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Articolo pubblicato su “LA CITTÀ DEL SECONDO RINASCIMENTO”, N. 67

 LA SCUOLA E L’ABUSO DI SOSTANZE

Che cosa è “sostanza”? “Che cos’è?”, τι εστι?, dicevano i greci. Quando una simile domanda, “che cos’è?”, viene formulata, ci accorgiamo che è presa in un’idea di sostanza come riferimento, cioè un’idea di qualcosa che possa essere racchiuso in una definizione, che possa essere rappresentato in un’entità cui attribuire funzioni, effetti, proprietà, a prescindere dal viaggio in corso per questa cosa.

Che cos’è? Se per un verso la questione incomincia da qui, dal “Che cos’è?”, per l’altro essa prosegue solamente se a questo τί εστι? non viene risposto: “Ecco, è questo”, ma è lasciato un varco in cui possa prodursi Altro. In che modo? Per via di ricerca, per via d’impresa, per via di rischio, per via di parola. Senza nessuna verità a priori.

Postulare la verità prima della parola, come avviene in ogni apparato, implica postulare il suddito della verità, che è anche suddito di chi si propone padrone o gestore o somministratore di questa verità. A questo segue la prescrizione di condividere questa verità.

L’idea di condivisione è un’idea di costituzione del suddito. “Condividiamo!”, cioè apparteniamo alla stessa verità, ossia siamo sudditi di questa verità. Per questo occorre che parliamo la stessa lingua, che pensiamo le stesse cose, che facciamo le stesse cose, che mangiamo le stesse cose, pena l’esclusione dal gruppo, dall’insieme, dalla classe. Questo non è il modo della cultura, dell’arte e dell’invenzione, ma il modo dell’intolleranza, della prescrizione, dell’uniformità, dunque della sostanza.

Anche l’integrazione sempre più spesso è intesa come condivisione, come accettazione di norme, regole, tradizioni, usi e costumi del territorio: è l’integrazione come adeguamento all’esistente.

Ma la parola è caratterizzata dalla procedura per integrazione e non si adegua all’esistente, perché non esiste nulla prima della parola. Prima del suo atto, non c’è esistente. E nemmeno dopo, perché ciò che si enuncia, ciò che si dice, ciò che si fa non è rappresentabile in un esistente stabile, a meno di non abolire differenze e variazioni per istituire un terreno, un tessuto stabile, immune dalla parola. Immune, quindi, anche dall’intellettualità, dalla proprietà intellettuale della parola.

L’adeguamento all’esistente è la negazione della realtà intellettuale, non il contrario. Dunque, la procedura è per integrazione in quanto non è sottoposta alla prescrizione dell’accettazione dell’esistente. La realtà intellettuale è incompatibile con ogni soggettività, con ogni stabilità, con ogni presunzione di essere o di avere in pianta stabile proprietà, requisiti, virtù e quant’altro.

Come pensare che questo modo, che è il modo della vita, possa essere accolto, ammesso, tollerato da quel discorso che si autodefinisce scientifico sulla base dell’assunto che poggia sulla sperimentazione? Quel discorso che si chiama scientifico, in realtà, si attua come discorso sperimentale, cioè discorso che ha come suo miraggio la ripetibilità degli atti. Nessuna novità, nessuna differenza, nessuna variazione, ma la ripetibilità dell’atto, “postulate le stesse condizioni”, per poter arrivare a prevedere l’atto. Prevedere, ripetere, gestire, incanalare, padroneggiare.

Questo discorso sperimentale è il discorso organicista, è il discorso che si contrappone alla parola. Non c’è possibilità di compatibilità tra la parola e questo discorso che è, quindi, sostanzialista, organicista e sperimentalista. Questo è il crinale: o la parola o questa procedura sperimentale.

Spetta alla sostanza, ciò che sta sotto le cose, garantire che siano le stesse, che si ripetano identiche. La parola esige che ci sia analisi, in ciascun atto in cui qualcosa interviene, per capire qual è il suo statuto, per cogliere le indicazioni che vengono dal calcolo, dal ragionamento, dall’intervento di variazione, differenza, combinazione, combinatoria. L’organicismo non ha bisogno dell’analisi, propone la verità postulata, la sostanzialità e la gestibilità delle cose. Rispetto a ciò che “non funziona” o “non va”, rispetto a una discrepanza tra sensazione e percezione, rispetto a un fastidio, a un problema, propone possibile ricorrere alla sostanza per evitare quel fastidio o anche per favorire il conseguimento di un obiettivo, di un risultato. Questo metodo è indicato anche dall’apparato medico, e non solo. Oggi, l’apparato medico è quasi piccola cosa rispetto a ciò che sta attorno a esso, che è l’apparato pubblicitario che sostiene il business della sostanza. Un problema d’insonnia? Ecco una sostanza che favorisce il sonno. Un problema di sonnolenza? Ecco una sostanza, invece, che favorisce il risveglio. Un problema d’incontinenza? Ecco una sostanza che favorisce il contenimento. Un problema di eccessivo contenimento? Ecco una sostanza che sicuramente favorisce il rilasciamento. Ci sono tanti problemi, ma per ogni problema ecco una sostanza che può consentire la soluzione. Quindi l’idea di soluzione è già idea di sostanza.

