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Secondo capitolo del libro L’educazione e la direzione

L’educazione senza ostilità

 Ruggero Chinaglia Allora comin­ciamo l’incontro di oggi. Ci sono domande rispetto alle cose della volta scorsa? Curiosità, notazioni? Qualcuno ha letto nel corso della settimana il manuale di cui ave­vamo parlato L’umanaio globale? Nessuno?

Pubblico Di questo testo, quando ne abbiamo parlato? La volta scorsa?

R.C. Proprio al termine.

Pubblico Cosa sarebbe questo?

R.C. È un romanzo. È un romanzo di Zinov’ev.

Pubblico Non ce l’aveva segnalato.

R.C. No? Allora ve lo segnalo adesso.

Pubblico Lo confonde con un altro gruppo

R.C. No. È stato giovedì sera al semi­nario. Ve l’avevo segnalato.

Pubblico No.

R.C. Non ve l’avevo neanche segnalato? E dire che l’avevo portato. Va bene. Questo è un romanzo che segnalo anche alle nostre amiche arrivate adesso, L’umanaio globale di Aleksandr Zinov’ev, scrittore russo che traccia un quadro della così detta società contemporanea, situandola nel futuro ma, praticamente, cogliendo quelli che sono gli aspetti attuali del dispositivo sociale, quindi anche le implicazioni, le basi, le radici. Allora, ciascuno, leggendo questo romanzo può cogliere alcune delle questioni attuali che riguardano i così detti mali dell’epoca.

Pubblico La casa editrice?

R.C. Spirali. Per esempio, così, aprendo a caso, potete trovare questa annotazione: Il migliore comportamento nel lavoro sono la diligenza e la qualità, ma nei limiti della morigeratezza e della mediocrità. Puoi anche fare scoperte geniali ma non ci sarà nessuno a ringraziarti e a lodarti. Non sarai notato, ti sfrutteranno senza fare il tuo nome e, il più delle volte, il tuo contributo sarà per te solo un punto in meno. Ma ti guardi Iddio dal commettere un errore nelle cose di poco conto, per esempio.

Marzia Banci Scusi, ma questo è un rife­rimento globale nel tempo, mi sembra, più che globale nel luogo.

R.C. È un romanzo che svolge il presupposto base della società dell’e­poca, che è la mediocrità, cioè l’uomo medio, che è il perfetto prototipo del­l’uomo. L’uomo mediocre è la base della società dell’epoca, la società di riferi­mento. Il romanzo illustra in quanti modi si può arrivare a compiere questo modello per giungere a soddisfare il mo­dello globale.

Oggi si parla molto di so­cietà globale, della globalizzazione, e qui ne dà un risvolto, il globale come esempio di dispositivo che includa al suo interno ogni forma di bene e ogni forma di male, in modo che nulla sfugga, in modo anzi, che ognuno possa fare l’e­conomia del bene e del male e, fa­cendone l’economia, possa farne anche il catalogo. È il modello di società che si compie nella gnosi, dove nulla sfugge alla conoscenza, nulla dev’essere sconosciuto, nulla dev’essere oscuro ma tutto dev’essere chiaro, conosciuto, per entrare nella coscienza di ognuno. È la so­cietà del discorso, dove avviene il primato del discorso, della scienza del discorso, anziché della scienza della parola, dove il discorso diventa sistema, discorso globale come sistema globale, dove nulla deve apparire come novità, come imprevi­sto, ma anche la novità dev’essere recuperata come forma di ciò che l’ha preceduta.

L’umanaio globale è un altro modo di chiamare la so­cietà del benessere, quella comune­mente nota come Welfare state, dove ognuno deve stare bene. Per stare bene, deve conoscere il modello del benessere per antonomasia, e il benessere per anto­nomasia è la morte. Questa società del benessere può essere detta società della morte bianca, altrimenti detta l’umanaio globale.

C’è, tuttavia, un altro modo di intendere il termine globale. La globalizzazione non tanto come sistema finito che deve contenere tutte le cose, ma come in­tegrazione di arte, logica, scienza, cultura. Arte, scienza e cul­tura della parola. Un’altra acce­zione di globale se, al primato del discorso, sostituiamo il primato della parola, nel senso della logica della parola, la quale comporta come ciascuna cosa non si sommi alla precedente, ma sia in adiacenza, quindi senza comportare il sistema, il catalogo, ma lasciando che ciascuna cosa avvenga per integrazione. Allora, il globale diventa ciò che dicevamo la settimana scorsa, la qua­lità, la cifra. La globalizzazione è il pro­cesso di cifratura, il processo di qualifi­cazione di ciascuna cosa.

Tra le due acce­zioni di globalizzazione corre la questione dell’infinito. La scienza del discorso s’in­staura in una concezione finita delle cose, dove l’ideale è il catalogo che le comprenda tutte, un catalogo che possa compiersi, terminare, finire. Invece, nella globalizzazione che riguarda l’integra­zione, c’è la questione dell’infinito, dove ciascuna cosa esige di divenire qualità, quindi non di riempire il sistema, ma di approdare alla soddisfazione. Non è indif­ferente se ciascuno si situa nella scienza della parola o nella scienza del discorso. Non è indifferente quanto al modo di af­frontare le cose, svolgere la propria ri­cerca e situarsi in sta­tuto intellettuale; non già statuto so­ciale o professionale, ma intellettuale.

Anche riguardo alla nozione di ambiente, che era una delle cose che erano rimaste in sospeso la settimana scorsa, a seconda che ci riferiamo alla scienza del discorso o alla scienza della parola, troviamo due modi di intenderlo. Oggi, per esempio, troviamo molto in voga la questione dell’ecologia, di un discorso che riguarda il buon ambiente, sull’ambiente come casa. Questo sarebbe l’ecologia, un discorso che elenca tutta una serie di mali da riparare per raggiungere delle buone condizioni di vita. Oggi, allora, l’ecologia ha, per un verso il merito di pro­muovere una rappresentazione dell’am­biente come comfort, come agio, come migliore vivibilità, per esempio per una migliore sicurezza. Ci sono le varie rap­presentazioni di lotta, di intra­presa contro l’inquinamento, contro condizioni di lavoro disagevoli, per una migliore sanità ambientale. Sono certa­mente ottimi propositi in funzione di un ambiente ideale, che proponga condizioni di vita ottimali in quanto ideali.

Luigina Giraldo Posso fare una domanda? Non riesco a capire. Lei parla tanto di discorso e parole.

R.C. Parola!

L.G. Io, personalmente, non riesco a capire il significato che lei vuole dare a discorso. Vuole dire un discorso di azioni, un discorso parlato? Come lo in­tende? E la parola, che cos’è secondo lei la parola? Mi illumini su queste cose, perché altrimenti non riesco a capire.

