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Quarto capitolo del libro Luigi Pirandello L’amore e l’odio

L’amore nell’educazione

Ruggero Chinaglia Ci sono due primizie. Una è che Mikheil Saakašvili, l’attuale presidente della Georgia, intervistato da Raphael Glucksmann, il figlio di André Glucksmann, ha scritto il libro Io vi parlo di libertà, libro che sarà in libreria tra poco, ma che può essere prenotato presso l’associazione. L’altra è il libro di Alessandro Taglioni La materia, Dio, l’arte. È un testo molto impegnativo, che presentiamo qui, a Padova, venerdì 29 alle ore 18, alla Galleria Civica in Piazza Cavour, che ospita anche una mostra del maestro, di cui avverrà l’inaugurazione. Mentre, giovedì 28 alla Sala Polivalente in Via Valeri, abbiamo due ospiti per il dibattito della modernità La scienza e la crisi. Il titolo del dibattito è L’arte e il diritto. Il mercato, la vendita, la scrittura. Gli ospiti sono Elisabetta Costa e Gianluca Rozza. Si tratta di due esponenti del forum di Milano e sono avvocati. Gianluca Rozza è anche pittore, Elisabetta Costa è anche scrittrice, quindi è una combinatoria. È il caso di diffondere la notizia, e poiché la notizia non si diffonde da sé, l’ipotesi può essere quella di avvisare l’ordine degli avvocati della città. Chi intende collaborare può segnalarsi.

Questa sera parliamo dell’amore nell’educazione. Chiaro che ognuno sa “a sufficienza” sulla questione, però noi daremo un contributo. La settimana scorsa, tra le varie questioni che venivano sollevate, c’era chi avvertiva l’esigenza di situare con precisione l’amore quanto alla logica e alla struttura, per cui entriamo nello specifico. Abbiamo detto alcune cose intorno a quella che è stata e è una mitologia dell’amore, il discorso che è sorto su questa mitologia e sulle varie logìe dell’amore: chi ne fa un sentimento, chi una passione, chi una relazione. Ognuno può dire quel che gli pare, ma come qualificare l’amore?

Non sono molti quelli che hanno proposto di qualificare l’amore al di fuori della concezione umana e di cogliere lo specifico dell’amore non come caratteristica o attributo umano, ma come qualcosa che è proprio alla parola e che, essendo proprio della parola e della sua esperienza, non è umanizzabile. Cos’è l’amore non è nemmeno definibile in termini filosofici. La tentazione sostanzialista è la via facile, è la tentazione di assegnare a ogni cosa il nome del nome, il nome che possa rispondere alla domanda: “Cos’è questo?”. “Questo è questo; quell’altra cosa è quell’altra cosa”. E basta!

In questo modo ognuno può conoscere, può sapere, può diventare competente, può sapere di cosa si tratta, può sapere se può volere la tal cosa, se può averla o non averla, possederla o non possederla. Questa è la tentazione sostanzialista in base a cui ognuno “sa cosa dice”, ognuno è, ognuno sa. Ognuno sa cosa fare, sa cosa vuole, sa quello che dice. Ognuno. Ma così ognuno non si trova a qualificare. Ognuno, convinto che deve sapere, deve volere, deve potere, non osa qualificare, perché la qualificazione potrebbe mettere in discussione il sapere ideale.

A proposito dell’amore, Freud aveva osato una qualifica non in termini sostanziali, ma in termini di clinica, di testimonianza dell’esperienza e aveva inventato l’amore come amore di transfert, cioè non come passione o sentimento. Però, pur avendo aperto una breccia rispetto alla qualifica, questa breccia si è subito chiusa, in parte grazie a Freud stesso e in parte, in seguito, perché transfert è stato tradotto come una relazione, la relazione che dovrebbe collegare lo psicanalista e chi fa l’analisi. È chiaro che in questo slittamento del transfert come relazione, l’amore stesso come amore di transfert è rimasto impigliato nell’idea di relazione, per cui è stato tramandato, con e dopo Freud, che l’amore di transfert era qualcosa che si opponeva all’analisi, al transfert, e collegava vieppiù lo psicanalista e chi si trovava nell’esperienza.

