Sesto capitolo del libro L’educazione
I dispositivi sessuali nella famiglia e nella scuola
Ruggero Chinaglia Intanto vi informo che la mostra I tesori della Russia, che è in corso alla Villa San Carlo Borromeo di Senago, è stata prorogata oltre il 28 febbraio 1997, data che compare sul pieghevole, e resterà aperta fino al 10 aprile. È una mostra molto bella. Sono oltre 500 dipinti di maestri russi del 1800 e del 1900, opere mai uscite prima dalla Russia e che per la prima volta si possono ammirare.
Può essere l’occasione per una gita culturale di una classe o di una scolaresca intera, perché oltre alla mostra si può visitare la villa e il parco. È la villa seicentesca dove il cardinale Borromeo, durante la peste di Milano, andò a trascorrere un periodo per sfuggire alla peste. È un’occasione artistica, culturale, storica. Il parco è pure molto bello, con piante antiche e rare. È un’occasione che non capita tutti i giorni. Già numerose scolaresche sono andate in visita da varie città, da Ferrara, da Bologna, da Milano, da Monza e dai paesi vicini, e quindi può essere tenuta in considerazione.
Questo è l’appuntamento conclusivo del corso, quindi ritengo ci siano molte domande, notazioni intorno a quanto si è andato svolgendo fin qui, e vorrei sentire quali sono le questioni che ciascuno ha rilevato, elementi che sono stati colti, riflessioni o chiarimenti che possono porsi per alcune cose che sono risultate poco chiare.
Vedo che i vostri appunti vi occupano molto in questo momento. Sguardi bassi! È il momento di guardare gli appunti, di vedere se vengono in soccorso. Abbiamo parlato molto di dispositivo, per instaurarlo, e anche questo è un dispositivo che consente di affrontare alcune questioni.
Tutto chiarissimo? Nessuna incertezza? Tutti d’accordo su tutto? Lei ha altre annotazioni dopo quelle della scorsa settimana?
Federica Bietolini Non so se sono d’accordo e forse non ho neanche domande. Però, se lei mi dice a che cosa ho pensato in settimana, posso dirle che ho pensato molto all’ultima parte del dibattito, quando si parlava della scuola, di qual è la posizione della scuola nei confronti della società, se è marginale o meno. Mi aveva molto stimolato una cosa che aveva detto lei.
E allora, cosa si fa per uscire dalla marginalità? Perché, in un impulso molto ottimista, mi sono detta: “Io non mi sento marginale nel modo più assoluto”, ma non so se era più una posizione di orgoglio o vera.
Ripensandoci, effettivamente il settore della scuola è critico, non è marginale, ma passa un momento di crisi profonda. Volere drammatizzare la questione o sentirsi marginali è altrettanto sbagliato, ma qualcosa bisogna fare.
Allora lei diceva: bisogna darsi da fare, non da soli, nel senso che, anche se mi sento a posto, devo vedermi e sentirmi con gli altri, non da soli, ma da sé, e questo mi pareva importante, nel senso che non dobbiamo aspettare che siano le istituzioni a fare qualcosa al nostro posto.
Vorrei chiedere agli altri presenti qui, che cosa si può fare per uscire dalla marginalità, senza aspettare i miracoli dalle istituzioni, dalla società, perché nella scuola ci siamo noi.
R.C. Riflettendo su questo, quale idea le era venuta?
F.B. Riflettendo su questo, la via più semplice è quella della scuola in cui uno lavora, ovviamente. Adesso, per esempio, abbiamo la grossa novità dell’autonomia, di una riforma che non si sa se ci sarà oppure no, né come sarà. Certo è, che nelle scuole bisogna cominciare a parlarne, ma parlarne in modo serio e non farsela arrivare addosso senza muovere un dito, senza esprimere la nostra opinione.
Guardavo la commissione delle persone che stanno preparando la riforma: non c’è un solo insegnante! C’è addirittura un attore. Ci sono insegnanti universitari, ma che non sanno assolutamente niente della scuola media, elementare e superiore. Allora, effettivamente, c’è una marginalità rispetto al potere, però dovremo cercare noi di riconquistarci gli spazi, non so come.
Io, a scuola, parlo con i colleghi, ma non penso di avere un potere effettivo, di arrivare a dire “sono incisiva”, o “quello che penso avrà un risultato”. Ecco, questo mi riesce solo nel piano individuale, facendo bene il mio lavoro. Poi, per il resto, mi muovo alla cieca, a istinto. L’occasione che c’è qui di parlarne è già qualcosa.
R.C. Quali dispositivi inventare?
F.B. Diciamo che mentre siamo abituati a inventare dispositivi all’interno delle nostre classi, perché è un po’ il nostro lavoro, non siamo assolutamente abituati a inventare dispositivi che ci facciano da tramite nei confronti dell’istituzione. Abbiamo solo i sindacati, quindi dispositivi creati da altri.
E perché non ho domande? Perché non ho neanche le risposte. Secondo me, uno ha delle domande quando ha già un po’ la risposta, almeno per me è così; so fare una domanda quando già vedo un po’ la soluzione.
R.C. Tra l’altro, è da esplorare se il sindacato costituisca un dispositivo.
F.B. Infatti, io direi che molti di noi non lo considerano più un dispositivo. Basta andare alle assemblee sindacali per vedere che clima c’è, quanta poca gente c’è. Direi che il dispositivo di contatto con l’esterno è da creare.
R.C. La questione è posta. Ci sono in merito pensieri, idee, opinioni?
Giuliana Truffa Su questo punto, anch’io ho fatto delle riflessioni in settimana, anche se in altri termini, cioè, non mi sono chiesta cosa fare in senso pratico, pragmatico. La mia riflessione era un po’ più teorica, però mi sembrava importante ricordare alcune cose, perché il perderle di vista rischia di introdurre la banalità nel quotidiano della scuola.
Le riflessioni partivano dalla considerazione di un intervento che era stato fatto in merito alla marginalità della scuola e alla distanza tra scuola e società. L’intervento diceva che i valori che io promuovo nella scuola, o che cerco di promuovere e di trasmettere, sono valori che non sono riconosciuti nella società, quando addirittura non sono in contraddizione. Lei, poi, lungo il discorso, diceva “Ma la scuola è nel dispositivo sociale, nella società”. E allora, partendo da lì, mi dicevo che ciò è vero, chiaramente, però è anche vero che la scuola è un dispositivo in sé stessa, e in quanto dispositivo ha una sua autonomia rispetto alla società, un’autonomia data dalle finalità formative e educative che le sono proprie, che la caratterizzano come istituzione, come realtà.
Questo fa sì che la scuola operi, non so se è azzardato dirlo, con il transfert, nel senso che la scuola è nella società, è nel dispositivo della società; però, nello stesso tempo, si proietta oltre la società, nel senso che guarda il reale, quello che c’è, ma non deve fermarsi lì, deve andare oltre. Quindi, deve lavorare per quello che potrà essere o per quello che potrebbe esserci in futuro. Non necessariamente la scuola deve creare la certezza o infondere la certezza di un futuro migliore ma, sicuramente, di un futuro possibile questo sì.
E allora, lungo queste riflessioni che forse sono un po’ teoriche, forse un po’ irrealistiche, non lo so, vedevo una ragione della distanza inevitabile tra la scuola e la società, legata al concetto stesso di scuola. La vedo inevitabile da un certo punto di vista e, dall’altra parte, si tratta di andare a individuare i modi giusti per creare il collegamento con la società.
Tutto ciò mi portava a fare alcune considerazioni in merito ai contenuti che entrano nella scuola. Come dire, che se la scuola opera con il transfert e si proietta oltre, più verso il verosimile che verso il reale, è pur anche vero che è in questa società, e non di meno ha bisogno di contenuti che sono fondamentali, sono importantissimi secondo me, talmente importanti che non possono essere definiti una volta per tutte in maniera assoluta, ma vanno di volta in volta ridefiniti. Sono storici, e devono tenere conto del contesto storico.
Quindi, mentre la prima parte della riflessione era più in termini problematici, i contenuti mi sembrano una cosa importante da definire. E questo mi ha portato a considerare come, nella scuola, ci sono i contenuti dati dai programmi, ma che poi sono elaborati, interpretati e attuati in modi diversi dall’insegnante attraverso la programmazione. E poi entrano nella scuola anche i problemi della società. Allora, mi chiedevo se sono contenuti della scuola i problemi della società. Spetta alla scuola risolvere i problemi della società?
E qui mi sono data la risposta: proprio no, non spetta alla scuola risolvere i problemi della società, perché allora la scuola si appiattisce, si banalizza. Perde la premessa, che avevo fatto prima, di proiezione.