R.C. Discorso nell’accezione di un si­stema, per esempio un sistema in cui vi siano dei presupposti, delle ipostasi già stabilite che devono essere dimostrate e mantenute dal discorso stesso. Come di­cevo, il sistema ingloba ogni cosa al suo interno, come funzionale al si­stema stesso, assegnandole perciò una ca­ratteristica nell’ambito di una ripartizione, che è quella del bene e del male, per esempio. Sistema in cui l’accezione di scienza è la scienza della conferma. Infatti, il modello scientifico all’interno del discorso è quello della riproducibilità del fatto. Che cosa risulta scientifico? L’esperimento che possa essere riprodotto nelle stesse condizioni di temperatura, pressione e via dicendo. È il modello della riproducibilità, dove il fondamento è il fatto, nel senso che c’è qualcosa che è tale e, come tale, riproducibile. Questo è, diciamo così, il discorso con la sua logica, con il suo sistema, dove anche la verità è verità come causa, non è verità da incontrare. È una ve­rità ipostatizzata che deve trovare con­ferma. Invece, come parola, intendiamo la parola come logica e come cifra.

Pubblico Può fare un esempio pra­tico?

R.C. Parola in cui, quel che ciascuno dice, non è già possibile situarlo secondo un co­dice di riferimento, ma va inteso esplo­rando il caso particolare in cui si situa, non per un adeguamento o una conformazione a un codice già dato, ma il codice va trovato in quello che si sta dicendo. Non so se è più chiaro. Non è che il codice non ci sia, c’è, ma non è già noto, per cui risulta impossibile sapere già cosa Tizio vuole dire, vuole avere, vuole fare se non interrogando quel che si dice e come si dispone, perché nessuna parola ha già un significato standard, stabile. Nessuna parola è segno di qualcosa e, così come nessuna parola è se­gno di qualcosa, nessuno è segno di qual­cosa; come dire che non c’è chi sia segno, per esempio, della sua origine!

Uno dei problemi principali nell’educa­zione è il fatto che ci sia la fantasia di potere rappresentare l’origine, di potere farlo o, addirittura, di dovere farlo. Ciascuno si sarà imbattuto nella fan­tasma­tica delle così dette orme paterne da ricalcare o da non ricalcare. Il figlio che pensa di dovere fare come il padre o di non dovere fare come il padre, di dovere essere come il padre o di non dovere essere, di fare lo stesso me­stiere o di non dovere fare lo stesso mestiere, come forma del riper­corrimento dell’origine o della differenziazione.

La settimana scorsa, mi pare, parlavamo di conformazione o anticonformazione, conformismo e anticonformi­smo, a proposito di Procuste. Conformismo e anticonformismo sono la stessa cosa, sono due facce della stessa credenza, che è la credenza in un’origine. Questo lo affrontiamo fra poco proprio in relazione al tema di oggi: l’edu­cazione senza ostilità.

Occorre fare alcune precisazioni per situare ciascuna cosa. Giustamente Luigia… Luigina! Ma Luigina è diminutivo di Luigia. Sembra dispiaciuta!

L.G. Perché non è un nome che mi piace.

R.C. Ah no? E come mai?

L.G. Eh, è morto il nonno…

R.C. Come?

L.G. Sa, la tradizione!

R.C. È morto il nonno.

L.G. Sì, si chiamava Luigi, quindi…

R.C. Perché lei è primogenita.

L.G. Sono la primogenita. Però avevo un nome migliore. Comunque, eccomi qua!

R.C. Lei dice così per consolarsi! E quindi lei ritiene di avere un brutto nome.

L.G. Sì, io ritengo di avere un brutto nome.

R.C. In quanto sarebbe il nome del nonno.

L.G. No, è che non mi piace!

R.C. Ma lei non sa perché?

L.G. Io, al nome del nonno avrei preferito l’altro, ma purtroppo…

R.C. L’altro nonno?

L.G. No, l’altro nome, io ho due nomi. Mi hanno chiamato Luigina, però il mio primo nome sarebbe Doriana. Mi piaceva di più Doriana, ma ormai me lo tengo!

R.C. È un problema suo questo. Lei vuole tenersi il problema.

L.G. Non è un problema…

R.C. Ma lei sa quanto è comune questo problema?

L.G. Sì, penso che ce ne siano parecchi.

R.C. No. È il contrario. Sono in pochis­simi a non averlo.

L.G. Io non ci credo…

R.C. È raro non trovare questo problema.

L.G. […].

R.C. Perché lei dice che questo non è il suo nome, ma il nome del nonno.

L.G. No, è il mio nome questo!

R.C. Ma le è piovuto addosso perché è morto il nonno.

L.G. Sì, è morto il nonno.

R.C. Quindi, in questo nome, per lei c’è un riferimento alla morte.

L.G. No!

R.C. Eh sì! Come no?

L.G. Io sto facendo il discorso opposto.

R.C. A prescindere che lei dica di no, è evidente che…

L.G. È lei che lo dice, mica io. Io no!

R.C. Ma è evidente che è così, l’ha detto lei. Lei ha detto: “È morto il nonno”.

L.G. Io ho detto “È una tradizione”. Sì, è morto il nonno, ma se si fosse chiamato Cicisbeo, mi avrebbero messo nome Cicisbea!

R.C. Perfetto. Quindi, in questo nome, per lei, c’è un riferimento alla morte.

L.G. No, non c’è. Potevano mettermi nome Daria…

R.C. Sì, esatto! Non perché il nome è brutto.

L.G. Un attimo, Lei non ha capito. Se mio nonno si chiamava Dario e mi avessero messo nome Daria, Daria mi piaceva di più.

R.C. Non le sarebbe piaciuto!

L.G. No. Mi sarebbe piaciuto, invece.

R.C. Assolutamente no.

L.G. Lasciamo perdere.

R.C. No. È importante questo. Adesso che l’hanno chiamata Luigia, lei dice che Daria sarebbe stato meglio.

L.G. Infatti, ho un secondo nome, Doriana, che mi piace di più.

R.C. Perfetto. Ma la questione per cui questo nome non è ben accetto è ciò che sta sullo sfondo.

L.G. Cioè, dice che dipende dal nonno che…

R.C. Certo. Perché lei dice che questo non è il suo nome, è il nome del nonno, e quindi il nonno in qualche modo ha la priorità su questo nome. È una questione molto diffusa, non è solo per lei, perché questa tradizione è assolu­tamente in vigore, e pone il primato del morto in nome del vivo e, dunque, mantiene per via di genealogia il riferimento alla morte. È una questione che avremo modo di considerare ulteriormente, ma è interessante che sia giunta attraverso la sua testimonianza.

Cecilia Maurantonio Direi ancora più in­teressante, in particolare perché questo nome…

R.C. Scusi, cosa c’entra lei? Stava par­lando la signora.

C.M. Perché il primo nome…

R.C. Ma adesso noi non facciamo psico­logia.

C.M. Ma, allora lei cosa ha fatto finora?

R.C. Non ho fatto psicologia. Che lei voglia intervenire sul caso, non è questo che ci interessa.

Pubblico Ma non possiamo sentire quello che ha da dire?

