Generalmente, normalmente, comunemente.
Come nonostante l’epoca il cervello non va all’ammasso.
Il titolo di questa sera è : Comunemente, generalmente, normalmente. Come e perché nonostante l’epoca il cervello non va all’ammasso. Qui si potrebbe aggiungere nonostante l’epoca e la pervicacia di alcuni e l’ingenerosità di altri. Dunque, generalmente, comunemente, normalmente, tre modi con cui si annuncia per vie traverse il fantasma di padronanza, il fantasma dell’ammasso, il fantasma di partecipazione, di condivisione, di adesione, di comunanza, di comunella, di appartenenza, di familiarismo, insomma di adesione alla soggettività, quella soggettività che stabilisce, rispetto a qualcosa da fare, di pensarci se farla o non farla. Il fantasma di padronanza sorge, si istituisce per tentare una presa sulla parola, e su questa idea di presa sulla parola, di gestione della parola, di controllo, di possibilità di mediazione con l’urgenza che la parola indica, si erige il discorso di padronanza. Sono molte le fantasie per cui sorge quest’idea di presa, quest’idea di contrapposizione, quest’idea di prestanza, di prestazione rispetto a cui il rivale è subito pensato, congetturato, instaurato. Uno dei modi con cui si esercita questo fantasma di padronanza è la fantasia di possessione, fantasia di possesso e dunque di essere posseduto, di poter possedere, di poter avere, di poter essere, perché è con la fantasia di possessione, quella per cui ognuno è preso nell’idea di sé o nell’idea dell’Altro come rappresentabile, è con questa fantasia che dunque è di possessione che uno si costruisce il suo ritratto, e si fa personaggio, diventa il personaggio della sua epopea, della sua storia passata, della sua storia tribolata, della sua via crucis rappresentata, rappresentandosi, infatti, come povero Cristo. Il fantasma di possessione ha avuto la sua notorietà e sua pubblicità fin da Platone, con l’idea di una possessione diabolica o divina, demoniaca, che poteva contraddistinguere ora il pazzo, ora il poeta. Per Platone la poesia non è un’arte, è il segno della possessione divina, e la pazzia non è una malattia, è il segno della possessione diabolica, e da Platone in poi questo segno si è mantenuto dall’indemoniata alla strega, al pazzo, a ognuno in quanto padrone di sé, in quanto se stesso.
C’è chi è padrone di sé, chi non è padrone di sé e, insomma, la questione è sempre la padronanza di sé, l’idea di sé, e quindi il fantasma di padronanza giustifica l’anoressia mentale, ciò che si oppone all’anoressia intellettuale come principio della parola. Il fantasma di padronanza, come fantasma di possessione, non crede alla virtù del principio della parola, non crede alla libertà, non crede all’anoressia, non crede alla leggerezza, non crede. Credere, non credere, questa la padronanza. “Non credo se non so, non credo se non vedo. Non credo se non ho, non credo se non sono”. Non credo. Credo, non credo. So, non so. Sono, non sono. Ci potrebbe credere se lo vedesse, se lo sapesse, se potesse vedere, se potesse sapere… che cosa? La dimostrazione di questo principio, di questa virtù. Come credere senza vedere, senza sapere? Ma si tratta di credere? Di non credere? Di sapere? Di non sapere? Il processo intellettuale è senza dimostrazione, è senza argomentazione, è senza convincimento, cioè è senza obbligo di credere. Esige la fede, non l’obbligo della visione, non, quindi, l’obbligo al legame sociale, l’obbligo di appartenenza, l’obbligo alla sostanza. Non c’è quest’obbligo, la cui punta sarebbe il convincimento. Ciò che si fa, ciò che si scrive, ciò che si cifra è senza dimostrazione; invece il fantasma di padronanza esige la dimostrazione. “Mostrami, dimostrami che sei veramente padrone di te stesso. Dimostrami. Fallo. Dammi questa dimostrazione. Fa’ che io creda. Fa’ in modo che io creda. Dimostrami.”. “Buttati!”, “Mostrami!” Si crede furbo il fantasma di padronanza. È furbo. Fruisce di quella furbizia della ragione soggettiva che porta a escludere il diritto e la ragione dell’Altro. “Mostrami! Dimostrami! Fa’ che io creda, che io possa credere. che possa convincermi, che possa superare le mie riserve, le mie titubanze, le mie remore, le mie credenze”, per magia. Quindi esercita questa furbizia contro la mano intellettuale, per abolirla, contro la logica della nominazione, per abolirla, contro il tempo, per abolirlo, per abolire la sua istantaneità a favore di una durata, di un’ontologia, di un essere delle cose. Invoca un deus ex machina, un agente ex machina che possa esercitare la conversione, la confessione, la trasformazione, il mutamento, il cambiamento. Quindi per un verso invoca questo agente ex machina, ma è furbo, furbissimo, lo invoca ma non è necessario, può bastare l’idea di sé, in cui rimanere preso, in cui essere preso, e questa idea è agente. È l’idea che prende. È l’idea da cui venire posseduto. E una volta posseduto dall’idea, ognuno è così, è come l’idea lo rappresenta. E dunque è ancora fantasma di possessione quel che si rappresenta come mimetismo, ora mimetismo dell’origine, ora mimetismo del destino, ora mimetismo dell’appartenenza, e qui la furbizia gioca la sua dimostrazione, costi quel che costi.
