Terzo capitolo del volume La realtà della parola
Il delirio e la clinica
Ruggero Chinaglia Ci sono domande riguardo a cose che abbiamo affrontato negli altri appuntamenti, in direzione di questa sera? Trattandosi di un’équipe si tratta di un lavoro che procede, man mano.
Patrizia Ercolani Io mi chiedevo se il delirio è un debordamento.
R.C. Sì, cioè?
P.E. Se il debordamento è qualcosa che va fuori dal bordo… Non so se si può dire che la fiaba è una proliferazione di fantasie…
R.C. È una proliferazione…
P.E. Sì, da una fantasia a un’altra fantasia. Un racconto di fantasie.
R.C. La fantasia prolifera? Dà prole. Produce prole. Proliferazione vuol dire questo, che c’è prole, una proliferazione di prole, qualcosa che è considerata come prole, con una genealogia che…
P.E. In una fantasmatica, per esempio.
R.C. Lei dice che una fantasia è una prole. Ha un’origine e una fine.
P.E. Non necessariamente. Una fantasia accanto a un’altra fantasia, senza discendenza.
R.C. Senza proliferazione.
P.E. Sì. E se questo “regno dei fantasmi” possa dirsi un delirio. Non so se la questione della connessione dei fantasmi concerne un debordamento, e dire debordamento vuol dire che c’è un bordo, qualcosa esce, sborda, va…
R.C. Casca? Va fuori? E dove va se va fuori dal bordo? Se deborda?
P.E. Appunto, in un delirio, in una fantasia.
R.C. Va in un delirio… Altrimenti sarebbe preservato.
P.E. Non so, perché questa nozione di bordo non so se è esatta. L’ho sentita, l’ho letta, ma non l’ho chiara.
R.C. Sì, ma soprattutto è il termine delirio che occorre qualificare.
P.E. Sì, ma mi era venuta in mente la storia del debordamento, per quello che avevo detto prima, come proliferazione, come troppo, come tanto, come eccedenza. Quello che non capisco è se l’eccedenza, questo “di più”, è rispetto al funzionamento, se è funzionale. M’interrogavo se il delirio è un termine che indica un funzionamento e quindi certo non è patologico, quantomeno.
R.C. Ecco, perché siamo a una questione nodale, in effetti.
P.E. E poi mi chiedevo se il delirio si pone rispetto al punto. Se c’è un punto che produce delirio. Non so se il delirio sia strutturale, quindi non sia il male nel senso moralistico, psichiatrico e psicologico. Se è strutturale è perché c’è funzionamento. Ecco, m’interrogavo intorno a questo.
R.C. Bene. Altri?
Fabrizio Moda Il film di giovedì scorso poneva il caso di una donna che aveva dei deliri, delle allucinazioni particolari. Però, deliri, in pratica, simili, tipo i deliri sul pericolo giallo, sui pericoli per cui bisogna premunirsi, chiudere le frontiere e quant’altro, sono diffusissimi. Eppure non sono meno micidiali di quelli della protagonista. Sembra quasi che l’unica differenza che si può notare tra queste due forme di delirio, è che quella dell’interprete era particolare, fuori dalla consuetudine, dalla media, mentre i deliri comuni sono considerati normalità, e quindi non possono svolgere quella funzione, né dare quella possibilità d’indagare sul delirio. Cioè, se il delirio è comune va bene, tutti lo accettano. Questo delirio – di volta in volta ce n’è uno – essendo comune, tutti si considerano normali, mentre per la protagonista c’è una chance, un modo di elaborare questa fantasia e magari giungere a una certa qualità a un certo percorso di parola.
R.C. Una “certa” qualità?
F.M. A seconda della fantasia, tutto sommato, la protagonista manteneva una certa fantasia, mi è parso. Ma, d’altronde, o questo è inevitabile, cioè fa parte di una struttura logica per cui, nel tenere conto che la struttura della parola è così, bisogna darsi da fare, o l’alternativa sarebbe, per forza di cose, la malattia mentale del singolo o del gruppo.
R.C. Beh, se è ammessa per il singolo poi può essere ammessa per il gruppo e viceversa.
