Undicesimo capitolo del volume La realtà della parola
Il padre debole e il figlio ribelle
Ruggero Chinaglia Cominciamo. Ci sono domande, questioni, precisazioni?
Maria Antonietta Viero Ho scritto qualcosa a proposito del film.
R.C. Quale film?
M.A.V. Dio esiste e vive a Bruxelles. Qualche annotazione rispetto a quanto ho ascoltato.
R.C. Leggiamo.
M.A.V. Di che cosa si costituisce il vivente? Di quale nutrimento si fa la crescita? Di quale educazione, di quali strumenti perché la vita compia il suo disegno? A noi interessa lo scrivente, colui che annota, nel facendo e nel pensando, la sfumatura che lo concerne, senza offrirla al cannibalismo della condivisione. E resta un modo fobico di un riparo che subito, come foglio al vento, scopre la paura della violenza dell’elaborazione.
L’elaborazione parlando, nella complessità dell’atto di parola imprevisto, pur pensando di essere garantiti sulla facoltà di ogni titolarità, comporta un lapsus, una dimenticanza, quel fuori seminato che scompiglia i bordi e i sentieri di rimozione e di resistenza, una svista, una cantonata e fa sì che siano accolti, e annota la nuova direzione, l’esigenza della nuova combinazione, ascoltando e annotando quell’elemento di sorpresa, che pone dinanzi la necessità della sua portata, quanto a considerazione e accoglimento. Così, come di sera, l’altro tempo è inaspettato e l’ombra in un gioco di luce, coglie il sole nell’appostarsi il cuscino per la propria idea di sé e delle cose che il giorno finisca. E il finire è bisognoso dell’inizio di qualcosa d’Altro, come il suo pensato contrario, in una sorta di corrente alternata inizio-fine, come in un passaggio di liquido tra due bottiglie o vasi comunicanti, che non si avvede di un calcolo rispetto alla perdita, e qualche goccia cade e si disperde. L’operazione algebrica varia quanto a peso netto e tara, così, l’ombra, che al volgere di luce si staglia e taglia il piede in un’idea di origine piantata in terra, vede finito il proprio discorso e porta la propria chance sull’idea di origine, dove sembra vestire infinite sfumature di quell’idea.
La creazione dei personaggi prende corpo, vita e forma come nel film Dio esiste e vive a Bruxelles, dove la traversata fiabesca, nel suo ascolto, consegna la sua saga allo scrivente. Ognuno vive all’ombra dell’origine, una credenza dell’origine ontologica, come l’idea della propria famiglia, ma l’ombra è orma della luce. nel suo modo del chiaroscuro. Ea crea nel film il personaggio padre, padrone del tempo altrui, che ha il divertimento di fornire, per via cellulare, quanto gli resta da vivere a chi lo riceve, cioè quando morirà affinché si formi una buona coscienza di morte. Di quale padre si tratta?
Un padre segregatore, violento, un padre severo, un padre che, come Parca, si fa matrigna: io ti ho dato la vita, io posso, se voglio, togliertela. Un padre con la funzione di madre e, se la madre funziona, la madre uccide. La fantasia di origine, da dove vengo e da dove vengono le cose, comporta anche l’idea di fine, l’idea di destino, l’idea di durata. E la vita può trascorrere nel come togliere il marchio d’origine. E gli inceppi sono molti, molte le mutilazioni. Vittima e carnefice si alternano all’idea di accettazione o di ribellione. L’idea di origine fa sorgere l’idea di essere “figlio di” e dover percorrere la stessità senza invenzione, senz’arte: un destino segnato senza tempo.
Il film ci offre Ea, che si ribella al padre e va tra gli umani nella figura di eroina, di salvatrice del padre, inventando, dissimulando il gioco mortifero del padre materno e di assoluzione nel racconto di sei storie, sei apostoli per la scrittura di un nuovo testamento che tolga la chiave della cassaforte che contiene il tempo. Chiave, come rebus in cifratura delle storie. La storia, perché divenga ciascuna storia, è la fiaba a raccontarla. Nel racconto, una storia occasiona la memoria a tessere ciò che è in atto nell’occorrenza del contingente; una storia presa nel dirsi del racconto con il lavoro della dimenticanza dice del sogno in atto, della costruzione progettuale per cui una storia non è mai finita.
Lo scrivente nel film: Ea lo dice padre, un padre che scrive ciò che del racconto si cifra e cifrandosi, sull’assenza del fatto che il padre sia il padre dell’origine, attribuendolo allo scrivente, è padre incertus. Il figlio non viene dalla madre, che anzi, nella traversata fantasmatica di Ea, trae al suo mito. Solo con il mito della madre le cose proseguono nel loro malinteso, così come nel racconto di Ea e nella sua storia.
