Quinto capitolo del volume La realtà della parola
La famiglia, il diritto, la sessualità
Ruggero Chinaglia Questa sera il titolo del dibattito è La famiglia, il diritto, la sessualità tenendo conto anche di quanto è emerso la settimana scorsa, in cui abbiamo letto il film Gli amici del bar Margherita. Abbiamo considerato alcune questioni che in questi giorni hanno dato seguito all’elaborazione per ciascuno, per dare un contributo all’équipe, come occorre che sia. Perché questa è una équipe! L’abbiamo denominata così: équipe analitica e cifrematica. Perché équipe? Perché non ci piaceva più la denominazione di conferenze, lezioni, dispositivo? Perché équipe? Perché ci piace il francese e allora abbiamo fatto ricorso a un termine francese? Per questo? Perché équipe? Équipe analitica e cifrematica. Adesso voi sperate che risponda a questa domanda togliendovi le castagne dal fuoco.
Abbiamo dato il titolo di équipe a questi incontri perché è essenziale il contributo di ciascuno per l’avanzamento, per il proseguimento, perché nessuno possa coltivare il proprio compromesso con se stesso. È una équipe “diretta da”, ma non “rappresentata da”, diretta! Dove ciascuno gioca una partita, la partita dell’équipe.
Qual è il contributo, questa sera, di chi si trova qui? Quali notazioni, quali ragionamenti ha prodotto e sono avvenuti sin qui? Quali ragionamenti in vista del mese prossimo? Quale programma per l’équipe?
Sì, prego, chi vuole dare il “la” all’équipe di questa sera, il cui titolo potrebbe essere a questo punto C’è vita nel pianeta?
C’è vita, qui, nel pianeta? Lei? È sicura? Allora dica.
Daniela Sturaro Esattamente, dovrei dire sul proseguimento o porre una domanda?
R.C. Dica lei.
D.S. Trovo che i film visti, le questioni affrontate siano stati molto interessanti. E quindi io sono dell’idea che quest’esperienza potrebbe proseguire. Dal mio punto di vista è molto interessante.
R.C. Potrebbe… Quindi, lei è possibilista. “Potrebbe anche proseguire”.
D.S. Cioè, non sono assolutista, questo no, perché qualora vi siano altri…
R.C. Ecco, non è decisa, determinata, dicendo che assolutamente non se ne può fare a meno. No, potrebbe anche proseguire. Potremmo anche far sì che prosegua.
D.S. Io sono favorevole al fatto che prosegua, perché attraverso i film vengono rilevate questioni che altrimenti potrebbero essere meno incisive.
R.C. Ecco, la questione che va elaborata qui questa sera, qual è per esempio?
D.S. Non certo sapere se c’è vita nel pianeta, ma la questione della famiglia.
R.C. E qual è?
D.S. È qualcosa che vorrei affrontare, anche se sono molto incerta su come farlo, perché mi sfuggono gli elementi sufficienti. Questa è una cosa che io dico senza essermi documentata, ma la dico perché una delle questioni importanti di Freud è la questione edipica. Nella sua ricerca c’era questa tensione a mostrare che l’evoluzione, nello sviluppo di ciascun individuo è un percorso inesorabile, inevitabile.
È possibile, invece, la distanza che c’è con la visione, non dico visione, ma con la ricerca della cifrematica, che invece riconosce nella famiglia qualcosa di differente dallo scenario del complesso edipico, variamente definito e denominato. C’è una interpretazione più costruttiva della famiglia, per quel che ho capito, per quel che in questi anni ho potuto ascoltare: non viene messa in primo piano la questione tra il padre e il figlio come necessità che uno dei due muoia. C’è uno spostamento verso una struttura: la famiglia potrebbe essere una struttura costruttiva, per quanto noi possiamo riconoscere nella realtà, che questi elementi si possano verificare; ma occorre andare oltre.
Probabilmente, con l’apertura che deriva dalla ricerca cifrematica, forse la famiglia potrebbe davvero diventare una costruzione che incontra la qualità. Non glielo so dire molto bene, perché non ho avuto tempo e modo di riflettere o ragionare su questo, ma questi sono soltanto spunti e impressioni.
Mi veniva in mente il personaggio di Al, con il suo disprezzo verso le donne, riferibile o riconducibile all’edipismo, perché c’è come l’incapacità di liberarsi della figura materna. Non lo so, potrebbe essere una fantasia, come mille altre che potrebbero aggiungersi. Voglio dire che, attraverso i film, le questioni prendono più il volto dell’esperienza, perché ci viene mostrata una storia, un racconto; il racconto orale e il racconto per immagini, che fornisce più forza forse, ma anche questo non so se sia vero. Vorrei dire che, almeno con altri tre film si potrebbe continuare. Continuo con questo “si potrebbe”.
