Quarto capitolo del libro La lampada di Aladino
L’amore
Ruggero Chinaglia Dalla Pioggia e il bel tempo, di Jacques Prévert.
Aspetto la dolce vedovanza
Aspetto la dolce vedovanza
aspetto il beato lutto
Lui ha abbassato la fiamma della mia lampada di Aladino
mi ha chiamata bugiarda
e io non dicevo niente
Aspetto la dolce vedovanza
aspetto il beato lutto
Entrando al bordello
si è tolto la fede
e ha scelto
una donna che mi somigliasse
E, poi, con tutti i miei nomi
e nomignoli e soprannomi
febbrilmente l’ha insultata
e d’un tratto l’ha frustata.
Con me, non osava.
Sei la mia cagna
il tuo solo nome è Fedele
e, per me, ti butti nel fuoco
Ecco quel che le diceva
Aspetto la dolce vedovanza
aspetto il beato lutto
E poi
si è scagliato su di me
come fossi la sua peggior nemica
e mi ha baciata
e mi ha accarezzata
e io ero diceva, piangendo
tutto l’amore della sua vita
Aspetto la dolce vedovanza
aspetto il beato lutto
Già il mio innamorato
lava il sangue del delitto
nell’acqua dei miei occhi.
Dove vado, da dove vengo…
Dove vado, da dove vengo,
Perché sono bagnata.
Andiamo, non è difficile capirlo.
Sta piovendo.
La pioggia è pioggia.
Io ci cammino sotto – e poi,
E poi nient’altro.
Andate per la vostra strada
Come io per la mia.
Perché sguazzo nel fango?
Perché mi piace.
E la pioggia, la pioggia mi fa ridere.
Rido di tutto, tutto, tutto.
Se avete le lacrime in tasca
È meglio che torniate a casa,
È meglio che piangiate su voi stessi.
Ma lasciatemi stare,
Lasciatemi stare. Lasciatemi, lasciatemi.
Il suono della vostra voce non lo voglio sentire.
Andate per la vostra strada
Come io per la mia.
Il solo uomo che amavo
siete stati voi a ucciderlo,
a prenderlo a manganellate, a camminargli sopra…
a dargli il colpo di grazia.
Ho visto scorrere il suo sangue,
scorrere nel rigagnolo,
nel rigagnolo.
Andate per la vostra strada
come io per la mia.
L’uomo che amavo
è morto, la testa nel fango.
Ah quanto posso odiarvi,
odiarvi… è folle… è incredibile.
E voi vi impietosite,
voi siete buoni, troppo buoni con me,
eh sì credetemi, troppo, troppo buoni.
Buoni… buoni come l’ammazzatopi con i topi…
ma un giorno… un bel giorno, il topino vi morderà…
Andate, andate per la vostra strada,
uomini buoni… uomini per bene.
Il cannibalismo è la forma eminente di amore secondo il canone occidentale. Il pasto d’amore, infatti, soddisfa le prerogative comunemente attribuite all’amore, ossia il possesso e l’unione con l’oggetto a fin di bene, bene proprio o altrui.
L’amore è eterno finché dura è il titolo di un film uscito recentemente che indica con precisione una mitologia del canone occidentale: la fine del tempo. L’idea di amore, nel canone occidentale, è legata alla fine del tempo, dunque alla fine dell’amore. Questa idea di amore oscilla fra la possessione del suo presunto oggetto e l’unione con esso, due modi di estinguerlo. Affetto, sentimento, attrazione, desiderio sono i termini con cui il discorso occidentale ha provato a definire l’amore, sempre intendendolo come rapporto, rapporto amoroso.
Rapporto amoroso è un modo per indicare il concetto di amore, ossia la sua sostanzializzazione una volta che è stata tolta la parola. Allora sarebbe possibile il rapporto amoroso. Entrare in rapporto, mettersi in rapporto, rapportarsi con l’Altro inteso come oggetto d’amore, sono metafore della mediazione di un incontro impossibile che si vorrebbe rendere padroneggiabile e prevedibile. Questo concetto d’amore sorge come reazione all’amore originario, a quell’amore che Freud ha in prima istanza qualificato come amore di transfert. La fiaba di Aladino e la lampada meravigliosa ruota appunto attorno all’amore di transfert, pur attraverso il tentativo di sostanzializzazione, anche di localizzazione, che ogni elusione del transfert comporta.