R.C. Bene. Chi ancora? Ci sono altri che hanno una domanda, una nota?
Daniela Sturaro Sì, io. Allora, questo film mi sembra, se parliamo del film dell’altra volta…
R.C. Lei di cosa parla?
D.S. Non so se è il tema di questa sera, ma riflettendo qualche momento su quel racconto, mi pare ci sia una ricerca di qualcosa di nuovo nell’ordine religioso, cioè il superamento del dio vendicativo, del dio biblico che viene ridotto a una macchietta, come di un uomo con la vestaglia da camera, con le ciabatte, che colpisce attraverso il computer le vite di tutti. Dio ormai non serve più, a quanto ci dice il regista. Il Cristo è un simulacro, cioè la statuetta del buon pastore che magari si può trovare nelle case, nei recessi, nelle memorie infantili, come Gesù Cristo, ma senza più forza. Non ha più forza questo Gesù Cristo. E chi si prende il compito di cambiare è proprio la figlia, che vuole andare oltre quello che è il padre, andare oltre quello che fa il figlio per dare un nuovo corso alle cose nella vita di alcuni personaggi, in cui lei casualmente si imbatte.
Quello che io chiedo è perché questo avvenga sempre attraverso l’oltrepassamento della difficoltà della vita di ciascuna di queste persone. Avviene attraverso la relazione. Per fare un esempio: quello che voleva uccidere tutti, riesce a superare questa sua tendenza sparando alla ragazza che non viene colpita. Spara alla ragazza mentre attraversa il ponte; questa ragazza non muore. In quel momento per lui inizia un nuovo modo di vedere le cose, capisce qualcosa che prima non aveva capito. Un altro esempio: Martin riesce a interrompere la relazione assurda con il marito, incontrando il gorilla. Ora non so cosa rappresenti il gorilla, certo qualcosa di differente da quello che era suo marito. Ma l’elaborazione e il superamento della difficoltà avvengono attraverso la relazione. È così?
R.C. Questa è la domanda. Per formularla in modo più preciso, lei chiede che cosa?
D.S. Se ciò che impedisce a qualcuno, a ciascuno, di trovare il valore, può venire dissolto attraverso una relazione.
R.C. Una relazione.
D.S. Attraverso la relazione, non una o due.
R.C. La relazione, ossia cosa intende per relazione?
D.S. Ossia intendendo per relazione trovare effettivamente un ostacolo che poi diventa trampolino, un punto di partenza per iniziare qualcosa di nuovo.
R.C. Quindi si tratta della relazione o dell’ostacolo?
D.S. Per come la racconta il film sembravano coincidere.
R.C. E come la racconta il film?
D.S. Il film racconta che queste persone, che erano un po’ rinchiuse in una forma di vita abbastanza limitata, riescono a oltrepassare il limite incontrando qualcuno, incontrando una persona che le guarda con altri occhi, forse si vedono nello specchio e lo specchio riflette qualcosa che prima non avevano mai visto.
R.C. Quindi è la fiaba di Biancaneve.
D.S. Perché?
R.C. Perché c’è lo specchio. Specchio, specchio delle mie brame… La regina si guarda allo specchio e gli pone il quesito e lo specchio le risponde.
D.S. No, allora, diciamo che, guardando, è una questione di sguardo. Sguardo per cui tu non sei quello: non sei l’erotomane, non sei il killer, non sei la sposa infelice. Non sei niente di tutto ciò. Cioè è come se l’identità si fosse cristallizzata attraverso ciò che viene rimandato dal mondo. Allora, il mondo s’infrange, quando tu incontri uno sguardo differente.
R.C. Perfetto. Bene, altri?
Patrizia Ercolani Io mi domandavo, il titolo dice padre debole e figlio ribelle…
R.C. Il titolo di questa sera…
P.E. Sì. Se il padre è ritenuto debole, allora il figlio è ribelle in quanto il padre non c’è, non funziona.
R.C. Cioè, lei dice: a chi si ribella questo figlio?
P.E. Esatto. Se riguardo a un padre che non funziona o rispetto a un’idea.
R.C. A chi si ribella il ribelle?
