Quarto capitolo del volume La realtà della parola
La famiglia. L’amore, l’odio e il fantasma d’incesto.
Ruggero Chinaglia Il dibattito della settimana scorsa rilascia un’acquisizione, cioè che il delirio è una proprietà della parola; è una proprietà della memoria e della sua struttura, secondo il funzionamento e la dimensione della parola. Si tratta di un’altra accezione di delirio rispetto a quella proposta dal discorso psichiatrico e giudiziario; in quest’accezione, che procede dalle nostre acquisizioni, dall’esperienza della parola, il delirio è ciò da cui procedono l’insegnamento e l’effetto artistico dell’itinerario. “Delirare” vuol dire, girovagare, senza dover sottostare al postulato che dovrebbe dirigere il percorso e essere dimostrato e confermato dal percorso.
Il cammino artistico è il cammino la cui direzione non è già assegnata; è questo propriamente che si chiama delirio: l’andare senza un solco che debba indirizzare il discorso. Quel che si dice deve essere capito, ascoltato, inteso, senza che ciò che si dice, ciò che si narra, ciò che si racconta debba rispondere a un discorso convenzionale, alla realtà convenzionale.
L’insegnamento e la tradizione rispondono a questa caratteristica delirante della parola. Un teorema di questa constatazione è che non c’è più realtà convenzionale. Ognuno occorre capisca, ascolti, intenda quel che si dice della sua domanda, perché quel che si dice non è già significato, non appartiene a un discorso convenzionale, a un senso già dato, non appartiene a un sapere già acquisito: è qualcosa che va in direzione della qualifica. Occorre quindi che questa qualifica avvenga.
L’analisi e il processo di qualificazione non sono qualcosa di scontato, non avvengono in modo naturale, non avvengono in modo inerziale, esigono lo sforzo. La questione che si pone è la realtà intellettuale, che non è la realtà dimostrata dai fatti, anzi, il delirio indica che non c’è più fatto. Il delirio fa lo scacco del discorso giudiziario, che si fonda sui fatti da dimostrare. Ciascun racconto produce questo scacco: non c’è fatto! Nulla è già fatto, perché quel che si dice non giunge mai al fatto. Il racconto non si conclude nel fatto, la narrazione non si conclude nel fatto. Quel che si dice, si narra, si racconta entra in una struttura che non è mai finita, e che quindi non giunge al fatto comune e dimostrabile. Questo comporta, a differenza del discorso psichiatrico e giudiziario, l’impossibilità di compiere una classificazione di quel che si dice, incasellandolo nei limiti entro i quali sarebbe assicurato il discorso “normale” rispetto a un discorso che sarebbe delirante, quindi patologico.
La questione della parola fa sì che ci sia un altro modo di considerare quel che si dice, un altro modo per capire quel che si racconta. Allora, di cosa si tratta nel racconto, anche in quel racconto che sembra contraddire ciò che comunemente è chiamata la realtà convenzionale? In ciascun caso, occorre considerare la domanda e quel che si oppone al suo corso. La domanda non è naturale e il suo corso nemmeno. L’analisi non è naturale, il processo di qualificazione non è naturale, la questione intellettuale non è naturale; non va per inerzia, non va da sé, non è un automatismo. Non basta la buona volontà perché l’analisi avvenga.
Quali sono i postulati cui si appella ogni discorso che voglia mantenersi fedele alle sue ragioni, alle proprie credenze, cioè ogni discorso che mira a mantenere l’impostazione soggettiva?
