè indica che c’è contraddizione senza contrapposizione. L’ossimoro è la base della tolleranza, senza ossimoro non c’è tolleranza, e infatti il discorso occidentale è un discorso intollerante. Può arrivare a vari gradi di tollerabilità, ma non giunge alla tolleranza estrema, costitutiva, la tolleranza della parola, quella tolleranza che Freud intravedeva nel sogno, un esempio della tolleranza dove le cose si contraddicono senza contrapporsi, senza escludersi.

Ma il sogno non è un caso particolare, in quanto il sogno è la struttura della parola. La struttura della parola è onirica, comporta il sogno e la dimenticanza, cioè comporta la struttura dell’Altro. L’Altro, procedendo dalla diade, è sogno e dimenticanza. Se invece noi procediamo dall’unità, se procediamo dalla scienza del discorso, se procediamo dalla logica predicativa, cioè dai principi aristotelici, l’Altro è il nemico. Nell’algebra l’uno è originario e per divisione genera due uni, che sarebbero due cose.

Nella logica diadica, invece, si tratta del due originario, che non nasce dalla divisione di qualcosa. È costitutivamente due e non è due cose, è due, cioè è apertura. Per via dell’apertura, altre cose possono esistere in una combinazione infinita, senza prescrizione di dovere essere così o in un altro modo, proprio perché c’è l’apertura.

Certo, è difficile controllare, esercitare il controllo dove non abbiamo più l’inizio e la fine ben sistematizzati, ma abbiamo che le cose avvengono e divengono in modo differente e vario. E è proprio lì che c’è l’eventualità della qualità, del qualis, dello specifico, di approdare a qualcosa di qualificato, che viene per qualifica e non perché “è così”! La qualità è dove si compie la qualificazione, l’itinerario, il processo, il lavoro di qualifica. Se sento una cosa e dico “Ah, questa la so già”, ebbene no, non so già! Occorre qualificarla, non è la stessa cosa.

L’apertura è essenziale anche perché vi sia collettivo. Una certa ideologia del gruppo è antitetica alla questione dell’apertura. Nel caso, per esempio, dei ragazzi di Tortona, la questione era di fare gruppo, di costituire un gruppo dove il singolo fosse compreso nel gruppo. Qual è la mano che ha scagliato il sasso? È la mano del gruppo. Non sono io, tu o l’altro, ma è il gruppo che ha scagliato il sasso. Non è più ciascuno, ma è il gruppo inteso come ciò che riassumerebbe i tutti. E poiché ciò è micidiale, allora questa sorta di fusione del gruppo incontra la pietra, il sasso che viene scagliato quasi a rompere la cappa e a ritrovare l’apertura per una via un po’ tortuosa, ma che mette in discussione questa sorta di legame di gruppo.

La questione della relazione è legame e slegame, non solamente tutto legame, ma giuntura e separazione, coppia aperta, ossimoro. D’altronde, non intendendo l’originarietà del due, come intendere il discorso isterico, per esempio? Il discorso isterico è sempre a lamentarsi del legame che affligge, che stringe, che è troppo stretto, che è troppo vincolante, eppure, se il legame-slegame viene negato è un problema, perché si interrompe qualcosa. Si interrompe un’amicizia, si interrompe l’amore, si interrompe ciò che è in atto perché il legame è vissuto come obbligo. Ma è proprio lì che interviene la solidarietà.

È curiosa l’origine del termine solidarietà. Il soldo era la paga del soldato a Roma, che era costituito da un certo numero di pezzi, di monete, dodici o quindici. Poi, nel basso impero, all’epoca dei carolingi, questo soldo divenne moneta a sua volta, valendo prima un dodicesimo, poi un ventesimo della lira imperiale. Diventa moneta, ma rimanendo sempre qualcosa che riguardava più parti, cioè erano più pezzi di denaro che costituivano il soldo.

Il diritto canonico e amministrativo parlano di obbligazione in solido. Per esempio, quando più persone decidono di fare una società e per farlo contraggono un debito, si dice che rispetto alla restituzione dello stesso sono obbligati in solido. Cosa vuole dire? Che se al momento della restituzione, Tizio, Caio e Sempronio non sono in grado di restituire, ebbene, Felicino può essere chiamato a restituire per tutti gli altri. È obbligato in solido, per solidarietà ma, evidentemente, la solidarietà non è ciò a cui costoro giungono, ma è ciò da cui partono. Cioè, la solidarietà sta alle spalle, ovvero, è per via di solidarietà che questi tizi costituiscono la società.