P.E. Rispetto a un’esigenza, a qualcosa che non trova rappresentazione non sempre in un padre o forte o debole, o buono o cattivo, non è quello che importa. Così mi domandavo, perché, prendendo lo spunto dal film, la rappresentazione del padre o del figlio dà sempre una rappresentazione del male e la ribellione sembra essere verso un padre cattivo o forte, sembra rivolta a questa violenza rappresentata nel padre, attribuita al padre. Non so se questa idea è connessa, o comunque adiacente, a qualcosa che si può rappresentare, ma non si rappresenta. E mi domando se la ribellione è, non so se indica uno scarto tra quello che è un’esigenza di funzionamento e la rappresentazione che si cerca di fare.
R.C. Ecco, c’è uno scarto.
P.E. Sì, se è questa la ribellione, non tanto verso un padre che dà botte, che non rispetta, rifiuta, ma che la ribellione sia da intendersi magari per questa rappresentazione che non funziona, non come dovrebbe o come vorrebbe l’idealismo, ma qualcosa che manca al funzionamento. Non so come dire in altro modo. Come intendere che c’è un funzionamento costitutivo, in questo senso reale, per cui non c’è bisogno di una rappresentazione o di opporsi a una rappresentazione, quindi di non credere alla violenza, ecc.
R.C. Bene, altri?
Sabrina Resoli In merito al film?
R.C. In merito al dibattito.
S.R. Prendo spunto dal film perché, che il papà fosse dio mi ha fatto pensare alla favola di Rosaspina, dove il papà è un re, che però non ha abbastanza piatti da dare. Anche qui c’è un papà che è dio, però è un dio da poco, che non fa miracoli, che non sa camminare sull’acqua. E quindi c’è questa combinazione tra l’idea di un papà come dovrebbe essere, ma che non ne ha i mezzi; è proprio scadente. E poi un’altra cosa che mi ha dato da pensare nel film, è l’uscita di scena di questo papà che non muore, ma rimane confinato fuori scena, praticamente, non può più rientrare. E questo papà che non muore, che però non può ritornare, è ciò che, secondo me, consente alla mamma di instaurare la madre, proprio perché il papà non muore.
R.C. Non può rientrare, lei dice. Dove dovrebbe tornare?
S.R. A casa. La strada per lui è sbarrata.
R.C. Non si chiama mica Lassie. Chi sbarra questa strada?
S.R. No. Però accade questo, che il papà non può riprendere il posto nella casa e viene portato via.
R.C. Quindi ci sarebbe un’alternativa tra il papà e la mamma. La madre può instaurarsi in assenza del padre?
S.R. Non ho detto in assenza del padre, ma perché il padre non è morto.
R.C. Ma è stato messo in quarantena, in isolamento.
S.R. Sì, è stato spostato.
R.C. Ecco, è stato cacciato, quindi la madre esige che il padre vada via, per lavorare bene.
S.R. No, che non sia morto. Io mettevo in evidenza, nel film, il fatto che il papà non muore…
R.C. Sì, certo. Gentile, pare gentile. Non lo facciamo morire, ma lo mandiamo in Siberia.
S.R. Lo mandiamo in Siberia?
R.C. Lo mandiamo in Siberia. Confinato. Allora finalmente la madre può instaurarsi. Beh, è un’ipotesi, dal suo punto di vista, giustamente…
S.R. Il film, a me sembra raccontare questo.
R.C. Esatto. È un’ipotesi che lei dal suo punto di vista avanza, giustamente.
S.R. Non so se giustamente, però non posso fare a meno di avanzare questa ipotesi. Non ho altre ipotesi.
R.C. Beh, è suggestiva.
S.R. Esce di scena un certo papà, non il padre.
R.C. Certo. Lei insomma è d’accordo con Ea.
S.R. Beh, Ea ne ha tante di cose.
R.C. Quindi, ce n’è di più.
S.R. Ea non è solo ribelle, insomma.
R.C. Bene, c’è ancora qualcuno che abbia ragionato su questo e altro?
Barbara Sanavia Non so se il papà, o anche un aspetto del padre, sembra trovarlo nel barbone, nello scrivano per il Nuovo Testamento. E com’è questo Nuovo Testamento, lo si vede alla fine. Non è fatto di parole, è fatto di disegni. Per me questo rafforza quest’idea del Nuovo Testamento, perché i disegni per ciascuno che li vede (anche un testo che si legge, però molto di più i disegni) mi danno un’idea di libertà d’interpretazione, per cui avvalora che questo Nuovo Testamento è fatto da ciascuno. Riporta l’esperienza degli apostoli, di questi sei nuovi apostoli. Anche se la ribellione, la fuga di Ea, sembra essere in un primo momento una vendetta verso il papà, di cui si voleva vendicare, però resta che quello che aveva fatto è una ribellione, nel senso che non accettava quella famiglia, dove non c’era proprio la figura del padre, per cui la ribellione rappresenta… che se l’è cercata da sola.