F.M. Certo.
R.C. Bene, però occorre considerare qualche ulteriore elemento di questo film, Babadook, che certamente ci fornisce il materiale per affrontare il tema di questa sera.
Non è casuale che, dopo l’incontro dedicato alla lettura di questo film, intitoliamo Il delirio e la clinica, che è giusto un cenno questa sera, perché è un tema effettivamente di ampie proporzioni su cui si potrà tornare. Però, il film ci fornisce del materiale, delle indicazioni.
Intanto, per esempio, la versione originaria del film è uscita con il titolo The Babadook, invece in italiano è Babadook. “The” Babadook, sta a indicare che c’è qualcuno o qualcosa di cui si tratta: un termine, un personaggio, un qualcosa, una questione, un significante, un nome che interviene in una scenografia, in una vicenda, in una storia, in un racconto e che si tratta di capire come interviene. Di cosa si tratta e come interviene. Non qualcosa che è, ma come qualcosa interviene in una vicenda, in una storia.
Questo ci avvicina al modo della lettura delle fiabe che, nella maggior parte dei casi, sono considerate non già racconti, ma stati di fatto, come se la fantasia che nella fiaba si racconta non fosse da leggere, ma da prendere così com’è e riproporla nel suo realismo, quasi confrontandola con quella realtà convenzionale da contrapporre a una realtà fiabesca. Questo modo della contrapposizione non è lettura.
Il film indica, con la combinatoria delle immagini e del testo, qualcosa che non è la realtà dei fatti, non è nemmeno la realtà convenzionale, è qualcosa che si racconta. E si racconta avvalendosi del mezzo che, differentemente da un libro, si avvale anche delle immagini. Non solamente delle immagini che il lettore si produce da sé, ma delle immagini che sono importanti nella loro combinatoria con il testo. La lettura è lettura di questa combinatoria.
Che ci sia l’esigenza di leggere il film indica che ciò che il film ci mostra non è reale. Ciò che viene raccontato non è reale. È racconto. Il racconto non è reale.
La storia che viene raccontata, ciascuna storia, non è reale. Non è mai reale!
Se fosse presa come reale, sarebbe la negazione della storia. Non è più storia. È una cosa! La storia sarebbe cosificata, cioè sarebbe in assenza di varchi in cui può prodursi il senso, il sapere, la verità “leggendo”, cioè ascoltando in maniera differente da una modalità giudiziaria in cui si tratterebbe del fatto e del suo realismo. Sia il film, sia il romanzo, sia la storia, sia il racconto, sia la fiaba, sia la novella non sono mai da intendere come reali.
Si tratta di trovare, invece, i varchi in cui c’è Altro, in cui s’istituiscono la differenza e la variazione rispetto a un presunto realismo rappresentato. Ma, se la cosa viene assunta realisticamente, allora il racconto è vanificato: non c’è nessuna lettura, non c’è nessuna comunicazione, non c’è parola. Che vi sia parola è dato proprio dalla dissipazione del realismo giudiziario e dall’instaurazione dell’ascolto per cui si produce Altro quanto all’immagine, ai nomi, ai significanti che intervengono nel racconto.
È perché ci sono questi varchi nella parola che è possibile leggere il testo, analizzare il testo, il racconto e giungere alla legge, all’etica e alla clinica della parola. Non la legge, l’etica e la clinica del discorso disciplinare per cui c’è il codice, la legge codificata, l’etica come comportamento e la clinica come patologia. Qui si tratta della legge, dell’etica e della clinica come compimenti di una struttura linguistica: la legge come compimento della Sintassi, l’etica come compimento della Frase, la clinica come compimento del Pragma.
Queste sono strutture linguistiche in cui si tratta di nomi e significanti che funzionano e che variano e della loro combinatoria, e anche di Altro. Occorre innanzitutto accorgersi e ammettere che la parola sta in questa struttura. Senza questa struttura non c’è parola. C’è, forse, convenzione. C’è qualcosa di monolitico. Ma non c’è parola.