R.C. No. Lei stava aggiungendo qualcosa. Aggiunga.

L.G. Io non sto aggiungendo niente, volevo solo sentire quello che diceva la signora.

R.C. Niente da fare.

L.G. Me lo dice dopo.

R.C. Dopo glielo dice in privato.

L.G. Va bene.

Pubblico […].

R.C. No. È possibile che giunga alla cifra, ma non per decifrazione. La decifrazione è nella logica del discorso, presuppone che ci sia una ipostasi che, scava, scava, viene tro­vata. Non è così, non c’è nessuna ipostasi. C’è la cifra come effetto dell’itinerario, non come causa dell’itinerario, poiché la cifra sta alla conclusione dell’itinerario, non alla base.

Noi siamo abituati, secondo un mo­dello disciplinare, a considerare che la ve­rità stia sotto alle cose e le animi, per cui le cose sono animate dalla verità e si tratta di scavare alla ricerca della ve­rità, verità che preesiste alle cose. Questa è la gnosi, questa è la psicologia delle cose.

La logica della parola indica un altro modo con cui le cose avvengono, per cui la verità è effetto, non causa. Si pone l’eventualità dell’incontro con la verità che, quindi, non è ipostatizzabile. È proprio una discrimi­nante, questa. La sensazione è che venga da una sorta di bagaglio che ognuno si porta appresso, come dire che questo è stato il modo dell’educazione, fin qua, e quindi an­che il modo di ragionare ne risente. In realtà noi non sappiamo niente del caso di Luigia, non sappiamo nulla del modo con cui que­sto nome lavora nell’itinerario di Luigia. Abbiamo appreso qualcosa, un dettaglio da una sua enunciazione che è indicativa, ma è un frammento. Non è che da questo frammento noi possiamo catalogare Luigia in qualche modo. Per nulla. Prendiamo atto da ciò che, per Luigia come per ciascuno, la questione del nome esiste, e esiste sia che lei lo ammetta oppure no, cioè esiste a prescindere dalla sua consapevolezza. Questo è il punto interessante: a prescindere dalla consapevolezza. C’è la logica del nome che lavora a prescindere dalla consapevolezza!

Oggi, c’è un gran parlare di ciò “Bisogna es­sere consapevoli, coscienti di questo e di quello”. Di cosa possiamo essere consape­voli? Di ciò che è visibile, ma il visibile è la punta dell’iceberg. La logica non è visibile, perché le cose accadono secondo la logica, non secondo il visibile, o la visibilità, o la consapevolezza. Noi siamo travolti da quello che accade, da quello che diciamo, e più vogliamo esserne consapevoli e arrestare questo processo, più ne siamo travolti, perché la logica avviene non per nostra volontà. È la logica della parola, è la logica delle cose, e la combinazione delle cose non siamo noi a stabilirla. Certo, pos­siamo intendere qualcosa di ciò se ci di­sponiamo a farlo, ma non per volontà. Per ricerca, per formazione, per l’esperienza della parola, non per coscienza e volonta­rietà.

La logica del discorso, invece, dice che noi possiamo essere consapevoli e stabilire volontariamente il grado di discorso, il tipo di discorso, il punto del di­scorso, possiamo padroneggiare il discorso. Sorge per questo il discorso, per esercitare una padronanza. Ecco, sulla parola non c’è la possibilità di esercitare la padro­nanza.

Pubblico Nel momento in cui ci si rende consapevoli del fatto che quella pa­rola ha significato, quel nome ha significato, determinate cose della nostra vita, è pos­sibile anche che questi significati cambino per noi, quindi in questo senso non su­biamo più quella parola, ma si apre uno spazio di autonomia.

R.C. Di indipendenza più che di autono­mia, possiamo dire. Sì, la que­stione della ricerca analitica è proprio que­sta: l’instaurazione della parola originaria. Parola originaria cosa vuole dire? Parola che non comporta l’attribuzione dell’origine, quindi la parola senza origine. È originaria, originaria nel senso che il suo valore sta nell’atto in cui la parola si compie.

M.B. Si può fare un’analogia, perché non riesco a percepire bene. È come il punto in geometria, è come la tavola Mendeleev in chimica, è, insomma, un elemento puro che posso io combinare o, se voglio creare dei composti, è come l’idrogeno e l’ossi­geno che poi dà delle composizioni quando io le inserisco nel discorso o le pronuncio, oppure è diverso da questo? Perché non riesco a percepire questa parola.

R.C. È un bell’esempio. Se noi riusciamo a immaginare una tabella di Mendeleev infinta, e che comporta una serie infinita di combinazioni…

M.B. Mendeleev è…

R.C. È il sistema degli elementi.

M.B. Dopo, le combinazioni le fac­ciamo…

R.C. Ma non abbiamo un numero finito di elementi, questo no. Ciascuna parola è elemento. Questo è il punto.

M.B. Che ciascuna parola è elemento?

R.C. Sì.

M.B. È, come io dico, anche il punto in geometria. Si dice che è anche geometrico, privo di dimensione, però col punto poi costruiamo le rette, le superfici, i volumi. Prendiamo questo elemento che, in sé e per sé, non è definibile altro che in sé e per sé, ma poi… È questo che lei intende quando dice parola differente dal di­scorso?

R.C. Sì. Per esempio, possiamo fare…

M.B. Così, tanto per cercare di capire, perché mi sfugge. Questa parola non ap­partiene a nessuna lingua! Non è latina, non è greca, non è cinese…

R.C. Sì, esatto. Appartiene alla lingua…

Pubblico […].

R.C. No, perché allora abbiamo il gergo. Appartiene… Anzi, non appartiene, ma interviene nella lingua con cui ciascuno parla. La settimana scorsa parlavo della tensione linguistica. Anche la tensione linguistica concorre alla lingua, che non è una lingua che noi conosciamo.

M.B. È decodificata.

R.C. No, non è decodificata e non è nem­meno pura o spuria. È altra. Ciascuno parla in un’altra lingua.

M.B. Si può temere che noi facciamo solo i discorsi, a questo punto, conside­rando le due situazioni?

R.C. Si può temere, certo. E il più delle volte accade pure. Nell’Umanaio globale si fanno solo discorsi. L’umanaio globale si segnala per l’assenza dell’altra lingua e per la presenza di discorsi. Mi pare preciso. Quindi, il discorso presuppone la codifica e la decodifica, per­ché si tratterebbe di risalire o di discen­dere, a seconda della traiettoria, al nucleo comune, a quel fondamento attorno a cui sorge una comunità, la società, la comu­nione. Proviamo a considerare, invece, che non c’è chi parli una lingua comune, ma ciascuno è parlato, parla un’altra lingua, parla in un’altra lingua. Cioè, chi dice qualcosa, convinto di dire proprio quella cosa, dice altro.

Pubblico Un po’ come Pirandello.

R.C. Pirandello si avvicina alla questione, certamente. Pirandello si avvicina molto alla questione della parola, questo è sicuro.