R.C. Ecco, sì, che non la tiriamo tanto in lungo! Altri tre, però, potrebbero starci; ma, senza esagerare.
D.S. No. Io esagererei proprio. Mi piacciono e mi interessano.
R.C. Bene. Altri? Altre notazioni?
Maria Antonietta Viero Se il gruppo costituisce un’occasione di attraversare le fantasie che ci si porta dietro rispetto alla famiglia d’origine, mi chiedo dove stia la funzione di padre nel cosiddetto gruppo. Cioè, se il gruppo costituisce questa occasione di doppiare in qualche modo la famiglia d’origine, di portarsi dietro le fantasie e anche ciò che non si è analizzato, attraversato, come reperire la funzione di padre?
R.C. Sì, bene. Quindi, il gruppo. Poi?
Barbara Sanavia Il parricidio, cosa comporta? Perché è necessario?
R.C. Sì, ma adesso, più che al quiz, giochiamo all’équipe. Questo gioco cosa comporta? Che ciascuno, anziché formulare quiz, racconta qualcosa di ciò che ha inteso, di un dubbio che è sorto.
B.S. Questo.
R.C. No, questa è la richiesta di un chiarimento, per sapere. È una richiesta per sapere. Ora, il gioco all’équipe è il gioco a raccontare qualcosa, a partire dal dubbio, non a colmare la lacuna di una presunta ignoranza. Questo è il gioco all’équipe.
B.S. Dunque, nel film dell’altra volta il padre non c’è, e questa mancanza del padre io l’ho vista come una mancanza di valori, per cui il film non mi è piaciuto. Quello che avveniva nel film per tanti aspetti, questa assenza del padre la intendo così. Poi veniva negata pure la madre.
R.C. Ma, fino a un certo punto.
B.S. E poi Taddeo si salva.
R.C. Ecco, no. Da cosa ha arguito che Taddeo si salva?
B.S. Io ho pensato che non gli piaceva più quel gruppo. Non gli piaceva farne parte, perché non gli interessava più. Perché?
R.C. Eh già, perché? Come e quando a Taddeo non interessa più quel gruppo? Questa è una bella domanda.
B.S. Eh, non ho presente il momento in cui non gli interessa più, perché non è solo alla fine quando non voleva, è qualche passaggio prima, però non ce l’ho ben chiaro. Dovrei rivederlo.
R.C. Vuole prendere tempo… Diciamo che è proprio alla conclusione del film. Alla conclusione, Taddeo non è più nel gruppo. Questo non è automaticamente da tradurre nel fatto che Taddeo sia salvo o sia stato salvato, perché altrimenti questo comporterebbe il deus ex machina, cioè metterebbe Taddeo come un soggetto che è stato salvato da un agente del bene, mentre prima è stato dannato dall’agente del male. C’è alla base di questa questione proprio qualcosa di essenziale.
Bene, qualcun altro che vuole giocare all’équipe? Indicando di prendere seriamente la questione dell’équipe? Non come formalità, indicando di non essere soggetto della sufficienza?
La sufficienza, l’ideologia della sufficienza è nota no? Non è nota? L’ideologia della sufficienza per cui non è mai il momento, non è mai il caso, meglio stare nella copertura anziché nell’apertura. L’ideologia della sufficienza.
M.A.V. Dicendo ancora il termine famiglia, prima diceva la famiglia d’origine, dando quasi per scontato che ancora oggi si possa dire famiglia presupponendo di sapere quale sia questa famiglia e come renderla presente: mamma, papà, figlio. Lì abbiamo una famiglia dove c’è il narratore, il nonno e la mamma, però ora mi chiedo di quale famiglia si tratti. E se in quest’epoca in cui viviamo, in questo momento con una certa rivoluzione che sta avvenendo per quanto riguarda i ruoli…
R.C. Rivoluzione?
M.A.V. Perché no? Questa faccenda dei “gender”, c’è qualcosa che viene messo in discussione quanto a una rappresentazione dei ruoli, quindi, quanto a quale famiglia si tratti.
R.C. Più che di quale famiglia, di cosa si tratti quanto alla famiglia, forse.
M.A.V. Ecco, oppure al termine famiglia.
R.C. Bene. Chi? Moda.
Fabrizio Moda Oggi pomeriggio stavo leggendo una dispensa e c’era la questione dell’autorità rappresentata e quindi la questione del padre, con la distinzione tra genitori e bambini, tra mamma, papà e bambino, tra madre, padre e figlio. Quest’autorità è rappresentata come precisione linguistica, quindi non come un fare autoritario, severo e di prestanza, cioè di confronto/scontro, dove c’è, dovrebbe esserci, il papà severo che in qualche modo impone qualcosa, ma appunto padre come effetto della precisione linguistica. Io ho avuto l’impressione che fosse il punto centrale della famiglia, per quanto riguarda la figura del padre.