Sono domande o pensieri che facevo, per le quali non è che abbia una risposta. Facevo queste riflessioni perché pensavo ai problemi che entrano nella scuola e che portano, a volte, a una settorializzazione dei contenuti. C’è l’educazione stradale, per esempio, che vuole dire imparare a andare sul tram, in macchina, a attraversare la strada, ma è scuola questa, mi chiedo? E poi c’è l’educazione sessuale, alimentare e così via.
Credo si tratti di trovare un equilibrio rispetto ai contenuti che sono legati alla storicità del momento, in modo che possano entrare nella scuola, ma senza farli entrare come problemi sociali, in quanto non spetta alla scuola risolverli. Se la scuola se ne fa carico si espone a essere criticata e a fare il capro espiatorio di tutti i mali della società. Ma non per togliersi dal problema, ma perché il compito della scuola è fare cultura, formare. Se si opera per il futuro, si investe sul ragazzo.
Pure i contenuti sono importanti, ma quello che la scuola deve dare ai ragazzi sono gli strumenti per ragionare, è insegnare a pensare, a essere critici. La scuola deve dare le strategie mentali, mentali nell’accezione positiva, in modo che gli studenti li utilizzino un domani quando saranno altrove. Se, invece, io mi lego e mi confino all’interno del problema sociale del momento, che cosa do? Io, come scuola, cosa formo? Chi formo?
E poi c’è l’aspetto di come organizzarsi, il problema che la scuola non si sindacalizzi o non pensi di trovare nel sindacato supporto e aiuto. Perché a volte, a proposito dei problemi della scuola, mi sembra di sentire parlare in termini esclusivamente sindacali, anche se il sindacato, ormai, non esiste più. Cosa fa il sindacato? Mi sembra che i tempi siano ben diversi rispetto al passato.
F.B. Ma che va sostituito da qualche altra cosa, perché altrimenti la scuola rimane scollata rispetto a chi prende le decisioni per lei. Direi che a livello organizzativo c’è qualcuno che organizza per noi, che decide i contenuti, i tempi e i modi per noi, per cui crea un dispositivo per noi.
Se io che lo devo mettere in atto, non ho collegamento con chi mi indirizza, non so poi cosa metto in atto. Metto in atto la scuola di chi? Perché, secondo me, anche questo bisogna chiedersi, di chi è la scuola? È la scuola dei ragazzi o dello stato? È la scuola dove ognuno la pensa a modo proprio? Io non credo, e ritengo che il confronto tra insegnanti sia impellente, perché occorre pensare a quale scuola si fa e scuola di che.
Vincenzina Carbone Più che una riflessione, io volevo proporre una testimonianza a proposito di società, scuola e insegnamento, perché sono tre anni che ci rifletto sopra.
A proposito dell’essere insegnanti nella società e delle richieste che vengono fatte dalla società alla scuola, mi è capitato di partecipare a un convegno di una grossa ditta nel 1993, al quale era stato dato il titolo: I giovani e la cultura industriale, un po’ raccapricciante secondo me, ma è una mia opinione.
Avendo insegnato quasi esclusivamente materie così dette professionalizzanti in istituti tecnici commerciali, mi trovo spesso a dovere fronteggiare richieste di indirizzare lo studio verso i casi così detti pratici, e questo da parte sia di genitori, alunni e colleghi, sia di esterni e esponenti della società.
Purtroppo, io sono legata ai famosi contenuti, avendo materie molto tecniche, e non ho molto di scegliere, però, a proposito del titolo I giovani e la cultura industriale, che fu criticato anche all’epoca, mi chiedo, perché cultura industriale? Per quale motivo bisogna imporre aggettivi alla parola cultura? Cioè, se la scuola si deve identificare come messaggera di cultura, come tramite verso la cultura, perché mettere a fianco l’aggettivo industriale? Per quale motivo? È giusto?
Perché c’è, ripeto, da parte di molti, la pretesa di indirizzare i contenuti verso una certa direzione, cioè verso il famoso collegamento con il mondo esterno. Io dovrei essere l’ultima a sostenere una teoria del genere e invece la sostengo: non si può pretendere questo indirizzamento, ne verrebbe a soffrire l’impianto della scuola stessa. La scuola, come diceva giustamente la collega, deve proiettarsi ben oltre questo collegamento. Non è giusto che si limiti a essere solo un’anticamera per l’inserimento dei ragazzi nel famosissimo mondo del lavoro. Perché questo sarebbe necessario? Perché si dovrebbe pretendere una cosa del genere? Ma non si dovrebbe fare la cosa opposta? La società che si protende verso la cultura, finalmente! Forse, così ci sarebbe modo di identificare meglio i valori dei due dispositivi, se così si può dire, società e scuola. È una mia riflessione, che mette in crisi i miei stessi valori certe volte, in quanto insegnando ragioneria mi trovo di fronte a…
R.C. Quindi, lei dice che la scuola, quand’anche si tratti dell’istituto per la formazione in ragioneria, non deve formare ragionieri ma deve formare individui. Poi, se questi individui vorranno fare i ragionieri è affare loro.
V.C. In un certo senso sì, è affare loro. Cioè, non vorrei che mi si fraintendesse. Non nel senso di “Arrangiatevi!”. No, però, non si può pretendere di affiancare…
R.C. Era per intendere con precisione la portata del suo intervento.
V.C. Dicevo, di affiancare il famoso aggettivo industriale vicino al termine cultura, perché poi è questa la spina nel fianco, cioè che la scuola deve essere messa al servizio del mondo del lavoro, di un certo mondo del lavoro. In fin dei conti è questo il messaggio che trapela dietro certi convegni. È drammatica come faccenda.
R.C. Certo. Scuola al servizio del mondo del lavoro. Diventerebbe questa la funzione.
V.C. Facciamo il contrario caso mai.
Pubblico E come facciamo?
R.C. Anche il contrario non sarebbe granché.
V.C. No, non è giusta nessuna delle due.
R.C. Nel senso che, se lei trova ragioni per criticare questa impostazione, l’impostazione contraria mantiene la stessa logica. Se lei rivolge una critica alla logica che muove questa impostazione, ovviamente, anche il suo contrario si presta alla stessa critica o, quanto meno, alla stessa analisi.
Gianfranco Dalle Fratte Lei diceva, l’altra volta, che le cose si dicono secondo una logica.
R.C. Secondo la logica.
G.D.F. La logica. Avevo sbagliato a trascrivere. Appunto, mi ha colpito questa frase, perché poi ho trovato questa cosa che ha detto lei, nel libro di Frua De Angeli “Le cose si dicono secondo la logica”. Cosa vuole dire? Qui dice: “Come incominciare a parlare. Idioma, logica particolare. Nessun idioma comune. Ciascuno trova, dicendo, facendo, scrivendo, il proprio idioma. C’è il parlare che è l’idioma, la logica particolare a ciascuno, e c’è il parlando che è l’itinerario”. Se lei può chiarire questa cosa.
R.C. Va bene. Perfetto.
Luigina Corsatto Mia mamma era insegnante cinquant’anni fa, e viveva tranquilla e serena perché la funzione della scuola era chiara, era quella di dare una cultura, di insegnare a leggere, a scrivere e a far di conto, era di avere una base culturale e poi gli individui si disponevano a fare quello che dovevano fare. C’era chi continuava a studiare e chi si fermava.
Il ruolo alla scuola era riconosciuto e chiaro e, secondo me, c’era corrispondenza tra la funzione della scuola e quella dell’insegnante. Gli insegnanti erano gli attori della scuola che aveva questa funzione. Non entro nel merito se era giusto o sbagliato, fatto sta, però, che nel momento in cui la scuola non è più stata l’unica agenzia educativa, l’unica fornitrice di cultura, questo tipo di sistema è entrato in crisi.
Prima la scuola ha sentito la necessità di aggiornare i suoi contenuti, per cui, accanto alle materie tradizionali, più o meno improntate all’avvio al lavoro o agli studi classici, ha affiancato ai contenuti tradizionali nuovi tipi di educazione, come quella stradale, sessuale o alla salute, più vicini alle problematiche della società, cercando di dare risposte sociali.
D’altra parte, gli insegnanti sono entrati in crisi perché privati del loro potere di trasmettitori di cultura, perché era quello il loro potere fondamentale. E il fulcro del discorso è che la scuola deve essere attenta alle problematiche della società, cioè non può dire “Io non sono al servizio della società”, ma deve essere attenta, perché è inserita in questo dispositivo e, come tale, deve recepirlo. Non c’è scampo, altrimenti è una scuola fuori dal tempo. Recepirlo non vuole dire divenirne schiavi, ma diventare attori, protagonisti di itinerari, di cambiamenti, di modificazioni, di critiche, di scelte. Sulla funzione dell’insegnante, mi pare che si debba un po’ recuperare la funzione di padre, che è andata perdendosi per la strada.