È grazie a questa struttura mobile, temporale – non una struttura formale, ma temporale – che non è postulata ma è in atto, che quel che si dice non è mai detto, non rientra in un codice comunicativo già dato, e esige l’ascolto.
Non ci sarebbe nessuna esigenza di ascolto se quel che si dice fosse già codificato e rientrasse nella casistica del già detto.
Basterebbe fare il formulario dei detti e avremmo un codice interpretativo valido a tutti gli effetti. Ma non è così. Per accorgersene, basta parlare. Basta provare a tradurre in una significazione stabile ciò che si dice: si aprono varchi costantemente! E quel che si dice non rientra mai in un già detto che possa contenerlo.
Questo è costatabile nel film Babadook, in cui si tratta di un libro malvagio: a bad book. Questo è il protagonista del film. Un libro malvagio. Cioè, un libro che è preso nella dicotomia tra il bene e il male. E questa dicotomia che investe il libro investe, poi, ciascuna cosa, perché nel momento in cui è ammessa questa alternativa esclusiva tra il bene e il male, tra il fine di bene e il fine di male, ogni cosa viene gravata da questa significazione e non entra più in un processo di qualificazione, perché è presa nell’alternativa: o è bene o è male! Non c’è più niente di Altro. Non ci sono più varchi, almeno apparentemente.
Il film ci dice questo, che interviene a bad book, cioè la rappresentazione dell’alternativa fra il bene e il male, che vale sia per la mamma sia per il bambino, sia per Amelia sia per Samuel, che, dunque, non sono le stesse persone. Un conto è il bambino e un conto è Samuel e Amelia ci tiene a precisarlo: “Non lo chiami ‘il bambino’, si chiama Samuel”. E non è una banalità linguistica. È il modo con cui un significante non corrisponde al nome. E, analogamente, la mamma non è uguale a Amelia.
Nel film intervengono vari personaggi. Ma, in che modo avviene, a un certo punto, la dissipazione dell’incubo, per cui Babadook non sovrasta più ogni gesto, ogni circostanza? Perché a un certo punto Babadook svanisce? Come mai? Che cosa interviene nel film a giustificare che Babadook non c’è più? Ve lo siete chiesto e avete risposto?
Barbara Sanavia Perché ha buttato fuori questa cosa che le premeva e che rappresentava il male. L’ha espressa e se ne è liberata. L’ha affrontata. L’ha fatto uscire.
R.C. L’ha fatto uscire? Quella è una conferma!
B.S. Però l’ha riconosciuta.
R.C. Non si tratta di quello. Anzi. Babadook non sparisce perché viene vomitato fuori, rispondendo alla prescrizione che ciò che entra deve poi uscire. Questa è una modalità molto umana. Quello che entra deve poi uscire. Banale. No, non è quello. Ah, ecco chi la sa lunga.
Sabrina Resoli A un certo punto dice: “Non sei niente”.
R.C. Sì.
S.R. Forse sto sbagliando, però…
R.C. Sono elementi. Ma, cosa interviene, a dissipare la struttura dicotomica? Questa alternativa tra bene e male, fra un buon libro e un cattivo libro, fra la buona madre e la cattiva madre, fra il buon bambino e il cattivo bambino, fra la realtà buona e la realtà malefica, che cosa interviene?
B.S. Ha riconosciuto quest’idea che aveva. L’ha ammessa. L’ha compresa.
R.C. Ah! È stata brava! Ha portato alla coscienza ciò che cosciente non era!
B.S. Ciò che negava, forse.
R.C. No, c’è qualcosa che proprio il film indica chiaramente e, apparentemente, la cosa è inspiegabile. Non è per buona volontà, o per buona condotta. Perché a un certo punto interviene?
Pubblico Il marito.
R.C. Il marito?
Pubblico So che non era morto.
R.C. È chiaro che il marito non è morto.
Interviene il grido. Il grido. Interviene la voce! Il grido come accento posto sulla voce, quale punto vuoto. Il punto di astrazione. Interviene non più l’alternativa tra il bene e il male, ma il punto di astrazione che marca la trialità, la trialità dell’oggetto. E con la trialità s’instaura anche l’Altro, che prima era negato, espulso in nome di questa dicotomia.