Transfert, ossia l’itinerario della parola dalla sua causa alla sua cifra. Il transfert e l’amore che sta nella parola comportano che, nel dispositivo della parola, non c’è accesso diretto alla parola, non c’è chi possa dire quello che vuole, non c’è chi riesca a dire ciò che vuole senza incontrare equivoco, differenza o malinteso. Ma per intendere ciò di cui si tratta quanto all’amore, occorre esplorare la nozione di accesso non diretto alla parola, perché, contrariamente a quel che ognuno pensa, l’accesso alla parola non è diretto. Non c’è accesso diretto alle cose, dunque non c’è nemmeno comunicazione diretta. Niente telepatia. Non c’è accesso diretto al godimento, al sapere, al desiderio, alla verità. Quest’idea dell’accesso diretto è magica e ipnotica, toglie l’itinerario, toglie la domanda per istituire il regno della lampada, lo stato dei fatti, senza costruzione, senza struttura, senza industria, struttura e industria della parola. Così, nell’idea di accesso diretto, accesso diretto all’Altro, accesso diretto alla parola, può rappresentarsi la soggettività con il suo ricatto e il suo riscatto, propri della mitologia del rapporto amoroso.
Aladino e la sua lampada indicano che l’accesso non è diretto. La lampada, per Aladino, diventa la chiave dell’accesso, la chiave così detta di lettura, la chiave della possibilità. Ogni nozione di chiave sorge rappresentandosi un sistema delle cose, un sistema finito, un codice da decifrare, cioè un codice già dato, una struttura già data. Ma, nella struttura della parola, il codice non è già dato, il codice s’istituisce parlando, è un aspetto della struttura che non è formale ma temporale. Allora, con Aladino, ognuno si rappresenta l’accesso innanzi tutto come dovuto, poi come permesso o come vietato, e istituisce il despota o il tiranno a sua misura quale detentore della chiave d’accesso. Aladino, che non ha l’accesso genealogico alla famiglia del sultano, è costretto a fantasticare intorno alla lampada e al suo genio.
Il genio della lampada o il genio di Aladino o la genìa o l’ingenuità o l’ingegno? Parlando, l’accesso alla parola segue il modo del non. Parlando, qualcosa sfugge, per cui è impossibile avere le cose che si dicono, altresì è impossibile essere le cose che si dicono, e impossibile è pure che le cose che si dicono, siano. Ecco i due impossibili della parola: l’impossibile dell’avere e l’impossibile dell’essere, il non dell’avere e il non dell’essere. Non si tratta del non avere o del non essere, ma del non dell’avere e del non dell’essere. Non si tratta della negativa dell’avere e della negativa dell’essere, ma del non proprio all’avere e del non proprio all’essere. Il non, Il non originario, il non strutturale indica l’assenza di dicotomia, l’assenza di alternativa fra l’avere e l’essere, fra l’avere e il non avere, fra l’essere e il non essere. Costitutivamente, parlando, avviene che la parola funziona secondo questi due non: il non dell’avere e il non dell’essere, il non della rimozione e il non della resistenza, due funzioni che rendono impossibile attribuire alla parola un codice, un significato, una decidibilità.
Il modo comune di rappresentarsi questi due impossibili che rendono la parola impadroneggiabile, è attraverso l’idea di perdita o l’idea di mancanza o di limite attribuiti a sé o all’Altro. Il modo comune di reagire all’impossibile dell’avere e all’impossibile dell’essere – ciò per cui risulta impossibile dire cosa si ha e cosa si è, e che introduce alla questione del disagio come questione strutturale, come questione che avvia la ricerca, a partire dal non dell’avere e dal non dell’essere e che avvia la questione dell’amore – è l’impossibilità di attribuirsi la perdita, la mancanza o il limite.
Il modo comune di reagire a ciò che interviene parlando, a questa impadroneggiabilità, a questo accesso non diretto alle cose, è quello di attribuirsi una carenza, una mancanza o un limite, di pensarsi carenti di qualcosa o perché privati da qualcuno o perché carenti per nascita o perché limitati per motivi vari. Questo è il modo soggettivo, sostanzialista, di evitare la questione della parola a favore di un’idea di soggetto debole, malato o mancante. La questione ha ben altra nobiltà che non quella del soggetto: il non dell’avere istituisce la castrazione e il non dell’essere istituisce la disdicenza.
Castrazione, disdicenza e limite non sono sensazioni, né effetti, né attributi di qualcuno. Castrazione, disdicenza e limite sono séguiti del funzionamento delle cose, séguiti della funzione di rimozione, della funzione di resistenza e della funzione di Altro, cioè lasciti della particolarità.