Psicologi, sociologi, psichiatri, medici, filosofi si sono sentiti invitati a nozze. Era sorta una relazione nuova, ma che pur sempre relazione era. Una relazione nuova tra “medico” e “paziente”. E ciò ha decretato la fine del transfert in un’accezione inerente la parola. Così, è venuto meno ogni interesse scientifico verso il transfert inteso come relazione. Infatti, quale interesse scientifico può avere la relazione “tra”, ossia una riedizione dell’amore materno, dell’amore fraterno, dell’amore paterno, dell’amore umano, della passione umana, di un’idea umana della relazione? E questo ha consentito ancora una volta di espellere la parola. Si può fare ancora una volta come se la parola non esistesse, come se si trattasse sempre del rapporto sociale, del teatrino domestico prodotto dal tabù della prescrizione dell’incesto. Ecco, allora, che anche il transfert viene risucchiato dal tabù dell’incesto e diventa relazione umana. Ma non è così. Il transfert non è una relazione, ma se diciamo questo la faccenda si complica e allora tizio, caio, sempronio dicono: “Che cos’è?”. E lo vogliono sapere, sopra tutto quelli che lo vogliono evitare: “Diteci che cos’è, come avviene, dove, come, quando”. E lo chiedono sopra tutto coloro che se ne guardano bene, che tentano a tutti i costi di evitarlo, perché la loro vita, diciamo così, è improntata sul principio di evitamento della parola.

Non può capire di che si tratti, quanto al transfert, chi non corre il rischio della parola, chi voglia evitare la parola sul principio di conoscenza, chi non voglia correre il rischio della sorpresa, della meraviglia, dell’imprevisto, cioè dell’intervento del sapere, del senso e della verità non previsti, quindi dell’intervento dell’altro tempo: parlando, facendo, leggendo. L’avaro non potrà mai capire di che si tratti nel transfert. L’avaro, cioè chi ritiene di possedere le cose, di potere capitalizzare le cose, di potere capitalizzare il senso, il sapere e la verità, nonché di accumularli e di erigere su questo cumulo la propria competenza. E chi si ispirasse a questo principio, nulla può capire del transfert, nulla può capire dell’amore quando si prende per buona la formula dell’amore da transfert. Freud scrive saggi, libri, dà tanti contributi intorno al transfert, ma non apre una breccia nemmeno all’interno di quella che è andata costituendosi come una cerchia, un accerchiamento, la cerchia degli allievi. Infatti, in quanto allievi, ritenevano di dovere sapere e non già di capire, ritenevano di sapere cosa fosse.

Freud ha scritto vari libri, varie opere, la più importante come fama acquisita è L’interpretazione dei sogni, ma nessuno ha capito che è un’opera intorno al transfert. Ognuno ha ritenuto che fosse un’opera sui sogni, su come interpretare i sogni, come tradurre i sogni, come dovere dormire per sognare. Così è sorto un filone, in America, la psicoanalisi così detta americana, che stabilisce che bisogna dormire, sognare e poi fare l’analisi dei sogni! Su questo è sorta anche la cabala nostrana, diciamo, quella che attribuisce al contenuto del sogno un significato codificato. Ciò è un’ottima applicazione della negazione del transfert; questo vuole dire quello, quello vuole dire questo. Per tutti!

Quando Freud ha scritto L’interpretazione, è stato tradotto “codifica” dei sogni! Eppure, Freud in quest’opera parla di linguistica, ossia della linguistica analitica. Più di metà del libro ruota intorno alla questione della metafora e della metonimia, di come intervengono metafora e metonimia parlando e di come il sogno sia costituito da questo. È sogno il racconto e onirico il parlare perché, parlando, intervengono le usure della parola: metafora, metonimia e catacresi, l’abuso linguistico. Metafora, metonimia e catacresi, le strutture oniriche della parola.

Se parlando intervengono le usure della parola, impossibile codificare cosa voglia dire questo o quello. Impossibile una codifica generale, una codifica per tutti ma, caso per caso, si tratta di cogliere, ascoltare il modo in cui le usure intervengono: condensazione e spostamento, metafora e metonimia.