R.C. Cosa si era cercata da sola?
B.S. Non ho ragionato molto questa settimana, però non c’era il padre e neanche la madre, per l’idea che mi sono fatta io di madre in questa famiglia. Come poteva vivere così? La ribellione è il desiderio di vivere, perché non stava vivendo.
R.C. Bene. Interessante. Lei dice che se ne va per vivere.
B.S. Sì, l’ha anche detto, prima mi vendico, poi me ne vado, quando ha deciso di uscire.
R.C. “Me ne vado per sempre”. Bene.
B.S. Poi ha anche detto, quando ha incontrato il barbone: “Il paradiso è qui”, cioè ci sono tanti indizi della sua missione.
R.C. Perfetto. La missione. Molto bene. Altri? Novaretti è concentratissima. Tra un po’ prorompe? Dica.
Fernanda Novaretti No, non ho riflettuto.
R.C. Non ha riflettuto su questo. E su che cosa?
F.N. Su altre cose.
R.C. Riservate, molto riservate. Cose personali?
F.N. Personalissime.
R.C. Riservate e personali. Niente a che vedere con la realtà intellettuale quindi. Proprio niente? Mantiene un rigoroso silenzio?
F.N. Non saprei cosa dire.
R.C. Non saprebbe.
M.A.V. C’è una questione che riguardava come il film dia l’occasione di ribaltare, proprio sull’idea di origine, alcuni luoghi comuni: si pensa che il padre sia certo e che il figlio invece sia incerto. Mentre invece qui, nella traversata, mi è sembrato che ponesse in risalto proprio questi due statuti di padre incertus e di come invece il figlio è certo. E poi anche un’altra costatazione: che solo procedendo dal padre con il suo mito, trae verso il mito della madre, altrimenti è difficile che compaia, che si ponga da sola, ecco.
R.C. La realtà intellettuale, l’instaurazione della realtà intellettuale, esige l’attraversamento e la dissipazione della fiaba. Esige la non accettazione intellettuale, che non è coniugabile nell’“Io non accetto che”, che è la formula della consacrazione della soggettività, del fantasma materno, della padronanza, per espellere qualcosa che è presunto costituire e rappresentare in negativo, il disturbo, il limite della tollerabilità. L’accettazione non sta all’io, non sta al tu, non sta al lui, è non accettazione intellettuale, quindi non accettazione della sostanza, non accettazione di quel che si rappresenta come tale.
La non accettazione intellettuale non indica che qualcosa sta fuori dalla parola, e che non può essere accettato. Indica, invece, che non c’è cosa che stia fuori dalla parola; e non può essere accettata l’idea che qualcosa venga rappresentata come stante fuori dalla parola. Quest’idea che qualcosa stia fuori dalla parola indica che c’è chi pensa di stare fuori dalla parola, attribuendo questo dentro e questo fuori, a sé, all’Altro, alle cose, negando la parola e la sua apertura.
Chi si pone nella minaccia, nell’alternativa del non accettare, è chiaro che vive nell’infernale, nella palude, nella costante rappresentazione dell’alternativa fra il dentro e il fuori, fra il sopra e il sotto, fra il positivo e il negativo, fra il bene e il male. Vive nello schifo. Nello schifo che sarebbe giustificato, appunto, da quel che non è accettabile.
Chi vive nella fiaba, ponendosi fantasmaticamente fuori dalla parola, fuori dalla ricerca, in un mondo sostanziale dove non può avvenire ricerca o analisi, si chiede, e chiede soprattutto a altri, di sapere come si fa. Come si fa questa o quella cosa? Come si fa a sapere cosa fare in ogni circostanza? Chiede cioè di sapere quale sia il modo standard, il modo convenzionale, il modo usuale, il modo normale di fare, anziché disporsi a capire i termini della questione attuale, non della questione in generale, della questione ontologica, anziché chiedersi quale sia il dispositivo da attuare per trovare il modo opportuno. Come fare a sapere il da farsi: sapere cosa dire, cosa fare, cosa pensare, come vivere. Sapere.
