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Quinto capitolo del libro Luigi Pirandello L’amore e l’odio

L’amore senza genealogia (L’innesto Romanzo di Luigi Pirandello)

Ruggero Chinaglia Giovedì prossimo, a conclusione della serie dei dibattiti intorno alla Scienza e la crisi, avremo ospite Sergio Dalla Val, psicanalista, che alla Sala Polivalente di Via Valeri presenterà il volume numero cinque della collana “La cifrematica”, e terrà la conferenza Perché la cifrematica. Quali novità per la famiglia, l’impresa, la salute.

Questa sera, il laboratorio verte attorno alla lettura dell’opera di Luigi Pirandello L’innesto, opera che ciascuno ha letto ripetute volte, sia per prepararsi all’incontro di questa sera, sia, giorno per giorno, per esplorare varie frontiere. Prima della lettura dell’opera e per riflettere sul caso che Pirandello ci propone, c’è l’intervento preliminare di Cecilia Maurantonio, prego.

Cecilia Maurantonio Nella stanza, seduta, tra il sonno e la veglia, cercando la posizione, guardo attraverso gli occhiali, di fronte, verso la finestra, il balcone finestra, la terrazza immensa, la sua balaustra che affaccia sul mare, il mare, dove non c’è più l’orizzonte e vedo staccarsi dalla lente una figura di donna. Si solleva dalla poltrona con decisione ma senza fretta e, leggera, si allontana. Non ci sono più orme. C’è il racconto.

Molti anni fa realizzai con diapositive un filmato che poi fu inserito in un evento artistico, ai Giardini Romani. L’idea era quella della resurrezione. Ora ho chiara solo la scena conclusiva: un letto di fiori sparso sul prato che presentava l’orma di un corpo che non c’era più.

Nel sepolcro, dove avevano messo il corpo di Cristo, non c’era più sbarramento, l’ingresso era spalancato, la pietra come ostacolo all’ingresso non era più lì, ma nessuna orma! Dunque, non c’era più sepolcro perché non c’era orma; c’era lo spalancamento, per altro.

Il sogno, la catacresi, l’astrazione tra il sogno e la veglia, l’unica posizione che non lascia orme, senza segno del corpo e senza peso da dovere trasferire, nessun passaggio. Adiacenza sta a indicare questo e quello. C’è questo e qualcosa adiacente a questo.

Quale posizione è mai possibile prendere o assumere? Solo quella che si conosce già, quella predestinata, assegnata. Ci sarebbe la posizione che si vuole assumere e quella che non si vuole assumere, ma sempre rispetto a quella ideale, a quella che non c’è.

Il letto della parola non prende la piega del corpo, né del lino, né il moto ondoso del mare o quello liscio come una tavola. Pensarsi sul letto sarebbe una veglia funebre, dove la scena sarebbe erotica e il corpo sordo, dove il corpo sarebbe supposto diviso dalla scena.

Eppure, il letto c’è, è quello della parola, dove il luogo non è più spaziale e non prende la forma, il calco del corpo; dove il corpo non assume la misura del letto ideale o del letto prescritto. Il letto senza l’eletto, senza il predestinato. Il letto della parola che non costringe ma occorre alla letteratura, all’intelletto, alla lettura.

R.C. La piega della fiaba e la piega del caso clinico. Per giungere a questa distinzione leggiamo la rappresentazione teatrale, commedia in tre atti di Luigi Pirandello, che s’intitola L’innesto. Ora non la leggiamo tutta, anche perché è stranota a ciascuno che ripetutamente l’ha letta e riletta, per cui cogliamo alcune pieghe. C’è qualcuno che ignora quest’opera? Ah, ecco, lei solo!

Martino L’ho letta tanto tempo fa, ma non sapevo che stasera vertesse su questo.

R.C. Quindi l’ha letta.

  1. L’ho letta, ho letto tante cose di Luigi Pirandello, ho presente molte cose, ma non L’innesto.

R.C. Bene. Noi abbiamo già avuto modo di compiere una lettura dell’Esclusa qualche settimana fa. Poi faremo una lettura anche di altro.

L’innesto è un’opera molto interessante, sia per le questioni che affronta, sia tenendo conto che è stata scritta verso la fine del 1917, ma sembra scritta l’altro giorno per il modo con cui Pirandello affronta determinate questioni.

La storia ruota attorno a Laura Banti, una giovane signora che si diletta di pittura e da alcuni giorni esce presto la mattina per recarsi in un parco a dipingere. Un giorno tarda a rientrare rispetto all’ora prevista e mentre viene attesa, la mamma conversa con un’amica, la signora Nelli e con l’altra figlia, Giulietta. E di cosa parla la mamma con l’amica? Parla del fatto che, dopo sette anni di matrimonio, Laura e Giorgio ancora non hanno bambini e dice che proprio per questo Laura perde tempo a dipingere, perché non ha una vera e propria occupazione.

FRANCESCA: /…/ Sa qual è il vero guajo qua? Che mancano i figliuoli! /…/ Io dico uno! Uno, almeno, creda ci vuole!

SIGNORA NELLI: Mi sembra che vivano così bene d’accordo Laura e suo marito…

FRANCESCA: Ah, sì, per questo… (Si china verso la signora Nelli e le confida piano all’orecchio:) Troppo anzi, signora mia! troppo! troppo! ― Per la mamma vanno troppo d’accordo! ―.