Freud chiama questo con un termine nuovo, transfert, spostamento, sopra tutto, ma anche condensazione. È qualcosa che, senza trasporto di sostanza, produce metafora, metonimia, catacresi, spostamento, condensazione, movimento, pausazione, ritmo. Con la metafora, con la metonimia, con la catacresi le cose viaggiano, non sono mai le stesse, non sono mai ferme. Sono in viaggio. Il transfert è la via del viaggio, il viaggio delle cose cui l’avaro cerca di opporsi perché le cose in viaggio non sono accumulabili, si spostano, si muovono e non c’è più un fondamento stabile, comune.

Le cose sono in viaggio perché si muovono, si spostano, si metonimizzano, si condensano, perché acquisiscono sfumature diverse volta per volta, caso per caso e ciò impedisce di dire “Io sono così”, “Io ho questo”, “Questa cosa è questa”. In certe circostanze questa cosa è un’altra cosa. Certo, Freud aveva individuato “un luogo” perché questo avvenisse e potesse avere la chance d’ascolto, ma occorreva un dispositivo – non comunque e dovunque –, un dispositivo d’ascolto in cui lo psicanalista occupava quella posizione indispensabile perché qualcosa cominciasse a funzionare in altri termini, cioè non secondo il luogo comune, non secondo la mentalità comune e si potesse cogliere il varco tra una cosa e l’altra, tra una cosa e se stessa, dunque, transfert.

Poi il transfert è stato recuperato come relazione tra tizio e caio, per cui è diventato mera fantasmatica erotica, una relazione tra fantasmatiche erotiche. Nulla di che, e questo vige ancora nella letteratura così detta contemporanea. Ma, Armando Verdiglione ha fatto una proposta nuova, una proposta differente a un certo punto, indicando non già il transfert come relazione, ma come l’avvio della struttura dove intervengono le usure della parola. Il modo della parola è secondo la logica della nominazione e non secondo la logica dell’episteme, filosofica, aristotelica, platonica. E, in particolare, rilevando l’aspetto della logica funzionale, Verdiglione propone che il transfert sia costituito da due facce: quella del parricidio e quella della sessualità.

La faccia del parricidio è quella dove funziona il nome e dove funziona il significante, quindi dove nulla è stabile perché, funzionando il nome, si producono effetti di senso e, funzionando il significante, si producono effetti di sapere. Senso e sapere. Funzionando il nome effetto di senso, ma anche effetto di dispendio; funzionando il significante effetto di sapere, il paradosso del desiderio.

Il funzionamento è una logica che interviene parlando, e produce nell’esperienza in atto gli effetti che dicevamo di senso, di sapere, di dispendio, di godimento, di desiderio. Allora, ciò che interviene nell’esperienza di parola in termini di senso, in termini di sapere è connesso alla ricerca rispetto al nome e rispetto al significante sulla faccia del parricidio.

E così come Freud aveva rilevato che c’erano la metafora e la metonimia, c’è anche una struttura onirica che si costituisce in qualche modo come elemento terzo. Nella logica della nominazione c’è il nome che funziona, c’è il significante che funziona, ma c’è anche Altro dal nome e dal significante. E, in effetti, oltre al senso e al sapere ci sono anche effetti di verità. Dunque c’è una struttura che si prospetta e si annuncia; non è una struttura formale precostituita, è una struttura temporale che si effettua e di cui si possono individuare gli elementi costitutivi après quoi, non prima, ma proprio sulla base degli effetti!

L’avaro vorrebbe che gli effetti non gli disperdessero il cumulo del suo sapere, per cui non si espone al transfert. L’avaro dice che non ha niente da capire, perché vuole mantenere la competenza su di sé, su quel suo personaggio in cui crede fermamente e di cui si lamenta, e in questo crede di situare la propria generosità, di lamentarsi del personaggio mantenendolo, perché così mantiene il suo capitale, la sua competenza, la sua soggettività; può continuare a lamentarsi generosamente, mantenendosi tale! Questo sarebbe l’amore di sé, l’amore del proprio personaggio verso se stesso, l’amore dell’avaro verso il suo cumulo, verso il suo capitale. E il transfert e l’amore di transfert? Verdiglione fa una proposta che spiazza assolutamente le competenze filosofiche, sociologiche, psicologiche, quelle competenze su cui si fondano le logìe, cioè i saperi. Verdiglione propone l’amore come dimora del parricidio, la dimora della faccia del transfert dove funzionano i nomi e i significanti, l’amore dove intervengono, come effetti, il dispendio e il senso, che non è mai lo stesso.