Non è che prima la trialità non ci fosse, non è che l’Altro non ci fosse, ma era negato. Non è un intervento farmacologico o pedagogico o magistrale o terapeutico. Non è per azione di qualcosa o di qualcuno che intervengono la voce e l’Altro, perché sono strutturalmente nella parola. E per quanto la parola possa essere negata, c’è qualche varco attraverso cui questa economia, questo contenimento della parola fallisce e la sua logica e la sua struttura passano, s’instaurano, accadono.
Cosa sospende il grido? Sospende la significazione. La significazione postulata che, quel che accade deve essere o di segno positivo o di segno negativo. Cioè, preso in un’alternativa, in una dicotomia, in una significazione che viene rappresentata nel positivo o nel negativo, nel libro buono o nel libro malvagio, nel personaggio buono o nel personaggio malvagio, nel bambino buono o nel bambino cattivo.
Un conto è se quel che accade deve rientrare a tutti i costi in questa significazione, un altro conto se, a un certo punto, interviene la tripartizione del segno: nome, significante, Altro. E questa tripartizione non è più possibile economizzarla, contenerla, non è più possibile espellerla in nome della dicotomia. Non riesce più l’espunzione dell’apertura, che è senza alternativa fra alto-basso o dentro-fuori. E non è o dentro o fuori, così che quel che entra “dentro” poi deve uscire “fuori”. Questa è ancora una rappresentazione della circolarità, dell’uroboro, del cerchio che si alimenta del positivo e del negativo per circolarizzare le cose, per la significazione.
La questione è come avviene la sospensione, la dissipazione della negazione della trialità, della logica singolare triale e della logica diadica.
La diade è senza dicotomia.
L’apertura è la diade su cui non può essere praticata la dicotomia e grazie a cui ciascuna cosa può entrare nel processo di qualificazione per via della logica singolare triale. Questo è l’accesso alla parola: la sospensione della logica aristotelica!
L’interesse del film sta in questo, sta nel fatto che non stabilisce chi ha ragione e chi ha torto, non dà una versione purgata della realtà. Lascia a ciascun lettore interpretare e capire qual è il seguito, come proseguirà la faccenda. E, peraltro, non dà nemmeno la verità o la realtà dei fatti narrati. Propriamente non narra fatti. È senza fatto! Non ci sono fatti. Ci sono parole, immagini, vicende, un racconto. Chi ha ragione e chi ha torto nel film?
Il film lascia che ciò che è raccontato, narrato, rappresentato trovi lettura, cioè lascia che si possa leggere la struttura onirica del racconto, perché di questo si tratta. È un racconto la cui struttura onirica non è tolta. E ciò è indicato con due fotogrammi. Che si tratti di un racconto onirico è accennato, è alluso. Ma chi lo capisce, lo capisce, e chi non lo capisce… pazienza.
La lettura è libera, per cui non possiamo neanche dire che la regista voleva o non voleva qualcosa. D’altronde, non interessa nemmeno cosa volesse o cosa non volesse. C’è la realtà intellettuale del racconto che si lascia leggere. È un caso di generosità intellettuale notevole, senza la verità ultima, senza la versione ufficiale dei fatti. È un film che lascia la struttura delirante del racconto. De-li-ran-te!
Delirante, che cosa indica, qui? Non l’alternativa al corretto resoconto, ma la struttura delirante, cioè viaggiante. Il delirio è questo: erranza, vagabondaggio, svolta. Qualcosa di non uniforme e non predefinito il cui andamento non è predeterminato. Delirio. Il delirio nella parola.
C’è uno sforzo da fare, per cogliere questa accezione di delirio, perché l’accezione più comune è certamente differente. L’accezione comune di delirio ha una significazione ben precisa che lo ghettizza e è questa: “Stato psicopatologico caratterizzato da una alterata interpretazione della realtà, anche se percepita normalmente sul piano sensoriale, per una attribuzione acritica di significati abnormi a percezioni, ricordi, idee”.