La castrazione è il non accesso diretto al godimento, ciò per cui il godimento non è mai completo, non raggiunge mai il colmo, non è mai finito e dunque la castrazione non finisce. Niente di negativo, quindi. La castrazione avviene in un dispendio senza contenimento, inesauribile, e la nozione di esaurimento è la rappresentazione del toglimento della castrazione. L’esaurimento così detto nervoso è un modo di non considerare la questione della castrazione, un modo di patologizzare l’esigenza del godimento, fantasmatizzata però in un accesso diretto al godimento. Accesso diretto che comporterebbe proprio l’estinzione, l’esaurimento dell’oggetto a cui ci sarebbe accesso. Presumendo la possibilità di avere accesso diretto, l’idea di fine – nella fantasmagoria che può avere, tra cui quella dell’esaurimento – è una conseguenza immediata. L’esaurimento è una formula che reagisce all’impadroneggiabile della castrazione.
Ma il godimento, come effetto della parola, come effetto del funzionamento della rimozione, è inassegnabile, è impadroneggiabile, è illocalizzabile per via della castrazione e, contrariamente a quanto viene comunemente creduto, è proprio la castrazione che lascia godere. Come dicevamo quindici giorni fa, il fantasma di padronanza vorrebbe togliere la castrazione per istituire la riproducibilità del godimento, per applicare al godimento una sorta di modalità scientifica per cui, a parità di condizioni, io saprei come, dove e quando riprodurre il godimento, cioè un modo di applicare alla parola la mitologia della droga. La mitologia della droga procede proprio dall’idea di un godimento riproducibile, padroneggiabile, controllabile e somministrabile a comando. Ora, proprio questa mitologia trova il suo scacco nella parola. Solo che lo scacco della padronanza, lo scacco della riproducibilità, lo scacco della posologia viene inteso come mancanza, carenza, limite, deficit del soggetto, e a questa assenza di controllo e di padroneggiabilità della parola che è strutturale, si tenta di porre rimedio con la mitologia della droga.
Alla castrazione viene contrapposta la prescrizione alla pienezza di sé, per cui ognuno deve essere padrone di sé, delle sue idee, dei suoi gesti, delle cose che dice. Padrone, e avere il controllo, mentre l’assenza di controllo viene spacciata come una patologia. Sorge così il soggetto della castrazione, ossia il soggetto castrato, soggetto della miseria o della povertà di spirito, soggetto che non avrebbe quel che gli serve o perché gli è stato negato o perché gli è stato tolto. Quindi, al soggetto della castrazione che cosa immediatamente corrisponde? Il soggetto della rivendicazione, ossia il soggetto che fa della vendetta il suo habitat, vendetta con i suoi corollari, la colpa e la pena.
Il soggetto della rivendicazione, soggetto del ricatto e del riscatto, soggetto dell’amore di sé, dell’amor proprio e dell’amor cortese, soggetto dell’amore come rapporto amoroso, s’istituisce come vittima, è il soggetto vittima: vittima della castrazione, della disdicenza e del limite pensati e ritenuti come causati dall’Altro, dall’Altro despota, dall’Altro tiranno, dall’Altro come nemico. Chi si crede vittima crea il persecutore come causa della castrazione e il tiranno come causa della disdicenza. Ma l’autore della castrazione non è qualcuno, ma autore della castrazione è il nome che funziona, è il nome che funziona nella funzione di rimozione.
Funzionando la parola, producendo nel funzionamento effetti di senso e di godimento, la castrazione è inevitabile. La castrazione è nello scarto tra qualcosa di previsto e qualcosa che si effettua, è nello scarto del funzionamento delle cose. Funzionamento imprevedibile, perché avviene non già in un sistema finito, ma nell’infinito attuale della parola. La castrazione, lungo il non dell’avere, lungo l’impossibile dell’avere, è ciò che rende impossibile il possesso, la possessione.
La disdicenza, invece, segue la funzione di resistenza come impossibile dell’essere, è ciò che segue alla differenza da sé del significante. Nome, significante e Altro costituiscono la tripartizione della parola in quanto segno, segno tripartito che la rende impadroneggiabile. Occorre intendere la portata di ciò per capire la questione che con Freud ha preso il nome di inconscio. L’inconscio non è qualcosa di oscuro che poi si chiarirà. L’inconscio è la particolarità per cui ciascuna cosa non ha l’uguale, non ha il suo pari, sfugge alla previsione per cui occorre l’ascolto, l’intendimento, lo sforzo, l’itinerario per la qualifica di ciascuna cosa. In questo senso la castrazione è inconscia, originaria e senza soggetto. La psicopatologia è il tentativo d’istituire una coscienza della castrazione per tentare di localizzare la differenza e la variazione che si producono parlando.
Chiaramente, se la prescrizione è quella di avere la certezza di quel che si dice, di sapere che cosa e come dire le cose, di fronte allo scarto, alla differenza, alla variazione, alla sorpresa, alla meraviglia, all’invenzione di qualcosa che si produce inaspettatamente, può esservi una reazione. Questa reazione è la padronanza, che resta un fantasma del discorso occidentale, un fantasma per reagire all’impadroneggiabile della parola, all’impossibile come impossibile della rimozione e impossibile della resistenza.