Quindi è un amore che non assolve, non adempie, non soddisfa la caratteristica addotta verso l’amore umanamente inteso, e cioè di essere transitivo, di essere amore per qualcuno, per qualcosa, amore che ama, amore di qualcuno che ama qualcun altro, amore di qualcuno che ama qualcosa e dove l’amore transitivo ha il destino di finire in ciò che lo soddisfa. L’amore transitivo è l’amore sostanziale. L’amore per il partner è l’amore “a tu per tu”, è l’amore “tra”, tra due. È l’amore che dovrebbe soddisfare l’erotismo.

L’atto non è d’amore, l’atto è di parola, l’atto è sessuale, l’atto è intellettuale. Non è atto amoroso, non è atto d’amore. Si tratta di cogliere, semmai, in che modo l’amore interviene nell’atto e come e quale sia l’istanza d’amore nell’atto. Se l’atto fosse amoroso, cioè se l’amore fosse transitivo, allora sarebbe l’atto la cui direzione è già codificata, è già data, sarebbe l’atto “finalizzato a”, l’atto il cui fine sarebbe l’amore. Ma l’amore, eventualmente, è modo dell’atto! Se l’atto fosse amoroso sarebbe salvifico, avrebbe come fine la salvezza di sé o dell’Altro. Non a caso, uno dei pochi e forse il più famoso film d’amore di Hitchcock s’intitola Io ti salverò.

Dunque, amore di transfert in quanto, dice Verdiglione, l’amore è custode del transfert. Custode! Quindi, è piallata l’ipotesi che il transfert sia una resistenza all’analisi, il transfert come resistenza, la resistenza come aspetto costitutivo del transfert. La resistenza è funzione di resistenza, non è la resistenza di qualcuno a qualcun altro, che è un’idealizzazione, una rappresentazione, una volgarizzazione, un modo di rappresentare la funzione come relazione. No, dice Verdiglione, c’è la funzione e c’è la relazione, che sono due logiche, non due apparati; non sono due aspetti sociali o di rappresentazione sociale. C’è la funzione, il funzionamento e c’è la relazione, l’apertura.

La relazione come apertura, non come la realizzazione dell’edipismo, dell’erotismo, della socializzazione, della soggettività. Relazione come apertura e funzionamento come intervento del numero triale.

La questione, dunque, non è umana e non è sociale, ma è aritmetica. La parola segue l’aritmetica, segue il numero diadico e il numero singolare triale. È una questione complessa, mica un giochetto tra tizio e caio, una conversazione da salotto. È una questione seria questa, è una questione scientifica. Mica uno psicologo può venire a fare il predicozzo sulla relazione interpersonale come “relazione transferale”. Questi sono babbei che non hanno capito niente, che sono a supporto di una società ideale da cui la parola deve essere espulsa e per cui fanno dell’interpersonalità il fondamento della relazione come relazione sociale. Ma la relazione non è sociale, è relazione nella parola, è la relazione come apertura, come l’inconciliabile, l’inconciliabile del due. Il due è inconciliabile.

Qual è il modo con cui il due è stato reso conciliante, è stato diviso a metà? Ecco l’androgino! Ecco il due che diventa due cose, e queste due cose si devono riunire. Ecco la cazzata della ricerca dell’anima gemella. Ognuno va in cerca dell’anima gemella. E magari la trova! Magari la trova psicotizzandosi in una specularità. Come? È la cosa più facile. La trova, oppure la cerca. E dove la cerca? Sarà papà, sarà mamma, sarà ciccì o sarà coccò il mio altro, la mia unità, il mio alter-ego? Perché io sono la metà di un tutto che deve riunirsi! La psicotizzazione, l’idea della predestinazione, di avere subìto un taglio che bisogna cucire per ricostituire, per costituire l’unità. E su ciò migliaia di anni di pseudo civiltà.