SIGNORA NELLI (piano, restando, ma un po’ anche sorridente): Come, troppo?

FRANCESCA Ma sì, perché… sa com’è? nei primi tempi, quando marito e moglie, giovani, si vogliono bene, se s’affaccia il pensiero d’un figliuolo, l’uomo specialmente si… si… /…/ mi spiego? perché teme di non poter più avere tutta per sé la mogliettina.

SIGNORA NELLI Eh! lo so… Poi passa un anno, ne passano due, tre… Lo desidera dunque il signor Banti, il figliuolo?

FRANCESCA No, Laura! Lo desidera Laura! Tanto! Giorgio dice che lo desidera per lei.

GIULIETTA E naturalmente, allora, Laura, lo desidera per sé!

FRANCESCA Ma che dici? Perché dici così? Vuoi far credere alla signora qua, che Laura non sia contenta di suo marito? Dunque, se la moglie desidera, vuole un bambino, la questione sembra che non sia contenta del marito. Se fosse contenta del marito non avrebbe alcun desiderio di avere bambini. Infatti, sono passati sette anni, i figli non sono venuti.

GIULIETTA Ma no, mammà! Io non ho detto questo. Quando passano, non tre, ma cinque, ma sette anni!

FRANCESCA Tu non capisci niente! La donna, signora mia, dopo tanti anni, se non si hanno figliuoli, sa che cosa fa? Si guasta. Glielo dico io! E anche l’uomo si guasta. Si guastano tutti e due. Per forza! (Accenna a Giulietta). Non posso parlare. Ma è proprio tutto il contrario di quello che immagina questa ragazza. Perché l’uomo perde l’idea di vedere domani nella propria moglie la madre, e… e… e… con lei mi sono spiegata, è vero?

Qual è il guasto? Che l’uomo perde l’idea di vedere domani nella propria moglie, la madre. Dunque, il figlio è considerato in alternativa al marito, la moglie in alternativa alla madre! Sono dettagli che annotiamo, per ora sono dettagli della fiaba, della rappresentazione; poi vediamo come leggerli. Ma mentre la mamma di Laura con l’amica e l’altra figlia discutono amabilmente sui guasti possibili della figlia e del matrimonio, viene annunciato il ritorno di Laura, ma il suo arrivo produce scompiglio, perché torna a casa lacera e ferita. Nel parco è stata aggredita e stuprata da uno sconosciuto, oggi si direbbe da un extracomunitario, da uno straniero. No, da uno sconosciuto. Quindi, già dal 1917 i parchi non erano sicuri e non solo di notte ma anche la mattina presto. Allora segue uno scompiglio, tutta graffiata, sanguinante, gettata fra le spine, ghermita da un villanzone, da un giovinastro, salvata da un tizio che, anziché inseguire il mascalzone, si occupa della signora. Nello scompiglio arriva anche il marito, il quale si dispera perché la moglie è stata stuprata. Ma di cosa si dispera? Dell’offesa ricevuta! E si lamenta che il poliziotto incaricato delle indagini lasci pensare che ci sarà un processo e quindi ci sarà una risonanza pubblica della cosa, mentre lui suggeriva di mettere a tacere il caso.

GIORGIO Prima di tutto, è inutile, perché ormai sanno tutti: qua, là dove l’hanno vista e raccolta… Ma quand’anche nessuno sapesse, se lo so io, non capisci che per me è finito tutto?

NELLI Io capisco, Giorgio, l’orrore che tu devi provare in questo momento. Ma bisogna che tu lo vinca con la compassione che deve ispirarti quella poverina!

GIORGIO Tu parli a me di compassione?

NELLI Non vorresti averne?

Dunque, per Giorgio è finita, c’è la fine, la coscienza della fine. Resta per gli altri, avendo coscienza della fine. Giorgio si fa vittima della violenza subita da Laura. Giorgio rimane per gli altri e il medico Romeri, saggiamente dice:

ROMERI E vado via anch’io. (Appressandosi e stringendo le mani a Giorgio). Mi raccomando. Bisogna sempre esser più forti della sciagura che ci colpisce.

GIORGIO Questa è peggiore per me d’una morte. Ma se l’immagina, dottore, lei ancora viva, domani, davanti a me? Pervicace Giorgio: “Domani, davanti a me, se l’immagina?”! E qui si chiude il primo atto.

Il secondo atto si apre nella residenza di campagna di Giorgio e Laura, e si apre con una conversazione tra Laura e il giardiniere della villa, Filippo, il quale cosa sta facendo? Ovviamente accudisce il giardino, ma nello specifico sta procedendo all’innesto di una pianta.

FILIPPO Eh, ma l’arte ci vuole! Se non ci hai l’arte, signora, tu vai per dar vita a una pianta, e la pianta ti muore.

LAURA Perché può anche morirne, la pianta?

FILIPPO E come! Si sa! Tu tagli – a croce, mettiamo – a forca – a zeppa – a zampogna – c’è tanti modi d’innestare! /…/ Qua c’è una pianta. Tu la guardi: è bella, sì; te la godi, ma per vista soltanto: frutto non te ne dà! Vengo io, villano, con le mie manacce; ed ecco, vedi? Comincia a sfrondarla, per fare l’innesto; parla e agisce, prendendosi tutto il tempo che bisognerà per compire l’azione. Pare che in un momento t’abbia distrutto la pianta: ho strappato: ora taglio, ecco; taglio – taglio – e ora incido – aspetta un poco – e senza che tu ne sappia niente, ti faccio dare il frutto. – Che ho fatto? Ho preso una gemma da un’altra pianta e l’ho innestata qua. – È agosto? – A primavera ventura tu avrai il frutto. – E sai come si chiama quest’innesto?