La difficoltà dove sta? Nell’ascolto e nel­l’intendimento di questo Altro che si dice. Il modo consueto di conversare fra gli umani è il dialogo, dove non in­teressa l’Altro che si dice, ma dove la do­manda viene convertita nella richiesta sulla base di un codice comune, per cui la richie­sta è conforme ai bisogni. Quali sono i bisogni? Sono i bisogni ricono­sciuti, i bisogni della massa o la massa dei bisogni, i bisogni accreditati, cioè i bisogni sanciti dal discorso.

Ma non è possibile fare la ta­bella dei bisogni, sapere qual è il bisogno, qual è il bisogno a partire da cui qualcosa si enuncia. Non lo sappiamo, non lo sap­piamo prima. Anche se sembra evidentis­simo che sia quello, non è quello, al 99,9% delle volte, non sarà quello. E que­sta è la prima difficoltà dell’altra lingua. Poi c’è la seconda che riguarda l’intendi­mento, perché le cose si dicono nell’altra lingua e s’intendono nella lingua propria, che non è la propria lingua, la lingua perso­nale, ma è la lingua propria, secondo la pro­prietà della parola, secondo la cifra, la cifra­tura, la qualificazione, e allora riguarda lo specifico di ciascun caso.

La lingua, per ciò, è una cosa abbastanza complessa, non è “Parla come mangi”. Si dice “Ma parla come mangi!”. Eh no, non si può parlare come si mangia!

M.B. La lingua è una cosa o è una situa­zione? È una situazione complessa o è una cosa complessa?

R.C. Nell’accezione che dà lei di situa­zione, è una situazione. Certo, non è un si­stema come comunemente viene chiamato “Sistema di segni atto a comunicare”, ecce­tera. Non è un sistema.

M.B. Non è una situazione grafica, voglio dire, un sistema di segni diventa grafica e non linguistica, è un sistema di segni e non di…

R.C. Sì, ma anche nella lingua si tratta del segno, solo di un segno in una accezione non semiologica. Non nel senso dove il se­gno è segno di qualcosa, ma è segno. È se­gno il cui valore, il cui senso, il cui significato è da intendere! Certo, i segni ci sono, altrimenti se non ci fossero nemmeno i segni… C’è pure la sintassi, la frastica. C’è una struttura, ma non è una struttura già formalizzata.

La difficoltà è che noi siamo abituati a partire da qualcosa di già formalizzato che dev’essere riprodotto. Nella parola non avviene così, perché quanto attiene alla parola non è in questi termini. La struttura è struttura temporale, e quindi si formalizza ma non è già forma­lizzata. Cioè, la lingua è l’ambito della parola, possiamo dire il suo ambiente. Siamo in un’altra accezione di ambiente, dif­ferente da quello prodotto dalla scienza del discorso. Dire che l’ambiente è la lingua non è facilmente reperibile.

C’erano due domande, una da parte di Simone Barison e un’altra di Anna Scarsi.

Simone Barison È stato detto che si dice qualcosa convinti di dire proprio quella cosa, in realtà si dice Altro. Ora, io mi chie­devo se questo dire Altro, è un dire Altro relativo all’ascoltatore. Cioè, chi dice qual­cosa dice Altro perché è l’ascoltatore che capisce altro da quello che il parlante vuole dire, oppure se si tratta di un Altro asso­luto…

R.C. Esatto, assoluto.

S.B. Rispetto anche a chi dice, allora.

R.C. Assolutamente!

S.B. Per cui non si sa quello che si dice.

R.C. Esatto. È proprio così, la questione è radicalmente così.

Pubblico […].

R.C. Non abbia paura delle cose estreme. La paura viene proprio dal limitare l’e­stremismo delle cose di cui, invece, non c’è da avere paura, nel senso che, o è così o non è così, e se è così, prendiamone atto. Prendendone atto, può solo accadere di approdare alla qualità e non può accadere nulla di male. Può accadere la qualità, la quale non è né un male né un bene, ma è la precisazione e la specificazione, e è pro­prio dalla specificazione che viene la soddi­sfazione.

Quindi, non può capitare nulla di male, può capitare la soddisfazione. Non può capitare nulla di bene, può capitare la soddisfazione, che non è né un male né un bene. È soddisfazione. Né buona soddisfa­zione, né cattiva soddisfazione: è soddi­sfazione. Non è né tanta, né poca: è soddi­sfazione. Non è né migliore, né peggiore, non è né mia, né tua: è soddisfazione. La soddisfazione che procede dalla precisa­zione, dalla precisione. Perché cautelarsi contro la soddisfazione? È una questione, perché è ciò che accade in numerosi casi.

C’era Anna Scarsi che chiedeva qualcosa.

Anna Scarsi Voglio fare un’osservazione. Se la libertà della parola tende alla cifra, al­lora io parto dal numero zero che mi rappresenta l’infinito, il tutto o il niente. Quindi, la cifra, che è quello che mi specifica il nu­mero in questo caso, acquista un altro va­lore. Fino a che punto ha valore una cifra? C’è un limite nella cifra? Perché io capisco lo zero ma, il valore che hanno gli altri numeri, che non hanno più valore matematico come quantità, acquistano un altro valore? È così o no?

R.C. Non si tratta solo di numeri. Certamente la cifra è il valore, anche il va­lore del numero o il valore delle cose. La ci­fra è il valore. Ora, lei dice “C’è un aspetto di quantità, e c’è un aspetto di qualità”.

A.S. C’è questo passaggio di…

R.C. Ci sono entrambe le cose. C’è la quantità e c’è la qualità. Senza quantità, non c’è nemmeno la qualità, occorre pure che ci sia la quantità, solo che la quantità è incontabile. È a partire dall’in­contabile che si giunge alla qualità.

A.S. Si può identificare il mio numero, la situazione, o no? Si identifica una cifra?

R.C. Può fare un esempio?

A.S. Per esempio, uno è unico. Ma posso dare un altro significato al numero due che non procede dall’uno e che si distingue dall’uno.

R.C. Ah ecco, in questo senso?

A.S. Sì.

R.C. Intanto, l’uno non è unico, l’unico procede dall’uno, ma l’uno non è unico. È la questione del figlio, questa, che il figlio non è il “figlio unico”. La questione dei numeri è una questione importante, in effetti, che è da attraversare. Per esempio, questa sorta di sovrapponibilità tra l’uno e l’unico è una questione.

A.S. Ci sono gli altri comunque, il tre, il quattro, il cinque… Una persona ci può ragionare sopra questo termine.

R.C. Quindi, lei che cosa dice? Chiede se tra la questione dei numeri e la questione della cifra ci sia una…

A.S. Relazione.

R.C. In certo qual modo c’è una relazione, ma non è una relazione diretta e costante.

A.S. Posso partire da questa consi­derazione per portare avanti tutto quello che c’è all’interno di questa si­tuazione.