Gli amori. Ognuno insegue gli amori della sua vita. Cavolate ideologiche. L’amore è custode del parricidio, dove funziona il nome. Come funziona il nome e quale sia il nome che funziona non è noto, non è cosciente, non è questione di volontà. “Ho voluto rimuovere questa cosa”, “Non me la ricordo perché l’ho rimossa, l’ho voluta rimuovere”; questi sono sproloqui considerati scientifici. “Questo fa della psicanalisi, parla della rimozione, quindi ne sa di psicanalisi”. No, non sa proprio nulla, per quello parla così, perché non l’ha mai fatta, non si è mai esposto agli effetti della parola, non ha mai accolto l’eventualità di questi effetti. “Mi dica dottore, cosa ne pensa di me?”, “Cosa pensa di me dottore?”, “Adesso che abbiamo fatto alcune conversazioni, cosa pensa lei di me?”. Eccomi, ecce homo, mi presento, sono il mio personaggio e vorrei non trovare mai l’autore, così mi posso mantenere tale. Pirandello aveva capito qualcosa. Il personaggio, qualora avesse trovato l’autore, non c’è più come personaggio. Il personaggio è in assenza di nome, è personaggio di un ricordo, di un discorso, di un’ideologia, di una mitologia, di un’idea di sé. Personaggio di un discorso in assenza di parola perché, funzionando nella parola nome, significante, Altro, non c’è più personaggio, l’idea di sé si dissipa e s’instaura qualcosa, un’altra cosa, un altro senso, un altro sapere, un’altra verità. Il viaggio allora prosegue, perché per il personaggio il viaggio è finito, è sempre finito.

Il nome funziona ma non è conosciuto e l’oggetto che causa il funzionamento resta invisibile, imprendibile, intoccabile. L’amore non si rivolge alla sua causa, dunque non si rivolge all’oggetto. L’amore transitivo sarebbe l’amore che si rivolge alla sua causa, la raggiunge e fa con essa la ri-unione: è l’amore che finisce, è l’amore transitivo, l’amore che ha come presupposto l’amore di mamma, l’amore di figlio, l’amore di papà.

L’amore intransitivo è ciò che custodisce lo svolgimento della vicenda narrativa; non della vicenda concreta, ma narrativa. Non c’è vicenda se non interviene la narrazione, il racconto, la conversazione, la parola. Non c’è vicenda se c’è il ricordo senza memoria, l’essere, il soggetto, l’ontologia, la concrezione, se non c’è astrazione. Nessuna metafora e nessuna metonimia nell’ontologia delle cose; con qualche variante che conferma il sistema, in assenza di arte, d’invenzione, di cultura.

Nella proposta che avanza Verdiglione risalta un altro aspetto, e cioè che l’amore è senza contatto, senza consumazione e senza prova d’amore, quindi senza ricatto. Non è l’amore della mamma per il suo bambino, l’amore del bambino per la sua mamma, l’amore del ragazzo per la sua ragazza, l’amore della moglie per suo marito: è amore senza accoppiamento, cioè senza parità. “Mi ami tu?”, “Mi ami come ti amo io?”, “Ma noi ci amiamo?”, “Io ti amo di più”, “No, io ti amo di più”. Chi ama di più e chi di meno? È un amore ricambiato? Sarà un amore equivalente?

L’amore intransitivo è senza vendetta. L’indice della transitività è la vendetta. Colpa, pena, premio, punizione. La vendetta da soggetto a soggetto. La vendetta dovrebbe sancire la parità dello scambio. Ogni scambio in cui la parità è presunta necessaria, giustifica la vendetta; quindi, la parità è l’assenza di transfert.

L’idea di parità è l’idea di uno scambio senza parola, senza usura, senza transfert. Ma, nello scambio, nell’atto, nell’esperienza in cui l’atto esige di qualificarsi è impossibile evitare il dispendio, è impossibile evitare il senso, il sapere, la verità come effetti.

L’amore è il custode dell’impossibile economia dell’atto, è custode del dispendio e del sapere effettuali. È custode del procedere della ricerca e del suo scriversi; non resta chiusa in sé, si scrive. L’istanza della scrittura della ricerca è l’amore, e ciò indica l’altrove, indica che le cose non finiscono ma si dirigono altrove, verso la produzione.