LAURA (sorride, triste): Non so.

FILIPPO A occhio chiuso. Questo è l’innesto a occhio chiuso, che si fa d’agosto. Perché c’è poi quello a occhio aperto, che si fa di maggio, quando la gemma può subito sbocciare.

LAURA (con infinita tristezza): Ma la pianta?

FILIPPO Ah, la pianta, per sé, bisogna che sia in succhio, signora! Questo, sempre. Ché se non è in succhio, l’innesto non lega!

LAURA In succhio? Non capisco.

FILIPPO Eh, sì, in succhio. Vuol dire… come sarebbe?… in amore, ecco! Che voglia… che voglia il frutto che per sé non può dare!

LAURA (interessandosi vivamente): L’amore di farlo suo, questo frutto? del suo amore?

FILIPPO Delle sue radici che debbono nutrirlo; dei suoi rami che debbono portarlo.

LAURA: Del suo amore, del suo amore! Senza saper più nulla, senza più nessun ricordo donde quella gemma le sia venuta, la fa sua, la fa del suo amore?

FILIPPO Ecco, così! così!

A quel punto si avvicina Zena, una contadina del posto, giovane, attorno alla quale nove anni prima, quindi prima del matrimonio di Laura con Giorgio, erano sorte alcune dicerie di una relazione con Giorgio, e queste dicerie erano aumentate sopra tutto nel momento in cui Zena, che già era fidanzata, resta incinta. Di chi sarà il figlio? Del fidanzato o del signorino Giorgio? Zena giura che è del fidanzato, il quale però, per sposarla, vuole dei soldi, ci marcia un po’. Quindi Laura indaga su questa vicenda e dice:

LAURA /…/ Ne eri proprio, dunque, così sicura tu?

ZENA Di che? Che il ragazzo non era del signorino?

LAURA Ecco, sì. Perché, tu sai, tante volte… avresti potuto tu stessa essere in dubbio. Ma Zena non accetta, non ha dubbi. Laura incalza:

LAURA Tu non hai nessun dubbio?

ZENA Tu dovresti esser contenta, mi pare, di quello che ho sempre detto!

LAURA Se ne sei proprio sicura…

ZENA Bada, signora, che la povertà è cattiva consigliera.

LAURA Ma no: perché io anzi, ora, alla tua coscienza mi rivolgo, Zena!

ZENA La mia coscienza, lasciala stare. Parlò allora, la mia coscienza, e disse quello che doveva dire. /…/ Vedo che ti piacerebbe che tuo marito avesse avuto un figlio con me. Ebbene, io ti dico questo soltanto: che io contadina, il figlio lo diedi a chi ne era il padre vero. – Ah, eccolo qua, il signorino… E in quel momento arriva Giorgio.

Zena se va e Giorgio dice:

GIORGIO (Sorpreso, addolorato): Ma come? tu parlavi con… Che forse è venuta a dirti qualche cosa?

LAURA (subito, negando con forza): No, no! Ma che! Nulla! Non ci pensa più!

GIORGIO E perché è venuta qua, allora?

LAURA No, non è venuta lei; l’ho fatta chiamare io. E così la conversazione va avanti e Giorgio si accorge che Laura ha freddo.

GIORGIO Vedi come sono fredde queste tue manine? T’ho portato da ricoprirti bene. Siamo scappati qua tutt’a un tratto. È volato più di un mese. È venuto il freddo… Quindi apprendiamo da fonte ben informata che è trascorso un mese.

LAURA Ma staremo qua ancora! Sarà più bello, ora, qua, soli soli… Tu non hai paura del freddo, è vero?

GIORGIO No, cara.

LAURA Non devi aver paura con me…

GIORGIO Ma io ho avuto paura di te, cara! /…/ Laura mia…

LAURA Tua, tua, sì! Ah, non puoi immaginarti come, ora! E pure vorrei ancora di più! Ma non so come!

GIORGIO Ancora di più?

LAURA Sì, ancora più tua – ma non è possibile! Tu lo sai, è vero? lo sai che di più non è possibile?

GIORGIO Sì, Laura.

LAURA Lo sai? Di più, si morirebbe. Eppure ne vorrei morire.

GIORGIO No! Che dici?

LAURA Per me dico; per non esser più io… non so, una cosa che senta ancora minimamente di vivere per sé… ma una cosa tua, che tu possa fare più tua, tutta del tuo amore, del tuo amore, intendi? tutta in te, così, del tuo amore, come sono!

GIORGIO Sì, sì, come sei! come sei!

LAURA Tu lo senti, è vero? lo senti che sono così tutta del tuo amore? e che non ho per me più niente, niente, né un pensiero, né un ricordo per me, di nulla più… tutta, assolutamente tua, per te, del tuo amore?

GIORGIO Sì, sì! Annichilimento totale. E così Giorgio “Le prende il volto tra le mani” e le dice Tu sei il mio amore; ma io non voglio, non voglio che tu ne abbia male!