R.C. Per dire, già “tra lo zero e l’uno”, trascorre l’infinito. Quindi, perché ci sia l’uno rispetto allo zero, c’è bisogno dell’in­finito. La questione del numero è certamente importante, perché poi, così come interviene il numero, esige sempre l’infinito, cioè l’intervallo tra lo zero e l’uno. Già ne abbiamo detti tre: zero, uno, intervallo. Parlare del numero è perciò parlare di una logica i cui termini sono al­meno tre. Nel caso dello zero e dell’uno, c’è l’intervallo. Zero, uno e intervallo è già una logica triale. Allora, abbiamo zero, uno e tre. E è impossibile togliere lo zero e l’uno da questa combinazione, e è impossibile togliere il tre dallo zero e dall’uno.

Pubblico Al quattro…

R.C. Lei è già al quattro! Un momento! Ora, la questione è che, parlando, inter­viene la struttura di zero, uno, inter­vallo. Zero, uno, intervallo. Ciascuna parola si situa in questa struttura: zero, uno, intervallo. Come attri­buire un senso noto alle parole se ciascuna parola sta in questa struttura di zero, uno e intervallo? È impossibile raffigurarselo, perché ciascun termine ha una struttura che è costituita da zero, uno e intervallo. Che cosa vuole dire? Che ciascuna parola è nome, significante e Altro. Nome, signifi­cante e Altro dal nome e dal significante, quindi zero, uno e intervallo. Parlando, si produce questa struttura.

È possibile sa­pere quel che si dice? Saperlo prima se quel che si dice si effettua nella strut­tura di zero, uno e intervallo, di nome, si­gnificante e Altro? No. È possibile padro­neggiare la lingua? Padroneggiare la parola? No. Si può ascoltare e intendere a condizione di esplorarne la struttura, di ammetterla e, quindi, lasciarsi fare l’e­sperienza della struttura temporale, senza fretta di attribuire a tutto ciò che sentiamo un significato immediato, un valore immediato, un senso immediato: “Hai voluto dire questo, hai voluto dire quello”, “Ah, questo vuole dire quello”. Equazioni immediate: “Ha detto così, vuole dire che…”, “Ah, questo? Allora…”, “Questo è segno di…”, “Ha fatto così, vuole dire che è…”, cioè un sistema di analogie, un sistema analogico, di equivalenze.

M.B. Sarebbe meglio dimenticare che ri­cordare queste cose.

R.C. Ecco, adesso veniamo anche a que­sto. Il sistema delle equivalenze è antilinguistico, è contro la lingua, contro la parola, toglie la lingua. È come se noi avessimo uno strumento e non volessimo usarlo. C’è la lingua con il suo modo e noi, invece, vogliamo applicare il modo delle equivalenze, delle similitudini, delle analogie che non ha nulla di linguistico, perché la lingua trova la sua sfumatura per ciascuna cosa assolutamente caratteristica. E noi vogliamo togliere via questo per fare riporti extralinguistici. Perché? In nome di che cosa? Della comunicazione? Ma la comuni­cazione sta proprio nella sfumatura. Se noi la togliamo, che comunicazione abbiamo? Non ce l’abbiamo più. Abbiamo una sistematizzazione non la comunicazione; sosti­tuiamo alla comunicazione la sistematiz­zazione, due cose antitetiche.

Che discipli­narmente venga chiamata comunicazione la sistematizzazione, non vuole dire che sia in realtà comunicazione; è comunicazione nella scienza del discorso, è sistematizza­zione perché si avvale del codice di riferi­mento ma, quanto alla logica particolare, è tolta, è abolita, non c’è più. Allora, in que­sto funzionamento della parola vige la di­menticanza!

M.B. Sì, quello che stiamo facendo, trac­ciando adesso.

R.C. Sì, che non è per ciò, tuttavia, esercitabile. Lei dice: “È meglio dimenticare che ricordare”.

M.B. Dimenticare nel senso che, troppo codificati, non cerchiamo più la parola di cui stiamo trattando questa sera. Dico, pre­ferisco dimenticare che tradurre il discorso più in breve con meno parole…

R.C. Esatto. Ma la dimenticanza c’è.

M.B. Dimenticare per fare fluire di più, cioè come qualità. Dimenticare le cose per trovare la parola più spoglia, parola nel senso che stiamo trattando questa sera, non la parola più povera.

R.C. Certo.

M.B. È facile dimenticare per pulire.

R.C. Ecco, questo sarebbe un pro­gramma ecologico! Il programma ecologico quando interviene? Quando la rappre­sentazione del negativo sembra potere satu­rare l’infinito, anche suturarlo. Ecco che allora interviene il programma ecologico, il programma di depurazione. Abbiamo il pericolo di satu­razione, quindi dobbiamo depurare. È una procedura di sistemi finiti, per cui an­che la mente diventa un sistema finito, da trattare ecologicamente. “Dobbiamo sgom­brare il campo”.

Ma il campo si sgombra da sé perché è infinito, quindi né si sgombra né s’ingombra. Ciascuna cosa si situa nell’adiacenza, e anche senza il programma ecologico, non c’è il pericolo di satura­zione. È bello questo, è bello che non ci sia pericolo di essere sommersi dai rifiuti. Ecco, nella pa­rola avviene proprio così. Non c’è il pericolo che le scorie, i rifiuti, gli aspetti negativi possano sovrastare, saturare l’ambiente in modo che, per soffocamento, la parola muore. La dimenticanza è struttu­rale, è strutturale all’infinito. Non è come dire che, a un certo punto, bisogna dimenti­care per non essere sommersi da ciò che è avvenuto prima, perché c’è questo pro­cesso di dimenticanza che è proprio all’in­tervallo.

M.B. Può spiegare?

R.C. È proprio all’intervallo. Abbiamo detto: zero, uno e intervallo tra lo zero e l’uno. Ecco, nell’intervallo tra lo zero e l’uno c’è la dimenticanza, così come c’è il sogno.

M.B. Sa perché facevo riferimento alla di­menticanza?

R.C. Ha posto una bella questione.

M.B. Perché proprio gli insegnanti, e certamente anche i genitori, quando in­segnano, la cosa che piace di più è che lo stu­dente si ricordi la cosa che viene detta “Ricordati che questa regola, questa cosa…”. A mio modo di vedere, specialmente noi italiani, faccio questo riferimento, siamo così legati al ricordo, anche di ciò che siamo stati, alla cultura e a tutto quello che abbiamo avuto che, secondo me, tutto ciò è un legac­cio, si chiede troppo al passato.

Il fatto di ricordare perennemente, per cui andiamo avanti con commemorazioni continue dove è maggiormente presente il concetto della morte che della vita, nel senso che “Quello è morto, quello è santo, quello è morto in guerra…”, tutte queste commemorazioni che facciamo in maniera continua, per me è negativo. Per cui vedo il popolo italiano come uno dei più commemorativi, che si agganciano al ri­cordo in maniera più pro­fonda e questo diventa un po’ l’altra sponda, l’eccesso di ciò che è nei confronti del presente, che non viene quasi trattato come fosse un tempo che deve veloce­mente “spazzolarsi” tra un passato che è stato di orrori e un futuro che non sappiamo concretizzare, e quindi ci pen­siamo e non ci pensiamo. Per me è un’indicazione che si basa troppo sul ricordo, ma è un mio modo di vedere.