“Stato”. Uno stato, un’entità che indica uno stato, un morbo. E questa accezione ci spiega da dove deriva questo termine e, nonostante questo, viene ribadita questa accezione di stato.
L’accezione di delirio viene dal latino, dal termine lira, de-lira. Lira è il solco e de-lira è il deragliamento, l’uscita dal solco. E come avviene questo che i latini chiamavano l’uscita dal solco, a dire che non basta un solco a imprigionare quel che si dice? Per indicare il binario? Il ghetto del vocabolario psicopatologico che cosa precisa? Uscire dal solco, ossia dalla diritta via della ragione, perché la ragione deve avere una diritta via. La diritta via della ragione. Ma nel termine lira non c’è la diritta via della ragione. C’è il solco.
Allora, il delirio indica, anche etimologicamente, questa uscita, questo deragliamento, questo debordamento, questo andare fuori, andare in giro. Andare in giro, soprattutto. Fuori dal solco e in giro, dove va? Fuori! E non è fuori dalla diritta via della ragione. È fuori dal solco. Cioè fuori da qualcosa di rigido, di prescritto, fuori dalla significazione.
Ricorrendo all’etimo non si può trascurare l’indicazione linguistica di questo termine che dice di un modo dell’erranza della parola. La parola erra. Non che è sbagliata. Erra, cioè se ne va di qua e di là. È presa in una erranza dei nomi, in una deriva dei significanti, in un vagabondaggio della differenza e della varietà. Nulla di stabile, nella parola. Tantomeno il delirio. Certo, non uno stato ma un modo. Una bella differenza!
È una bella differenza che si tratti di un modo e non di uno stato, perché il modo è il modo dell’accadere e lo stato è lo stato dell’essere. Non è la stessa cosa! Soprattutto se teniamo conto che dal delirio procede l’effetto artistico, perché riguarda la variazione. E procede un effetto di sapere che segue alla variazione. Questo è il delirio.
Delirio come debordamento, in quanto procede dal bordo pulsionale, dal bordo della variazione. E come si chiama questo effetto di debordamento? Si chiama insegnamento. L’insegnamento è l’effetto artistico del debordamento della parola, perché le cose variano, non sono stabili, non rispondono a una epistemologia. Rispondono a un effetto artistico, anzi non rispondono affatto, lo instaurano.
Il delirio è un processo strutturale che non trae origine dalla realtà per stravolgerla. “Alterata interpretazione della realtà”, dice la definizione canonica. No! È il debordamento! Debordamento rispetto a cosa? Si tratta di capire.
Che poi intervenga un’alterazione, un’alterità è chiaro, ma come e perché? Non per un processo morboso, ma per una particolare combinatoria, il cui perché e come sono da capire. Purtroppo, il delirio è considerato incurabile.
Certo, è incurabile il delirio! Anche con gli psicofarmaci può attenuarsi, ma non scompare. Ma per forza, ciò ha un suo perché, ha una sua coerenza! È vano confutarlo o negarlo. Come si può negare un processo? In nome di che cosa? Di una verità canonica? Di una verità prestabilita? Di una verità assegnata? E no! Il delirio non procede dalla verità, procede per debordamento. È un debordamento strutturale.
Non è delirio solamente ciò che nega ogni canone, ma è delirio anche ciò con cui si racconta qualcosa. Il racconto non è esente da delirio. La storia è delirante. Il racconto è delirante. La narrazione è delirante.
Dove va questo delirio? Nell’itinerario intellettuale, il delirio, dove si rivolge? Si rivolge al processo costruttivo, di costruzione della realtà intellettuale.
Negando la parola, negando la realtà intellettuale, interviene una rappresentazione della realtà e chiede ascolto. Ciascuna rappresentazione chiede ascolto ma, certamente, negata la parola la faccenda si fa drammatica, come dice il film, come ci mostra il film. Negando la parola, ogni avvenimento è drammatico, perché è o a fine di bene o a fine di male. E ciò è drammatico. Questa alternativa è drammatica! Non perché è delirante, ma perché è tolto il delirio! È tolto il viaggio! È questo il drammatico. Cioè, s’istituisce il sistema. È questo che è drammatico: l’inserimento in un sistema. Il dramma comincia lì.