Curioso, eh! “Tu sei il mio amore, ma io non voglio che tu ne abbia male”. Dunque, è un amore che può arrecare danno, che può portare il male! A quel punto Laura si sente male, giustamente. Di fronte a questa minaccia ha un malore. E allora discutono se è il caso di chiamare il medico. Poi, Laura dice che è meglio e lascia intuire che potrebbe essere un malore connesso a una possibile gravidanza, al che Giorgio dice di sì, che è meglio chiamare il medico per verificare se effettivamente…

GIORGIO Ma… se tu stai male…

LAURA No! no! io non ho niente! io ho te! Ecco: te – e non ho niente altro, che non mi venga da te! – Se godo, se soffro, se muojo – sei tu! Perché io sono tutta così, come tu mi vuoi, come io mi voglio, tua. E basta! Tu lo vedi, tu lo sai!

Ma di nuovo vacilla e allora viene chiamato il medico. Mentre il medico arriva, Laura ha un colloquio con la mamma, con la sua buona e brava mamma, e le comunica che probabilmente è incinta. Ma lei non vorrebbe il medico, perché la presenza del medico potrebbe acquisire per il marito un’immagine di male, ancora di quel male che gli fu fatto.

LAURA Ma che meglio! Che vuoi che intenda, che sappia, che rimedio vuoi che abbia, un medico, per quello che io sento, per quello che io soffro, e che non voglio, non voglio, capisci? che sia un male, e che con la presenza di quel medico che hai portato acquisti per lui un’immagine di male! Ancora di quel male che mi fu fatto!

FRANCESCA Non vuoi? Ma che forse…? Che dici, Laura? Oh Dio… Che forse, tu?

LAURA (convulsa, afferrando la madre): Sì sì, mamma! Sì!

FRANCESCA Ah, Dio! E lui? tuo marito? lo sa?

LAURA Ma è appunto questo il male che tu hai fatto, mamma!

FRANCESCA Io?

LAURA Sì! Ch’egli lo sappia, che egli lo pensi ora, come un male a cui si possa portar rimedio: un rimedio più odioso del male.

Laura intende o presume che il marito, apprendendo che lei è incinta a un mese dallo stupro, come conseguenza dello stupro, potrebbe volere rimediare a questo male con un rimedio più odioso del male. Laura pensa che potrebbe essere costretta a abortire. Il pensiero è l’idea dell’aborto, interviene l’idea di aborto.

Ora, potrebbe sembrare curiosa la faccenda, siamo nel 1917. Ma non è una questione di epoca, non è una questione da leggere sociologicamente, è una questione di fantasia e questa è senza età, è senza epoca di riferimento.

Ma, la mamma dice:

FRANCESCA Come? Che senti? Io ho paura che tu, figliuola mia, sia troppo esaltata e che…

LAURA Ti pare che vaneggi? No! Non posso spiegartelo con la ragione, ma l’ho saputo, qua, ora, mamma, che è così! E non può essere che così!

FRANCESCA Che cosa, figlia mia? Io non ti capisco!

LAURA Questo! Questo ch’io sento. La ragione non lo sa; forse non può ammetterlo. Ma lo sa la natura, che è così! Il corpo, lo sa!

La “natura” tra mille virgolette. “Il corpo lo sa”. È interessantissima qui la questione. La ragione non lo sa, forse non può ammetterlo. La natura lo sa, il corpo lo sa. Qui si aprirebbe la questione della salute, della sensazione intorno a qualcosa che può intervenire e che ancora non è certificato; ma il corpo lo sa, “il corpo” per dir così. E prosegue:

LAURA Una pianta – qua, una di queste piante! Sa che non potrebbe essere senza che ci sia amore! Allora, se qui ci sono queste piante è per via dell’amore. Si rifà alla conversazione con il giardiniere che dice che ciascuna pianta che dà frutto, che è stata innestata, deve essere “in succhio”, cioè in amore, senza amore non può fruttificare.

LAURA Me lo hanno spiegato or ora. Neanche una pianta potrebbe, se non è in amore! Vedi com’è? Non sono esaltata! No, mamma. Io so questo: che in me, in questo mio povero corpo – quando fu – in questa mia povera carne straziata, mamma, doveva esserci amore. E per chi? Se amore c’era, non poteva essere che per lui, per mio marito. E qui è tutto da discutere se si tratta di una così detta razionalizzazione, cioè una buona coscienza, o di qualcos’altro, ma lei dice che doveva esserci amore.

FRANCESCA Ma lui, dimmi un po’, tuo marito, lo sa? S’informa la mamma, sempre premurosa.

LAURA Credo che già lo sappia. Ma ora, là, con quel medico… Ah! proprio questo, vedi, non doveva avvenire! Che egli lo sapesse così!

FRANCESCA Ma se già lo sa, figlia mia!

LAURA Volevo che sentisse anche lui, naturalmente, quello che io sento! E che s’unisse a me, s’immedesimasse in me, fino a sentirlo, ecco, e volerlo in me, con me, quello che io sento e voglio!

A quel punto arriva il dottore. Il dottore parla con la mamma, la quale apprende che anche Giorgio sospetta.

FRANCESCA S’è dunque affacciato a Giorgio il sospetto che…?

ROMERI Dio mio, sì, signora!

FRANCESCA Ma perché il sospetto?

ROMERI Perché… perché, signora mia, può affacciarsi anche a lei… anche a me… a tutti…

FRANCESCA Ma no, scusi: non c’è poi mica da stabilire una certezza!