Ecco allora la lampada, la lampada di Aladino come tentativo di gestire, controllare il non, per realizzare le cose in quanto tali senza un dispositivo intellettuale, senza il dispositivo del transfert, senza l’esigenza di qualificare le cose, ma in una sorta di automaticismo: detto fatto, pensato fatto, senza scarto, senza sorpresa e senza nessuna variazione, che è come dire senza arte e senza cultura, in un ideale psicotico delle cose.
Dicevo del vittimismo come terreno su cui s’impianta e cresce la mitologia della droga con la sua posologia della colpa e della pena. L’altra faccia del vittimismo è l’arrivismo, in cui si tratterebbe di essere il numero uno. Occorre distinguere il narcisismo dall’arrivismo. Nel narcisismo si tratta della riuscita, della rivoluzione delle cose verso la qualità, quindi verso l’eccellenza che sta nella qualità. L’arrivismo, invece, considera l’idea di essere il numero uno. E chi è il numero uno? Sarebbe il soggetto senza castrazione, senza mancanza, senza debolezze, senza manchevolezze, senza incertezze, il soggetto pieno di sé, ossia il soggetto che è se stesso.
Essere se stessi è una prescrizione infausta, una prescrizione assolutamente orribile e terribile; una prescrizione alla padronanza essere se stessi. Se stessi: una prescrizione alla stessità. L’importante è essere se stessi. Cioè, che cosa? Intanto essere, la prescrizione a essere abolendo la parola, il tempo, il divenire. Essere se stessi. Come, chi, secondo quale criterio? Essere se stessi per diventare uomo, un vero uomo, una vera donna, per essere. Per essere morti. Essere se stessi, cioè essere morti. “Sii te stesso”, ossia muori, sii morto. “Non ti muovere! Sii te stesso. Giudica secondo te stesso”. Qual è il criterio di se stessi? Non c’è. Bene, giudica senza nessun criterio, con l’autorità che è nel tuo essere!
Ma l’autorità è l’incremento, viene dall’aumento. Funzionando il nome, avviene un aumento, e l’aumento comporta l’autorità. Senza funzionamento, abolito il funzionamento, tolta la castrazione, prescritto l’essere delle cose, quale autorità? Dove starebbe l’autorità? Di quale autorità? Sarebbe l’autorità dell’essere uguale agli altri soggetti, quindi si tratterebbe di essere uno che si raddoppia, si riproduce sempre nella sua specularità. Questo sarebbe il soggetto della castrazione, il soggetto della mancanza.
Espungendo la castrazione e la disdicenza dalla parola, la prescrizione è a questo, all’uguale, alla parità che poi diventa parità sociale, ossia paranoia sociale. È l’abolizione della serie perché uno è il paradigma dei tutti. Il pluralismo è questo: la riproduzione, il plurale dell’uno, il plurale dell’identico. Quello che sembra una grande conquista, il pluralismo, è la prescrizione all’assenza di arte e di cultura, perché il pluralismo abolisce la molteplicità, non apprezza la variazione estrema o la differenza estrema. Variazione e differenza sì, ma entro certi limiti, altrimenti ecco l’anormalità.
Castrazione e disdicenza originarie non derivano quindi dall’assenza di qualcosa, da qualcosa che non c’è o che manca; al contrario, sono l’emergenza di qualcosa che è sovrabbondante. Qualcosa deborda, qualcosa eccede, per cui la castrazione sul versante del godimento, la disdicenza sul versante del sapere, e anche del desiderio. Castrazione e disdicenza sono emergenze dell’impossibile: l’impossibile dell’avere e l’impossibile dell’essere. L’impossibile, ossia il non, il non della rimozione e il non della resistenza che rendono impadroneggiabile la parola e impadroneggiabili le cose, ciò per cui è essenziale il dispositivo della parola, il dispositivo di qualificazione, ossia il transfert. Reagendo all’impossibile della rimozione e all’impossibile della resistenza, il discorso isterico avverte la castrazione vittimisticamente e tenta di farsi vittima dello strappo, vittima di un presunto autore dello strappo e tenta di rappresentarsi come soggetto della castrazione: soggetto segnato da ciò che sarebbe stato tolto; il discorso ossessivo tenta di farsi servo della pienezza e, dunque, soggetto della mancanza. Povero di spirito il soggetto che tenta di rappresentarsi nel discorso isterico; soggetto misero il soggetto che tenta di rappresentarsi nel discorso ossessivo.
Se ci sono domande, notazioni, giusto per proseguire.