Il sistema è senza parola, perché la parola non è sistematica, non è sistemica. È in assenza di sistema. Il sistema risponde a uno o più postulati, cioè nega la parola e diventa prigione, diventa gabbia, diventa rappresentazione del finito e della fine. È solamente ipotizzando un sistema che possiamo presumere un elenco dei deliri.
E come può intervenire l’articolazione di una visione drammatica della realtà, in quanto sistematica, per chi pone il sistema come fondamento del suo stesso apparato? È paradossale. Sarebbe paradossale che potesse avvenire questo, che potesse riuscire. Infatti non riesce.
La questione che il delirio pone è la sua struttura. Si tratta, in ciascun caso, di un processo costruttivo. Il delirio è un modo della costruzione che si avvale della svista, dello sbaglio, della dimenticanza. E già questo Freud l’aveva indicato. Freud qualificava il delirio come la via della terapia. Ma non è stato ascoltato, proprio per niente! E a proposito di chi dice che è superato, beh, magari si può proporgli di leggere qualche saggio. A proposito del delirio, provate a leggere La Gradiva. È straordinario. Chi l’ha letto? Lei? Bene. Non lo trova un saggio straordinario? Nuovo, nuovissimo? Una novità assoluta?
F.M. Poco, l’ho letto pochissimo. Quasi per niente.
R.C. Ah! Quindi per cogliere qualcosa del delirio dove interviene, dove può essere stigmatizzato o dove apparentemente non c’è – ma il delirio non è eludibile da ogni racconto, storia, vicenda, narrazione, fiaba, novella, romanzo – occorre tenere conto della sua struttura linguistica, della sua natura debordante, in cui si tratta della variazione artistica rispetto a qualcosa.
È chiaro che se il delirio non è attribuito alla parola, ma è attribuito a qualcuno, al soggetto, alle idee, diventa inascoltabile, diventa assolutamente impossibile capire di cosa si tratti. Ma non è l’idea a essere delirante, non è qualcuno a essere delirante. Sono i nomi, i significanti che delirano. È il racconto. Non qualcuno.
Non è una malattia. È un modo. È un modo per di più costruttivo, togliendo il quale cessa la costruzione. Possiamo anche dire, cessa la terapia.
E la clinica si avvale del delirio. La clinica come compimento del Pragma, cioè della struttura dell’Altro. Clinica che non è una tassonomia, non è l’elenco dei mali. La clinica è un compimento. Il caso clinico è il caso intellettuale, è un caso in cui è rilevato l’unicum, l’unicità di un dettaglio, di una combinatoria e s’intravede la qualificazione di quel caso, come si rivolge alla cifra.
Non è la diagnosi di malattia, la clinica. Sarebbe la pietra tombale. La clinica è il compimento di un processo che indica la direzione. Per questo è caso clinico, perché indica la direzione verso cui sta andando. L’intervento clinico è l’intervento che marca questa direzione, differentemente dall’intervento analitico o dall’intervento cifratico. Sono i vari modi dell’intervento, che non è mai salvifico. Non è l’intervento che assicura, assegna la salvezza rispetto alla morte certa o al morbo o al male. Non c’è l’agente della salvezza, come non c’è l’agente del male.
C’è chi può credere questo, ma questo è ciò che occorre si disponga all’analisi, perché la credenza nell’agente salvifico o malefico nega la parola. È una credenza che esige di trovare un varco. Esige di trovare non già la normalità, ma l’anomalia e la sua scrittura.
Ci sono altre domande? Mi pare di avere risposto a alcune delle cose che erano intervenute all’inizio. O no? In quanto all’idea di malattia mentale, abbiamo detto già.