ROMERI Basta il dubbio, signora!

FRANCESCA E se mia figlia non ne avesse?

ROMERI Dica che non vorrebbe averne!

FRANCESCA Precisamente. Non vuole, non vuole averne!

ROMERI Eh! se si trattasse soltanto di volontà…

Dunque, il dubbio di cui si tratta, qual è? È il dubbio sulla paternità. Il dottore, la mamma, Giorgio dubitano intorno al padre. Il dottor Romeri è, come dire, comprensivo:

ROMERI Capisco. Ma capisca anche lei, signora, che allo stesso modo ripugna al marito il dubbio, anche il più lontano. Tanto più che, lei lo sa, è avvalorato, questo dubbio, dal fatto che in sette anni di matrimonio non ha avuto figliuoli.

Dunque, c’è questo dubbio e il dubbio è apparentemente condiviso, compreso. Compreso e condiviso nonostante il medico non sia proprio compiacente in tutto e per tutto, infatti, espone un caso in cui si trovò durante la guerra, in cui un soldato in caserma sparò a un suo superiore e poi si sparò, e dice:

ROMERI No, signora, lei non intende in qual senso io lo dica. È proprio il contrario. Un soldato, in caserma – sono ormai tant’anni – in un accesso di furore, sparò contro un suo superiore; poi rivolse l’arma contro se stesso per uccidersi anche lui. Rimase ferito mortalmente. Ebbene, signora: di fronte a un caso come questo, nessuno pensa al medico a cui è fatto obbligo di curare, di salvare – se può – quel ferito; come se il medico fosse soltanto uno strumento della scienza e nient’altro; come se il medico non avesse poi per se stesso, come uomo, una coscienza per giudicare se – ad esempio – contro al dovere che gli è imposto di salvare, egli non abbia diritto di non farlo, o il diritto almeno di disporre poi della vita che egli ha restituito a un uomo che se l’era tolta per punirsi da sé con la maggiore delle punizioni: uccidendosi! Nossignori! il medico ha il dovere di salvare, contro la volontà patente, recisa, di quell’uomo. E poi? quando io gli ho restituita la vita? perché gliel’ho restituita? Per farlo uccidere, a freddo da chi ha imposto a me un dovere che diventa infame, negandomi ogni diritto di coscienza sull’opera mia stessa! Questo, signora, per dirle che io ho riconosciuto sempre, e voglio riconoscere, nei casi della mia professione, di fronte ai doveri che mi sono imposti, anche diritti che la mia coscienza reclama.

Salvarlo per lasciare che poi venga giustiziato. Cioè, pone un caso che oggi si chiamerebbe etico, di bioetica, altri potrebbero chiamarlo deontologico, e nel 1917 questo medico rivendica la libertà intellettuale.

Ma, perché questa dissertazione? Perché lui si dichiara disponibile contro la morale vigente? Contro l’impostazione ben pensante lui si dichiara disponibile. A cosa? All’aborto. La mamma, infatti, s’informa:

FRANCESCA E allora lei si presterebbe…?

ROMERI Sì, signora: senza la minima esitazione. Dato il caso – s’intende – che la signora volesse consentire.

Quindi, anche il medico, che sembrava per la libertà intellettuale è per la convenzione sociale, per mettere a tacere la coscienza degli altri. E quindi, il medico è d’accordo, la mamma è d’accordo e Giorgio, cosa dice Giorgio?

GIORGIO Ma il mio stupore è questo, che lei non l’abbia già chiesto, non lo chieda subito!

FRANCESCA Non è mica una cosa da nulla per una donna, Giorgio! A te basta esigerlo!

GIORGIO Come! Ma per se stessa, io dico, dovrebbe chiederlo subito, a qualunque costo! Dovrebbe esser nulla per lei, di fronte all’orrore d’un simile fatto! Ma come? Crederebbe forse che io potrei sorpassare ancora, cedere, chiudere gli occhi, accettare? Ah! perdio! Ma dov’è? Dov’è? Smaniando, fa per andare nella camera di Laura. (alludendo a Laura): Che dice? Posso sapere almeno che cosa dice? O vorrebbe forse darmi a intendere che il suo amore…

LAURA (entrando dall’uscio a destra): Che il mio amore… –?

Dice Laura entrando in scena proprio in quel momento, ma come, state parlando dei casi miei, in mia assenza? Io ero qui col medico, con la mamma! Anche la madre in questo caso diventa un’estranea. /…/

LAURA Che debbo fare? Dipende da te, Giorgio. Dal tuo animo.

GIORGIO Come! E tu hai bisogno che te lo dica io, qual è il mio animo? Quale può essere? Non lo comprendi? Non lo vedi? Non lo senti?

LAURA Sento che tu mi sei tutt’a un tratto nemico. Come… come se io…

GIORGIO Dunque tu dici di no? /…/

LAURA Tu dunque ricordi solo una cosa? E dimentichi tutto?

GIORGIO Ma che vuoi che pensi io in questo momento?

LAURA: Non puoi neanche pensare che per me è proprio tutto il contrario?

GIORGIO Il contrario? che cosa?

LAURA (come assorta lontano, trucemente, con lentezza): Ch’io non ho memoria, né immagine: nulla! io non vidi! io non seppi nulla! Nulla, capisci?

Per Laura nessun ricordo, nessun ricordo del passato, nessun ricordo del male, nessuna visione del male. Non ha memoria, cioè ricordo, né immagine, niente.