R.C. Cioè, come?
L.C. Nel senso che l’insegnante deve assumersi la responsabilità di quello che fa a scuola e, come tale, essere autorevole in quello che fa. Può essere contingente, storicamente superato l’anno dopo, però autorevole in quel momento in quello che fa.
Deve credere, essere convinto di essere protagonista, di recuperare una funzione di padre che, per una serie di motivi, sindacali, di decreti delegati interpretati più o meno bene, democraticamente o per accontentare, è andata perdendosi, recuperare la consapevolezza di avere un ruolo e una funzione.
R.C. È andata persa la consapevolezza o il ruolo?
L.C. È andata persa la consapevolezza di avere un ruolo.
R.C. Quindi il ruolo è stato mantenuto, per forza.
L.C. Il ruolo è stato mantenuto per forza perché non ci lasciano andare in pensione presto! Finché non ci licenziano, è mantenuto.
R.C. Intendevo un altro ruolo.
L.C. Sono tante le storie, ma basta, penso di avere abusato anche troppo. Riguardo a quello che si diceva in giro, volevo riprendere la frase con cui lei ha cominciato il corso: “La cultura comune a tutti è la barbarie”.
R.C. Non è mia.
L.C. Al momento dico, cosa c’entra con il corso, cosa vuole dire, perché? Penso che, adesso, alla fine, sia da riprendere. Cultura comune uguale barbarie.
F.B. Barbarie intesa come mancanza di cultura o come cultura diversa dalla cultura vostra? Ci sarebbe da discutere.
R.C. La questione è da leggere.
F.B. Pensavo, mentre diceva “barbarie”, alla cultura di massa.
L.C. Di massa è già qualcosa che sottintende qualche ideologia. Mi piace di più comune, perché “di massa” è già ideologicamente caratterizzante, mentre comune è comune.
R.C. Chiaro.
L.C. Comune può essere che al bambino Pierino e al bambino Luigino io dico nello stesso modo e pretendo nello stesso modo, senza che sia cultura di massa. Comune mi piace di più.
F.B. Ma, per il significato di barbarie? Ho visto da poco – la parola barbarie me lo ha ricordato – la Medea di Euripide. Era ben contrapposta alle donne greche, non barbare ma acculturate. In realtà, le barbare intese in senso negativo erano loro. Lei era la donna vera, che assumeva in sé i due aspetti maschile e femminile, positivo e negativo. Cosa intendiamo per barbarie? Qualcosa di diverso dalla nostra cultura occidentale, quindi in negativo, oppure la mancanza di cultura?
R.C. Lei cosa propone?
F.B. Di pensarci.
R.C. Se la piglia comoda!
F.B. Beh, qui io credo che sia usata nell’accezione comune di mancanza di cultura. Però, dovremmo usare il termine barbaro per dire dell’assenza di incontro.
Se posso aggiungere una cosa. Aveva parlato di farsi carico dei problemi della società. Non credo che la scuola debba farsi carico e risolvere i problemi della società, però non può ignorarli, perché se negli obiettivi della scuola, oltre ai cognitivi ci sono gli educativi, non si può educare un ragazzo fuori dalla società in cui vive. Quando parliamo di trasmissione dei valori, come si può parlare di valori se non abituiamo i ragazzi a riconoscere lo stereotipo, e come lo stereotipo viene inculcato da una società che comunica attraverso mezzi potentissimi, come la televisione o l’immagine dei giornali? Va portata consapevolezza a tutto ciò. Quindi, non so come si possa educare senza abituarli a ragionare sulla società e sui problemi della società in cui vivono. Questo non certo a scapito del cognitivo, delle materie, della specificità, ma a fianco.
R.C. Certo.
G.T. Pensare è già cognitività.
F.B. Insomma! Nella grande accezione sì, ma se per cognitivo si intende il passaggio dei contenuti, e io insegno inglese, solo inglese e non una parola in più, allora non educo. Insegno l’inglese, punto al cognitivo. Invece, secondo me, l’insegnante è educatore innanzitutto, oppure contemporaneamente.
Barbara Valerio Oltre a farci carico dei problemi della società, dei ragazzi e di altri interventi educativi, forse bisognerebbe, prima di tutto, farci carico dei problemi nostri di insegnanti e riconoscere che ci sono periodi e giorni in cui entriamo in classe come andiamo alla guerra, sperando di uscirne il più integri possibili.
Tra noi, il più delle volte, ci guardiamo con sfiducia, con mancanza di collaborazione, non siamo portati a condividere il nostro lavoro. Ogni scuola ha le sue faide, i suoi gruppetti, le sue chiacchiere, i suoi pettegolezzi. Prima di tutto è questa la cosa da rivedere, perché credo che il lavoro più semplice è quello che facciamo su noi stessi, quello che abbiamo è il potere di cambiamento su di noi, purtroppo.
Poi un’altra cosa. Ho girato molte scuole, ma ho visto poca comunicazione di gioia tra gli insegnanti e i ragazzi. È un senso di pesantezza che l’insegnante ha, e lo trasmette spesso all’alunno, in modo che l’alunno lo sente verso il sapere, come se il sapere fosse una cosa gravosa, faticosa e che non ci sia nessun premio alla fine. È come se noi o parte di noi – adesso magari i presenti sono tutti delle eccezioni, ma sicuramente avranno riconosciuto le persone che sto descrivendo – volessimo far rifare a loro la scuola che abbiamo fatto noi, che non è stata sicuramente una scuola di apertura.
Poi, volevo aggiungere che secondo me esiste uno spirito di gruppo, poniamo che esista, e di cui l’individuo è poco consapevole. Lo spirito che abbiamo come gruppo insegnante è di vendetta nei confronti della società, di vendetta che, purtroppo, a volte passa attraverso i ragazzi.
Volevo fare un’altra osservazione riguardo ai contenuti o ai valori. Non prenderei la scuola tutta in blocco dai sei ai diciott’anni, perché ci sono delle età diverse. C’è un’età in cui il contenuto è strumento dell’educazione, e c’è un’altra età in cui il contenuto deve incominciare a diventare un valore di per sé, senza tralasciare gli aspetti formativi.
G.T. Penso ai bambini piccoli di scuola materna dove il contenuto… Ho detto prima che i contenuti sono sempre importanti, importantissimi. Sto pensando che un bambino di scuola materna ha bisogno di molta concretezza, e quindi di educazione e di insegnamento, perché anche la materna ha una parte di insegnamento, ma ha più bisogno di contenuti e di cose concrete.
Poi, man mano che il ragazzo cresce, acquista maggiori capacità di astrazione, di pensiero simbolico e di ragionamento. Come dire, il contenuto è importante, ma diventa un pretesto, può diventare un’occasione, ma quello che conta sempre di più è il pensiero, è la capacità di esercitare il pensiero su quei contenuti, non il contenuto in se stesso.
In questo senso, ma devo chiarirlo anche a me stessa per la verità, i contenuti sono importanti, ma confondere i contenuti con i problemi della società… Non spetta alla scuola risolvere i problemi, perché un conto è riflettere sui problemi della società e un’altra cosa è farsene carico. Farsi carico non è la stessa cosa che ragionare, pensare, riflettere e teorizzare intorno a qualcosa.
F.B. Tanto la scuola non potrebbe risolvere i problemi della società.
G.T. Ma il non potere risolverli, molte volte fa dire “Tu, scuola, la colpa è tua”.
R.C. Dobbiamo evitare il dibattito serrato, perché nella trascrizione, poi, vengono attribuite all’uno le risposte dell’altro, se non viene annunciato il nome di chi interviene. Comunque, è chiaro che si pongono anche questi aspetti.
Truffa, lei aveva terminato? Stanno emergendo notazioni interessantissime, testimonianze precise. Mi sembra il caso di proseguire, sicuramente anche altri hanno qualcosa da dire, da porre a testimonianza.
Nadia Vidale Faccio fatica a riconoscermi e a inserirmi in un discorso che va tra la scuola e la società. Faccio questo mestiere perché, e non lo sapevo, si è costituito per me come un dispositivo per alcune letture e come un’occasione di scambio rispetto a quello che incontravo, come pretesto per leggere alcune cose, per pensarci, per scriverne. Quindi, non mi sento in un ruolo, mi sento in gioco e mi piace molto, come premessa.
I contenuti non sono solo quelli del programma. Ciascuno di noi si ricorda probabilmente pochissimo dei contenuti del suo itinerario scolastico. Quello che è rimasto sono altre cose. Si trasmette, probabilmente, lo stile, il rigore, l’entusiasmo che passa per quei contenuti, ma poi i contenuti si lasciano, se ne incontrano altri. Questa cosa mi sembra importante.