Per quel che mi riguarda è stata un’acquisizione ulteriore che mi era sfuggita nelle precedenti letture e che è essenziale. Per me è stato essenziale il modo d’intendere la famiglia presentato dalla cifrematica. E d’altronde notavo come sia molto frequente che i diversi modi d’intendere abbiano delle conseguenze gravi nelle persone che ho incontrato.
Mi sembra di notare un grande interesse rispetto a questo e, però, anche un arrendersi prima di affrontare la questione, che pure nel film è presentata, perché mi sembra che la questione rappresentata dal padre fosse stata delegata a una specie di gruppo che dovrebbe in qualche modo formare un clan di personaggi, un clan fisso, che desse sicurezze; una conferma anche nelle cose più triviali, oppure un rifiuto come quello del signor Walter e che in qualche modo confermavano il personaggio. Quindi, mi è sembrato l’opposto di quello che la cifrematica indica.
R.C. Sì, bene. Chi ancora?
Patrizia Ercolani Mi domandavo, se ha senso la domanda: “Cosa ha indotto Taddeo a cercare qualcosa del padre?” Perché ha voluto conoscere il gruppo all’inizio?
Mi domandavo se fosse un’esigenza, un’istanza di qualcosa intorno al padre, che poi magari trova una rappresentazione nel gruppo, in Al.
Lei, nel titolo, se non ricordo male, parlava dell’interdizione, c’era la questione dell’interdizione. Quando s’instaura l’interdizione linguistica, la questione del padre c’è. Provavo a capire questo, a partire dalla sequenza delle immagini del film. La storia parte con la sequenza del padre, di quale padre, però? Di un’istanza del padre, padre per dire, non so, autorità, oppure, ma mi pare azzardato, qualcosa che si leghi, o che rompa un certo tipo di relazione con la madre.
Non lo so, non mi pare che nel film ponesse questioni. Sì, va bene, Taddeo voleva piacere a quella ragazza e quindi instaurare una relazione, come si dice, magari differente da quella che conosceva all’interno della famiglia, quella con la madre. Non so, non mi pare che si ponesse la questione di un tipo di lavoro. A un certo punto conosce quelli lì e vuole farsi notare. Insomma è intorno a una sessualità altra. Non so se è connessa a qualcosa del padre e anche a una sessualità differente.
R.C. “Una sessualità”. Quindi, “una sessualità altra”. Perché c’è una sessualità invece corrente?
P.E. Erotica.
R.C. Ah ecco, questa mancava. La sessualità erotica mancava all’appello. Bene, ancora qualcuno. Lei?
Vanni Francescato Taddeo si rende conto che forse il gruppo non aveva risposto alla sua domanda. Quando è stato integrato nel gruppo, comunque continuavano a chiamarlo Coso. Lui era nel gruppo perché voleva farsi la foto che sanciva proprio l’entrata in questo gruppo, ma comunque rimaneva Coso.
Quel bar era di poche persone, magari a quei tempi, ora c’è la rete e molti si trovano, fanno parte di gruppi all’interno della rete, sono più numerosi e rafforzano anche personaggi, dove risulta più difficile rendersi conto e trovare risposte all’interno.
R.C. Bene, molto interessante. Ancora chi?
M.A.V. Ancora una questione. Il regolamento e le regole. Il regolamento è dato per dar modo che il gruppo esista, mentre le regole non sono imposte, ma sono da trovare, cioè sono in costruzione, non già date. Quindi, da un lato c’è il tempo, dall’altro lato c’è il gruppo e quindi il tempo è tolto.
R.C. Bene. È constatabile che la mitologia greca non ha consentito il sorgere del mito della famiglia, e ogni riferimento alla famiglia è riferimento all’anfibologia sociale, cioè alla famiglia come luogo campione della società, entro cui può svolgersi l’anfibologia dei vari personaggi. Anfibologia del padre, anfibologia della madre, anfibologia del figlio, anfibologia della famiglia come rappresentazione.
Famiglia è diventata rappresentazione di un luogo dove può accadere il bene e il male, il positivo e il negativo. Un luogo rispetto a cui poter stare fuori o andare dentro, dove vige l’alternativa tra fuori e dentro, tra alto e basso, in quanto questo luogo è inteso come luogo dell’origine, rappresentazione dell’origine che a sua volta risente di questa possibilità alternativa, di essere una buona origine o una cattiva origine.
Ma, la famiglia non è un luogo, né può essere la rappresentazione di un luogo se non come fantasma, fantasma di genealogia, fantasma di origine, fantasma di anfibologia.