Narrativamente, un caso di possessione non diabolica né divina, possessione dell’idea dell’Altro, dell’idea di sé, è ben illustrato nel film Zelig, un film notissimo, ciascuno l’avrà visto, e è rappresentato dal protagonista, Leonard Zelig, che porta a paradosso l’imperativo sociologico e psicologico “sii te stesso”, chiedendosi: “Cosa vuole l’Altro? Cosa vuole da me? Come posso saperlo? Come posso esserlo? Come posso conoscere ciò che l’Altro vuole da me, ciò che l’Altro pensa di me? Cosa devo fare per soddisfare l’Altro? Facendomi Altro. Rendendomi Altro. Diventando l’Altro”. E infatti Zelig diventa l’Altro. Vicenda dopo vicenda fa l’Altro, diventa l’Altro, rappresenta l’Altro, raffigura l’Altro, diventa il ritratto dell’Altro per soddisfare l’Altro, per soddisfare l’idea che ha dell’Altro. Il fantasma di possessione, quindi, tende a evitare l’articolazione, lo svolgimento, la qualificazione, la narrazione, il racconto di ciò che si incontra, fino a esaltare la comunicazione telepatica, o il potere invisibile attribuito all’Altro, all’Altro immaginifico, all’Altro rappresentato, quindi attribuito a ogni altro che con un suo gesto, con un suo atto possa confermare l’idea da cui è preso. E ecco quindi l’idea di una comunicazione telepatica, di una scrittura automatica per telepatia, di una trasmissione energetistica, senza parola, con effetti di trasformazione senza articolazione. Oggi queste pratiche sono imperanti: massaggio, fiori di Bach, Reiki, le pietre di un tipo o di un altro tipo, tutto ciò che possa fornire energia positiva togliendo quella negativa, per il benessere, per la costituzione di un soggetto mondato, un soggetto senza più la materia intellettuale. Soggetto energetico, un soggetto che scambia energia, non ciò che non ha, ma l’energia, che ha e che riceve, senza parola: con le mani, con la bacchetta.
La materia intellettuale è abolita a favore di un’energetistica, quindi a favore di un quantum energetico imperscrutabile, inconoscibile, che trae al benessere o al malessere, senza parola, per assorbimento come la pietra di Bologna, che assorbe la macchia. Come esercitare il controllo sull’Altro, ipotizzando di conoscerlo, ipotizzando i suoi pensieri, i suoi voleri, i suoi desideri. “Che penserà lui di me? Che penseranno gli altri di me? Cosa vorrà l’Altro da me?”. Così l’Altro è ben che rappresentato da qualcuno, da qualcun altro, cioè abolito, tolto perché l’Altro né vuole, né pensa, né desidera, tanto meno gode. L’idea dell’Altro e l’idea di sé attribuita all’Altro fondano il soggetto e aboliscono l’Altro, e da qui la rappresentazione della materia inerte, la rappresentazione dell’assenza di domanda: “Non so che fare, non so che dire, non so dove andare. Non so. Non ho. Non sono.” Quindi alla rappresentazione del soggetto svuotato, del soggetto vuoto, del vuoto a perdere, non c’è che la coerenza del fantasma. Da dove viene l’idea che l’Altro è quello di cui stiamo parlando, abbia un’idea di noi, abbia l’idea di me, abbia l’idea di qualcuno, abbia l’idea? L’Altro non ha idee; l’Altro funziona, funziona nel racconto, funziona nella ragione e nel diritto dell’Altro. Né opera, né agisce, cioè ognuno può aderire alla paranoia sociale pensando che c’è qualcuno che pensa di lui qualcosa, e che quindi deve adattarsi all’idea, conformarsi all’idea, alla rappresentazione sociale della soddisfazione di questo qualcosa, ma questa è paranoia. Cioè l’idea di conoscere l’Altro che pensa, l’Altro che giudica, l’Altro che istituirebbe legame sociale. Siamo nell’assenza di ragionamento, siamo nell’allegoria delle relazioni sociali, come se la relazione, divenendo sociale, quindi temporizzandosi, potesse portare alla verità ultima di sé o dell’Altro. Siamo fuori dalla parola, siamo fuori dalla materia intellettuale, siamo in piena psicopatologia psichiatrica, siamo all’antropomorfizzazione dell’Altro, così come avviene, popolarmente, l’antropomorfizzazione di dio: il dio agente, il dio che giudica, il dio che punisce, il dio che premia, il dio idiota. Il povero dio che somministra la pozione: ora un premio, ora la punizione. Poveraccio, non ha niente da fare, sta lì. La soggettivazione di dio, la superstizione eretta a sistema, l’abolizione della parola porta a questo. La disintellettualizzazione, la massificazione del cervello ossia l’abolizione del cervello, come mandare il cervello all’ammasso, aderendo a queste rappresentazioni inintellettuali. Ma qual è quindi il vantaggio che porta il fantasma di possessione?