Come dicevamo la settimana scorsa, non esistono idee deliranti, perché l’idea è coerente, l’idea è operativa. Delirante è quel che si dice, ma esistono una o più ideologie, che presumono che l’idea, anziché essere operativa − cioè che operi per il progetto e per il programma − sia invece agente, cioè debba agire per realizzare qualcosa. Che l’idea possa o debba agire è l’ideologia su cui si regge ciò che è chiamato la “malattia mentale”. La cosiddetta malattia mentale altro non è se non credere che l’idea possa agire in nome del postulato, che deve essere mantenuto e dimostrato, istituendo la circolarità del percorso, senza la domanda. Può sembrare difficile posto così, un po’ astratto credere nell’idea agente, invece è la modalità più diffusa e più comune. Basti pensare a come ogni devoto religioso si rivolge al suo dio chiedendo di avere qualcosa, che faccia qualcosa, che dia qualcosa. Questa è l’idea agente: che ci sia un ente che possa sostituirsi alle vicissitudini della domanda, per realizzare un accorciamento del percorso in nome dell’idea agente. Ognuno è ben disposto a chiedere qualcosa al suo dio, per avere, per essere, perché sia fatto ciò che non riesce a fare, ciò che presume di non riuscire a fare: questa è l’idea agente! L’idea agente che abolisce la realtà intellettuale in nome di una realtà convenzionale, che ha come convenzione di base l’idea agente.
Come questa idea agente, trasposta dall’ideale religioso all’apparato sociale, caratterizzi i cosiddetti rapporti sociali, è materia di ragionamento, e anche ciò che ci può far ragionare leggendo il film di questa sera, Gli amici del bar Margherita, di Pupi Avati, in cui si tratta propriamente di questo, certamente non nella forma della dichiarazione esplicita, ma di un racconto. Occorre leggere fra le righe questo racconto, occorre leggere il film, non secondo un discorso sociologico o psicologico, ma con il modo analitico e clinico, cogliendo la questione nodale della domanda, della vicenda della domanda, che si snoda lungo il film, cogliendone le svolte e dissipando la fantasmatica che sembra confermare il postulato e assicura le convenzioni e le relazioni sociali. Importa lo scacco che giunge a conclusione del film.
Ecco, su questo avremo modo di ragionare ulteriormente, per capire, nel racconto di ciascuno, gli elementi di qualità; non quelli che sembrano gli elementi di denigrazione e degradazione, gli elementi che sembrerebbero confermare il personaggio che ognuno crede di dover rappresentare in nome dell’origine, ma qual è la tensione che, nonostante questo, trae la domanda verso Altro e verso la sua cifra.
Questo film è straordinario rispetto a ciò. E poco importa se questo non sia nelle intenzioni del regista o di chi l’ha fatto, certamente sta nel suo testo, sono elementi che emergono dal testo, che è ciò che occorre dunque leggere e interrogare. Il testo è ciò che si racconta e anche ciò che è dato dalle combinazioni delle immagini.
Detto questo, passiamo a vedere il film, o meglio, più che a vederlo, passiamo a leggerlo, ponendo attenzione a non rimanere affascinati dai fatti, che non ci sono, ma ascoltando il racconto che avviene, come si svolge questo racconto, dove poggia, come si articola.
R.C. Allora, di cosa si tratta in questo film? Chi vuole rispondere? La vicenda è chiara, no? Non è chiara? Allora, cosa avviene? Cos’accade, cos’avviene in questa vicenda? Qual è la vicenda?
La vicenda è evidente. Si tratta di Taddeo, Taddeo Osti, detto Coso. Si tratta della fiaba di Taddeo, della famiglia di Taddeo e, possiamo dire, anche della sua fiaba sessuale. Fiaba, tuttavia, che non trova conferma nel suo epilogo, anzi, trova la sua dissipazione. Come ci accorgiamo di questo? Attraverso un espediente narrativo straordinario: Coso non partecipa più al gruppo cui sentiva di appartenere, dalla famiglia d’origine al gruppo; Coso non è più “Coso”. Coso non è più il personaggio ritenuto anche da se stesso, per via della sua origine e dei postulati dell’origine indicati dalla famiglia d’origine, così come ritiene sia, e dalle prescrizioni che da questa famiglia d’origine seguono, in direzione del gruppo che la rappresenta. Il gruppo è il raddoppiamento, la replicazione, la rappresentazione del fantasma d’origine, così come Coso se lo rappresenta. Dunque, com’è, qual è la famiglia di Coso, cos’è caratteristico di questa famiglia?
Daniela Sturaro Non c’è il padre.