La famiglia sorge precisamente con la domanda. Non c’è famiglia senza la domanda. O, quantomeno, c’è qualcosa che è allucinato, che è chiamato famiglia allucinando il luogo di origine, ma la famiglia, nella sua portata, si istituisce con la domanda, quindi non c’è famiglia fuori dalla parola. C’è una fiaba della famiglia, una rappresentazione sociologica, psicologica, antropologica della famiglia, ma sempre rappresentando questo termine come un sito archeologico. La famiglia non è un sito archeologico. E non è nemmeno rappresentabile, se non nei termini della mitologia greca, quindi dell’anfibologia di quei personaggi chiamati papà, mamma, figlio che starebbero a indicare proprio l’archeologia, il discorso dell’origine.
A partire da questa ideologia familiare, cioè della famiglia come luogo archeologico, ognuno si trova a giustificare il segno che la propria fantasmatica assegna a quell’origine. Più che di famiglia, in questo senso, nel solco della mitologia greca, del discorso greco, noi possiamo parlare di ideologia familiare, ma non di famiglia. Ideologia familiare dove, di volta in volta, possiamo avere la famiglia come luogo della realizzazione proletaria o luogo della realizzazione dell’ideologia borghese o piccolo borghese o luogo inteso come rifugio o come bene, la famiglia come bene-rifugio, fino all’impresa significata dall’ideologia familiare, la cosiddetta impresa “a regime familiare”. In un caso è la prole a dover significare la famiglia, nell’altro caso è la produzione di beni, in altri casi qualcosa d’altro, ma sempre lungo un discorso dove vige l’anfibologia, e dove quindi la famiglia è il luogo d’origine dell’anfibologia.
La famiglia, cioè, è intesa come ciò che darebbe la giustificazione alla fiaba della propria origine, quindi anfibologia del padre, anfibologia della madre, anfibologia del figlio; una famiglia fortunata, una famiglia sfortunata, una famiglia buona, una famiglia cattiva, buona famiglia. “È di buona famiglia”, “Com’è quella persona?” “È di buona famiglia”. “E quell’altro?” “È di una famiglia un po’ così”, quindi ognuno è significato dalla famiglia come luogo dell’origine, è significato dall’anfibologia e ognuno si rappresenta come segnato da questa origine, da questa anfibologia.
La famiglia come sito archeologico è un luogo di paura, perché in questa anfibologia ideologica l’Altro non c’è, non c’è più. È espulso per poter mantenere il discorso della significazione, e questo discorso si mantiene dalla presunta famiglia come sito archeologico, al gruppo, alla società, al clan, dove poter riprodurre l’ideologia da cui si crede di provenire. Questa ideologia è l’ideologia dell’ordinario, è l’ideologia della sufficienza, è l’ideologia del minimo sforzo necessario, del minimo male necessario, del minimo risultato possibile, è l’ideologia del possibile, è l’ideologia del sangue, dell’economia del sangue, è l’ideologia dell’appartenenza, è l’ideologia dove non c’è la parola. C’è l’ontologia, c’è l’origine e la genealogia, c’è la rappresentazione della discendenza, dell’ereditarietà. Non c’è la parola.
Con la cifrematica, la famiglia entra nella parola, non è più l’altro nome dell’origine. Esige quindi la parola e la lingua. In questo senso esige l’analisi. Non più una concezione antropologica, sociologica, filosofica, psicologica in cui poter ricostruire l’archeologia dell’uomo, ma l’analisi dei termini che indicano e caratterizzano la famiglia, quindi nella parola. Non si tratta più dei personaggi: il papà buono, il papà cattivo, la mamma buona, la mamma cattiva, il bambino buono, il bambino cattivo, il papà ricco, il papà povero, la mamma santa, la mamma puttana o la matrigna. Non si tratta più di questo. Si tratta degli elementi del racconto, che non sono più anfibologici, ma sono elementi di valore. La famiglia è la traccia degli elementi di valore del racconto della domanda. La famiglia sorge così, con la domanda, dove gli elementi non sono più anfibologici, quindi non rientrano più nella possibilità del positivo e del negativo, nell’alternativa fra bene o male, sopra o sotto, dentro o fuori, ma nella costruzione che gli elementi di valore comportano.
Questo esige innanzitutto l’analisi, che non è da confondere con una pratica o un rituale magico che possa comportare la catarsi, cioè la purificazione: c’era una volta l’elemento negativo che poi, per effetto magico, diventa positivo. No. Questa è la fiaba che ognuno ha di sé, questa è la fiaba che ognuno ha del sito archeologico, che a un certo punto, per catarsi, per effetto purgativo di qualcosa, da male diventa bene. Nessun male può diventare bene e nessun bene può diventare male, nessun alto può diventare basso. Alto-basso vanno insieme, non sono mai nell’alternativa.