GIORGIO Sta bene. E poi?

LAURA E poi… (S’interrompe in un silenzio opaco. Poi dice:)Niente. Se hai perduto tu, invece, la memoria di tutto.

GIORGIO Ah, del tuo amore, è vero? Ma è proprio così, dunque? Tu m’hai circondato del tuo amore, tu mi hai avviluppato nelle tue carezze, sperando ch’io credessi?

LAURA (con un grido): No! (Poi con nausea) Ah!

GIORGIO E allora? C’è il sospetto.

LAURA Non ho ragionato, io: io ho amato: io sono quasi morta d’amore per te; mi sono fatta tua come nessuna donna mai al mondo è stata d’un uomo; e tu lo sai; tu non hai certo potuto non sentirlo questo, che ho voluto averti tutto in me; che mi sono voluta tutta di te…

Ma il marito è irremovibile e allora Laura prosegue, perché Giorgio vuole che si faccia l’aborto e lei dice:

LAURA Solo per un ragionamento, è vero? e dopo che m’hai buttato in faccia con disprezzo, con orrore, tutto ciò che t’ho dato di me? e che tu hai potuto stimare un calcolo vile… un laido inganno… un espediente… /…/. Perché non puoi credere ch’io volessi salvare in me chi ancora non sento e non conosco — che ancora non sento e non conosco! —. Io l’amore volevo salvare! cancellare una sventura brutale, non brutalmente come tu vorresti…

GIORGIO Accettando la tua follia?

LAURA (con un grido di tutta l’anima): Sì! Tutta me stessa! Perché tu vedessi tutta me stessa tua, nel figlio tuo: tuo perché di tutto il mio amore per te! Ecco, questo! questo volevo!

GIORGIO (ritraendosi, quasi inorridito): Ah, no!

LAURA Non è possibile: lo vedo.

GIORGIO Come vuoi ch’io possa accettare?

LAURA E lascia allora che accetti io, invece, la mia sventura.

GIORGIO Tu?

LAURA Io sola, sì, tutta intera la mia sventura. /…/ Giorgio è irremovibile.

GIORGIO Dopo quello che hai fatto?

LAURA Che ho fatto?

GIORGIO Dopo quello che hai voluto?

LAURA Che ho voluto?

GIORGIO (con ferocia): Il mio amore, “dopo”!

LAURA (con disprezzo): Per nascondere, è vero?

GIORGIO Ma sai che c’è di mezzo il mio nome?

LAURA Ah, non temere. Avrò il coraggio che ebbe la Zena. Peccato ch’io non possa darlo – dopo l’inganno – al suo padre vero!

GIORGIO Ma tu volevi darlo a me! E non è questo un inganno?

LAURA Chiamalo inganno! Io so che era amore! /…/ Non sono più tua moglie! Mamma, io vengo con te! /…/ Mamma, possiamo andare! S’avvia con la madre.

GIORGIO (balzando in piedi, con un grido d’esasperazione e di disperazione): No… Laura… Laura… Giorgio si copre il volto con le mani e rompe in singhiozzi.

LAURA (accorrendo a lui): Giorgio, tu mi credi?

GIORGIO Non posso! Ma non voglio perdere il tuo amore!

LAURA (con impeto di passione): Ma a questo solo tu devi credere!

GIORGIO Come credere? A che?

LAURA (come sopra): Ma a ciò che io ho voluto, con tutta me stessa, per te, e che devi volere anche tu! È mai possibile che tu non ci creda?

GIORGIO Sì, sì… Nel tuo amore, credo.

LAURA (quasi delirando): E dunque, che vuoi di più, se credi nel mio amore? In me non c’è altro! Sei tu in me, e non c’è altro! Non c’è più altro! Non senti?

GIORGIO Sì, sì…

LAURA (raggiante, felice): Ah, ecco! Il mio amore! Ha vinto! Ha vinto! Il mio amore!

E si conclude la rappresentazione teatrale.

Dunque, di che si tratta in questa rappresentazione? Qual è la logica che Pirandello tratteggia lungo la rappresentazione e che noi leggiamo come una fiaba, ma di cui occorre trarre l’indicazione clinica rispetto a quella che sembra la storia dei fatti? Di cosa si tratta? Qual è il caso che Pirandello qui indica? È il caso dello stupro? È il caso della violenza subita? È il caso di una vicenda matrimoniale? Che caso è? È il caso dell’amore che trionfa su tutto e nonostante tutto? Cosa c’è, cosa dice?

C.M. È il caso indicato dal titolo, dal racconto del giardiniere. Infatti, l’innesto della gemma si chiama “a occhio chiuso”. La questione è già lì, che non si sa da dove viene la gemma dell’innesto e dello sconosciuto non c’è ricordo.

R.C. E perché non c’è ricordo?

C.M. Perché non c’è mai stato il fatto!

R.C. Esatto! Questa che sembra la vicenda di Laura, la fiaba di Laura, è come la fiaba di Cappuccetto Rosso che va nel bosco, incontra il lupo e ha tutta una serie di vicissitudini. Questa è la fiaba, ma il caso clinico è differente e indica lo svolgimento di una fantasia inconscia. La fiaba dice di qualcosa che non è mai avvenuto e racconta a suo modo una fantasia inconscia. Qual è la fantasia che Pirandello qui tratteggia con molta delicatezza e in vari punti?