Giampietro Vezza Nel film il protagonista, tra i protagonisti, è un bambino. Mi domandavo se sia possibile la lettura anche con un bambino, perché il film essendo vietato – Babadook è vietato ai minori – questo intervento della censura mi faceva pensare al fatto che, nonostante il protagonista sia un bambino, ai bambini sia vietata la visione, e quale sia o quale possa essere il modo di affrontare l’eventuale visione e la lettura del film, con un bambino. E mi domandavo se rientrasse in quella che è stata detta una forma del delirio, e cioè di anti convenzionalità, in qualche modo un’educazione alla non fissità dell’immagine – in quanto il divieto fermerebbe il film alla realtà –essere portato nel racconto, nell’interpretazione del racconto, anche per un bambino.
R.C. Che cos’è un bambino? Chi è un bambino? Di chi si tratta? Di quale bambino si tratta? Non è che possiamo stabilire in maniera standard se un bambino può vedere o no questo film. C’è bambino e bambino e non in quanto bambino, ma a seconda del punto in cui si trova in merito al suo viaggio, alla sua elaborazione.
È importante cogliere che queste immagini non propongono una realtà reale. Se c’è un bambino che è in grado di fare questa integrazione può vederlo, altrimenti non è necessario. Può vederlo più avanti. Cioè, “un bambino” esiste solo per la pedagogia.
“Un bambino”. E chi è? Com’è? Ci sono queste entità ideali che valgono per la pedagogia, la psicologia, la sociologia: il cittadino, l’uomo medio, il bambino, l’adulto, il ragazzo. Ogni età avrebbe un suo esponente medio standard che rappresenterebbe tutti gli altri. Anche l’adolescente. Chi sarebbero costoro? Chi li ha mai visti? Lei ha mai incontrato l’adolescente? Il bambino? Un bambino standard? Certo, sono domande a cui la televisione risponde volentieri ciascun giorno, no? Ma la televisione!
Nadia Vidale Lei ha detto: “Come avviene la dissipazione del realismo dalla realtà”. Ma come avviene?
R.C. Il film ci dice che avviene con l’urlo, con il grido. Cioè con la voce. Con l’instaurazione della voce come punto vuoto.
N.V. Lì, in quel racconto lì. Facciamo un altro esempio?
R.C. Questo è l’esempio che abbiamo dinanzi. Poi, per quel che riguarda altri casi, giovedì prossimo consideriamo quello degli Amici del bar Margherita, in cui si tratta del fantasma di genealogia.
Anche quello è un fantasma in cui la trialità è quantomeno sospesa, se non negata, e possiamo considerare anche lì, come e se ciò accada. D’altronde, lei può darci un bel contributo a questo proposito, per generosità. Non è che ogni cosa sia prevista o prevedibile no? Cioè, la parola ci indica proprio questo, che non c’è prevedibilità, calcolabilità, previsione degli accadimenti. Solo après coup noi possiamo capire, cogliere, constatare come qualcosa sia avvenuta, non capire come avverrà.
N.V. Non capisco. Ho presente questa cosa. È già stata detta e l’ho presente.
R.C. Non c’è uno schema mentale, psichico a cui potere attenersi.
N.V. Quindi la dissipazione non può avvenire mai.
R.C. Ma lei proprio fa il caso più ottimistico!
N.V. Perché dire che non è calcolabile, non è nemmeno garantito.
R.C. Ma i varchi sono numerosi.
N.V. Eh, appunto. Facciamo un esempio.
R.C. Per stasera abbiamo questo. Se però lei ne ha un altro…
N.V. No, lo chiedo.
R.C. Ah, ecco. A lei il delirio non va bene!
N.V. Non ho visto il film, quindi non sono in grado di dire, non mi dice nulla.
R.C. Ah, non ha visto il film. Vede? Invece occorre vedere il film.
N.V. Quindi lei, per generosità, può fare un altro esempio.
R.C. Prossimamente possiamo anche farlo. La settimana prossima; tenga conto che del film, parleremo anche la settimana successiva, con il titolo La famiglia, il diritto, la sessualità attinente al materiale del film. Sì?
Daniela Sturaro La differenza tra grido e urlo.
R.C. Ecco.
D.S. E poi come entra il delirio nell’insegnamento.