La solidarietà, ciò da cui procede l’obbligazione, è l’apertura. Ciò non equivale a quanto viene inteso oggi per solidarietà, cioè la logica dell’aiuto, l’altruismo. Ma, infatti, la solidarietà è la relazione originaria, l’apertura da cui procede l’obbligazione in solido, cioè il legame-slegame. Queste persone non sono un gruppo, ma risultano obbligati in solido nel senso che decidono di fare un debito in collaborazione. Ma non per questo sono in gruppo, nel senso che non sono significati dal debito o dal credito. Perché ciò vale anche per il credito. Può esserci un’intrapresa, può esserci un progetto che viene messo in atto. Il progetto procede dalla solidarietà come apertura.

Federica Bietolini Non come necessità? Lei parla di solidarietà come apertura, a me pareva come necessità.

R.C. Diciamo che, essendo originaria è intoglibile, ma senza l’apertura non si porrebbe l’eventualità di questo accadimento. Non si tratta, però, del gruppo, in quanto non c’è la fusione, la coesione, l’identità di idee, di pensieri, di opere. C’è, invece, la solidarietà che non è all’interno, ma è costitutiva, sta alle spalle, è la relazione stessa di solidarietà, ossia di legame-slegame così come il soldo che aveva più pezzi i quali, però, non erano fusi o legati insieme. Erano legati-slegati: legati in quanto erano la paga del soldato, slegati in quanto erano dodici o quindici pezzi. Questa è la relazione, legame-slegame, giuntura-separazione.

Per ciò, quando qualcuno parla dell’obbligo “Io sono obbligato, mi sento obbligato a fare questo”, “Ah, ma allora mi sento obbligato”, non è detto che ciò sia un male. Senza l’obbligo la cosa in questione si farebbe? E se proprio l’enunciazione dell’obbligo fosse l’apertura, ciò per cui quella cosa si fa? “No, no, per carità, non dev’essere un obbligo. Devi farlo per volontà, per volere”, “Ma io non voglio”, “Allora fai a meno”. E, magari, così, proteste e malumori. “Ma come? Io voglio farlo”, “Ma vuoi farlo o non vuoi farlo?”, “Voglio e non voglio”. Cioè, nessuno vuole, nessuno sa quel che vuole, perché non si tratta del volere. Il volere è una modalità aristotelica. “Voglio o non voglio?”. Il discorso ossessivo si crogiola sul volere o non volere.

Le cose non si fanno per volere, si fanno per forza, per una esigenza di soddisfazione e di compimento, per la necessità che quel caso comporta, perché bisogna fare quella cosa e, allora, se bisogna farla, si fa. Stare lì a chiedersi “Ma io, veramente, voglio o non voglio?”, sarebbe la nevrosi, cioè l’applicazione dell’aristotelismo dove tertium non datur. Invece “Voglio e anche non voglio”!

Luigina Corsatto Comunque devo fare, il senso è questo?

R.C. Se la questione è che, per l’esigenza del caso quella cosa è da fare, occorre farla. Come? Nel modo opportuno. Non si tratta più di scegliere se farla o non farla, ma di come farla. Però, se io credo di potere stare lì a trastullarmi se farla o non farla, se credo che la mia dignità si manifesti propriamente nella libera scelta, questo è un fraintendimento che comporta l’attesa perenne.

Ecco la nevrosi ossessiva, ecco il discorso isterico, ecco il discorso paranoico, ecco il discorso schizofrenico come modi di applicazione della presunta libertà soggettiva, o come reazione alla libertà soggettiva, che è la stessa cosa. Dove non c’è mai l’occorrenza, ma sempre il possibile o il non possibile. “È possibile o non è possibile?”. Non è né possibile né non possibile perché occorre! Katà tò chreon, secondo l’occorrenza diceva il poeta. Il fare si fa secondo l’occorrenza, non secondo la possibilità.

Pubblico Non c’è il pericolo, in questa logica, che se non viene vissuta dal singolo, sperimentata dal singolo, possa essere imposta da qualcuno, il quale si arroga il diritto di decidere ciò che occorre e quindi obbligare?