Più volte ho pensato che insegno latino, ma in fondo potrei insegnare matematica, non sarebbe la stessa cosa, ma la posta in gioco sarebbe la stessa.
Una cosa volevo dire, visto che la signora Truffa ha posto la questione a proposito dei contenuti. Ci sono contenuti che vanno oltre i programmi e anche oltre l’insegnamento. Per esempio, nella mia esperienza, non di insegnante questa volta, ma di madre con una figlia che frequenta la scuola materna, di tante cose belle che sono state fatte a scuola, di tante cose di cui mia figlia parla e rispetto alle quali vedo che si aprono per lei delle occasioni nuove, io credo che a me rimarrà una cosa un po’ così, non molto interessante.
A un certo punto ho ricevuto un questionario, una cosa che in fondo passa sopra la testa dei bambini, un questionario nel quale si chiedeva, separatamente, al papà e alla mamma di rispondere a domande tipo “Dire quante volte, da uno a sei, il bambino attraversa la porta”, e via così. E io sono rimasta… Cioè, abolizione completa del dialogo col bambino. Io, che conosco mia figlia da quando è nata, sento la scuola che mi propone di compilare un questionario in cui descrivo le azioni che compie, conto quante volte le fa, da zero a sei, fare la crocetta, perché poi la professoressa universitaria, che i bambini non li ha mai visti, mi darà il profilo psicologico! Io faccio i conti con una scuola che dice che io ho bisogno di un profilo di mia figlia, e fatto da una psicologa sulla base dei dati che ho rilevato dai suoi gesti!
Ci sono anche questi contenuti che, fortunatamente in questo caso, non varranno nulla, perché conta molto di più quello che mia figlia, effettivamente, fa e impara a fare a scuola ciascun giorno.
Però, pensare che, se nella mia scuola fanno un corso di grafologia e io faccio questa cosa, allora “sono così”, questo è un problema della società che diventa contenuto della scuola! E è la scuola che me lo passa! Io che ricevo il questionario, dico, ma questi, gli ha dato di volta il cervello? Ma ci sono genitori che compilano le crocette e pensano così di sapere da qualcuno com’è suo figlio! E questo qualcuno, magari, glielo dice anche! E gli fa il profilo!
G.T. Rispetto alla questione, è importante fare alcune precisazioni.
R.C. C’è modo di riprendere. Qui, quante insegnanti ci sono delle scuole materne? Due. E delle elementari? Tre. Delle medie? E delle superiori? Non ho visto da questa parte le medie. Chi c’è delle medie? E delle superiori, lei.
Pubblico Materna.
R.C. E la signora vicino a lei?
Pubblico Nido.
R.C. E davanti a lei?
Pubblico Io e la mia collega lavoriamo in un convitto con ragazzi adolescenti. Apparteniamo all’area docente, però nella funzione educativa, se lei può distinguere tra le due cose.
R.C. Chiaro. Quindi abbiamo rappresentato tutto il dispositivo della scuola, dal nido alle superiori. Lei? Medie. Che cosa ci dice?
Pubblico Sto ascoltando. Non posso dire che non ho niente da dire, però sto ascoltando e non riesco a mettere insieme più cose in questo momento.
R.C. Lei, invece? Elementari. Ci sono altri interventi? Che cosa ci dicono dalle scuole materne?
Pubblico Per i discorsi che sono stati fatti, pensando alla mia esperienza alla materna, non mi ci ritrovo tantissimo, nel senso che sono discorsi un po’ più… Però è vero, come ha detto la signora, che i bambini alla materna hanno bisogno di vedere. Tante volte puoi fargli un discorso, però tante esperienze che fanno alla scuola materna se le porteranno avanti per tutta la vita, non è da escludere.
Tante volte non si dà molta importanza a questa scuola e si sente dire “Ah, alla materna chissà cosa fate”. Alla scuola materna ci sono determinati programmi ministeriali da svolgere. È molto messa in disparte, da un certo punto di vista, la scuola materna. I genitori si interessano soprattutto all’ultimo anno, perché sanno che, poi, devono andare alle elementari.
R.C. Quindi lei dice che sono un po’ trascurate dai genitori, quanto all’importanza che possono avere, educativamente parlando. Invece, esatto, non sono affatto da trascurare. Certo, lì si pongono altri modi che non è quello didattico propriamente detto. C’è il gioco, c’è l’esempio, chiaro, ma non ha minore importanza.
Quindi, si tratta sempre di dispositivi e si tratta, soprattutto per l’insegnante e come negli altri dispositivi, di non partecipare a credenze, fantasmagorie, luoghi comuni, intorno all’animale fantastico chiamato bambino.
Forse, soprattutto la scuola materna, in quanto materna, pone delle difficoltà ulteriori proprio perché è chiamata così.
N.V. La scuola dell’infanzia non è la scuola materna.
R.C. Chi è che la chiama scuola dell’infanzia?
G.T. Ma c’è chi lo chiama ancora asilo!
R.C. Nella fantasmagoria è l’asilo o la scuola materna, effettivamente. Già chiamarla scuola dell’infanzia comporta quanto meno una elaborazione del termine infanzia, e non l’applicazione del maternaggio al bambino, per cui chiaramente è importante.
Ma non è che una questione terminologica mette a posto le cose, non basta sostituire un termine con un altro perché la faccenda sia sistemata. Certo, questo concorre perché, se invece di chiamarla in un modo viene chiamata in un altro, ci sono motivi e ragioni, per cui linguisticamente interviene quest’altro modo, però di certo non basta.
E questo mette l’accento sulla questione linguistica dell’insegnante. Qual è la lingua dell’insegnante? Che alcune cose siano enunciate in un modo o in un altro, non è la stessa cosa, perché ciò comporta che siano udite in un modo o in un altro. Nel modo di dire, infatti, c’è la logica! Il modo di dire, anche il modo con cui l’insegnante parla, non è una semplice questione gergale, perché le cose si dicono secondo la logica.
Questo non è nei programmi ministeriali, non è prescritto o in qualche modo diretto dai programmi ministeriali, però è essenziale che l’insegnante non parli la lingua comune, ma parli la lingua diplomatica, cioè la lingua dove ciascun termine ha incontrato la qualifica non a caso, ma per un itinerario.
Non si tratta tanto e solo della cura lessicale, della proprietà terminologica, ma della lingua dove il malinteso è estremo, per dir così, cioè dove la precisione è estrema, come lingua diplomatica.
Adesso vediamo di chiarire ulteriormente questo aspetto, perché le questioni sono molte, però non sono esaurite. Ecco, ce n’è già un’altra che fa capolino.
Cecilia Maurantonio A proposito della scuola materna, del mondo dell’infanzia, mi interrogavo a proposito dell’enunciato “È un’esperienza che si porta avanti tutta la vita”. Per questo sarebbe più importante e rappresentativa la scuola materna, in quanto potrebbe esserci l’idea della prima volta.
Io la intendo così, come la scuola, dove occorrerebbe l’elaborazione e lo svolgimento di cos’è la prima volta, è nei termini di ciò che non lascia il segno. Questa è la questione.
R.C. Niente lascia il segno.
C.M. Sì, perché si ritiene che ci siano esperienze che poi uno si porta avanti per tutta la vita. Perché alla materna e non dopo? Perché è il primo, perché è la prima volta come, d’altronde, anche più in là, il primo bacio, il primo amore, sono cose per cui si dice “È importante come avviene”.
Io troverei interessante un’elaborazione intorno a questo, proprio per ciò che di specifico concerne la scuola materna, in modo che non diventi un peso, un carico.
R.C. Altri?
Luisella Vanzan La riflessione che facevo mentre ascoltavo, era quanto può essere più determinante un percorso formativo in una scuola a così detto indirizzo umanistico, rispetto a una scuola o a un istituto indirizzato alla formazione professionale dell’alunno. Quindi, io vedrei una distinzione fra un insegnante che ha un approccio in una scuola che definisco umanistica, rispetto a un altro approccio in un altro tipo di scuola.
Un’altra cosa pensavo durante la discussione di oggi e dell’altra volta. Qui ho sentito insegnanti che desiderano educare, formare i ragazzi. Posso portare la mia esperienza come ex studentessa o come persona che cerca di formarsi ancora. Allora, io dico, avessi trovato insegnanti che mi avessero formato di più, cioè preparata anche dal punto di vista della vita, o per affrontare più creativamente le cose della vita e non solo a risolvere problemi matematici con un mero percorso nozionistico e culturale. Della mia scuola ricordo un percorso di acquisizione di nozioni, più che un percorso formativo. Non so se ciò è avvenuto per la tipologia della scuola che ho fatto o per gli insegnanti che ho trovato.