Gianfranco Dalle Fratte La visione del figlio da parte di Giorgio, che dice che non c’è nessuna colpa.

R.C. Bravo, questo è un dettaglio molto importante. Già all’inizio dice che c’è offesa senza colpa. È ciò di cui si occupa la coscienza morale, è ciò che viene chiamata la coscienza di colpa, il senso di colpa. Giorgio, lei dice, si sta interrogando attorno all’ammissione del figlio. Dunque, dopo sette anni di matrimonio, Giorgio e Laura stanno per avere un bambino; questo è l’annuncio che Laura dà a Giorgio, e Giorgio si chiede “Ma sarà figlio mio, sarà proprio figlio mio? Non è che Laura magari ha un amante?”. E ricorda di quando lui se la faceva con Zena. Giorgio si chiede di chi è il bambino che sta per nascere. La moglie, Laura, assicura che è figlio dell’amore. Figlio dell’amore, non che è suo figlio: figlio dell’amore. In effetti, Laura non può dire nient’altro che questo, dato che mater certa, pater numquam. Dunque, Giorgio è attanagliato dall’idea che non sia figlio suo, come sua è Laura, come suo è l’amore. Suo! L’amore reciproco, l’amore transitivo, l’amore di Giorgio per Laura e di Laura per Giorgio. Senza l’Altro, reciproco, a tu per tu in quella che sembra la celebrazione della psicosi nella chiusa della fiaba: Non c’è più Altro, e invece, propriamente, instaurandosi l’Altro, Giorgio ammette il figlio; ammette il figlio riconoscendo la paternità, cioè la funzione padre.

Se voi notate, tra i personaggi, il padre è assente. C’è la madre di Laura, non c’è il padre di Laura. Il padre è assente e interviene come questione del nome dove Giorgio dice: “Si tratta del mio nome”. C’è tutto un attraversamento del negativo, del male, del fantasma di morte, del fantasma di fine, delle negatività, dell’aborto attribuito a Laura ma pensato da Giorgio, tutta una fantasmatica inerente l’amoroso, in termini di reciprocità. Tolto l’Altro, tolto il terzo, allora il male, il negativo, la fine, la morte sono dinanzi. Ma tutta questa negatività viene dalla negazione del padre, dalla negazione della funzione padre, cioè viene dal fantasma di genealogia.

La rappresentazione svolge il fantasma genealogico dove la mamma interviene sulla figlia per indicare quale padre, quale marito, cosa è accaduto, come è stato, chi è stato, la Zena, chi era il padre, chi era il figlio. Qui è molto interessante, la madre non è messa in discussione, la madre, in termini di accoglimento, in termini di proseguimento, in termini di mito di ciò che non finisce, la madre c’è. La mamma è materna, la mamma si preoccupa dell’eventuale aborto, l’idea materna delle cose, ma la madre come mito in cui non c’è nessuna parentela, Laura lo dice con precisione, anche la mamma in questo caso diventa un’estranea; cioè, c’è assoluta differenza tra la mamma e la madre, due statuti assolutamente differenti. Un conto è la mamma, istanza genealogica, un conto la madre, istanza dell’incontabile, dell’infinito, istanza del proseguimento, della costanza, dell’accoglienza; questo è il mito della madre, mentre per Giorgio c’è il dubbio sulla paternità, c’è il dubbio intorno al padre. Il padre in termini di funzione padre, non del papà, non in termini di genealogia.

Il fantasma di genealogia spinge Giorgio a non ammettere il figlio perché, in quanto generatus, non può essere figlio suo. Sant’Agostino dice che il padre è padre al figlio, non del figlio e il figlio procede dal padre, non è figlio del padre, questa è la questione del filius genitus nec generatus. Il figlio è genito, cioè procede dal padre, non è generato dal padre. Questa è la questione della funzione padre e della funzione figlio e della funzione di Altro, in assenza di genealogia. Questo è ciò che viene ribadito nell’annunciazione di Maria e nell’annunciazione di Elisabetta: “Avrai un figlio”. “Non conosco uomo”. “Avvenga di me secondo la tua parola”.

Avvenga secondo la parola: l’accoglimento. Allora la questione è che Giorgio dubita di sé, dubita del padre e sospetta che la moglie lo abbia tradito, ma c’è l’amore, l’amore come custode del parricidio e del figlicidio, l’amore come custode della ricerca. Nello svolgimento dell’amore ‒ non già come sentimento reciproco, umano, ma amore in quanto custode del parricidio ‒ Giorgio giunge a ammettere il figlio, a riconoscere il padre e la fantasia si dissipa. Mai Laura l’ha tradito, mai ha subito violenza e il matrimonio prosegue.

Qui, non è questione di lieto fine, ma è questione di teorematica. Il male, il negativo, lo stupro non ci sono più perché non ci sono mai stati, se non nella fantasia di Giorgio. Dunque, la rappresentazione e la fiaba narrano non tanto la travagliata vicenda di Laura vittima dello stupro, quanto la fantasmatica inerente la genealogia di Giorgio che è giunto a un passo dal ripudiare la moglie, sospettandola di tradimento, ma il processo narrativo, il processo intellettuale, il processo d’indagine è giunto a dissipare questa credenza.

  1. La credenza è un’altra e introduce una nuova fantasia, che non c’è mai stato lo stupro e il male.

R.C. Lei qui introduce una nuova variante.