R.C. Lei dice che può costringere qualcuno a fare quel che non vuole fare, senza un’indicazione precisa che ciò si situa nel suo itinerario?

L.C. Mi riferivo al sociale, più che al caso del singolo. Non è su questa linea sottile che è stata interpretata e distorta la teoria del superuomo? Una linea molto sottile su cui possono nascere società e ideologie molto autoritarie. Il principio è buono, ma poi l’applicazione…

R.C. Esatto, adesso lei è già andata molto avanti, già all’applicazione su base sociale.

L.C. Ma la solidarietà mi ha portato a questo.

R.C. In che senso?

L.C. Perché, se la solidarietà deriva da più pezzi fusi insieme, occorre…

R.C. Che “non” sono fusi insieme!

L.C. Che non sono fusi insieme, va bene, ma occorre che a questi pezzi sia data la libertà di obbligarsi in qualche cosa, e non che ci sia una funzione esterna che li unisce insieme e che decide.

R.C. Esatto, infatti questo dicevo. La solidarietà è costitutiva e è ciò da cui può procedere una decisione. La decisione segue logicamente la solidarietà, procedendo dall’apertura. Data la solidarietà, può seguire la decisione di fare qualcosa, ma è perché la solidarietà è alle spalle. Non è solidarietà fra Tizio, Caio e Sempronio, non è solidarietà nel senso della relazione umana, della relazione tra uni. È solidarietà della parola, è una logica, non una relazione interumana. Non è che, poiché c’è solidarietà tra me e te, allora facciamo. C’è solidarietà originaria, la solidarietà della parola. Per la logica diadica noi facciamo, non perché c’è solidarietà fra noi. Forse è difficile questo.

L.C. No, è il passaggio all’obbligo.

R.C. Sì, certo, l’obbligo. Riprendo questo termine che viene dal diritto romano. Obbligazione in solido. Obbligazione, obbligo. È obbligo, ma anche obbligo che non obbliga a niente, perché c’è questa…

L.C. Conservazione dell’uno, del pezzo, cioè la conservazione del pezzo.

R.C. Esatto, è giuntura e disgiuntura. C’è il soldo che non è un’unica moneta, ma è fatto di più pezzi che “stanno insieme e non stanno insieme”. Stanno insieme nel senso che costituiscono il soldo, ma non stanno insieme di per sé, in quanto sono pezzi fra loro sparsi. Quindi sono giuntura e separazione insieme.

L.C. È un preservare dall’annullamento il singolo.

R.C. L’obbligo, l’obbligazione è l’apertura che sta alle spalle, è il modo della relazione. Non è l’obbligo tra Tizio e Caio, non è l’obbligo tra due. A partire dall’obbligazione in solido, dalla solidarietà, ecco che può scriversi un contratto. Ma il contratto segue la solidarietà, non è che dal contratto derivi la solidarietà. Capite l’importanza di questo? Non dal contratto si arriva alla solidarietà, ma dalla solidarietà giunge il contratto!

Barbara Valerio Solidarietà come occorrenza.

R.C. No, non è all’occorrenza la solidarietà.

B.V. Ma quella legale è all’occorrenza.

R.C. Sì, ma quello era un esempio. Ciò che comunemente passa come obbligazione in solido, non è più la regola del diritto romano, è un contratto che viene stabilito, per cui in quanto clausola di un contratto è applicata all’occorrenza, ma già diventa un’altra cosa. Come solidarietà è originaria.

B.V. Sì, ma io mi riferivo al legame-slegame, per cui il legame c’è all’occorrenza quando ci si trovi nella solidarietà.

R.C. No, è legame-slegame, è costitutivamente legame-slegame, non è ora legame ora slegame. Sarebbe troppo facile, troppo comodo. È costitutivamente legame e slegame, giuntura e separazione, bene-male; non ora bene, ora male, ma bene-male, così come amico-nemico. L’amicizia come modo della relazione, non è “ora siamo amici e ora siamo nemici”, ma è amico-nemico, come dire che l’amicizia è il modo dell’alleanza. L’alleanza, anche nell’ebraismo, comporta giuntura e separazione: c’è alleanza e poi può esserci la guerra e poi di nuovo alleanza. Il modo della relazione infatti è diadico.