“Non dimenticare”, e a un certo punto noi abbiamo il vissuto di vite altre, di quelle che ci scaricano con il fatto di “Non dimenticare, non dimenti­care, non dimenticare”. Allora, non dimentichiamo Michelangelo, ma non sap­piamo chi è Picasso. Non è poi così ur­gente sapere chi è Michelangelo, ci inse­gnerebbe di più sapere chi è Picasso. Facciamo più Leopardi, ma Leopardi è già vicino comunque, è sempre il ricordo Rimembro ancor. E quanto rimembriamo!

Questo punto io lo vedo non in senso specifico ma più generale, una saturazione nell’insegnamento dove la persona che abbiamo davanti, il ragazzo, viene dopo tutti i ricordi didat­tici che noi gli dobbiamo dare. Questo lo trovo asfissiante nei confronti di colui che li riceve, ma anche di noi che tutti gli anni procediamo a ricordargli la Seconda guerra mondiale, Lorenzo il Magnifico, così come ciascun professore per la materia che tratta. Questo snelli­mento del ricordo, un pochino, per favo­rire la dimenticanza, lo troverei utile nella fase dell’insegnamento. Voglio dire, anche con modestia, non è che sto facendo un discorso, ma mi piace confrontarmi.

R.C. Esatto. Questa è una cosa impor­tante. In effetti, molto spesso, l’insegna­mento avviene per rimembranza! Questo è un capitolo della settimana prossima che lei ha introdotto. Infatti, si tratta di far sì che qualcosa entri nella memoria, non giunga dalla memoria, ma entri nella memoria.

Pubblico Qualitativamente?

R.C. Sì, con la sua qualità. Magari questo lo vediamo meglio la settimana prossima, perché è proprio ciò che riguarda il prossimo in­contro. Comunque, è curioso che ciò che viene avvertito come eventualità. Per esempio, lei diceva “Sarebbe opportuna la dimenticanza” e quindi avverte la sua even­tualità.

M.B. La libertà, che dovrebbe produrre li­bertà.

R.C. Molto spesso, però, viene posto come se potesse avere un risvolto negativo o un’eventualità negativa che possa essere impedita: “Ci vorrebbe”, cioè come se potesse non accadere.

M.B. È come l’ombra, nessuno la vuole.

R.C. Ecco, l’ombra.

M.B. La dimenticanza è come l’ombra, nessuno la vuole.

R.C. L’ombra è un esempio del due.

M.B. Anche del tre.

R.C. Perché del tre?

M.B. […] Questo è un punto di vista di Leonardo Da Vinci. L’ombra che non si fissa sulla parete […] e l’altra ombra che procede…

R.C. Di che cosa è fatta l’ombra?

M.B. Della non-luce pari a quella che il­lumina l’oggetto.

R.C. Quindi, luce e tenebra, non tutta luce, non tutta tenebra; l’ombra.

M.B. Non tenebra, però è l’intervallo della tenebra, che non è nero.

R.C. Esatto. Non tutta luce, non tutta te­nebra. L’ombra. Il due. Così siamo arrivati al due, a proposito dei numeri.

M.B. Poi, ci sono anche le ombre colorate, non è vero che l’ombra è sempre grigia.

R.C. Io non ho detto che è grigia.

M.B. L’ha legata al nero, quindi è una gra­dazione del nero.

R.C. Chiaroscuro, non tutta luce, non tutta tenebra.

M.B. Anche l’ombra può avere il suo co­lore.

R.C. Benissimo, ma adesso è solo per in­dicare il modo, qual è il modo del due. E il modo è il chiaroscuro, non tutto chiaro, non tutto scuro.

M.B. Come dire che l’ombra richiede la luce, il soggetto è quello…

R.C. No, il soggetto no.

M.B. Il soggetto che crea l’ombra, che ostruisce la luce e pertanto crea l’ombra; non ci sarebbe ombra.

R.C. Il soggetto non importa. Costitutivo dell’ombra è la luce e la tenebra. Come dire che costitutiva dell’ombra è la contraddizione. C’è luce, c’è tenebra e quindi c’è contraddizione che, tuttavia, non nega nessuno dei due termini ma, anzi, è es­senziale che ci siano entrambi. Una con­traddizione che non nega né contrappone i termini della contraddizione. Un esempio della logica diadica.

Infatti, accanto alla logica del tre che abbiamo vi­sto prima, c’è la logica diadica, logica del due. Qual è il modo della logica diadica? È l’ossimoro, ossia alto-basso, grasso-magro, luce-tenebra, cioè l’ombra. Facciamo un altro esempio? Ci sono due termini in latino, hostis e ospes, che desi­gnano il forestiero, l’estraneo, lo straniero. Hostis, cioè nemico, e ospes, cioè amico, ospite. Allora, che lo straniero sia hostis o ospes, riguarda il dispositivo che viene allestito al suo riguardo. Chi incontra il forestiero può considerarlo nemico o può considerarlo amico, può ospitarlo. Di per sé il forestiero è amico-nemico e si situa nell’ossimoro, e può accadere che il nemico di oggi diventi l’alleato di domani. La poli­tica ce lo indica, la politica come disposi­tivo di strategia verso la qualifica delle cose.

Dunque, il dispositivo stesso procede dall’amico-nemico, da questa dia­dicità. Non, o amico o nemico, ma amico-nemico, l’apertura da cui può instaurarsi il dispositivo come dispositivo di acco­glienza o dispositivo di guerra. Perciò, lo straniero, lo statuto di straniero procede dall’amico-nemico, dall’hostes-ospis. Che sia ospite, che sia ospitato, che venga ac­colto o che venga combattuto, da cosa di­pende?

M.B. Dal dispositivo preparato.

R.C. Esatto, ma che venga allestito un dispositivo di accoglimento o un dispositivo di guerra, da cosa dipende?

M.B. Da chi lo ospita. No, anche…

R.C. Arriva un forestiero in città e uno dice “Toh, è arrivato un nemico”, per­ché ha l’idea che ogni estraneo sia contro di lui. Un altro dice “Toh, è arrivato un amico”, perché pensa che ogni elemento che si aggiunge è un apporto per la città. In un caso viene allestito un dispositivo, in un altro caso ne viene allestito un altro. Non dipende dal forestiero in questione. Certo, se il forestiero si presenta con un esercito alle spalle, armato di tutto punto, con uno spiegamento di forze, è più facile che debba essere considerato in un certo modo piuttosto che in un altro, ma il forestiero che arriva così, di per sé, può non prestarsi a essere subito individuato in un modo o nell’altro. Che cosa, dunque, contribuirà a riconoscerlo come amico o come nemico, come pericolo o come collaboratore, come apporto, come ciò che si aggiunge ai mezzi e agli strumenti per l’impresa di cia­scuno? Dipende da una cosa molto sem­plice. Chi vuole provare a rispon­dere?