Effettivamente, nella nostra realtà e società, alla scuola viene più che altro demandata una funzione di baby sitter fino alla scuola dell’obbligo, in attesa che il ragazzo definisca quale tipo di animale fantastico voglia diventare, cioè che prospettiva di lavoro e di persona voglia diventare.
Tante volte ho la sensazione che la scuola, più che formare e educare alla vita, sia un parcheggio, e che ben poche volte l’insegnante possa contribuire alla formazione, all’educazione del ragazzo.
Però, questa considerazione che faccio potrebbe essere per la mia esperienza di studentessa che ha seguito un percorso tecnico professionale, ragioneria in maniera particolare. Persone che mi hanno aiutato nella formazione sono state il parroco, purtroppo da noi è un’altra figura che ha contribuito alla formazione, era un altro punto di riferimento, poi i libri e gli amici. Se posso muovere una critica o fare delle considerazioni, è che ho sentito i miei ex insegnanti non come formatori, ma semplicemente come trasmettitori di nozioni, punto e basta.
Poi, non so se la cultura trasmessa mi abbia aiutata. Non essendo insegnante e non avendo certe basi, o per lo meno certe nozioni, non so interpretare se trasmettendo cultura questo ponga le basi per poi formarmi da me. Sono un’insieme di considerazioni, accettatele per come sono state esposte.
R.C. Certo. Lei si chiama?
L.V. Vanzan Luisella.
R.C. Sempre Vanzan Luisella o Luisella Vanzan?
L.V. Luisella Vanzan. Anche se Luisella deriva sempre da Vanzan, perché mi porto appresso il bagaglio dei genitori.
R.C. Però lei è Luisella! Oppure si tratta di divenire Luisella.
L.V. Ha colto nel segno.
R.C. Perfetto. È questa la questione. Ci sono altre notazioni?
Maria Graziella Guarnera Mi ha fatto piacere sentire Luisella, perché mi ha rassicurato sui dubbi che coglie l’insegnante nella sua carriera, quando si trova a fare una scelta tra l’informazione culturale e la formazione del ragazzo.
Sentire questa esigenza espressa da un’alunna, da una ex alunna, questo rimpianto di non avere avuto degli insegnanti che badassero di più alla formazione che non all’informazione, può essere rassicurante nei momenti in cui noi ci veniamo a scontrare con rendiconti, programmi, programmazioni, registri.
Comunque, io ho sempre fatto la scelta formativa e questo mi ha dato molta soddisfazione, molta rassicurazione, tanto che avrei potuto consegnare una domanda di pensionamento in questi giorni, cosa che non ho fatto perché ho pensato che, se la consegnavo, finivo di crescere, in quanto l’insegnamento è una crescita continua, è una crescita quotidiana, diversa di giorno in giorno e di classe in classe.
R.C. Certo. Indubbiamente.
Lei, Truffa, voleva aggiungere qualcosa?
G.T. Ero stata sollecitata in qualche modo dall’intervento della signora Vidale.
È un po’ delicata per me la cosa, per cui non vorrei entrare troppo nel merito. È il motivo per cui mi sono fermata prima. Intanto mi sono posta due questioni. La prima è la partecipazione del genitore alla scuola. Anche il genitore fa parte del dispositivo della scuola, o no? Dovrebbe, potrebbe. Allora, a fronte di una provocazione così forte che avverte un genitore che riceve a casa un questionario che non condivide, in merito al quale ha delle cose da dire, perché il genitore non si fa sentire? Si può partecipare rispondendo al questionario, aderendo alla cosa, oppure dando un altro tipo di contributo e dicendo “Questa cosa la leggo così e non la condivido”, e muovendo la critica che giustamente uno ritiene fare e che, magari, oltre che critica, diventa anche un contributo.
L’altra considerazione era relativa al racconto fatto dalla signora sul questionario del temperamento dei bambini dispensato ai genitori, e usato in un certo senso come escamotage per attirare i genitori, perché i genitori non sono presenti e non partecipano alla vita della scuola, alle riunioni, agli incontri, almeno per la nostra esperienza, però in molti modi si fanno sentire dicendo “Dovreste, dovete, dateci”.
Nel momento in cui si dà un qualcosa nelle diverse forme, mettete che questa possa essere la forma più sbagliata, ma non sono tutte così sbagliate, però il genitore non c’è mai. Allora, premesso che questo poteva essere un escamotage e tenendo conto del fatto che fosse legato a una certa impostazione, a una certa ricerca che la docente in questione aveva, poi gli incontri che sono avvenuti con la presenza dei genitori sono stati, invece, molto validi, interessanti, se non altro perché i genitori hanno avuto un’occasione di parola e di ascolto.
In quali termini l’ascolto? Non proprio così terribile, così negativo come nella premessa, nel racconto che ne è stato fatto, dicendo “Mettiamo i numerini, incrociamo i vari numeri e le varie cose, e questo è tuo figlio”! Assolutamente! Siccome sono presente agli incontri, pur non condividendo molte cose, questo assolutamente non è avvenuto, non è stato fatto questo utilizzo, ma si è andati oltre e, anzi, sono diventate occasioni di una certa importanza.
Nello stesso tempo, il racconto che lei ha fatto della cosa, che è corretto, ha però suscitato in sala molte ilarità, come per dire “Beh, è scontato. Dove c’è psicologia c’è danno!”. Questo è come io ho sentito, ascoltato e interpretato il piccolo movimento, subbuglio, che c’è stato in sala. Questo mi pone un problema, nel senso che è un problema che io vivo, e mi sembra che più si vive a contatto con bambini piccoli di prima e seconda infanzia, più questo benedetto rapporto con la psicologia dell’età evolutiva e con il contributo che la psicologia può dare rispetto all’educazione, alla conoscenza dei processi di crescita, si avverte, te la ritrovi dappertutto, inevitabilmente, e pone mille questioni. In qualche modo va a toccare un problema che per me è una questione.
Quindi, mi piacerebbe capire meglio – rispetto alle cose che lei ha detto e rispetto alle notazioni che lei può avere fatto nei confronti dell’apporto psicologico, o della psicologia nella scuola, o del ricorso alla psicologia – cosa lei intende per ascolto o per atteggiamento educativo, così come proposto dalla cifrematica. E anche le cose e l’apporto che la psicologia dà nell’approccio educativo, nella conoscenza dello sviluppo del bambino. Poi, di psicologie ce ne sono tante, c’è la psicologia comportamentista, cognitivista a taglio psicanalitico, non è che sia tutto uguale.
R.C. A taglio psicanalitico?
G.T. Orientamento psicanalitico.
R.C. Orientamento!
G.T. Qualcosa dovrò pur dire, insomma! Psicanalisi.
R.C. Sarebbe come se i pompieri usassero la benzina per spegnere l’incendio. La psicologia a orientamento psicanalitico è la stessa cosa del pompiere che va con la tanica di benzina. Ma questo è un inciso.
G.T. Non è corretto, è sbagliato; comunque, questo è ciò che si trova quando si studia, quanto ai vari orientamenti, nelle varie impostazioni.
Allora, io stessa ho fatto esperienze negative rispetto all’apporto della psicologia, ma molte altre volte ho trovato delle cose assolutamente valide, dei contributi, non dico da condividere, ma contributi veri e propri.
Sono confusa nel porre la cosa, perché c’è confusione, nel senso che è una questione che per me è importante e un po’ intrigante, però è anche un problema, è una cosa che si incontra. Io sto al di là del questionario.
R.C. È una cosa che si può affrontare nella ricerca e nell’esperienza in corso.
N.V. Mi è concessa una battuta? Una mia allieva, l’anno scorso, durante una lezione ci racconta che quando faceva la scuola media, siccome c’era un problema di cui non ci ha detto, i genitori la portarono dallo psicologo.
La testimonianza è che lo psicologo, al di là di quello che lei raccontava, andava alla radice del problema, e la ragazza disse esattamente: “Allo psicologo quello che dicevo io non interessava”. E la cosa, quando io ho fatto eco ripetendola, ha fatto immediatamente ridere tutti. Probabilmente, c’è molta psicologia già fatta, cioè ci sono i pacchetti psicologici.
G.T. Ma non è sempre così, è ben questo che volevo dire. Non è vero!
N.V. Capisco che può essere forte la tentazione.
R.C. Sono testimonianze!
G.T. Ma questo è un parlare civile. Sto dicendo che non è sempre così, mi viene spontaneo dirlo. Anche perché mi dà l’occasione di precisare quello che volevo dire prima: non è sempre a pacchetto.