Nel modello ideale della relazione, dapprima tutto è buono, poi la relazione “si rompe” e tutto diventa cattivo. Ma questa non è la relazione, è un dispositivo di altro genere, dove viene applicato, a un certo punto, il taglio, la dicotomia. Cioè, su qualcosa che è costitutivamente diadico viene calata la spada di Alessandro, come nel nodo gordiano, così da ottenere un pezzo buono e un pezzo cattivo.

L’amicizia, però, è costitutivamente diadica, nel senso che il suo è il modo dell’ossimoro, per cui c’è amico-nemico. E non è l’Altro il nemico, e l’amico non è l’Altro: amico-nemico è l’apertura, è il due, è la relazione.

A partire da questo modo procedono i dispositivi. Poiché c’è amico-nemico, poiché c’è solidarietà, poiché c’è la relazione diadica, allora è possibile attuare dispositivi temporali dove non è che le cose debbano essere o così o cosà, ma seguono l’occorrenza.

Il nemico non è chi ci sta dinanzi, se così fosse avremmo il nemico come rappresentazione dell’Altro, cioè del terzo. Ogni terzo che ci compare dinanzi sarebbe il nemico. E allora ecco la variegatura dei possibili nemici: ora il cinese, il giallo, il comunista, il nero, l’extracomunitario, il vicino di casa, quello che ci guarda storto. No, è l’Altro come modo della differenza.

L.C. Sarebbe la paga del soldato.

R.C. No, la paga del soldato sta alle spalle. È grazie a questo che noi non dobbiamo temere il nemico. Lei capisce che è l’unico modo di articolare il discorso paranoico? Perché la psichiatria non “ci dà fuori” col discorso paranoico? Perché segue i principi aristotelici, non coglie le indicazioni della parola.

La clinica è clinica della parola, altrimenti rimaniamo nella psicopatologia e nella etichettatura di ciò che è bene e di ciò che è male e stop, senza possibilità che quello che è considerato male possa articolarsi, svolgersi e rivolgersi alla qualità. Nella scienza del discorso c’è una sorta di condanna preventiva per cui, ciò che è ritenuto male dovrebbe restare male, e ciò che è ritenuto bene dovrebbe restare bene. Dato questo incasellamento, se ciò che è bene diventa male, allora c’è il demonio “Era così buono, com’è che poi è diventato cattivo? Deve essere intervenuto qualcosa, una cattiva amicizia, un influsso malefico”. Invece no, bene-male non sono scindibili.

Dicevo che la solidarietà è alle spalle, non è dinanzi a noi. Certo, questo è difficile. C’è tutta un’impostazione, tra virgolette “culturale”, ideologica, per cui noi abbiamo il nemico di fronte. C’è tutta una teoria della guerra per cui il nemico non è alle spalle, ma è di fronte, è ciò che vedo schierato davanti a me. Occorre un certo lavoro per elaborare la fantasia che il pericolo, il nemico è dinanzi a me, per cui devo stare attento.

Questo è il maternage: “Occhio! Hai il nemico dinanzi a te. Attento, non fare questo, non fare quello, non fare così, vai lì, vai là, vai su, vai giù, questo no, puoi morire, puoi finire in prigione”. Il maternage è l’educazione come prigionia pensando che il nemico, la morte, il pericolo è dinanzi, sempre davanti, sempre imminente.

Capisco che è difficile cogliere in prima istanza la questione, ma è tuttavia importante, essenziale. Infatti, nel momento in cui ciò che risulta una fantasia, una fantasmatica del discorso occidentale, può approdare alla civiltà della parola, al dispositivo della parola, alla logica della parola, si instaura un altro modo di vivere. Senza la logica e la struttura della parola non ci sarebbe la clinica come il compimento nella ricerca, e saremmo condannati al labirinto tra i due impossibili senza giungere mai all’occorrenza e neanche al piacere. È con la clinica che c’è l’approdo al piacere nel senso che qualcosa si precisa, si staglia nella sua logica, per cui si dissipa rispetto a una fantasia, a un’idea di pericolo, a una credenza, a una superstizione. Come si dissipa una superstizione? Per via della clinica.

B.V. In quest’ottica dell’occorrenza…

R.C. Ottica? Se fosse un’ottica!

B.V. In questa ipotetica situazione di occorrenza in cui bisogna fare sempre quello che occorre, cioè quello che è nella necessità delle cose, il desiderio è relegato a uno stadio infantile o continua a esistere?