Pubblico Io ricordo una frase che ho letto e riguarda forse il tema di stasera “Amare il prossimo è la forma più raffinata di disprezzo del prossimo”.
R.C. Amare il prossimo. Già la formula è tutt’altro che chiara. Che cosa comporterebbe amare il prossimo?
Pubblico Potrei pensare “trasferisco qualcosa all’altro”. Ingenuamente, potrei pensare questo.
R.C. La nozione comune di amore è volere il bene altrui. La massima espressione dell’amore sarebbe volere il bene del prossimo. Ma quale sarebbe il bene del nostro prossimo? La nozione di bene è del tutto oscura, del tutto non qualificata. Il bene del mio prossimo è quello che io ritengo sia il suo bene. Quindi, fare il bene del mio prossimo è fare di lui ciò che io voglio. Non è la riduzione a schiavitù, questa? In certe forme, per la via del bene “Guarda, non opporti, è per il tuo bene. Io so qual è. Tu, no, quindi, io ti amo e faccio di te quello che voglio, perché è per il tuo bene”. È questo l’amore? È una nozione di amore un po’ sospetta! È una nozione di amore morale che passa, nella migliore delle ipotesi, attraverso una condivisione della nozione di bene, cioè attribuendo a questo termine, diciamo così, un valore condiviso. Ma il valore è assoluto. Ciascun caso esige il suo valore assoluto. In nessun caso in cui si tratta della qualità può venire attribuito un valore condiviso, perché nessun caso è il plurale di un altro caso. Ciascun caso è specifico, assolutamente unico. Allora, la questione clinica sta qui, nell’unicità della casistica.
Pubblico Ma non è orfano.
R.C. Non è orfano, è unico. Per giungere all’unico occorre che le cose procedano per integrazione. Quindi, orfano di nulla, carente di nulla, mancante di nulla. Per integrazione, per cui ciascuna cosa è integra. E nell’integrità non c’è più il male, non c’è più il negativo, non c’è più la fine del tempo. Questo vuole dire attraversare e dissipare ogni fantasmatica legata alla padronanza, al controllo, alla fine, all’esaurimento, alla carenza, alla perdita, alla privazione, alla spogliazione, alla violenza come cose procedenti da soggetto a soggetto, istituendo sempre un rapporto dove ci sarebbe la rappresentazione della causa, dell’autore, del male, del negativo. La rappresentazione che è sempre della tribalità, della tribù, cioè dell’origine. Chi si rappresenta l’origine, da questa idea fa procedere tutti i suoi guai e, se non ne ha li trova, se li procura. Ora, è chiaro che per giungere a qualificare la questione dell’amore, occorre, per così dire, chiarire i termini del dispositivo in cui ci troviamo, che non è quello del luogo comune, del discorso comune, ma è il dispositivo della parola originaria. Stiamo parlando di questo amore, non dell’amore da rotocalco o televisivo, o della nozione di amore che potrebbe avere Willy Pasini, che è sempre quello televisivo, dei rotocalchi.
Bruna Milesi Amore è, puntini, puntini.
R.C. Esatto, perché l’amore è volto nell’amare. Nella parola si tratta dell’amore, non di amare. Questa presunta transitività per cui l’amore si volge nell’amare, non è affatto automatica, non è affatto scontata. Occorre indagare l’idea che sia possibile amare! Altrimenti ricadiamo nel caso indicato prima, cioè amare come dire volere il bene altrui. Ma già volere il bene altrui è propriamente impossibile perché vorrebbe dire sapere il bene. È impossibile sapere il bene.
Pubblico Prima di tutto, saper volere bene a sé stessi, perché se non sono in grado di sapermi amare, con tutti i risvolti etici e morali, penso di non potere avere questa azione sugli altri. L’essenza dell’amore è diversa dall’amare, è indubbiamente collegata a un volersi bene cognitivo, non egocentrico. È già difficile arrivare a questo e riuscire poi a riflettere su questo amore…
R.C. Cosa intende lei per volersi bene? In che modo volersi bene sarebbe diverso, differente dal volere il bene altrui?
Pubblico È completamente diverso.
R.C. E come avviene questa profonda differenza?
Pubblico Avviene, probabilmente con tutta la propria cronistoria genetica, collegata anche a un discorso ancestrale. Lei diceva che, non necessariamente queste anomalie di amore o di bene sono collegate a qualcosa o a qualcuno oppure a un passato. Invece, secondo me, esistono collegate a una storia anche genetica. Io ne faccio anche una questione biologica che uno si porta dietro proprio a livello genetico, a livello ereditario, una storia cromosomica. Credo che il grande problema dell’umanità stia proprio in questo, cioè dovremmo veramente cancellare tutto quello che è stato finora e ricostituire un “uno” che possa prendere in mano la situazione in maniera completamente diversa, basandosi sull’esperienza di chi ha vissuto prima.