N.V. Volevo dire che nel momento in cui c’è una ragazza che ha un certo tipo di problema con lo studio e si sente dire: “Le ho detto di andare a parlare con la psicologa del C.I.C.”, ciò significa che c’è a disposizione della scuola il pacchetto. Pacchetto nel senso che, per un certo tipo di cose, andiamo lì.
G.T. Pacchetto o opportunità? Si tratta di vedere come si pone. Perché, se lo vogliamo considerare per forza pacchetto, allora è pacchetto, ideologizziamo.
N.V. Io non so se chi dice “L’ho mandata dalla psicologa”, conosce la psicologa. Ma credo di no, perché fa riferimento al C.I.C. Un conto è che io dica “Vada a parlare con Tizio”, e un conto è “Questa roba qua è una cosa da psicologo”.
G.T. Sì, certo, se questa è la via istituzionale, vai là perché questa è l’organizzazione.
N.V. Siccome esiste a Padova una facoltà di psicologia, probabilmente c’è una forte disponibilità in questo senso, mentre, se lei procede da cosa fare in ciascun caso, non passare per la psicologia sicuramente comporta un lavoro molto maggiore.
R.C. Adesso non è che la questione sia psicologia sì o psicologia no, nel senso che noi non vietiamo a nessuno di fare uso di ciò che esiste, ciascuno è in grado di valutare. Certamente, si tratta di informarsi e di cogliere la stramberia di una allocuzione come “psicologia a orientamento psicanalitico”, che è una forma di ossimoro, per dir così.
Se c’è l’orientamento psicanalitico c’è la dissipazione della psicologia, nel senso che la psicanalisi, in quanto esperienza della parola originaria e esperienza della parola che diviene qualità, cioè qualis, che diviene caso unico, come può inscriversi in una presunta scienza del caso generale? Questo è il punto. Sono due cose che si contraddicono. Non entriamo nel merito di chi deve prevalere sull’altro, però, certamente è un’altra cosa, è proprio un’altra cosa.
G.T. Allora preciso: quando parlano o si fa psicologia a orientamento psicanalitico.
R.C. Sì, ma è noto che c’è questa allocuzione.
G.T. Ma voglio dire questo, quale valore dare agli studi che sono stati fatti, alle ricerche e alle teorizzazioni, per esempio in merito allo sviluppo del bambino da un punto di vista affettivo, emotivo, per cui ci sono le varie teorie di Melanie Klein, di Piaget e altri? Quella è connotata e descritta come psicologia a indirizzo psicanalitico.
R.C. Vuole una risposta da me? È materiale clinico, è materiale clinico per lo psicanalista. Quello, per lo psicanalista, cioè per l’intellettuale, per il lettore, è materiale clinico.
Cosa vuole dire materiale clinico? È materiale che comporta di divenire qualità, come un sogno è materiale clinico. La teoria di Melanie Klein sui bambini è materiale clinico. La teoria di Piaget è materiale clinico. Sono elaborazioni fantastiche intorno a un animale fantastico. Questo sono, né più né meno.
G.T. Posso andare avanti? Perché devo cercare di chiarirmi, magari non so se riesco una volta per tutte, sarebbe bello. Si parla della famosa angoscia dell’ottavo mese, l’angoscia di separazione, parliamo della famosa fase anale e della fase orale presentate come tappe, come fasi.
R.C. È materiale clinico!
G.T. Però è un’esperienza nella quale il bambino incorre nella sua crescita, comunque avviene nella relazione con il genitore, con l’adulto che di lui si occupa. Quindi, dire materiale clinico vuole dire che tutto ciò non esiste se non come fantasia, o c’è un momento in cui l’educazione sfinterica del bambino incomincia a acquisire un’importanza e una risonanza anche dal punto di vista emotivo, affettivo, cioè investe la persona al di là di un discorso di controllo del muscolo? Cosa avviene?
Dico questo per portare un esempio pratico. Non è che mi faccia molto ridere visto che l’educazione sfinterica fa impazzire tutte le madri e chi non riesce a gestire bene la relazione con il figlio. Io non ho avuto il problema, però viene posto. E tante altre cose, così come la famosa angoscia di separazione del bambino, all’ottavo o al nono mese.
R.C. Esatto. Il discorso occidentale si pone sempre una questione di praticità. Apparentemente, molte cose le giustifica con la praticità, per dire che i bambini sono tanti e anche le mamme, per cui se ogni mamma di fronte a un problema va a chiedere consigli, chi avrebbe il tempo di ascoltare tutte le mamme che vanno a chiedere lumi su cose che sono di normale amministrazione?
Allora, per praticità, c’è un’iscrizione di alcuni modi nella così detta normalità, nello sviluppo “normale”, lasciando solo alle cose che ne stanno al di fuori il tempo di preoccuparsene, altrimenti non ci sarebbe modo e tempo di occuparsi di tutti i casi.
La psicologia sorge così, per inquadrare e potere togliere dal numero dei casi, quelli che sono riconosciuti come “normali” da quelli che sono non normali e che possono richiedere una normalizzazione!
G.T. Ma forse questo sarà l’uso che ne viene fatto, forse è l’utilizzo.
R.C. Ciò per cui sorge.
G.T. Tutti hanno avuto le stesse fantasie.
R.C. Adesso non sappiamo se tutti hanno avuto le stesse fantasie.
G.T. Poi, nella teoria, sui libri quello c’è.
R.C. Leggendo le elaborazioni a cosa si giunge? Qual è la questione posta? Qual è la cifra delle elaborazioni attorno allo sviluppo del bambino? Lei cosa coglie come cifra di queste elaborazioni?
G.T. Per me esistono i singoli bambini, non il bambino secondo Spitz o Melanie Klein.
R.C. Però, lei dice, l’orientamento di Spitz, o quelli che sono i segni caratteristici di uno sviluppo normale, entrano nell’uso, cioè se io mamma vedo che il mio bambino fa così, innanzitutto vado dal pediatra, il quale dice “Sono presenti questi segni”. Poi, in realtà, cosa accade? Che non c’è un bambino che segua le prescrizioni dello sviluppo. Non ce n’è uno. E queste indicazioni allo sviluppo danno modo all’intervento di cogliere qual è il modo di fare?
G.T. Forse possono dare indicazione al momento su cosa pretendere o non pretendere, su come orientarsi, ma non è che mi risolvano la questione, nel senso che c’è la relazione che si gioca tra l’adulto e l’educatore.
R.C. Certo, ma non solo. Il problema è nell’impostazione stessa.
G.T. Cosa chiedere o non chiedere al bambino.
R.C. Già l’impostazione “se consentire di risolvere o no determinate questioni”, è qualcosa che occorre esplorare. Qui non è in questione l’efficacia dello strumento, ma si tratta di rilevare che è strumento in quanto è compatibile con il modello di riferimento, e viceversa. Cioè, lo strumento è adeguato al modello e il modello si adegua allo strumento. Solo in questo senso le due cose funzionano o non funzionano. Solo in quanto la presunta relazione col bambino è relazione sociale – cioè improntata a determinate modalità di un dispositivo sociale presunto tale, e conforme a determinati dettami del discorso – può essere misurata la compatibilità tra lo strumento e la sua efficacia, in quanto viene dato come tale lo strumento e come tale il modello di riferimento e d’uso.
La questione è che se c’è un’anomalia, l’anomalia non è anomalia rispetto al modello, è anomalia e basta. Se io considero che qualcosa è anomalia rispetto a un modello, io già mi sono precluso una vasta gamma delle combinazioni possibili rispetto a cui cogliere di cosa è fatta l’anomalia.
G.T. In base a che cosa si dice che qualcosa è anomalo? Si andranno a indagare le ragioni sulla base delle quali, in quel caso, c’è l’anomalia. Se un bambino di quattro anni non parla, dico che è anomalo? Un bambino di quattro anni che non parla, che non supera la parola-frase, in base a che cosa dico che è anomalo? Perché ho un modello di riferimento di bambino che, nella sua evoluzione, intorno ai quattro anni, dovrebbe quanto meno avere raggiunto questa abilità.
R.C. Esatto. Dovrebbe!
G.T. Ma questo modello, in qualche modo mi serve. Poi, c’è tutto il lavoro. Non è che individuato questo, ho risolto la cosa, poi da lì parte il lavoro.
R.C. Ci sono bambini che a quattro anni non parlavano e che a cinque erano incontenibili nel loro parlare.
G.T. Ma d’accordo, però non posso dire, di fronte a tre bambini che a quattro anni non parlano, siccome ce n’era uno che a cinque parlava, aspettiamo, non si sa mai. Può darsi che tra questi tre ci sia quello che a cinque parla e gli altri due che, effettivamente, hanno un problema. Io, quanto meno, devo indagare, vedere, o no?