R.C. Esatto, non c’è il padre. Però c’è il nonno, o quantomeno una sua rappresentazione, “che chiameremo per comodità ‘il nonno’”, questo è il personaggio. Più che il nonno c’è il personaggio del nonno. Cosa fa il nonno? Muore. Quindi, qui la vicenda del mito del padre proprio non s’instaura. Il padre è dato per morto e rappresentato come morto, anche dal nonno che muore. Che implicazione ha questo nella fiaba?
D.S. Considerevole.
R.C. Ah, bene. E cioè?
D.S. E cioè, forse, la ricerca del padre in Al. Al diventa un po’ la figura che potrebbe sostituire il padre, è considerato quello “più mitico”.
R.C. Sì, e cosa fa questo mitico sostituto del padre?
D.S. Attira su di sé tutte le attenzioni di questo ragazzo che gli paga…, lo accompagna, cioè accetta da lui qualsiasi richiesta, cioè, c’è devozione verso Al.
R.C. Sì, certo, ma questo personaggio, quindi, è caratterizzato da che cosa?
D.S. Dal sarcasmo.
R.C. No, è uno scroccone. E le donne le sposa perché?
D.S. Per lasciarle.
R.C. Ecco. Dice infatti: “ il bello del matrimonio è…”.
D.S. È la fine.
R.C. Ecco, questa è l’ideologia di questo mitico personaggio. Al è la celebrazione dell’idea di fine. Da due a cinque mogli che ha lasciato, che siano due o cinque, comunque, lui dice la verità, cioè le ha lasciate perché “il bello del matrimonio è che finisce”. Infatti la madre è vedova. E Al partecipa dell’ideologia per cui il matrimonio è finito. Poi? C’è qualche altra caratteristica che emerge da questa vicenda?
D.S. Se posso dire una cosa, anche se ho parlato troppo, però mi sembra che tutti rivestano un ruolo e che resti tale dall’inizio alla fine. C’è la ragazza bionda che continua a fare la sua vita, che sembra abbia la strada segnata e può far solo quello, non può decidere. Cioè, c’è una specie di predestinazione, un pregiudizio sulla vita. Io sono questo e rimango così, lui invece è così, e nessuno cambia, a parte Coso.
R.C. Eh, ma il film narra la vicenda di Coso, dunque narra la vicenda di una trasformazione, perché Coso, al termine della storia, al termine della fiaba, non c’è più. Non c’è più Coso. Nella foto che rappresenta il gruppo con la sua ideologia, la vicenda costruita sull’ideologia illustrata dalle regole del bar e dai vari personaggi, non c’è più. È la vicenda di una trasformazione: Coso non c’è più e tutto il gruppo non c’è più per Coso, quindi la mitologia su cui si regge questo gruppo si è dissipata.
Qual è questa mitologia, quali sono i postulati di questa mitologia, di questa ideologia, che comporta l’idea agente per ciascun personaggio, cioè di essere la conferma, la dimostrazione, la rappresentazione del postulato da cui parte? Postulato che s’instaura, come tale, a partire dall’assenza dello zero, dall’assenza del padre. Tolto il padre cosa segue? Dalla fantasia che il padre sia tolto, sia morto, non ci sia, cosa segue? Segue il regolamento del bar Margherita, il regolamento del gruppo.
Qual è il regolamento del gruppo? È il regolamento del gruppo, che doppia la famiglia postulata sul padre morto. Che ne è della donna, tolto lo zero? Che ne è della sessualità, tolto lo zero? Tutte le donne cosa sono? Prostitute.
D.S. “Penne”.