L’amore non è mai sterile, esige la produzione che già ne comporta l’istanza, istanza che è nella strategia e nel programma. L’amore esige che il progetto si scriva, che la ricerca si scriva in direzione della produzione, e questa è l’economia. L’economia è l’altrove dell’istanza di scrittura della ricerca.

L’amore è l’altrove dell’economia in atto. Contrariamente all’economicismo, l’economia va verso la produzione. Dunque, l’amore non va verso il partner, va verso la produzione. Non è una questione di rivendicazione o di sintesi, ma di produzione, che è contrastata dallo spreco, da chi si ritiene sufficiente, da chi si ritiene personaggio sufficiente a se stesso, che non sa cosa fare, non sa dove andare. Non sa.

La produzione, e allora si pone una questione: quando l’istanza di produzione sfocia in una “neoproduzione”? Quando, come e perché l’istanza di produzione, anziché entrare nel processo di valorizzazione, di scrittura, di qualificazione diventa neoproduzione locale? Come, quando, dove e perché? È una questione.

Cosa c’entra tutto ciò con l’educazione? Perché il nostro incontro è sull’amore nell’educazione. L’educazione che non tenesse conto del dispendio, del senso, del sapere, della verità, del desiderio in quanto effetti, paradossi dell’annunciazione del transfert, sarebbe un’educazione al personaggio. L’amore nell’educazione interviene in quanto indice dell’intransitività.

“Tutto sua madre”, “Tutto suo padre”, “Tutto suo fratello”, “Tutto come me”, “Tutto come te”, “Fai come me”, “Fai come lui”. La riproducibilità, la riproduzione. Ma l’educazione è educazione alla qualità e va in direzione dell’unicum, dell’irripetibile, non del riproducibile, altrimenti diventa addestramento mimetico, addestramento al mimetismo genealogico e il viaggio è già tolto, bandito. Non si tratta di educare all’appartenenza, alla conventicola del genere umano. L’educazione è educazione all’infinito, all’insistenza.

Freud diceva che la pulsione è una forza costante. Ecco, l’educazione alla costanza della pulsione, all’istanza irriducibile della domanda. Non educazione a fare quello che si vuole, quando si vuole, come si vuole, se si vuole. Questa è la bestialità. L’amore interviene nell’educazione come indice dell’insostanzialità, dell’intransitività, dell’infinibilità, della non consumabilità; allora c’è amore nell’educazione.

Pensavo di concludere molto prima perché avevo un esempio da dire. Avevo un esempio preso da Gigetto. Magari ne parliamo la prossima volta, intanto ciascuno lo può leggere. Chi è che conosce l’opera di Pirandello L’innesto? Come faccio a parlarne se nessuno l’ha letta, se nessuno ne sa niente? Ci porterebbe via un’altra ora; quindi, discutiamo di quanto sentito. Magari ci rivolgiamo a Gigetto la prossima volta, così intanto qualcuno se lo legge perché, se invece di cogliere l’amore come ne abbiamo parlato questa sera, ci fosse chi pervicacemente cerca di farne un attributo umano, allora Gigetto ci dice cosa lo aspetta. Ci dice cosa spetta a chi volesse ispirarsi all’amore come sentimento umano, come passione umana. L’innesto è un’opera in tre atti del 1917. È incredibile questa lezione sull’amore di Luigi Pirandello già nel 1917! E nessuno se ne è accorto, nessuno che abbia letto questa lezione. Vediamo se dopo una novantina d’anni riusciamo a darne un’eco, a accoglierne l’indicazione.

Vedo che siete provati da queste cose, peraltro semplici, lievi, leggere. Cose leggere. Prego.

Cecilia Maurantonio Due domande. La più breve e semplice è rispetto agli effetti. Volevo capire se il dispendio, il godimento, il desiderio sono sempre effetti come il senso, il sapere e la verità. E poi volevo chiedere se l’amore, in quanto c’è l’oggetto come causa, trova una sua connessione con l’immagine, se nella causa interviene l’immagine.

R.C. Eh no. Come fa l’immagine a intervenire nella causa?

C.M. Non nella causa. La causa è il funzionamento, ma c’è anche l’immagine? Come e se c’è. Io dico che c’è.