R.C. Guardi che Platone è partito da questo.
Pubblico Lo so, il mito della caverna.
R.C. Lei vuole ritornare a Platone?
Pubblico No. Però non c’è via di scampo in questo momento, secondo me.
R.C. Ma sì che c’è! Come no! Basta non fare come Platone. Che cosa ha fatto Platone? Platone, Aristotele hanno reagito alla parola originaria, hanno reagito al caos e hanno preteso d’indicare quale fosse l’ordine naturale delle cose. È sorto così il discorso, il logos come discorso di padronanza, come discorso secondo cui occorreva pensare, giudicare, ritenere, ordinare, istituire la società, la famiglia, l’essere di ognuno per vivere tranquilli, in pace. Di pace non si sente più parlare da allora in poi, se non nelle falle di questo discorso di egemonia di cui ognuno tenta di avere le chiavi, per imporlo a un altro, agli altri. Ma questa è una reazione alla parola originaria, è una reazione alla libertà della parola, è una reazione all’infinito della parola, perché tenta di istituire un “uno” fondante da cui si originerebbe la serie finalmente ordinata secondo scienza e coscienza. Ma questo è il toglimento della parola, è il toglimento del transfert, cioè è il toglimento del dispositivo in cui può avvenire l’invenzione, l’arte della parola e la clinica della parola, ossia la rivoluzione della parola verso la sua qualità e non verso ciò che costituisce la meta prescritta. Perché solo ammettendo l’infinito attuale, non l’infinito potenziale, quel che si dice è da indagare e da ascoltare, perché tende a rivolgersi alla qualità, che non è quella che noi sappiamo già, non è quella di cui abbiamo la chiave, perché non c’è la chiave di lettura, non c’è la chiave della qualità, per cui non c’è il possesso di qualcosa che faccia in modo di orientare ognuno nella direzione giusta.
La questione è quella dell’umiltà, della generosità, dell’indulgenza tale per cui può essere accolta la differenza, tale per cui ciascuna differenza può giungere alla sua qualificazione. Questo è impensabile per Platone, è impensabile per ognuno che ritenga di partire dall’uno comune. Questa è la questione. Non si parte dall’uno, caso mai si parte dallo zero, da quello zero per cui la serie è infinita, perché, se noi partiamo dall’uno, non c’è più l’infinito. La serie è finita, inizio e fine. Ma con lo zero, invece, con il non, la serie è infinita e come tale, imprevedibile. Lì sta la clinica che non assegna a questo o a quello il torto o la ragione, la verità o l’anomalia. Ciascuna cosa è anomala. Ciascuna cosa procede dall’anomalia. Se noi togliamo questo, ci situiamo in un apparato di contenzione. Ogni amore, inteso nella formula del canone occidentale, è un apparato di contenzione, è un apparato di estinzione, come peraltro indicavano le due poesie lette prima, in cui si tratta del bene, di quel bene che l’ammazzatopi vuole per i topi. Allora, il passo impassabile, il passo incredibile per l’epoca è di ammettere di non sapere quale sia il bene dei topi, perché non ci sono più topi, e quindi non ci vuole nemmeno l’ammazzatopi. È materia difficile.
Pubblico Anche perché il discorso è collegabile sempre a una propria convinzione morale, religiosa, storica che va a influenzare la vera essenza del problema. Cioè, noi pensiamo a una cosa collegandola a altre. Perciò lo sviscerare quella cosa, poi, diventa assolutamente più complicato e direi quasi impossibile per la mente umana.
R.C. No.
Pubblico Anche perché siamo condizionati da tantissime esperienze e, sono convinta di questo, anche genetiche. Uno non riesce a liberarsi del fardello che si porta dietro. Non è solo la struttura dell’uno, è la struttura di tutti quelli che ci hanno preceduto a comporre l’uno, e sono tanti. Le ripeto, è difficile da spiegare, perché non sono un’addetta ai lavori. Ma comunque sono problemi che hanno talmente tante radici che, trovare il vero seme di quella pianta, non so se sarà mai possibile.
R.C. Andiamo dal nostro amico Andrea.
Andrea Mi sono venute alla mente varie cose. Lei parla di parola originaria. In questi giorni sto leggendo un libro di un autore padovano, che parla di idea originaria. È una storia molto simile alla storia infinita, dove si cerca un nome, bisogna dare un nome. Poi, parlando di bene, mi è venuto in mente che nel Vangelo, Gesù non dice mai cosa sia bene o male.
R.C. Mica per caso.