R.C. “Penne”, esatto. Il mito della donna è assolutamente assente, tolto. Il mito della verginità, il mito di Maria, abolito. Il mito della carità, il mito della grazia sono aboliti. Tutte le donne sono “penne”. E tutte le attività sono degradate: c’è chi vive di espedienti, chi di furti, chi coltiva l’idea che diventerà un grande cantante, ma in assenza di una effettiva formazione che vada in quella direzione e Taddeo indica che l’unica ragazza pura è perduta, morendo il padre. Morto il padre/nonno, cioè il padre, che non a caso muore con una prostituta, cosa segue? Che non c’è più la donna con cui possa instaurarsi il dispositivo non conforme all’ideologia del bar Margherita, all’ideologia del gruppo. L’affare, tolto il padre, è malaffare, la negatività sovrasta ogni cosa. Tolto il padre, è negato il suo mito e è negato anche il mito della madre, ma nonostante la mitologia dell’idea agente, nonostante il gruppo, nonostante le prescrizioni del gruppo, qualcosa per Taddeo avviene, per cui la fiaba sfocia in qualcosa d’altro e il gruppo cui sentiva di appartenere, che rappresenterebbe la mitologia dell’origine, della famiglia disastrata, disastrosa e quant’altro, a un certo punto si dissipa: Coso non c’è più. S’instaura Taddeo, che non partecipa all’apoteosi celebrata nella fotografia. E questo è un espediente incredibile, straordinario. Nella fotografia non c’è Coso. Il regista avrebbe potuto indicare meglio di così che Coso non c’è più? È fuori dalla foto, non partecipa, non è più nel gruppo di “come eravamo”, di “come avremmo dovuto essere”, partecipando, e quindi mantenendo l’ideologia dell’origine in assenza di padre.
Questa è, diciamo così, la storia che narra Taddeo, la fiaba. La fiaba di Taddeo, potremmo dire il delirio di Taddeo, che giunge non alla conferma della fiaba, ma alla dissipazione della fiaba, che sfocia invece in qualcosa d’altro. Al termine della fiaba, qualcosa d’altro comincia. Non sappiamo in questo caso che cosa, ma quello che è indicativo è che la fiaba non conferma e non è confermata dall’ideologia che la presume. Nel racconto della fiaba, nella sua narrazione qualcosa accade per cui la fiaba si dissipa.
Questa è la vicenda del film che, sotto tale aspetto, mi pare di grande interesse. Non tanto perché rappresenta, come si potrebbe facilmente dire, uno spaccato della società italiana o provinciale dell’immediato dopoguerra, ma perché, propriamente, indica lo svolgersi di una vicenda fantasmatica, legata al fantasma d’origine e che sfocia invece nella sua dissipazione.
Ci sono domande?
Patrizia Ercolani Io non riesco a capire quando dice che qualcosa accade per Taddeo per cui nel film si spinge fuori dal gruppo, cioè se ne esce. È possibile intendere quel “qualcosa accade per Taddeo?”
R.C. Cosa?
P.E. Se si può intendere quel “qualcosa accade” per cui Taddeo se ne esce, capendo che non appartiene più al gruppo, non è più il personaggio “Coso” del gruppo, ma Taddeo. C’è un nome.
R.C. Ecco, esatto, l’instaurazione del nome. Taddeo dice: “È il nome che mi hanno dato quando sono nato”, e di questo nome non tiene conto nemmeno la mamma che lo chiama Coso.
P.E. E deficiente.
R.C. Esatto, quindi attraverso una significazione del personaggio. Taddeo è di volta in volta “Coso”, “deficiente” e quant’altro nella mitologia che nega la famiglia come interdizione linguistica e ne fa invece la rappresentazione del fantasma d’origine, quindi come famiglia d’origine, di appartenenza.
L’appartenenza è appartenenza a un’ideologia che caratterizza il regolamento del bar come regolamento del gruppo, dove vige il fantasma di malaffare, il fantasma di prostituzione, il fantasma di omosessualità, cioè la negazione della sessualità, il fantasma di fine. Ciascuna cosa è esaltata perché finisce; in particolare il matrimonio, ma anche le varie attività che vengono svolte. Non c’è qualcosa che accomuni gli appartenenti al gruppo: c’è chi finisce in galera, chi va al festival di San Remo e torna indietro, chi vende impermeabili in modo truffaldino, chi si deve sposare e non giunge al matrimonio perché la protezione mafiosa del gruppo giunge a “salvarlo”. Questa è la cappa fantasmatica sotto cui vive Coso. Però è una cappa che a un certo punto si dissolve.