Rispetto a un problema, a un sintomo, a un fastidio, non è più necessario indagare come e perché quel fastidio sia sorto e se per caso non sia mantenuto e, anzi, incentivato dal modo di vivere, dalle abitudini con cui Tizio, Caio e Sempronio vivono. E occorre tenere conto che questa sostanza – che, se è assunta con i favori dell’apparato, si chiama farmaco o psicofarmaco, altrimenti si chiama droga – è per sempre.

Pochi sanno che un’altissima percentuale degli psicofarmaci somministrati a lungo, è inutile, ma anche se lo sapessero non cambierebbero abitudine, perché chi per esempio “soffre d’ansia” – l’ansia viene considerata una sofferenza, non un sintomo – ha il suo ristoro nell’assunzione di ansiolitici: ansia – ansiolitico, è una coppietta fatta per durare, lo dice la parola stessa. Gli habituè di questi accoppiamenti prendono per svariati mesi e per lo più per anni la loro dose di sostanza, non perché avvertano che c’è un effetto di articolazione del problema noto, ma perché dicono “non vorrei mai che smettendo… le cose peggiorassero”. Essi non sono nemmeno informati che l’efficacia di un ansiolitico, alludo per esempio alle benzodiazepine, è per tempi brevi, al massimo qualche mese, dopodiché non funziona più, per un effetto chimico di assuefazione che toglie le proprietà “terapeutiche” per cui è assunto.

Per questo motivo negli Stati Uniti è stata emanata una legge per cui un medico che somministri per più di sei/otto settimane una benzodiazepina viene interrogato dalla Food and Drug Amministration, l’ente governativo di competenza, sui motivi della prescrizione prolungata, dato che è stato riscontrato che questo non giova. Questo in Italia non avviene. Chi, andando dal medico, viene informato della necessità di limitare l’uso di certi farmaci e che, oltre una certa durata di somministrazione sono inefficaci se non dannosi e che occorre ciascuno attui un processo di ricerca per capire la natura dei sintomi e svolgere le questioni che ci sono, anziché eluderle con il farmaco?

La credenza della proprietà taumaturgica della sostanza è accettata, accolta, condivisa anche dall’apparato scolastico. Non è messa in questione. Oggi, per esempio, nella scuola, il problema dell’assunzione di ansiolitici è ingente: è un riscontro attuale. Forse, a questo proposito, sorgono allora dispositivi di ricerca, d’indagine, di messa in questione da parte d’insegnanti, dirigenti, docenti, studenti e genitori intorno a questo problema? Ci si limita a prendere nota, statisticamente, che il numero di attacchi di panico è aumentato. Così, per esempio, una fantasia dell’avvenire negato – in quello che viene chiamato attacco di panico si tratta di una fantasia di negazione dell’avvenire, una fantasia di fine del tempo, che si rappresenta in modo differente e vario per ciascuno, e che in ciascun caso è da indagare – è invece uniformato per tutti nella categoria patologizzante dell’attacco di panico, termine che indica solamente che in una certa circostanza c’è l’intervento della paura. E invece di indicare la necessità di capire i perché, oggi è tradotto in malattia. E la questione è chiusa.

Allora, non si tratta di essere favorevole o contrario all’uso della droga o di sostanze, non è una questione di permesso o di negazione del permesso: occorre mettere in questione la superstizione della sostanza, che è la messa in questione della superstizione di sé come soggetti. Sempre più vige la credenza di essere qualcosa o qualcuno prescindendo dalla domanda, prescindendo dalla pulsione, prescindendo dall’istanza di salute, prescindendo dal progetto di vita e dal programma di vita.

Progetto e programma si avvalgono della dissipazione di questa superstizione soggettiva, si avvalgono della dissipazione dell’idea di fine. Ognuno è soggetto in quanto sottostà all’idea di fine, sottostà al presunto destino comune. La domanda non si soddisfa con la sostanza, ma attraverso il compimento, la conclusione di ciò che è intrapreso, sia per quanto attiene alla ricerca, sia per quanto attiene al fare. La domanda, con le sue vicissitudini, non può mai essere abolita.

L’idea di soluzione è questa: abolire la domanda, fare come se la domanda non ci fosse. All’abolizione della domanda segue l’assunzione della sostanza, che è assunzione della fine: tolta la domanda, quale corso, quale rivolgimento, quale indagine, quale ricerca, quale analisi? Tolta la domanda, nulla resta.

La scommessa della scuola è questa: non istituirsi più come apparato che inserisce i giovani nel tessuto sociale esistente, ma divenire dispositivo intellettuale per l’istituzione della realtà intellettuale, quindi per l’accoglimento della novità, del nuovo, per l’instaurazione dell’ascolto di ciò che si dice, di quello che si fa, in termini non convenzionali


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