R.C. Sì, solo che il modo non è già stabilito. Allora diciamo che secondo alcune modalità ciò è già stabilito, nel senso che ho dei parametri da verificare e se sono rispettati vuole dire una cosa, mentre se non sono rispettati, vuole dire un’altra cosa. Cioè, c’è una possibilità diagnostica o si considerano altri schemi e altri modelli, oppure, nessun modello e si tratta di cogliere altri modi con cui le cose avvengono!
G.T. Ma certo, non lo escludo. Per conto mio è questo il fatto, e ciò non lo esclude, anzi, è necessario e indispensabile. Però, perché io possa trovare il modo per lavorare, per l’ascolto, nel senso in cui dice lei, ci deve essere prima la possibilità, in alcune situazioni e in alcune circostanze, di potere cogliere ciò che non va, e colgo ciò che non va rispetto a uno standard, c’è poco da fare!
R.C. Il problema è questo: l’idea di standard!
G.T. Uno standard evolutivo.
R.C. A quale funzione assolve lo standard e per chi? Basta rispondere a questo per trovare che cosa indica, qual è la funzione dello standard. Lo standard chi deve rassicurare, chi deve tranquillizzare, rispetto a che cosa?
G.T. Per me lo standard non esclude la possibilità che esistano delle differenze e di accettare le differenze, assolutamente. Non è che se c’è la differenza non c’è lo standard e viceversa.
R.C. Sì, questo può darsi per lei, ma non è solo il suo caso in questione.
G.T. Dico per me, nel senso che mi sembra che così le cose funzionino. Funzionano anche come dice lei, ma non necessariamente e non così estesamente. Anche se, dove funzionano così, la cosa è grave, pesante, però non mi sento di dire che sia necessariamente sempre così. Ne ho esempi.
R.C. Sì, non necessariamente, non sempre. Ma, appunto, entrando nel caso in questione, noi non facciamo più psicologia. Se noi entriamo nel caso in questione, siamo già fuori dalla psicologia.
Se lei dice che viene considerato il caso in questione, è chiaro che lei lo considera entrando nel merito, e ciò vuole già dire che siamo fuori dalla psicologia. Questo è il punto, fermo restando quello che dicevo prima.
Ciascuna teoria che tende a assimilare, a fare di più casi un genere, è materiale clinico, fantasmatico, che riguarda un animale fantastico. Di questo si tratta nella psicologia, nelle varie scuole, anche autore per autore. Si possono leggere questi manuali come opere teatrali, come opere cinematografiche, come romanzi dove il racconto dello sviluppo naturale, dello sviluppo normale è un romanzo. È la storia dell’autore, magari, trasposta in manuali.
G.T. Quale importanza dare alla ricerca o all’osservazione che può essere stata fatta? Non è detto che quel modello debba esaurire, che non possa cambiare, non è mica scolpito sulla pietra. Magari sarà anche fantasia, ma anche frutto di ricerca, di osservazione.
R.C. Sì, ma perché no. Né toglie né aggiunge. Io posso fare una ricerca su un milione di persone ma, rispetto alle centinaia di miliardi che sono vissuti e vivranno, che cos’è? È un campione irrilevante, resterà comunque un campione irrilevante, quindi il rappresentante di un animale fantastico, per giunta estinto, o in via di estinzione, o che avverrà.
Io oggi faccio uno studio su 10.000 bambini e nel momento in cui lo pubblico, è lo studio rispetto a un dinosauro, cioè rispetto a un animale fantastico già estinto, che io però posso usare come modello per un animale futuro, una specie futura che sorgerà e che dico che sarà la stessa. Benissimo, io sono libero di usarlo, ma si tratta di questo, di un repertorio da museo, di un genere già estinto che risponde al nome di animale fantastico x o y. Già estinto però! E che io posso considerare ancora vivo.
G.T. Posso considerarlo anche estinto, ma sapendo che magari è appena estinto.
R.C. Sì, ma questo non toglie che siamo dinanzi a un materiale clinico, di natura zoologica, fantastica, di una specie estinta.
G.T. Ma allora tutti dovrebbero fare l’esperienza psicanalitica.
R.C. Perché tutti?
G.T. La qualità è una cosa che riguarda tutti.
R.C. No! La cultura comune a tutti è la barbarie! Cioè, se lei dice che tutti facciamo, cosa facciamo tutti?
G.T. Io sto pensando a singole persone ma che sono tante. Singole persone, bambini, adulti, genitori.
R.C. Ciò non è necessario per tutti. Può essere necessario per alcuni che avvertono questa istanza imprescindibile, questo sì.
G.T. La dove ci sono problemi, dove si nota l’anomalia.
R.C. Esatto. La questione è proprio questa. La codifica è sempre fatta in nome del bene, o della bonifica, o della salvezza, o della guarigione.
G.T. Dell’aiuto.
R.C. In nome dell’aiuto per togliere mali, malattie, per guarire. In nome di questo sono sorte anche Auschwitz e via discorrendo, il lavoro nobilita. In nome della salvezza sorgono le guerre, in nome del bene dell’Altro ci sono le stragi, in nome della salvezza comune ci sono le guerre di religione. La ghigliottina è sorta per purgare più in fretta perché occorreva una società migliore. Anche la ghigliottina aveva un intento umanitario: doveva alleviare le sofferenze del condannato a morte, di quello che doveva morire. Mica perché non dovesse morire! Doveva morire, ma più in fretta, senza soffrire troppo, cioè per istinto umanitario. L’istinto umanitario è sempre verso chi deve morire perché possa morire più in fretta, comunque morire. Allora, anche qui si tratta di curare meglio.
Avete notato l’argomento del giorno qual è? L’elettroshock! La grande novità del ministro della sanità, giunto all’apice della sua ricerca, è di emettere una circolare ministeriale in cui viene elogiato l’elettroshock, l’elettroterapia che tante sofferenze avrebbe alleviato, tanti casi avrebbe risolto e a cui andrebbe riconosciuto il suo merito. Dall’altra parte si scatenano quelli contrari “Ma non è vero, perché in realtà è una macchina infernale, è questo, è quello”. E altri dicono “Sì, ma è l’abuso che è condannabile, non lo strumento. Lo strumento, in realtà è buono, però un uso scriteriato lo fa diventare uno strumento cattivo. Bisogna usarlo bene”.
E chi sa usarlo bene? Allora dice “Ci vuole l’operatore coscienzioso”, un animale fantastico anche quello, che si tratta di educare e istruire all’uso saggio, giusto, dello strumento infernale perché, in fin dei conti, pacifica! Poi, una volta data la scossetta, gli effetti sono positivi. La persona è calma, calmissima; anzi ha giovato addirittura alle mamme in gravidanza, quindi è buono.
Questo è stato l’argomento addotto, che in gravidanza, proprio nel caso in cui la mamma avesse un po’ di agitazione e non potesse essere usato nessun farmaco perché nuocerebbe al bambino, animale fantastico sacro, la scossetta andrebbe bene, perché farebbe bene alla mamma e non nuocerebbe al bambino. È come il confetto Falqui, che uno fa bene al bambino, due alla mamma! Si tratta di dare la posologia, la buona dose. Ce n’è per tutti, basta usare la dose giusta.
E siamo nell’apologia della sostanza. Si tratta di trovare la sostanza che, somministrata in una certa dose, fa bene, mentre in una dose eccessiva fa male. Quindi, siamo sempre nell’anfibologia fantastica, cioè nella dicotomia del bene e del male, dove si tratta di trovare la misura, la giusta misura che è data dal taglio. E il taglio dicotomico stabilisce qual è.
Si dice anche della dose che deve essere tagliata in un certo modo. Anche nella droga c’è questo gergo a proposito di come è tagliata la sostanza, tagliata bene, tagliata male, cioè c’è la rappresentazione, la sostantificazione del taglio, del tempo trasposto in sostanza che deve tagliare un’altra sostanza, quindi il taglio del taglio.
Ecco la mitologia della droga: rappresentare il taglio e attuare il taglio del taglio. La sospensione del tempo è il taglio del taglio. Ma è impossibile tagliare il taglio. Se il taglio è già taglio, come possiamo tagliare il taglio se non abolendo il taglio? Questa è l’operazione della sostantificazione. Ecco, si tratta di accorgersi di dove, come e quando l’opera di abolizione del tempo viene attuata, quand’anche vengano citate le migliori intenzioni. Le intenzioni sono sempre buone! Chi è che ammette di fare qualcosa per cattiva intenzione? Le intenzioni sono sempre buone. Le migliori intenzioni sono sempre quelle di aiutare l’Altro. Ma, come? Secondo quale schema? Secondo quale logica? Questo è il punto. E questa è la questione dell’educazione.