Come fare per sapere. Il soggetto ontologico sa, deve sapere, altrimenti di quale ontologia si potrebbe fregiare? Di quale essere potrebbe vantarsi, fregiarsi? Di quale essere poter fare la caricatura? E accade che sempre più spesso, per non dire sempre, a parte qualche rara eccezione, c’è chi domanda consigli, pareri, consulenze, prescrizioni, ricerche, ammaestramenti, suggerimenti per sapere come fare a superare determinate difficoltà, per trarre la soddisfazione che idealmente si cerca, per essere felici e non si trova, per migliorare la performance, il rendimento, per sapere insomma in ogni caso come comportarsi. E fin qui, domandare è lecito.
Il problema è che, con sempre maggiore facilità chi chiede questo, trova chi è disposto a fornire questo sapere, questi ammaestramenti, questi suggerimenti, queste ricette, queste modalità, per lo più sulla base di senso comune, di una ordinalità, di una normalità. Ma fornendo queste risposte, questi facili consigli, c’è chi si chiede quali fantasie abbiano impedito a quella persona, a quel questuante, a quel postulante, di trovare il modo opportuno? Di cercare, di trovare, anziché di domandare di sapere? Quelle stesse fantasie, se non individuate, se non analizzate, se non attraversate, se non capite, impediranno di attuare quegli stessi consigli, quegli stessi ammaestramenti, quelle stesse ricette, quei suggerimenti così generosamente forniti.
Ognuno spera di potere istituirsi come macchina esecutrice del giusto modo, ma il soggetto robot cozza contro l’operatore. Non c’è modo di eseguire l’ordine togliendo l’operatore, togliendo dio come operatore, togliendo cioè la logica operativa che opera per la scrittura delle cose. Opera con la connessione, con il nesso. Pensare di eseguire senza capire il nesso tra una cosa e l’altra è come pensare di essere un robot, un computer, una macchina esecutrice, senza ragionamento, senza calcolo, senza ragione, avvalendosi cioè solo della ragione sufficiente, presumendo di potere aderire allo standard, tolta l’arte, tolta l’invenzione, senza variazione, senza differenza, eseguendo.
In questa mitologia dell’esecutore, del soggetto finalmente idiota, la domanda più frequente al sorgere di un dispositivo, al sorgere di una proposta, è: quanto dura? Quanto dura la fatica? Quando finisce la fatica? Quanto dura l’agonia, prima che giunga finalmente quella fine tanto pensata, temuta, criticata, vagheggiata e presente in ogni pensiero?
Con l’idea di origine la conseguenza è l’idea di fine, con i suoi correlati, perché non basta l’idea di fine. Ci sono i correlati: l’idea di salvezza, di protezione, di bene o di male, l’idea di purificazione, di affrancamento, di liberazione, di potere quindi attribuire a un’agente superiore la colpa di quel che accade, insomma l’idea di ragione sufficiente, che è l’idea di sopravvivenza. Raramente c’è modo di ascoltare la domanda: come comincia? Questa cosa, come comincia? Quando comincia? Per trovare i termini e i modi di proseguire, di fare, di concludere. La questione si pone in modo urgente e rilevante per ciascuno che intende quindi vivere, e non sopravvivere.
Vivere ragionando, non eseguendo. Vivere, non come soggetto incapace, irresponsabile, debole, malato in cerca dell’alibi che lo giustifichi o che lo sancisca come inabile, debole, incapace, un vero soggetto. La questione è: “quando qualcosa incomincia?”. Per esempio, quando comincia, dopo la nascita, la rinascita intellettuale? Come intendere che ciascuno nasce nella parola e non nel genere umano? Quando qualcosa comincia nella parola? Dice Ea: “In principio uno non sa che quello è il principio, non si sa che sta cominciando. Poi all’improvviso tutto ha inizio”. Ea lo dice a suo modo, presumendo appunto che qualcosa inizi e poi ovviamente finisca, però Ea pone la questione, perché “quando qualcosa incomincia, le cose non sono più come uno se le immagina”. Sì, Ea dice sono totalmente diverse da come uno le immagina, ma pone la questione che quando qualcosa comincia non è più tale.
Quando qualcosa comincia non è più come era stata pensata. Quando qualcosa comincia allora la storia esige il racconto, non più l’ontologia. E non si sa più come va a finire perché non finisce più. Quando qualcosa incomincia nella parola? Come capire quando nella parola qualcosa comincia? È semplice: quando il funzionamento del nome s’instaura con la funzione di rimozione. E quando la rimozione s’instaura? Come capire quando la rimozione s’instaura? Attenzione: non “si è instaurata”, ma “s’instaura”, è in atto. Non per sempre e comunque. È in atto, quando, parlando, quel che si dice non conferma l’idea da cui il dire è partito, né trova conferma il senso che si voleva dimostrare parlando. Quando parlando interviene l’esigenza, la necessità del glossario e del dizionario, perché non c’è più la lingua unica o la lingua comune e dunque ciascun termine è originario. Non è parte di un vocabolario comune e quindi occorre precisare quel che si dice.