È un film, non è che deve dire per filo e per segno cosa e come, ma indica, con questo espediente filmico, che la realtà è quella indicata dalla fiaba, ma c’è un’altra realtà ripresa dalla telecamera, che è un altro film, c’è un altro film che si doppia su quello rappresentato da Coso. E in quest’altro film, Coso non c’è più. Non c’è più il personaggio su cui si basa la fiaba, se c’è parola, quindi se c’è conversazione, narrazione, racconto. Se c’è lo sforzo di capire, per sospendere l’ideologia dell’idea che agisce, qualcosa accade. Come? A ciascuno capire come. Non è per via comune o per via standard. Ciascuno ha il suo itinerario. A ciascuno il suo modo, a ciascuno la sua logica, a condizione che vi sia parola, instaurando con la parola la realtà intellettuale, non la realtà convenzionale. La realtà convenzionale è quella rappresentata dal gruppo con le sue relazioni sociali, con i compromessi rappresentati dal gruppo, mentre la realtà intellettuale è altra cosa. E non è rappresentabile né in positivo, né in negativo, né in modo convenzionale, né anticonvenzionale.
Occorre che la vicenda abbia corso, non solamente lungo le prescrizioni e le circolarità del presupposto fantasmatico, cioè dei postulati ideologici che ognuno si assegna con le sue convinzioni, assegnandosi le sue ragioni. Ognuno ha le sue ragioni per confermare il personaggio della sua idea di origine.
Questo bisogna capire: in che modo ognuno crede di essere “qualcuno”. Quel qualcuno è la sua condanna. Semplice. Questo, il film lo indica chiaramente. Il film in cui Coso è condannato nel suo personaggio, cosa fa? Fa l’autista di Al, il suo mito, lo porta a spasso, lo porta di qua e di là, gli paga il conto e vede le nefandezze degli altri. Ognuno ha le sue nefandezze, ogni cosa ha la sua schifezza. Tutto schifo, tutto brutto: chi vive di malaffare, chi vive di prostituzione, chi vive di negatività. Non c’è cosa che indichi qualità.
D.S. Nel suo piccolo.
R.C. Ognuno sta “nel suo piccolo”. Nessuna audacia, in assenza del nome. Nessuna audacia, senza il mito della madre. Quale destino può avere l’impresa? Nessuna impresa, se non l’impresa che fallisce, l’impresa truffaldina. Il fallimento è il marchio dell’assenza della madre, dell’assenza della sessualità, del postulato della morte dello zero, cioè della sua negazione.
Questa è la vicenda clinica di Taddeo. La fiaba di Coso e la vicenda clinica di Taddeo sono due cose differenti. Per Coso c’è lo schifo dappertutto, per Taddeo, a un certo punto, non c’è più lo schifo, non c’è più il male, non c’è più il peccato, non c’è più la negatività, non c’è più la fotografia che possa inquadrarlo nel gruppo che sancisce l’ideologia del gruppo di appartenenza. E questo per via di parola, per via della combinatoria tra le parole e le immagini e la loro vicenda, per via della domanda. Si tratta di questo. Perché, paradossalmente, nessun personaggio indica ciò a cui si è rivolto, se non Taddeo.
D.S. Posso chiedere una cosa?
R.C. Prego.
D.S. La mancanza di realtà intellettuale e la convinzione di agire, forse, è emblematica in quella corsa d’automobile a occhi bendati. La mancanza di realtà intellettuale, cioè la corsa in macchina può essere considerata una bravata, però c’è il fatto che è a occhi chiusi.
R.C. Ma non è a caso. No, adesso non costruiamo significazioni, non c’è da fare la morale, ma è chiaro dove conduce la negazione del padre come mito e della madre come mito: porta allo scherzo con la morte. Come chi si scola una bottiglia di cognac, ma è salvato all’ultimo momento. Lo scherzo con la morte ha questa caratteristica, che poi diventa lo scherzo della legge, lo scherzo dell’etica, lo scherzo di qualunque cosa. Questo è un altro aspetto interessante: il fantasma di morte incombe e va quindi “scherzato”, per confermarlo.
D.S. Ma per un tentativo di gabbare o di…
R.C. Per esercitarlo, anziché attraversarlo e coglierne i criteri.
Altre domande? È semplice, basta guardare il film per accorgersene. C’è qualche aspetto che non abbiamo considerato?