La famiglia s’instaura quando l’anfibologia non c’è più, quando la dicotomia non c’è più. Non c’è più perché non c’è mai stata, non per effetto del purgante che a un certo punto toglie l’imbarazzo e fa diventare buono il male. No!
Analisi è teorema. Il teorema per cui la matrigna, la strega cattiva non c’è più! Il patrigno, il mago cattivo non c’è più! Ma non perché è stato emendato, non c’è più perché non c’è mai stato, se non come rappresentazione archeologica lungo un’ideologia che la sostiene: l’ideologia della dicotomia.
La famiglia originaria sorge quando la soggettività non c’è più, sorge in assenza di soggetto, e questo trae con sé che non c’è famiglia litigiosa. La famiglia sorge, s’instaura, quando il litigio non c’è più. Non c’è più la polemologia, non c’è più la polemica, non c’è più il duello fra i soggetti alternativi. Finché permane questa ideologia della dicotomia, non c’è famiglia, c’è una concezione dell’origine dicotomica.
Questo comporta che ognuno ha di sé la peggior idea possibile, o la migliore, che è sempre minore e sempre peggiore di quella che può istituirsi con la messa in atto della domanda. La soggettività assegna limiti, colpe, pecche, negatività, vergogna e quant’altro. Tutto all’insegna del negativo, perché l’ideologia della ragione sufficiente, la ragione del minimo male necessario, l’ideologia del sito archeologico diventa mentalità in cui vige la significazione, mentalità in cui l’Altro è tolto. È mentalità senza la realtà intellettuale. È mentalità del realismo negativo.
Ognuno è personaggio significato dalla negatività, dalle proprie idee, dalle proprie ragioni. E ognuno ha le proprie idee, le proprie ragioni. Per controbatterle, per contrastare le ragioni altrui, le idee altrui, quindi per fomentare la litigiosità, ognuno deve far prevalere le sue buone ragioni, le sue buone idee, le proprie idee di sé. E è tolto l’Altro. Sono tolti la ragione dell’Altro e il diritto dell’Altro, che non sono rappresentati da nessuna normativa, da nessun testo di legge. Stanno nella parola, dove interviene l’interdizione linguistica.
Quel che si dice non deve corrispondere a nulla di rappresentato. Si dice, quindi entra nella lingua. Non deve corrispondere, non deve essere conformato al canone, all’ideologia vigente. Allora c’è la chance che s’instauri la famiglia senza personaggi.
Ognuno con la sua buona idea di sé aderisce a una mentalità. È una mentalità impediente in cui l’impedimento è rappresentato da un agente, l’agente dell’impedimento. L’Altro come agente dell’impedimento.
Ognuno, grazie a questa mentalità impediente, può riferire la sua vita infernale, dove ognuno che incontra impedisce qualcosa: il marito impedisce la moglie, la moglie impedisce il marito, il padre impedisce i figli, il figlio impedisce la madre, la madre impedisce… e è tutta una catena di impedimenti dove l’infernale si rappresenta. Questo inferno è senza rimedio. Chi crede a questo inferno è senza rimedio, perché non c’è esorcismo che possa trasformare l’inferno in paradiso. L’inferno, l’infernale ognuno se lo attribuisce, se lo assegna e se lo tiene. Ognuno che crede all’infernale se lo tiene tutta la vita. Se crede che possa esistere una trasformazione dell’inferno nel paradiso può solo sperare di morire, perché solo dopo morto può avvenire questa trasformazione. Non è mai dato in vita, che l’inferno si trasformi in paradiso.
L’analisi non è un processo di conversione del negativo in positivo. È chiaro? Non è un processo di conversione, l’analisi. È un processo di teorematizzazione degli elementi intellettuali del proprio racconto, quindi della domanda. L’analisi non è un’impresa di pulizie. Esige il processo di costruzione, il disegno, l’individuazione di un progetto da cui sorge la domanda e l’articolazione con il programma della domanda nella direzione del suo compimento.
La dissipazione dell’infernale sta già nella domanda. Se c’è chi si coltiva l’inferno, vuol dire che lì non c’è domanda, la domanda non è ancora sorta, perché è sotto la cappa della credenza della propria origine. E occorre sia dissipata perché l’analisi possa avvenire.
L’analisi procede dissipando l’origine presunta. Occorre capire la differenza tra l’analisi e la psicoterapia: la psicoterapia è la coltivazione di ogni fantasia possibile sulla propria origine, l’origine del mondo e sulle possibilità che il mondo possa diventare buono eccetera, niente di intellettuale. La psicoterapia è l’iterazione della fiaba. La psicoterapia è senza famiglia. È la rivisitazione del sito archeologico da cui ognuno pensa di provenire, e il film che abbiamo visto la settimana scorsa ce lo mostra chiaramente.