Così comincia qualcosa, così comincia a funzionare la rimozione, quando non si può più dire qualunque cosa, quando non si può più parlare a ruota libera, ma nella sembianza interviene l’inibizione. Quando il personaggio, che si crede di essere o di dover rappresentare, non può più sovrapporsi e confermare il presunto soggetto della padronanza, lì, così, qualcosa comincia a dirsi. Qui sta l’incominciamento che s’istituisce con la rimozione nel linguaggio e l’inibizione nella sembianza.
Così si avvia il transfert, la struttura in cui si tratta della metafora, quindi la struttura che si enuncia con il “come se”. È “come se”, non è proprio così, è come se. E occorre rischiare questo varco tra la rappresentazione e quel che si dice “come se”, senza più realismo, senza più sovrapposizione tra la parola e la cosa. “Come se”, senza poter colmare, chiudere il varco metaforico con cui il funzionamento indica e trae a un altro senso, perché è impossibile chiudere questo varco, che esige la traduzione, l’interpretazione, il controsenso, introducendo all’equivoco e a un altro equivoco, dove le cose non sono più, ma divengono, si qualificano.
Questo è inaccettabile per chi si costituisce personaggio della padronanza, come soggetto della padronanza, come soggetto del sapere, come soggetto della stabilità, come soggetto della supponenza. Trova inaccettabile il cominciamento.
E allora, questo personaggio nega l’equivoco, nega la differenza, nega la variazione, nega il controsenso perché mette in questione la supponenza stessa del soggetto, mette in questione la propria visione del mondo, la propria accezione di questa o quella cosa, la propria significazione. Per questo personaggio, che è personaggio standard, soggetto della padronanza, soggetto standard, il debito e il credito non sono più teoremi, ma modalità. Cioè, non sono più teoremi che indicano il non dell’avere e il non dell’essere, ma si istituiscono come modalità, per cui c’è chi è in debito e chi è in credito, in relazione alla colpa dell’origine: essere in debito, essere in credito, vale a sancire la colpa attribuita all’origine.
Quando qualcosa comincia non è sempre chiaro cosa comincia, perché l’incominciamento procede dal disagio, quindi dall’ambiguità, dall’apertura, dal principio della parola, dall’anoressia, dall’assenza di sostanza. E al disagio il personaggio si oppone in nome della padronanza minata, messa in pericolo, cioè si contrappone in nome della stabilità, della normalità, del senso comune, del luogo comune, del sapere comune.
E allora non sa più che pesci prendere, come se si trattasse di prendere pesci… Qualcosa comincia con una traversia, qualcosa si pone di traverso alla routine, alla padronanza, all’abitudine, al normale andamento previsto. Questo è già l’indice del cominciamento: la traversia, l’indice di un nome che non può più essere negato e che quindi non può più mantenere la sua significazione, perché è entrato nella rimozione.
La significazione così cara al personaggio che nega la parola, è il colmo dell’anfibologia. Cos’è l’anfibologia? È la rappresentazione che una cosa può avere un andamento favorevole o sfavorevole, può essere positiva o negativa e occorre sperare che l’andamento sia positivo, perché potrebbe essere negativo. Questa è l’anfibologia, la doppia possibilità. Ogni superstizione procede dall’anfibologia.
E l’anfibologia può interessare ogni rappresentazione, la rappresentazione di sé, la rappresentazione dell’Altro, la rappresentazione del mondo, di ogni cosa, per cui con l’anfibologia ognuno si situa nell’infernale, nella palude, nello stagno. E quindi anfibologia del papà, anfibologia della mamma, anfibologia del fratello, anfibologia della sorella, anfibologia dei genitori, anfibologia degli altri che sono amici, ma che possono anche diventare nemici… La mamma può essere buona, ma può essere anche cattiva. E il papà può essere forte, può essere anche debole, può essere buono, può essere malvagio. E dio, come sarà dio? È benevolo o malevolo? E come può essere ognuno, fortunato o sfortunato? Abile o inabile? Come deve fare?