Maria Antonietta Viero Questa radice dell’idea di origine sembrerebbe indicare un’identità che lungo il viaggio si inidentifica. Sarebbe togliere questa radice dell’origine, cioè è paradossale la questione, mi sembra. Allora ognuno pensa di parlare, di vivere, di agire “rispetto a”; sa chi è e quindi a partire da un “so chi sono”, la radice dell’idea di origine, che è così difficile da dissipare, perché è difficilissimo lo sforzo di togliere questo limite, cioè questo osare a fare. Osare l’inindentità è una cosa orribile, mi viene da pensare, è il vuoto che si pone davanti, per cui anche il non parlare, il n-o-n, lo sforzo analitico, lo sforzo di fare il viaggio, probabilmente, è dato da questa radice di idea di origine, ma che è difficilissima da togliere perché c’è questa àncora…
R.C. Non è necessariamente difficilissimo. Se i postulati ideologici dell’origine non debbono subire incrinatura, allora risulta una missione impossibile, ma se c’è la disposizione a accogliere ciò che sorge dalla ricerca, perché dovrebbe essere difficilissimo?
Né facile, né difficile, nel senso che occorre innanzitutto ritenere di non essere legati al personaggio che si chiama soggetto, un personaggio che dovrebbe sostantificare l’origine creduta. Se voi notate, ciascuna fiaba comincia proprio da questo, dall’idea di sé. Se voi leggete le fiabe più famose, queste cominciano con la definizione del personaggio. Poi, se questo personaggio sfuma, si articola e si dissipa, allora il tragico, il drammatico della fiaba non c’è più.
M.A.V. Cioè, si può dire che è come se il lavoro del nome portasse all’inidentificazione col soggetto del nome, cioè toglie questa radice di provenienza, di origine, se c’è il nome del nome.
R.C. Non è che la toglie, non c’è più. È creduta, a condizione che la mitologia, l’ideologia dell’idea agente, quindi dell’ente a cui attingere, sia messo in discussione. Perché di questo si tratta in un modo o nell’altro. In molti casi, anziché dell’itinerario con il suo cammino, con il suo percorso, viene ritenuto doversi trattare della dimostrazione della significazione dell’origine, quindi negando sistematicamente ogni cosa che emerga lungo il cammino, lungo il percorso e contraddica questa idea agente postulata. E questo non è raro.
Non basta dire di “essere in analisi” perché ci sia analisi, anzi, questa formula è significativa, il culto del soggetto viene mantenuto. L’idea di “essere in analisi”, l’avete mai sentita? “Quello è in analisi”, “Io sono in analisi”, “Essere in analisi”. Essere. Già questo è indicativo di quale chance abbia quella vicenda: quella di mantenere l’essere. Anche questo può essere un programma per l’essere.
M.A.V. Mi viene da fare anche un ulteriore avvicinamento tra come il gruppo doppi, sancisca, è sempre un’opportunità, però possa sancire questa idea di origine. Quindi non sposta nulla, se non a raddoppiare questa idea di origine, di famiglia, di appartenenza a un gruppo e come ci sia invece, nella realtà intellettuale, la chance dell’associazione, cioè associazione come occasione di soluzione di questo gruppo che non fa che mantenere tutte queste idee, cioè l’idea di origine, di appartenenza e anche la stessa idea di fine, di morte.
R.C. L’idea di incesto, l’idea di destino, certo. L’idea del male.
M.A.V. E anche sottolinea la questione delle regole, del regolamento quindi…
R.C. L’idea di alternativa, l’idea di trovarsi sempre a un bivio, l’idea di non essere in grado, l’idea di essere o di non essere. Tutto ciò è fiabesco. Tutto ciò è materiale della fiaba.
M.A.V. Ma anche di essere dentro o essere fuori.
R.C. Esatto. Bene, allora proseguiamo su questo registro anche la settimana prossima, in cui il dibattito ha per titolo Il diritto, la famiglia, la sessualità. Avremo modo di riprendere e proseguire alcuni aspetti e anche di avventurarci ben oltre la fiaba.