Taddeo non sta lì a smenarla tanto: a un certo punto nella fotografia non c’è. Non entra nella foto. Perché non entra nella foto? Perché i personaggi che ha descritto nel suo prologo non ci sono più. Ma, non c’erano neanche prima! A un certo punto interviene per Taddeo il padre come indice del nome, e Coso non c’è più. C’è Taddeo. E Taddeo non è figlio di puttana. Non ha più dubbi. S’instaura il mito della madre, s’instaurano le donne, s’instaura la sessualità. E il padre non è più morto. Questo dice la distanza fra Taddeo e il gruppo, perché si è instaurata la famiglia e quindi non c’è più la necessità di raddoppiarla nel gruppo che ne faccia la caricatura. Non c’è più la ragione sufficiente. Interviene quel punto la decisione.
Taddeo non è salvato. Taddeo a un certo punto comincia a vivere. E non c’è più la mitologia della salvezza, perché non c’è più l’idea di fine. Non c’è più l’alternativa tra vivere o morire. Non c’è più l’alternativa se fare o non fare. S’instaura, eventualmente, la necessità di un dispositivo in cui si tratta di capire come fare, ma non di mettere in dubbio se fare o non fare. Si tratta di fare. Come?
Questo si tratta man mano di chiarirlo, ma senza l’alternativa nefasta e mortifera. A un certo punto per Taddeo non ci sono più le “penne”, ma s’instaura la donna, s’instaura il mito della madre e il padre non è dato per morto. L’infernale si è dissipato. Non per magia, ma perché la domanda non ammette indugi sulla possibilità dell’infernale. Non ammette adesioni all’ideologia della ragione sufficiente, alla mentalità del possibilismo. Tutto ciò è materia del sostanzialismo e del mentalismo, non è materia intellettuale. È materia antropologica e l’Edipo s’instaura in questo contesto, nella realtà intellettuale, non nell’infernale.
Nell’infernale abbiamo la Sfinge che pone gli indovinelli. La Sfinge sarebbe la conferma dell’incesto, la conferma della messa a morte del padre, la conferma della malattia che colpisce la città. Ma, l’instaurazione della famiglia avviene con l’instaurazione della questione intellettuale, dove l’infernale non c’è più, non è accettato.
Questa è la questione dell’inaccettazione della morte bianca. Non “io accetto”, o “io non accetto che tu…”, “che su, che giù”. No. È senza soggetto. È inaccettazione senza soggetto. Non c’è il soggetto che accetta o no. La non accettazione comporta già la dissipazione del soggetto e quindi la domanda, non viceversa. La domanda è senza l’infernale. La domanda è senza l’incesto. La domanda è senza il fantasma di morte. La domanda è senza la malattia mentale e le sue rappresentazioni.
Occorre distinguere la famiglia dai vari dispositivi con cui attuare il programma di vita.
Il programma di vita non è in nome di qualcosa o di qualcuno, perché allora diventa una religione, diventa un’ideologia, diventa sostanziale o mentale. E allora occorre giustificare passo passo, perché sì, perché no, perché su, perché giù. La domanda non esige la giustificazione! Esige invece la scommessa rispetto a cui non c’è recessione. La scommessa è che la domanda si compia. Senza recessione. Senza recedere. Senza indugio. Senza quindi la soggettività. Questa è l’esperienza della parola.
Si tratta di indagare sulla mentalità e sull’adesione che ognuno fa alla mentalità impediente, adesione attraverso il luogo comune, il pettegolezzo, il pregiudizio, l’idea di sé, l’idea dell’Altro, l’ideologia della ragione sufficiente, l’ideologia dello standard, l’ideologia del luogo comune, del conformismo, del probabile. Questa cosa è fattibile? Sarà fattibile? È probabile. Ah, bene. E chi può dare il permesso? Bisogna trovare l’agente del permesso allora. Un dio disponibile a dare il suo assenso.
Le formule ricorrenti in cui si tratterebbe di “metter su famiglia”, “fare una famiglia”, in che direzione vanno? Adesso poi la famiglia è diventata “multicolor”. Ma questa multicolorazione della famiglia, della famiglia iridescente, la famiglia arcobaleno trae effettivamente verso la dissipazione del fantasma di origine e del fantasma d’incesto o invece è un modo per introdurre sempre di più la conferma, la giustificazione alla negazione della sessualità per via del fantasma d’origine e del fantasma di incesto? Questo occorre indagare.
La questione essenziale è semplice: ciascuna cosa procede dall’apertura e quindi è elemento intellettuale. In questo senso è elemento di valore, che può trovare la valorizzazione senza più l’anfibologia che dovrebbe assegnare all’elemento, invece, una significazione negativa, sperando poi che si possa convertire nel suo contrario.