È curioso che a partire dalla questione educazione, scuola e società, siamo giunti a considerazioni intorno al dispositivo sociale, dove potrebbe sembrare che, ampliando l’ambito, la questione della logica potesse sfumare a favore dei risultati. Ma i risultati seguono la logica. I risultati sono sempre conseguenze del modo, del che cosa e di come. Del modo della logica e del modo dell’itinerario.
Non è che possa avvenire che qualcosa è applicato al di fuori della logica e dell’itinerario. Per questo non può esservi intervento se non tenendo conto di cosa si tratta in quel caso, qual è la logica. Come può esservi intervento se noi aboliamo la logica, il modo e il come di qualcosa che sta avvenendo, quindi il caso stesso?
Lei dice che è impossibile questo perché, quando si tratta di stabilire l’intervento, è di ciò che occorre tenere conto. È questa la questione che si pone, ciascun intervento esige questo.
C’era la questione che veniva posta prima, di come farsi carico di qualcosa, di come affrontare e di come risolvere. Già l’idea di potere risolvere qualcosa è un’idea sostanzialista, che comporta una possibile sospensione della logica, la logica come logica particolare, la logica della parola, la logica che c’è in ciascun atto.
Quando viene enunciato un problema non viene mica chiesto che venga risolto! Questo è il fraintendimento. Quando accade che da parte di x sia enunciato un problema, non viene chiesto che venga risolto, ma viene chiesto qualcosa che ha a che fare con la chiarezza. I termini del problema non sono chiari. Dire risolviamo, passa prima per: “Quali sono i termini del problema? Chiariamo!”.
Non c’è risoluzione del problema, ma c’è la sua indagine. L’indagine comporta l’instaurazione di un dispositivo per affrontare la difficoltà, che non vuole dire risolvere il problema, vuole dire affrontare la difficoltà.
G.T. Per arrivare alla chiarezza.
R.C. Esatto. A quel punto si dissipa il problema. Non in quanto, per così dire, risolto, ma in quanto affrontato, in quanto affrontata la difficoltà che pareva insormontabile, inaffrontabile. Perché, per lo più, è qualcosa che si fissa lungo la fantasia di essere incapaci, o di non essere all’altezza, o che quella cosa sia troppo difficile, troppo alta, troppo bassa, troppo. C’è un troppo! Un troppo che si combina con l’idea di limitazione, cioè con una rappresentazione del tempo che comporta un’impossibilità.
Allora, quando si formula una domanda di aiuto, ciò che viene richiesto non è che al posto dell’Altro io debba risolvere il problema. La questione dell’aiuto è di trovare i modi per cui l’itinerario prosegua. Qualcosa si è incagliato, non si tratta neanche di disincagliarlo, ma si disincaglia da sé nel momento in cui i termini si chiariscono, nel momento in cui la fantasmatica si precisa e allora la cosa prosegue. Quindi, quello che prima veniva posto come questione del finalismo, se la scuola deve essere funzionale a un certo tipo di lavoro o di professione, riguarda proprio questo problema.
Talvolta viene creduto di dovere dare una risposta sostanziale a qualcosa che invece riguarda l’itinerario, cioè il modo, il come, il quando della ricerca. È soprattutto questo che per ciascuno importa: trovare che cosa fare, come fare e quando fare, cioè reperire i termini e i modi di un dispositivo in cui esistere, in cui vivere.
La scuola, quanto a questo, ha una funzione essenziale, straordinaria, sia la scuola dell’infanzia, sia l’istituto superiore, perché ciascuna età esige un suo dispositivo. Che sia il gioco, lo studio o il lavoro, esige sempre un dispositivo. È una questione che riguarda l’orario, che riguarda come, con chi e quando fare ciò che occorre, in modo che non prevalga il soggettivismo, cioè l’idea che la cosa la posso fare quando voglio io, quando ne avrò tempo, quando diventerà facile, modalità che indicano che non c’è più dispositivo.
Nel momento in cui si enuncia una simile posizione, non c’è più dispositivo, c’è il soggetto: “Questa cosa la faccio se mi sento libero di farla, perché se non mi sento libero, non posso farla”, perché vorrebbe dire che io faccio una cosa che mi è imposta da un altro.
Ecco l’Altro come rappresentazione del persecutore, del tiranno, del vampiro, del padrone, della legge severa. Ma, allora, quando io vorrò fare questa cosa? Mai! Perché mai? Perché, nel momento in cui questa fantasia si afferma e si fissa, vale, e vale per sempre, per cui il rimando che la fantasia comporta troverà sempre un appiglio per affermarsi.
La questione è quella di un progetto e di un programma sia nel bambino sia nell’adolescente. In ciascun momento, per ciascuno, è imprescindibile il progetto e il programma. Anche il progetto del gioco.
Machiavelli diceva che il dispositivo di battaglia è la giornata, perché le guerre si vincono o si perdono nella giornata. Non è che uno perde la guerra nel corso di un anno. No, nella giornata vince o perde la guerra, vince o perde la battaglia. Rispetto a ciò che occorre fare, è l’istante che conta, la giornata come l’istante. Quindi, il dispositivo della giornata, il dispositivo della battaglia, il dispositivo per fare quel che occorre fare.
Occorre fare in che senso? Perché? Chi lo dice? “Chi l’ha detto che adesso io devo andare a letto?”, “Chi l’ha detto che adesso io devo studiare?”, “Chi l’ha detto che adesso io devo fare i compiti?”, “Chi lo dice che devo smettere di giocare?”, “Da dove ti viene l’autorità per dirmi quello che devo fare?”.
Tutto ciò è il materiale con cui l’insegnante, l’educatore, il genitore, s’imbatte e deve fare i conti per le sue indicazioni, per le sue proposte, per le regole, le norme e i motivi con cui si instaura un dispositivo efficace. I programmi sono pretesti per il dispositivo, costituiscono norme, regole e motivi non da abolire, ma di cui avvalersi, perché con questi si attua la partita. Come? Il come è vario, il come è differente e vario. E non è da abolire nulla, ma occorre avvalersi di tante cose.
Ciò richiede certamente uno sforzo, richiede la politica, la strategia e la questione della sessualità anche nell’infanzia, indubbiamente. Non è da scartare perché nell’infanzia il bambino deve seguire un itinerario già stabilito, perché anche lì tante cose avvengono in vario modo.
Mi pare non casuale che il dibattito si sia orientato in questa direzione a partire dalla questione educazione e scuola, nel senso che la scuola, e quindi ciascun insegnante, non è che ha da demandare a altri la formazione del cittadino dell’avvenire: è nel suo mansionario!
La questione dell’avvenire, non tanto del futuro, ma dell’avvenire, cioè del modo con cui le cose avvengono, è assolutamente questione essenziale nella scuola.
In questo senso, qual è il tempo della scuola? Il tempo della scuola è l’attuale, cioè occorre che la scuola si situi in ciò che sta accadendo, nell’atto, in un dispositivo attuale. In questo senso occorre la formazione clinica dell’insegnante, per intendere ciò che è in atto! Non si tratta né di vagheggiare una società migliore, fantastica, nel futuro, né di rimpiangere la mitica età dell’oro ormai irrimediabilmente trascorsa, ma di fare, lì, nell’atto, di cogliere cos’è in atto, cosa sta avvenendo. Come sta avvenendo ciò che sta avvenendo? Come non aderire alle mitologie sostanzialiste, drogologiche, del rimedio, della salvezza, della guarigione dell’Altro?
Questa è la scommessa come scommessa intellettuale, ciò che per l’insegnante mi pare imprescindibile: come fare, come intervenire, come giocare giorno per giorno la partita, perché l’anomalia da cui ciascuno parte, con cui ciascuno esiste, con cui ciascuno parla, si scriva fino alla qualità, perché l’anomalia di ciascuno approdi alla qualità! Non come fare perché l’anomalia sia corretta, guarita, curata, normalizzata in modo che approdi a un comportamento normale, ma come l’anomalia di ciascuno possa trovare il modo per giungere alla qualità!
Questo è il compito dell’insegnante, come compito intellettuale: non correggere, non rimproverare, non punire, non curare, ma indicare come l’anomalia possa trovare la qualità!
G.T. Come ciascuno possa dare e raggiungere il suo massimo anche nell’anomalia, e non ricondurre l’anomalia alla normalità.
R.C. Non dando all’anomalia un significato negativo.
G.T. Le differenze, dove nelle differenze può esserci l’anomalia, cioè la diversità forte.
R.C. Adesso lei introduce un’altra cosa. Non si tratta dell’anomalia rispetto a qualcosa che non è anomalo, ma dell’anomalia assoluta. Si tratta d’intendere che ciò che si enuncia in ciascun caso è l’anomalia, cioè la caratteristica.