La realizzazione del fantasma di possessione porta alla conferma del soggetto come animale fantastico. Ma lì dove riesca questa conferma, è deprimente, e non a caso la depressione è dilagante. Depressione che si realizza con l’assunzione dell’immagine di sé, con la visione realistica di questa immagine, ossia con la visione dell’autoritratto: “Io sono così”, e lì avviene lo schianto. “Io sono questo”, senza pulsione, senza domanda. “Eccomi”. Ecce homo, il ritratto. La psichiatria, la psicologia, con la loro trattatistica, prescrivono a ognuno il proprio ritratto per indicare la corretta morfologia del ritratto, sulla scia del Lombroso, e chiamano questa ritrattistica, questa assegnazione del ritratto, personalità. Stamattina sono capitato, quasi per caso, in questo nuovo centro cosiddetto culturale di San Gaetano, in via Altinate, dove c’era il tribunale, e c’era un convegno in corso e illustrava questa ritrattistica, e l’oratore asseriva che “il contributo della psicanalisi sta nella diagnosi di personalità borderline”, e era rammaricato perché “il contributo della psicanalisi, nel passaggio al DSM IV dal criterio di diagnosi del Manuale psicodiagnostico, non c’è più”. Poverino, era molto avvilito. Questo sarebbe il contributo della psicanalisi alla diagnostica. Alla personalità borderline. Ohibò, la personalità. Illustrava le varie personalità, era un convegno per la specialistica, la specialistica in psicologia clinica. Psicologia clinica. Qui dovrebbero decidersi: o psicologia o clinica. Psicologia clinica cosa vuol dire? Clinica della psicologia o psicologia della clinica, o psicopatologia della psicologia. Sta di fatto che questa ritrattistica è in voga.
C’è chi ci crede, chi asserisce di non crederci ma dà il suo contributo, rappresentandosi, contenendosi, limitandosi, asserendo di essere questo, quell’altro, questo deficit, quell’altro, per via di questa origine, di quest’altra. Dunque il ritratto, ossia la diagnosi, diagnosi di quel che si è, diagnosi di quel che si ha, per esercitare il pettegolezzo, ossia il metalinguaggio. Il discorso su di sé, il discorso sull’Altro è pettegolezzo, è metalinguaggio, è questa la psicopatologia. Ogni psicopatologia si fonda su questo, sull’abolizione della parola, e chi si presta a questo si presta alla morte bianca. Questo discorso di padronanza è il discorso fondato sulla prescrizione al plurale che ingiunge la normalizzazione della di differenza e della varietà, l’appartenenza alla presunta comunità, l’inserimento nell’insieme dell’equivalente generale dei tutti. Ma non c’è il caso dei tutti, né il caso di tutti. Impossibile fare di un’erba un fascio e di un fascio un’erba seppur, paradossalmente, per l’apparente via del realismo fino all’ iperrealismo che indica l’impossibile abolizione del malinteso. Zelig insegue la tensione al caso dell’unicum, al caso di qualità, e il fantasma di padronanza non abolisce la questione intellettuale. Infatti non si appaga con la sua realizzazione, Zelig continua a inseguire il suo fantasma. Allora ribadisco l’offerta di questa collana, sei numeri, 25% di sconto, per non costituirsi come candidato Zelig, ma invece candidati al caso di qualità.
Dodicesima conferenza della serie La scuola del disagio e dell’ascolto