La realtà è intellettuale, ma il realismo no. La realtà della parola è intellettuale, il realismo anfibologico non lo è, perché è senza parola. Non è in alternativa. È proprio fuori dalla parola. Presentare o rappresentare la propria famiglia è paradossale: impossibile conoscere la famiglia, impossibile presentarla, se non volgendola in una fiaba che indica quali sono le anfibologie a cui si presta credenza. Senza più questa credenza, senza più quest’aderenza all’ideologia, allora la famiglia è la traccia dell’interdizione linguistica. Però occorre la scommessa e occorre l’analisi.
Ci sono domande? Nessuna domanda? Tutto chiaro? Tutto chiarissimo?
Maria Casella Io le volevo chiedere: qualunque cosa succeda la colpa è sempre della famiglia, perché il ragazzo va male a scuola o un matrimonio sbagliato o “la colpa è di mio padre che non mi ha dato un modello di valore”. Come mai questo? Spesso avviene, addirittura si protrae a lungo, cinquantenni, sessantenni, settantenni. Si muore ancora con l’astio verso i genitori. Questo dato non viene elaborato, come mai?
R.C. Perché c’è l’adesione a questa mentalità conformista. C’è l’adesione a questa ideologia dell’agente per cui il padre è l’agente, la madre è l’agente, anziché il padre essere indice del nome che funziona, la madre essere indice del malinteso. Ognuno si rappresenta il padre come Cronos, Zeus che vuole mangiarsi i figli, che ce l’ha a morte con questo, con quello. Se è negata la madre, nell’anfibologia è la strega, la matrigna, la santa. C’è chi ha come madre la santa donna e chi invece proprio la strega…
M.C. La vita diventa infernale.
R.C. Certo.
M.C. Se non si rielabora questo dato. Poi effettivamente si trova la pace se si accetta ciò che il padre ha saputo dare, la vita ce l’ho io in mano, sono protagonista; ma forse, io insegno, questi ragazzi in difficoltà, non si lavora sul ragazzo, ma prevalentemente sui genitori. Il ragazzo va in analisi, il ragazzo va dallo psichiatra, dallo psicologo e ci fermiamo con i genitori. Sembra quasi che il ragazzo venga subordinato. È lui che sta male. Non capisco…
R.C. Il problema è questo. Bravissima. Dunque un ragazzo sta male. Perché sta male? Perché avverte in qualche modo, in qualche misura che questa ideologia familiare, questa ideologia della ragione sufficiente, questa mentalità dell’anfibologia applicata alle cose non gli sta più bene. Avverte questo e quindi, chiaramente, a seconda dei mezzi che ha, cerca di rivolgere questo disagio in qualche direzione per indicare che c’è un disagio, ma non sa come affrontarlo.
Il problema si raddoppia se questo suo disagio, che è rivolto a questa mentalità da cui è avviluppato, sfocia invece in una diagnosi di malattia. Quello è finito. Per tutta la vita è segnato. E non ci sarà verso, perché avrà il marchio “scientifico” della sua malattia. E chiaramente non può essere convinto che non è vero il disagio che avverte. Avverte il disagio proprio nei confronti dell’apparato e l’apparato vuole convincerlo invece che va bene così. Non è questo il modo della cura, ma è così che avviene con la diagnosi di qualche malattia, e con l’assenza di ascolto.
E non cambia molto a livello degli adulti, perché un disagio può essere avvertito anche in un’altra età. Uno lo avverte da ragazzo, un altro lo avverte in un’altra età per tanti motivi, ma l’apparato non accetta di essere messo in discussione: chi avverte un disagio è perché è ammalato. Questa è la traduzione che è data.
E non c’è ascolto, perché l’ascolto s’instaura dove non c’è più la dicotomia tra il bene e il male, tra il sopra e il sotto, fra l’alto e il basso, quindi dove l’elemento del racconto non è preso per significazione, ma è preso per valorizzazione, quindi è lasciato andare verso la valorizzazione. Non immediatamente contenuto per dire “No, hai sbagliato”, “No, no, no, questo è sbagliatissimo”.
M.C. Se è un processo.
R.C. Per questo dico che non c’è nessuna prossimità tra l’analisi e la psicoterapia: la psicoterapia è uno strumento dell’apparato in cui si tratta del bene contrapposto al male, del sopra contrapposto al sotto, del fuori contrapposto al dentro, per cui il sistema deve essere mantenuto, senza la parola, solamente con la significazione del sistema. Questa è la demarcazione. Questa è la questione intellettuale, che certamente investe in modo assoluto chi lavora nell’apparato. Certo, può esserci chi lavora nell’apparato per conformarsi all’apparato, oppure lavora nell’apparato perché solo l’apparato offre posti di lavoro, ma non per questo è costretto o è necessario debba condividere l’ideologia dell’apparato. Questo non è necessario. Questa è la scommessa intellettuale.