- Mica per caso. Lei, prima, parlava di fantasmatiche e la signora diceva: “È possibile liberarsi”. Gesù dice: “Rinnega te stesso”. Io mi chiedo se è possibile liberarsi dalle convinzioni. Un’altra cosa, in Apocalypse Now c’è la bellissima figura del colonnello Kurtz che dice: “Ha mai preso in considerazione delle vere libertà, delle libertà dalle opinioni comuni, anche dalle proprie opinioni, dalle proprie convinzioni, delle libertà dalle proprie convinzioni?”. È Gesù dice: “Rinnega te stesso”. Sono tutte cose che mi sono venute alla mente.
R.C. Bene. Ci sono altri?
- Mi pare che Gesù si sia espresso sul concetto di amore, perché dice: “Ama il tuo prossimo come te stesso”.
R.C. Sì, diceva del bene, non dell’amore. Non dice qual è il bene.
- Non dice qual è il bene. Io mi difenderei dal concetto di amore degli altri, cioè se gli altri volessero amarmi secondo la loro idea di amore. A proposito di quello che diceva lei dell’incongruenza che c’è tra l’essere e il dover essere, nelle dieci tavole che Dio diede a Mosè, Dio si rappresenta a proposito dell’amore divino come “Io sono colui che è”, cioè avviene una catalessi. Cosa pensa di questa espressione, cioè della rappresentazione di Dio?
R.C. Lei ha detto bene, la rappresentazione di Dio. Questa è una rappresentazione di Dio, per cui a Dio viene attribuito l’essere, come rappresentazione.
Pubblico Senza nessun tipo di scarto.
R.C. Se è, non c’è nessuno scarto. Ma, appunto, si tratta di elaborare questa rappresentazione di Dio in termini logici. Che necessità ha Dio di attribuirsi l’essere? Che necessità ha l’uomo, tra virgolette, di attribuire l’essere a Dio? Sono questioni. Ciascuno può dare un contributo.
Pubblico Come punto di riferimento. Ogni individuo ha bisogno di avere, condizionato o condizionante che sia, un punto di riferimento sicuro, l’unico che, dicono, bisogna che ci sia.
R.C. Dicono… Bisogna… E già non è più così sicuro che sia necessario.
Pubblico Io ho messo le due condizioni per quello.
R.C. Perché lei, prima, diceva della difficoltà di sviscerare.
Pubblico Dell’impossibilità.
R.C. Sì, ma in effetti, se non c’è il cannibalismo non c’è nemmeno la necessità di sviscerare, perché cosa vuole trovare fra le viscere?
Pubblico Ma il retaggio del tempo…
R.C. In un contesto cannibalico. Se invece astraiamo dal cannibalismo, cioè dalla necessità animalesca di considerare le cose, noi possiamo fare qualcosa che non è proprio comune, non è alla portata di mano, ma che può conseguire risultati imprevisti, imprevedibili, incredibili addirittura, e cioè indagare sulle cose attraverso la procedura per integrazione dove nulla è scontato, dove ciascuna cosa ha il suo statuto che però non è già dato. Non è già dato e non è già assegnato, quindi è senza la mitologia della predestinazione e della superstizione.
Senza superstizione è dire una cosa quasi per assurdo, perché vuole dire senza attribuire a ciascun elemento un’origine comune o già data, assegnata, prevista, prevedibile, né un destino; vuole dire senza origine e senza destino. Questo sarebbe senza superstizione. Quale scienza, quale dispositivo, oggi, è in grado di assicurare questo modo della ricerca? Senza superstizione, cioè senza un accordo preventivo sull’origine e sul destino, lasciando che qualcosa si precisi liberamente, cioè senza sistema di riferimento, senza punto di riferimento.
Pubblico Ma io non ne faccio un discorso di predestinazione o di superstizione, ne faccio proprio un discorso che c’è.
R.C. Ossia di superstizione e di predestinazione!
Pubblico No, è innegabile che la nostra esperienza genetica e il nostro bagaglio genetico sono impossibili da cancellare.
R.C. Prima superstizione. Veniamo alla seconda.
Pubblico Non è la superstizione, è un dato di fatto …
R.C. Un dato di fatto!?
Pubblico Io mi porto dietro dei caratteri o delle predisposizioni.
R.C. Sarebbe veramente da verificare, come minino. Com’è che lei è così sicura?
Pubblico La genetica, secondo me, è il bagaglio ereditario che uno si porta dietro, anche come ricordi ancestrali, che magari non sono stati comprovati scientificamente, però indubbiamente ci sono.
R.C. Ha mai sentito parlare di mimetismo?
Pubblico Sì.
R.C. Mimetismo. La genetica lo chiama ereditarietà. Allora, lei crede alla genetica o al mimetismo?
Pubblico Alla genetica.
R.C. Cioè al mimetismo!