R.C. L’insegnamento è un effetto del delirio. Non è che entra. L’insegnamento è l’effetto artistico del delirio, del debordamento, della memoria, dell’esperienza. Abbiamo per un verso l’insegnamento e per un altro verso la tradizione, che sfocia nell’invenzione. È una struttura complessa. Non è che le cose accadono a caso. Ciascuna cosa che accade, accade con una struttura e interviene in una struttura che non è predeterminata, in quanto è temporale. Ma gli elementi di cui è costituita si possono indagare.
D.S. Ma, l’insegnamento è inteso come un passaggio di qualcosa, di non so cosa, tra qualcuno che parla e qualcuno che ascolta?
R.C. Non è necessario questo travaso. Nulla è travasato da chi a chi. Einstein ha avuto bisogno, per la sua teoria della relatività ristretta, dell’osservatore. Aveva bisogno dell’osservatore che vedesse che il treno passava e, ecc. ecc.
La parola agisce con i suoi effetti non da A a B, ma già in A. La parola agisce parlando, capisce? Agisce parlando. Non c’è soggetto agente. È la parola che agisce.
D.S. Non c’è quest’idea di atterraggio di qualcosa sulla piattaforma, ma c’era l’idea che la parola deve essere detta e deve essere ascoltata, sia da chi parla e sia da chi ascolta.
R.C. Ecco, non c’è questa dicotomia tra chi e chi. Il dispositivo di parola non segue la prescrizione platonica della coppia schiavo e padrone. Per Platone è necessario che vi siano il padrone e lo schiavo. Il padrone interroga lo schiavo e lo schiavo risponde. E questo dimostrerebbe come il discorso proceda dal padrone allo schiavo e poi torni indietro.
Nella parola questa copula, questa copulazione non c’è. Non è in questi termini. Non c’è questa coppia.
D.S. Non è necessario pensare a questa coppia.
R.C. Esatto, non è necessario pensarlo.
D.S. Non deve stare per forza nel retroscena. Può darsi che non ci sia questa visione ma, come ha raccontato lei, il delirio mi fa pensare ai romanzieri. Però, in quel caso il delirio è costruttivo perché articola il racconto. In Pirandello si capisce chiaramente che è un delirio quando nelle sue novelle, che poi diventano opere teatrali, c’è questa costruzione come lei ha descritto, ma, nel caso di qualcuno che invece di costruire distrugge?
R.C. E qui parla Amelia.
D.S. Non solo lei.
R.C. Chi è in grado di stabilire dove sta la distruzione? Distruzione, da de-struěre. La distruzione è una costruzione secondo un modo anomalo. Chi può giudicare?
D.S. Dagli effetti, per esempio. Dalla rinuncia a vivere per esempio, grazie a questa distruzione.
R.C. Eh, la cosa è complessa. Capisco ciò che sta dicendo, ma è una questione molto complessa.
D.S. Questo è certo. Si può affrontare però, la complessità è la cosa più affrontabile.
R.C. Non può essere abolita. Certo.
P.E. Senta, prima parlava dei varchi. In un racconto realistico, preso realisticamente, occorre trovare dei varchi per far sì che la cosa si ponga in altri termini e non venga presa realisticamente. Allora, mi domandavo intorno a questi varchi, a quali varchi si riferisce? Al paradosso, all’assurdità per esempio, all’ironia? Sono varchi? Aprono a qualcosa d’altro? Mi veniva in mente anche un taglio, per esempio, o alla distruzione come un tentativo di una rappresentazione, di un taglio differente per trovare Altro. O varco come trovare un punto vuoto, un silenzio. E poi l’intervento è trovare il varco o a che punto intervenire per aprire questo varco? Non capisco se il varco, l’apertura c’è in una fantasia.
R.C. Più che aprirlo si tratta di non chiuderlo, di non chiuderli, dato che non è uno solo. Perché, data l’apertura, i varchi si spalancano. Occorre non chiuderli, in quanto è questa la cosa che più spesso avviene, la chiusura: l’apertura è originaria, la chiusura no. La chiusura è attuata dall’agente, cioè dal soggetto. Qual è lo sport preferito dal soggetto? Chiudere i varchi.
Bene, allora proseguiamo giovedì prossimo.