  1. Il potere della fantasia è da accettare.

R.C. Ma il testo ripetutamente asserisce che la colpa non c’è, la violenza non c’è stata.

  1. Certo, ma perché per Pirandello non c’è niente di definitivo, quindi quello che conta, quello che è, è tutto nella fantasia.

R.C. Questa è la questione dell’inconscio, cioè di un’altra logica rispetto a ciò che può sembrare alla coscienza, dove la coscienza è a sua volta il prodotto di una serie di convenzioni, per lo più sociali, che hanno lo scopo di garantire una convenienza sociale.

Il testo ripetutamente ci trae altrove rispetto al convenzionalismo e alla morale e indica un’altra via. Le vicende narrative che abbiamo ascoltato questa sera, di Maurantonio e di Pirandello, indicano questa doppia tessitura in cui si tratta di distinguere tra la fiaba, la narrazione e il racconto. Il racconto non è mai il racconto dei fatti, ma è secondo l’inconscio, secondo la logica della parola, è racconto di ciò che non è già saputo, di ciò che non è conosciuto, è il racconto che è da ascoltare per capire e intendere cosa c’è di Altro rispetto all’apparente svolgimento dei fatti. È il racconto che ci consente di dire che non c’è più il fatto in quanto tale, il fatto come rappresentazione.

Invito ciascuno a rileggere L’innesto e a cogliere le indicazioni testuali che Pirandello fornisce. La lettura arricchisce il testo e lo restituisce in qualità, restituendo anche ciò che non era nelle intenzioni dell’autore; ma non è questo che importa. La lettura in questi termini valorizza il testo, così come la lettura di un quadro valorizza l’opera e la restituisce altra, valorizzandola; per cui non si tratta di approdare alla lettura unica ma, leggendo, di cogliere nel testo le varie pieghe. Alcuni ne colgono alcune, altri altre; non si tratta di cercare la verità ultima, ma i risvolti clinici, le pieghe. Il risvolto clinico è la piega, la piegatura. Clinica è la piega. In greco klínein è piegare. La clinica è l’arte della piegatura, cogliere come la parola, piegandosi nella clinica, cioè senza aderire a una morale confezionata, a una lettura chiusa, già segnata, consenta di apprezzare altre pieghe. Ciò in direzione della qualità del testo, della qualità della lettura. C’era una mano alzata.

Sabrina Resoli Sì, rispetto a un dettaglio, quando all’inizio del secondo atto Laura dice: “Sono come tu mi vuoi”, mi chiedevo se il fantasma genealogico non comporti anche un fantasma d’incesto.

R.C. Esatto, bravissima.

S.R. Con questa fantasia “Sono come tu mi vuoi”, l’Altro non è ammesso e per questo Laura può essere stuprata, l’Altro è degradabile.

R.C. Esatto.

S.R. Quindi la fantasia dello stupro, della degradazione c’è proprio perché c’è la fantasia d’incesto?

R.C. Precisamente! Infatti, questo avevo omesso di dire, che nel fantasma di genealogia il figlio sarebbe il segno dello stupro, il segno della violenza compiuta, il ricordo di una violenza che non c’è mai stata, ma che è creduta e questo ricordo è il ricordo nella credenza dell’incesto!

La credenza nell’incesto si volge nella rappresentazione della violenza subita o della violenza compiuta, con le due possibili letture: la violenza subita nel caso del discorso isterico, la violenza compiuta nel caso del discorso ossessivo. Molto preciso, molto bene.

Maria Antonietta Viero A proposito di questo, allora lo stupro interverrebbe a introdurre un elemento dell’Altro nella catena genealogica che altrimenti non sarebbe avvertita?

R.C. Sì, è una rappresentazione dell’Altro, l’Altro che violenta. Cioè, l’altro tempo, rappresentato, diventa il tempo della violenza, il modo della violenza e questa violenza può essere subita o compiuta. Allora c’è o il vittimismo o il debito morale. Il vittimismo nel caso della violenza sempre subita, il debito morale nel caso della violenza sempre compiuta e che si tratta di togliere, di purificare, di cancellare, rimediando con un atto ritenuto non violento a un atto ritenuto violento, per saldare il conto. Questo nel caso del discorso ossessivo. Nel caso del discorso isterico è quello di lamentarsi sempre “della violenza che tu mi fai”. Ma Laura dice “Sono come tu mi vuoi”, rappresentando il volere dell’Altro come modo della rappresentazione dell’Altro, dell’incesto, della genealogia. Questo giusto per avventurarci sul terreno testuale.

Se non ci sono altre note ci salutiamo. Ringrazio Cecilia Maurantonio, in particolare, per indicare di proseguire l’elaborazione sulla “posizione”, che non è la posizione del corpo, ma è “la posizione”. Invito ciascuno giovedì prossimo all’incontro con Sergio Dalla Val, alla Sala Polivalente di Via Diego Valeri, mentre ci ritroviamo qui fra quindici giorni per proseguire la lettura di Pirandello con La vita che ti diedi. Cominciate a leggerlo. Vediamo di esplorare questi testi, perché quello che Pirandello ci fornisce è proprio l’apertura clinica, che non è solo una questione di non obiettività delle cose, ma c’è un filo logico molto interessante che è clinico. Dico clinico nell’accezione che dicevamo prima, di cogliere la piega in direzione della cifra, quindi della cifra del testo, della cifra della questione che il testo affronta.


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