R.C. Ah ecco, il desiderio, certo. Ormai per questa sera siamo al termine, però prendo nota perché è una questione importante.

B.V. Però mi ha bocciato il legame-slegame.

R.C. Come bocciato? È per questo che le è sorta la domanda, a partire da questa combinazione. Lei dice “il desiderio”. Qual è la domanda precisamente?

B.V. In una vita vissuta secondo il principio dell’occorrenza, che posizione ha il desiderio? Il desiderio sembra avere una connotazione infantile, nel senso che da bambini si desidera, poi si cresce e si fa quello che occorre.

R.C. Certamente, il desiderio non è qualcosa di soggetto alla cronologia, nel senso che è inestinguibile, però è qualcosa che esige la qualifica. Bisogna che qualifichiamo il desiderio, e ciò mi pare importante perché si collega con qualcosa che dicevo prima. In che modo il desiderio sta nella pulsione? La pulsione risponde a qualcosa che è chiamato desiderio. E di cosa è costituito ciò che viene chiamato desiderio? Adesso non anticipo perché sarebbe una cosa frettolosa, però prendo nota.

Se ci sono altre domande, altre cose anche per la prossima volta? Il tema sarà Innamoramento e amore, siamo quasi, come dire, a fagiolo.

Pubblico […].

R.C. Ecco, lei già apre una variante, parla di desideri. Lei dice “i desideri”.

Pubblico Più d’uno.

R.C. Ci sono altre notazioni, domande, curiosità, notazioni, obiezioni?

Ida Baccelle Troppi presupposti.

R.C. In che senso?

I.B. Nel senso che c’è troppa carne al fuoco, molte cose dette così, c’è anche difficoltà a capirle. Molta morale.

R.C. Molta morale?

I.B. A differenza di quello che dice lei, che ce l’ha con Aristotele, sembra che la morale ci sia solo in Aristotele e anche nel terzo incomodo.

R.C. Mi spieghi un po’ questa faccenda.

I.B. Già se l’ho chiamato terzo incomodo, l’ho già etichettato.

R.C. È nella struttu

ra dell’intolleranza che il terzo risulta un incomodo, certo.

I.B. Infatti.

R.C. In realtà, senza il terzo c’è la paralisi.

I.B. E come si colloca in tutto questo l’accettazione, l’accettazione completa? Perché se c’è l’accettazione completa non c’è più né il sì né il no, anche se poi, alla fine, dobbiamo arrivare a un qualche giudizio. Insomma, bisogna arrivare a dare un giudizio alla fine, no? Un giudizio alla fine c’è comunque.

R.C. Perché alla fine?

I.B. A metà o al principio, voglio dire che ci si trova sempre davanti un giudizio quando si è a una scelta. Questo è un fatto, non è una morale. Questa era la morale della favola.

R.C. Ma lei parlava dell’accettazione.

I.B. Sì, mi chiedevo come si colloca l’accettazione, perché parlando di accettazione mi pare che si tratti proprio della solidarietà, per certi aspetti. Ma mentre nella solidarietà è implicato il sì, il no ingloba tutto. Nell’accettazione mi pare che non sia inglobato tutto. O è inglobato tutto? Quando si dice accettazione non ci dovrebbe essere un contrasto, oppure c’è il contrasto anche nell’accettazione?

R.C. Ma è accettazione di che cosa e da parte di chi?

I.B. Accettazione di sé e dell’Altro.

R.C. Ah, adesso ho capito.

I.B. O non si colloca per niente e è un altro discorso?

R.C. È importante il discorso che lei fa, perché è qualcosa da elaborare. Infatti, è un luogo comune molto propagandato quello che bisogna accettarsi per come si è, per quel che si è. È da analizzare questa proposta, perché riassume alcune cose che dicevo sulle prescrizioni mortifere della scienza del discorso, del logos, che presuppone il soggetto morto. Dire che bisogna accettarsi per come si è presuppone il soggetto morto. “Tu sei morto e devi accettarti come morto”! È il morto vivente che non può incontrare assolutamente nessuna trasformazione. Ha i suoi limiti, i suoi segni, i suoi tic, i suoi tabù e deve stare così. Questa è la rappresentazione del morto.

Allora la prossima volta, oltreché di innamoramento e amore, parleremo del morto vivente.

 

 


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