Pubblico Lei lo sta dicendo adesso, mimetismo. Io non l’ho mai sentito associato alla genetica.
R.C. Ah, vede!
Pubblico Ammetto la mia ignoranza. Non avevo mai associato le due cose. Comunque, credo che il mimetismo in natura abbia tutt’altro significato. È un modo per difendersi.
R.C. Noi constatiamo talvolta che, quanto viene ascritto all’ereditarietà, si rivela un caso di mimetismo, cioè un caso di credenza così radicata da scriversi in termini reali, ma senza nessuna radice genetica. E questo accade. Ciò non vuole dire che allora tutto diventa mimetismo, però sicuramente non tutto è genetica. Non bisogna prendere la genetica e buttarla nella spazzatura, ma occorre introdurre la valutazione di ciascun caso e non fare di ogni erba un fascio.
Pubblico In questo sono d’accordo.
R.C. Però è la modalità più seguita fare di ogni erba un fascio, accomunare, generalizzare, banalizzare. E la parola non si presta a questo. Il modo della parola non è questo. Certo, è un modo difficilissimo, poco apprezzato da chi ritiene di non avere il tempo per giungere a qualificare le cose e che, quindi, deve sbrigarsi, fare presto, tagliar corto e seguire quello che si dice, la diceria: “Io ho sempre sentito dire. Ma io credevo che”. Occorre introdurre un altro modo della ricerca, della valutazione, del giudizio, un’altra clinica che non dà per scontato nulla. È questa la questione intellettuale che la cifrematica ha accolto rispetto alla parola. Non dico ha introdotto, ma ha accolto, perché testimonianze di ciò ci sono qua e là nell’arte, nella cultura, nella poesia, nella scienza, nelle falle della superstizione e del luogo comune, nelle falle dei convincimenti e delle regole generali. In queste falle, qua e là, ci sono altri riscontri. Quest’altro modo è il modo della cifrematica.
Bruna Milesi Ritorno alla frase biblica “Io sono colui che sono”. La lettura è quella di attribuire a quel “colui che sono” l’unico caso di predicato verbale del verbo essere. Però, c’è anche un’altra lettura, cioè Dio avrebbe detto a Mosè “Sono quello che sono”. In questo caso l’avrebbe buttata lì dicendo “Cosa te ne importa?”.
R.C. Esatto. Ci sono altri?
B.M. Volevo solo fare una precisazione su Socrate, Platone e Aristotele. Io ho interpretato il loro pensiero in maniera storica. Condivido perfettamente la sua opinione riguardo globalmente il loro pensiero sulla morale, ma ritengo che il loro pensiero non potesse essere diverso per l’epoca storica in cui sono cresciuti. Chi dava da mangiare a Platone e a Aristotele? Chi ha permesso di svolgere i loro studi? Sono cresciuti in una società delle polis greche, che viene tanto decantata come il modello di democrazia, ma che era basata sulla schiavitù, quindi non avrebbe potuto essere diverso. Da qui, la genealogia della morale e del bene comune, che non è comune; è il bene di chi ha l’interesse a fare continuare le cose in quella maniera. Questo lo si può capire, perché questo fantasmatico bene comune, chiamato morale, si è evoluto e diversificato a seconda delle epoche storiche intercorse fino a noi.
R.C. Ma certo. Infatti, è un esempio di discorso al servizio del potere. Allora, la questione è che ogni discorso è un discorso al servizio di un padrone e ogni discorso si istituisce come reazione alla parola originaria che, invece, non si presta a nessun servizio se non a quello intellettuale. Nella parola originaria si tratta del servizio intellettuale, il quale non è finalizzato a dimostrare una verità data né a dimostrare una morale data; non è finalizzato a niente. Il servizio intellettuale è “finalizzato” alla qualità, cioè si rivolge alla qualità, è senza finalismo. Questa è la questione per cui il servizio intellettuale risulta quasi inaccettabile per ciascun discorso di padronanza e di servitù, ma, sono d’accordo con lei, non è che facciamo il processo a Platone; è un esempio, per capire, tuttavia, come mai sorge questa reazione, vuoi ai sofisti o a altre voci che sorgevano qua e là e che sicuramente non erano finalizzate a un’economia della parola. Quindi, la questione è quella intellettuale, è la questione della qualità della parola, della qualità delle cose, della qualità della vita che non procede dal confort, ma è ben altra qualità.
B.M. È una conquista.
R.C. Esatto, chiaramente. Come anche la salute.
Giusto per darci appuntamento alla settimana prossima, concludiamo ancora con Prévert.
Il Défilé
E Dio
Dopo aver sorpreso Adamo ed Eva
disse loro
Continuate, prego
non preoccupatevi per me
Fate come se non ci fossi.