L’anfibologia indica già il fantasma di padronanza, indica già l’applicazione della dicotomia all’apertura della parola, al modo del due, quindi la temporalizzazione dell’apertura, in modo da potere ordinare le cose con il criterio della contrapposizione, dell’alternativa esclusiva, per provare a gestirla, per esercitare la padronanza, per sentirsi padrone della lingua, della propria vita, padrone del proprio destino. E già dire “proprio”, indica che il personaggio è già in azione, è già schierato. Già dire “proprio” indica la localizzazione, e quindi la dicotomia del due, il toglimento della relazione originaria, per instaurare il rapporto di sé a sé o di sé all’Altro; il rapporto tra la significazione positiva e negativa di questa o quella cosa, di questa o quell’idea, il rapporto di significazione tra i termini dell’apertura che non c’è più, perché è stata chiusa, in quanto è sorta l’alternativa: paura e coraggio, fare o non fare, accettare o ribellarsi. Accettare o ribellarsi? Questa è la scelta del soggetto: accettare ciò che l’ente superiore impone o ribellarsi per essere padroni del destino?
La ribellione è il colmo dell’eroismo nello scontro, non già di civiltà, ma fra soggetti con le rappresentazioni del godimento, del desiderio, del piacere, attribuiti a sé o all’Altro. L’idea di esistenza è correlata a quella di rappresentazione: esiste ciò che è rappresentato, ciò che è situato fuori dalla parola, senza analisi, senza rimozione, senza transfert, senza qualificazione.
Quale dio può esistere? Un dio rappresentato, creato a propria immagine, nella presunta disponibilità della propria padronanza. Questo è il dio che può esistere. Non è Dio che crea a propria immagine, è l’uomo che crea Dio a propria padronanza. È il dio della religione, il dio in nome del quale poter agire, il dio agente, il dio quindi dell’antropomorfismo. Il dio che esiste è il dio antropomorfo, dalla forma umana, dalle caratteristiche umane, dalle sembianze umane, dalla mentalità umana, creato dalla credenza umana. Credenza che sta in alternativa alla parola.
Il dio che ha sede nella parola non fa, non agisce, non impedisce, non prescrive, non vieta, ma opera. Non è agente, opera, è fuori dalla possibile standardizzazione, dal possibile comportamento, dalla dicotomia tra comportamento umano e divino.
Nulla esiste, se non nella rappresentazione del mondo in quanto tale, dove le cose stanno ferme, immobili, nelle sfere. Ciascuna cosa comincia, avviene, diviene, accade, si qualifica. Non “esiste”. Non c’è cosa dimostrabile, spiegabile, giustificabile o confutabile. Ciascuna cosa entra nella struttura. Qui fa il suo viaggio, viaggio strutturale, che non è evitabile, nemmeno da chi chiede di sapere come fare, cosa dire, cosa fare, cosa pensare, come dire.
E, dunque, di cosa si tratta? Poste queste cose, di cosa si tratta nel film di Jaco Van Dormael, Dio esiste e vive a Bruxelles?
Si tratta della fiaba di Ea, figlia di dio, cioè di un papà ritenuto piuttosto trasandato, burbero, incestuoso, incapace di qualunque cosa, senza lo strumento da cui gli deriverebbe il suo potere e di una genitrice considerata una povera donna, incapace di ribellarsi alle angherie che subisce. Da chi? Dal marito. “Una donna che non dice mai una parola”. Questa è la rappresentazione che Ea ha della famiglia: papà è così, mamma è così. E poi c’è J.C., Jessie, il fratello Jessie, fratello che se n’è andato di casa, per evitare di scontrarsi con il papà. Quindi Ea vive in questa prigione, una casa come prigione senza porte, senza entrate, senza uscite, arrivata lì non si sa da dove. Una casa senza via di fuga. Una vera e propria prigione. Eppure un pertugio c’è. Una via di fuga c’è.
Com’è che Ea se n’è dimenticata? Non l’aveva considerata, eppure c’è. Quindi, dove Ea ritiene di essere prigioniera? Dove? Se da lì può immettersi nel mondo attraverso un cunicolo, uno stretto cunicolo, rappresentato dalla lavatrice.
Nascita, origine. Ea è un po’ confusa. Ma ha una certezza. Ea ritiene che la propria fine sia inevitabile e sia programmata dal padre. Il padre la vuole morta e quindi è suo nemico. Il fantasma di fine di Ea, fa sì che veda intorno a sé solo cose degradate. È tutto uno schifo. Uno schifo la casa, uno schifo la vita del papà, uno schifo la vita della mamma: tutto fa schifo. Da qui la collera e l’idea di vendetta. Vuole andarsene per fare una vita migliore, per essere migliore del papà, ma prima vuole fargli del male e poi andarsene per sempre.