M.C. Questo è l’isolamento. Non sei con me. Sei isolato, non fai parte del gruppo.
R.C. Ecco. Ma già questo ricatto, intellettualmente, non ha presa. Ha presa se c’è la paura dell’inferno e la speranza nel paradiso. Se invece la vita procede nel gerundio, la soddisfazione sta lì, non nella promessa del gruppo o dell’apparato, perché sta nella soddisfazione della domanda.
Certamente le faglie di questa ideologia hanno minori chance di trenta, venti, dieci anni fa perché l’omogeneizzazione comunicativa dell’apparato è molto più ingente. L’omologazione della comunicazione da parte dell’apparato è molto più forte di come era anni fa. Dieci, venti, trenta anni fa c’erano i cosiddetti mass-media, però c’erano qua e là luoghi di incontro, di extraterritorialità all’interno delle istituzioni stesse, dove avvenivano cose. Adesso l’omologazione, attraverso internet, attraverso i messaggi è molto più diffusa e avvolgente. Uno può credere che, siccome ha più libertà di ribadire la sua fantasmatica dieci, venti volte al giorno, è più in fase di elaborazione, ma non è così! Perché, in realtà, l’idea di essere messi fuori dal gruppo è fortissima, anche attraverso i vari social. I social sono social di omogeneizzazione. Non sono social di dissidenza, contrariamente a quello che può sembrare.
Per cui la questione è importante e è importante la non accettazione dell’apparato, che non vuol dire scendere in piazza con le bombe, vuol dire che ciascun elemento che si ode nel racconto deve essere inteso nella sua portata intellettuale e non di significazione.
Certo, esige una ginnastica. Non è che, improvvisamente, ognuno fa da sé: esige una ginnastica, esige un dispositivo, esige una équipe dove sia possibile che questo sia affrontato, discusso, analizzato e volto in attualità, cioè in attuazione.
Daniela Sturaro Questa settimana ho avuto la fortuna di recarmi in una comunità per ragazzi con “problemi psichiatrici”, così definita.
R.C. No, no, ragazzi con problemi. Che poi è gestita da psichiatri, ma non ci sono problemi psichiatrici. Sono altri problemi.
D.S. Se ne occupano gli psichiatri e la psichiatria offre questa struttura. Mi sono trovata di fronte a qualcosa che richiede umiltà molto spesso, perché chi si occupa di questi ragazzi? Questi ragazzi trovano una casa, un posto dove stare perché sono rifiutati dalla famiglia. La famiglia non li vuole. Chi li vuole? Non li vuole nessuno. E l’unico spazio dove possono fare una vita, non diamo significato alla vita che fanno, però c’è un po’ di socialità fra di loro, ci sono operatori, hanno uno spazio, un luogo naturalisticamente gradevole. E io a un certo punto, parlando con questa psichiatra, ho trovato qualcosa di umiltà, che non avevo prefigurato potesse mai esistere.
R.C. Perché no?
D.S. Cioè, occuparsi di questi ragazzi ogni giorno, avere a che fare con loro…
R.C. È un’impresa. Certo. Chiaro, soprattutto se non ci si riduce alla sola somministrazione farmacologica. Se c’è lo sforzo di cogliere la domanda, di cogliere la questione in cui ciascuno si trova, questa non può essere certamente essere sottovalutata. Chiaro. Bene.
Altre cose? No? Allora terminiamo qui. Mi pare che abbiamo dato risposta alle varie domande, ma la questione nodale è quella che poneva Vanni Francescato: la domanda, la questione della domanda. Importantissima. Chiaro che, lungo questo, si pone anche la questione del parricidio. Ne parleremo in maniera precisa man mano.
Intanto, per cercare di capire qualcosa di questo, si può leggere Totem e tabù di Freud, che certamente non è proprio facile, però è un saggio importante per cominciare a capire la questione del padre non come personaggio della sociologia o dell’antropologia, ma come indice nella parola. Questo è essenziale: cogliere questa differenza.
Poi ci sono le dispense su Aladino, La lampada di Aladino, con materiale che, ancora a distanza di qualche anno è proprio validissimo, quindi forse occorre ristamparne qualche copia, per leggerla. Lei l’ha letta? Aladino, La lampada di Aladino. I giovani, la sessualità, la comunicazione. Lungo la lettura della fiaba contenuta nelle Mille e una notte, che è Aladino e la lampada delle meraviglie. Lei ha letto le dispense? Qui non le ha lette nessuno. Disponiamo di cose meravigliose, che a confronto la lampada impallidisce, e nessuno le ha lette. E allora lo facciamo. Lei l’ha letto? Vezza? Neanche lei. Moda sì, forse. Vanni no. Lei no e Sturaro neanche. Allora facciamo sette copie così leggiamo. Quella è una lettura essenziale,quanto alla questione della famiglia.