Pubblico Dall’itinerario in gioco.

R.C. Sì, in qualche modo, certo. Se è l’iti­nerario secondo la logica della parola o se è nella logica del discorso. È vero ma, come accade, come funziona?

Pubblico Nei rapporti…

R.C. Lei dice se si stabilisce un buon rapporto sociale?

Pubblico Bisogna tornare alla do­manda, perché la domanda mi sembrava di­versa.

R.C. Arriva lo straniero, come verrà ac­colto lo straniero? Verrà accolto o non verrà accolto? Se verrà riconosciuto amico o nemico, da cosa dipenderà?

Pubblico Dall’itinerario.

R.C. Dice dall’itinerario.

A.S. Dipende cosa intende per itinerario. Secondo me dipende da chi lo accoglie, dal padrone di casa. Diciamo che se si riferisce a dei preconcetti, a delle sue idee già presenti, inquadra quel tizio dentro una determinata area di pen­sieri, oppure se si dispone all’accoglienza dice “Vediamo, potrebbe essere, come no”. Non riesco a spiegarmi.

Pubblico L’itinerario sarà fatto sem­pre dalla logica della parola oppure dalla logica del discorso, e da questo dipenderà l’autoc­tono…

A.S. Sì, se si forma uno stigma della per­sona, se si riferisce a…

Pubblico Non solo. Dipenderà anche dal livello di interlocuzione che crea, perché dipenderà da come si pone la sua idea.

R.C. Lei diceva?

M.B. Dipende dalle aspettative di chi lo riceve, nel senso di cosa si aspetta chi lo ri­ceve, a seconda delle aspettative che ha cia­scuno. Alcune sono aspettative di possibilità e altre di impossibilità, cioè, non tanto quanto è lui, ma quanto gli altri si aspettano da lui, e allora c’è chi si predispone a riceverlo e chi no, a seconda delle aspettative degli autoctoni.

Roberto Canestrale Posso citarla? “Se c’è soggetto, la conferma della soggettività impedisce il dispositivo. Bisogna dissipare la soggettività, è necessaria la domanda. Senza la domanda abbiamo il soggetto. Dalla domanda sorge il titolo”. C’entra con quello che stiamo dicendo o no?

R.C. Questa è materia esattamente di quando?

R.Ca. Del corso sulla formazione dell’in­segnante. Io mi sono fatto quest’idea.

R.C. C’era un’altra mano alzata.

A.S. Sono d’accordo con quanto diceva la signora, sulle idee che uno ha e sulle sue aspettative, sullo stigma, non so come vuole chiamarle. Si può dire sul grado di aper­tura, sulla logica della parola che io intendo, come dice lei, o sulla logica del discorso che si rifà a un sistema, a un in­sieme di precognizioni?

Pubblico Potrebbe essere che non capiamo come viene accolta, e che non ce ne facciamo un problema per non ca­dere nella logica del “è bene, è male”.

R.C. Non ce ne facciamo un problema!

Graziella Sandonà Nella misura in cui si dice “La logica della parola o la logica del discorso”, per quel poco che posso avere capito, tanto non è in questione la quantità, se con questa sua ag­giunta alla questione che aveva posto prima e poi al tentativo, al percorso di risposta del signore qui davanti, si dice “Logica della parola o logica del discorso”, in questa dualità, viene a cadere la logica della contraddizione; se niente è vero allora niente è falso, la verità sta nella contraddi­zione. Adesso non voglio farla troppo lunga, però mi andava un po’ di al­leggerire l’argomento e dico: “Non lo so come verrà accolto”. Ok?

R.C. Eppure, è una questione che per l’e­ducatore è essenziale.

G.S. Adesso lei “allunga” il termine, è una questione che per l’educatore si pone. In termini temporali non so come verrà ac­colto.

R.C. Esatto. E, tuttavia, è… Sì, c’è un’altra mano alzata.

Lucio Panizzo Prima ha detto “Lasciando farsi l’esperienza”, quindi ammetterla.

R.C. Lasciandosi fare.

L.P. Sì, è questa la questione. È come dire che c’è qualcosa di ambiguo che chiede chiarezza. Allora, non bisogna eliminare l’ambiguità, perché la chiarezza si staglia sull’ambiguità, che poi è la questione del due. Quindi occorre un percorso, un itine­rario, da lasciare fare però, non da impedirlo per trovare la logica e la chiarezza della questione che lei ha posto, perché la chiarezza deriva dall’am­biguità e non viceversa. È una cosa che lei diceva e che mi sembra di avere ascoltato in un al­tro corso. Comunque, mi sembra che sia questa la questione: accogliere la domanda e, man mano, intendere di che si tratta. Non c’è altro modo. È questa l’educazione, quello che io ho inteso intorno all’educa­zione.

L’esempio che lei faceva del fore­stiero pone una questione di ambiguità, però occorre che venga svolta l’ambiguità; ma l’ambiguità è originaria, come dire, è il due, è l’ombra.

R.C. Appunto, e non è già scontato que­sto. Abbiamo molto spesso davanti a noi esempi di invidia, di gelosia, di ostilità. Come mai? Genitori che picchiano i bambini, bambini che si picchiano tra di loro. Come mai? Come c’entra questo con l’esempio dello straniero che arriva in città? C’entra o non c’entra? Forse c’entra. Come accade che, magari, arriva un nuovo collega a scuola o nell’istituzione e c’è chi si chiede se sarà amico o sarà nemico. A partire da questo sarà accolto o sarà respinto. Ci sarà chi lo accoglie, ci sarà chi lo respinge.

S.B. E l’indifferenza? Come dire, mica tutti sono amici o nemici.

R.C. Ci sarà chi proporrà la variante dell’indifferenza, certo. A partire da cosa?

S.B. Dall’interesse, praticamente non en­tra né come amico, né come nemico nel mio itinerario, in quello che sto facendo non ho interessi.

R.C. Certo. Ma questo è un caso particolare degli altri due, non è una terza via, ma un caso particolare della stessa logica per cui verrà considerato amico o nemico. Difficilmente verrà considerato amico-nemico. Noi di­ciamo quasi mai. Ma verrà considerato o amico…

M.B. Non sta nell’indifferenza questa cosa?

R.C. No, l’indifferenza è a partire dal massimo dell’interesse.

M.B. Dal massimo dell’interesse?

R.C. Sì, è una variante dell’interesse, l’in­differenza.

M.B. “Avariante”, con la a davanti?

R.C. No, una variante. C’è una mano al­zata lì in fondo.

Marina Nives Pojani Diceva prima che, rispetto alla scienza della parola, nella scienza del di­scorso nulla deve apparire come novità e come imprevisto. Come viene accolta una persona da cosa dipende? Da come ci si dispone. Insomma, se uno parte basan­dosi su una concezione già data e che può essere riferita al forestiero, o anche al bambino che magari pretende qualcosa o dà fastidio, come ci si pone rispetto alla novità?