Il padre è uno schifo, però è dio, padre come dio. Un certo mito forse c’è, però molto mitigato dall’idea di fine. Una certa idea di padre, una certa idea della madre, una certa idea di sé, un’idea certa della fine. E il papà ha un punto debole: non sa fare, e per fare usa il computer. Senza computer non sa fare niente. Non sa fare. Da questa negatività, da questa idea di fine, da questo schifo, sorge un’idea, l’idea di salvezza. Come salvare il mondo.
Occorre salvare il mondo. Occorre quindi trovare degli apostoli per salvare il mondo. Ea ritiene indispensabile fuggire di casa, per salvare il mondo, per cambiare il mondo e farlo diventare migliore. Fuggire di casa a fine di bene, dato che lì tutto è schifo. Anfibologia del bene e del male, anfibologia della casa, anfibologia del mondo, anfibologia del soggetto. Soggetto demonizzatore, soggetto salvatore. Quindi la fantasia di catarsi. Soggetto terrorista.
Ea ha una serie di rappresentazioni a partire dalla sua idea di origine, situata nella donna che non dice una parola, che non è in grado di fare niente, tantomeno di ribellarsi e che subisce, e le rappresentazioni vanno dal barbone alla ragazza bellissima, ma priva di sessualità, al viaggiatore, al voyeur, al killer, al bambino-bambina. E questa galleria di personaggi, attraversata, diventa il dispositivo della missione. La missione, l’apostolo. Il missionario, colui che va in missione. Gli apostoli, il dispositivo della missione, l’ultima cena, il dispositivo della missione, la squadra, il team. Squadra di hockey? Squadra di football? La squadra. Lo schema è quello della squadra per attuare il progetto e il programma, per attuare il miracolo che non è proprietà di dio, ma dell’apostolo, meglio ancora, del dispositivo.
Il dispositivo è il dispositivo del miracolo e i personaggi della galleria diventano gli indici della missione. Non c’è più barbone, non c’è più killer, ma la scrittura della qualificazione di questo fantasma materno dissipato. Ea compie la traversata della fiaba dell’origine fino alla saga della famiglia e della riuscita, senza più personaggio sottoposto a mortalità e il papà continua a lavorare come operaio. Come ha sempre fatto!
Bene, ci sono altre domande? Tutto chiaro?
S.R. Sì, una domanda. Non ho capito se c’era un nesso tra l’idea di degradazione che aveva Ea rispetto a tutto ciò che la circondava e l’idea che il papà la volesse morta.
R.C. Procede dall’idea di fine. Chiaro che l’idea di fine è attribuita a qualcuno, in ogni caso, malauguratamente. Non è solo un’idea casuale, ma è una fine voluta. E chi la vuole? “Tu, che mi vuoi male”. Il fantasma materno, l’idea di fine, l’idea di origine. Famiglia pervasa dal male, dalla negatività. “Ma il papà è così”, come viene dipinto? “È la mamma così”, come viene descritta? “È Jessie così”, come viene rappresentato? Ea trova che “non è così”. Era una fantasia, era una fiaba, ma la fiaba si dissipa nel viaggio, se interviene la parola, se le cose non sono più come erano pensate cioè tali, senza apertura, senza rimozione, senza funzionamento, senza gli indici del tempo, senza gli indici del funzionamento. Nel dispositivo della parola non c’è più l’inferno.
Vi vedo provati.
D.S. Quindi le scudisciate del padre sono immaginarie? Forse sì, forse no, chi lo sa. Certo che il cunicolo dal cestello della lavatrice porta alla lavanderia a gettoni e da lì in poi incomincia un’altra storia.
R.C. Lavatrice, levatrice. Comincia un’altra storia. La storia comincia con l’idea di fuggire. La storia, un’altra storia comincia con il cominciamento, con il racconto, con la narrazione, con la scrittura, con la missione in direzione della riuscita.
Terminiamo qui. Giovedì prossimo siamo a Ferrara, alla sala del Castello, in piazza del Castello, proprio nel centro della città dove c’è il Castello, e al centro del Castello c’è questa sala. Al centro della sala ci siamo noi.
Quindi, per chi è della partita l’appuntamento è lì. E il titolo è tutto un programma: L’amore e l’odio. La famiglia, il diritto, la sessualità. Chi pensa di sapere già tutto può stare a casa. Per chi invece è curioso e solleticato dalla curiosità della domanda, allora l’appuntamento è lì, alle 20.45 nella sala del Castello. Grazie e arrivederci.