R.C. Sarà capitato che, magari nel corso dell’anno scolastico, a un certo punto giunge in classe un alunno nuovo. Mai suc­cesso?

L.G. Sì, succede, magari se è disponi­bile, è dopo nell’atteggiamento…

R.C. Cosa accade in classe, cosa si veri­fica?

L.G. Lo vedi diverso. Tu hai delle aspet­tative ma, nello stesso tempo, non le trovi nel bambino. Vedi che ci sono altre cose, al­tre sue aspettative e da parte mia manca il punto d’incontro. Questo sì, può capitare e magari ci vuole tempo per riuscire a incontrarsi.

R.C. Cosa accade al prediletto dell’inse­gnante quando arriva un bambino nuovo?

L.G. Non parliamo di prediletto.

R.C. Parliamo di prediletto! Per esempio, al prediletto dell’insegnante, quando arriva un bambino nuovo in classe, cosa accade?

L.G. È geloso, molto geloso. Non si parla di gelosia, ma vede che le attenzioni non sono più rivolte a lui, vengono rivolte a altri. Un esempio pratico: tre anni e quattro anni. L’anno scorso i bambini avevano tre anni, quest’anno sono cre­sciuti e sono diventati di quattro. Le at­tenzioni di quest’anno sono rivolte sempre a quelli di tre, perché hanno maggiore bisogno, e i bambini di quattro anni hanno vi­sto che l’atteggiamento nostro è diverso. Adesso si pretende di più, si vuole qual­cosa di più, e lo dimostrano in gelosia, in atteggiamenti un po’ diversi, perché loro si considerano come l’anno scorso, con lo stesso modo di fare, le stesse esigenze. Quindi, hanno un altro atteggiamento, c’è un altro scontro.

Ma, parlando di scono­sciuto, come ha detto lei, si presenta in classe un bambino nuovo che ha la stessa età degli altri. È diverso, è un bambino diverso dal gruppo. Non che sia… Ogni bambino è a sé, perché nessun bambino è uguale, però, dal gruppo di bambini che hai già avuto, con cui hai già fatto esperienze, ti aspetti delle cose. Il bambino nuovo che ha uno, due o tre anni, vedi che le aspettative non sono le stesse e, nello stesso tempo, vedi che il bambino che è venuto per la prima volta a scuola ha delle esigenze e le chiede, magari non aper­tamente, però ha altre necessità, questo sì e si nota. E questo si vede non solo attraverso il discorso, ma anche in tutto il suo modo fare, nel mio e nel suo.

R.C. Quindi arriva in un gruppo.

L.G. Arriva in un gruppo che è già ben or­ganizzato. C’è anche un’altra cosa: riuscirà a entrare nel gruppo?

R.C. Questo gruppo organizzato, è orga­nizzato attorno a cosa?

L.G. Attorno a persone adulte, ma anche fra loro. Per esempio, a tre anni, di solito, cominciano a conoscersi dopo un po’, perché non vedono il compagno, le amicizie si formano più avanti. Allora si nota come si formano le amicizie, si cercano fra loro, perché magari hanno gli stessi gusti, gli stessi interessi, amano gli stessi giochi. C’è chi è meno aggressivo, chi è più aggressivo, chi è più dolce. Adesso c’è anche l’aggressività, molta aggressività nella scuola materna.

R.C. Lei dice aggressivo.

L.G. Ci sono anche le aggressività, molte aggressività.

R.C. Ci sono anche le aggressività? Può fare un esempio?

L.G. Un esempio di come intendo io l’aggressività nel bambino? Non accettare che un bambino prenda un gioco, accettare di picchiarlo perché “Lui mi ha preso il gioco e io lo rivoglio”, non usare il linguag­gio, ma usare solo gesti, morsi, calci. Questa è aggressività.

R.C. In che senso ciò sarebbe aggres­sività?

L.G. Perché non sa comunicare con la pa­rola, con il discorso certe sue emozioni, in un qual modo. Poi bisogna anche vedere, perché ci sono altre cose.

R.C. Quindi, lei giustamente dice che si tratta di un problema di comunicazione, un problema di…

L.G. Un problema di comunicazione. Anche di atteggiamento, perché bisogna valutare l’atteggiamento che ognuno ha nei confronti del compagno.

R.C. Un problema di comunicazione nel senso che x vede y in un certo modo.

L.G. In un certo modo, secondo i suoi pa­rametri.

R.C. E quel modo avvia una procedura. Allora, in che senso questo sarebbe aggressività?

L.G. Da un atteggiamento. Per me l’ag­gressività è il comportamento che un bambino ha nei confronti di un altro bambino, come comportamento non comune.

R.C. Ah, ecco, come comportamento! Allora l’aggressività è un concetto che trova la sua base nel comportamento.

L.G. Sì, nel comportamento. Sapere usare il comportamento anziché il linguaggio, anziché nell’espressione.

R.C. Cioè nell’idiozia?

L.G. Nell’idiozia in che senso? Proprio idiota!

R.C. Nel senso più preciso del termine, nel suo senso etimologico. Lei sa il senso a cui mi riferisco?

L.G. Povera creatura!

R.C. No, non c’entrano le povere creature.

L.G. Io mi chiedo, delle volte, se si parla di persone.

R.C. L’idiozia sarebbe l’assenza di carat­teristica. Lei sta dicendo che l’aggressività è un’assenza di caratteristica.

L.G. Posso esprimermi a modo mio? Mi esprimo con i miei termini proprio “da tre anni”. Un bambino che io intendo aggres­sivo è un bambino che vuole…

R.C. È un idiota, è un animale che segue il suo istinto. Questa è l’idiozia.

L.G. È solo una persona educata in una de­terminata maniera.

R.C. Ora, o noi qualifichiamo l’aggressi­vità o rimaniamo nel giardino zoologico. Questo intendo dire. Abbiamo aperto un capitolo importante della questione di oggi. Purtroppo, lei si è riservata proprio per i minuti…

L.G. Parleremo la prossima volta.

R.C. Perché mi pare importante questo.

L.G. Certo. L’aggressività per me è una cosa da contenere.

R.C. Da contenere, esatto. Sono state cre­ate le gabbiette apposta!

L.G. E, insomma!

R.C. Adesso io scherzo, esagero, però mi accorgo che c’è una questione veramente importante di qualificazione rispetto al cal­derone che viene chiamato aggressività, dove c’è di tutto, qualunque cosa che non si riesce a distinguere viene chiamata ag­gressività, che è la base per l’etichettatura e per una serie di considerazioni che non si rivolgono…

L.G. Può parlare la prossima volta di que­sto argomento?

R.C. Certamente.

L.G. Mi farà un grande piacere, perché è una cosa che ultimamente con i bambini è molto sentita.

R.C. La questione dell’ostilità con l’elabo­razione intorno all’aggressività.

 


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RUGGERO CHINAGLIA
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