R.C. E chi lo nega. Ma come, dove, quando e perché? Ci dica qualcosa lei dell’immagine.

C.M. Circa la causa pensavo allo specchio come punto di distrazione, che non restituisce un’immagine pari, un’immagine identica; quindi c’è un’alterità che non è lo specchio, ma è qualcosa che entra in atto. Il nome comincia a funzionare e risalta la trialità, la differenza come immagine. Adesso mi riferisco allo specchio, però è indispensabile lo sguardo per cogliere questa differenza, per cogliere la trialità.

R.C. Lei dice immagine come produzione?

C.M. Ecco, potrebbe trattarsi proprio di questo.

R.C. O come riproduzione?

C.M. No, produzione. Perché la riproduzione presupporrebbe che il pari fosse già la riproduzione, ma siccome il pari non c’è…

R.C. E allora l’immagine come produzione dove si produce? Chi la produce?

C.M. Nella catacresi interviene un elemento…

R.C. La catacresi è un’usura. Non è che nell’usura può starci qualcosa, l’usura è il modo. Noi non possiamo riempire il modo con qualcosa, né possiamo riempire la funzione con qualcosa, cioè la parola non è sostantificabile.

C.M. Certo. Anche se capisco che non posso attribuire l’immagine alla causa, la trovo essenziale alla produzione degli effetti, alla produzione delle sensazioni. Grazie.

R.C. Grazie a lei. Altri? Ecco un’altra mano. E siamo a due mani.

Lucia Macario Volevo fare una domanda riguardo al padre, anche rispetto a quello che è stato detto, e una considerazione rispetto all’amore, in particolare all’oggetto dell’amore, nel senso che l’amore non ha un fine, non si rivolge a qualcosa e non ha come fine l’oggetto, ma procede dall’oggetto. Quindi, non so se l’oggetto è la domanda, se l’amore procede dalla domanda, se è il modo della ricerca. Non c’è l’oggetto come fine, ma come qualcosa da cui procede l’amore, eventualmente la ricerca di qualcosa da cui parte la domanda di ciascuno.

R.C. Dicevamo prima amore di transfert, amore di domanda, amore dimora del parricidio, custode della domanda. Custode del parricidio nella domanda, dell’economia nella domanda, economia nell’accezione che dicevamo prima. Dimora del parricidio, altrove dell’economia. Economia che è ciò che si dirige alla produzione.

L.M. È una cosa strana che nel linguaggio si scelgono dei termini e non altri e mi chiedevo se ci fosse, ma forse non c’è, una lontana connessione tra il padre e il papà, nel senso che, se il papà è senza autorità perché è agente e il papà diventa padre, un termine si usa per indicare un funzionamento, cioè questo qualcosa che interviene nel dire. Nel dire, interviene qualcosa di nuovo, di Altro. Come mai si chiama padre e quale sarebbe la connessione tra il padre e l’autorità?

R.C. Esatto. Chiaro che praticamente ha fornito la risposta a entrambe le domande e certamente nulla ha il padre a che vedere con il papà. E, tuttavia, dipende dal padre la vicenda del papà. Quello che importa, più che vi sia il papà, è che vi sia padre, ossia la funzione di nome, il nome che funziona. Se non c’è padre possono esserci anche dieci papà. Ecco qui tutta la vicenda del papà come amico, papà come fratello, papà come personaggio. Quale sia il personaggio in cui il papà si rappresenta o viene rappresentato, dipende che vi sia o no funzione di nome, dunque che vi sia parricidio. Con questo, mi sembra che possiamo salutarci questa sera.

G.D.F. Voglio fare una breve domanda.

R.C. Lei aspetta sempre che cali il sipario e allora dice “Ci sono anch’io”! Allora sentiamo la breve domanda.

G.D.F. Io pensavo al malinteso, anche se lei non ne ha parlato.

R.C. Di tante cose ho parlato questa sera, ma non del malinteso.

G.D.F. Volevo dire, abolito l’altro tempo l’oggetto è conosciuto, abolita la funzione di Altro l’oggetto è rappresentabile e quindi sarebbe abolita anche la pulsione se la pulsione non cerca l’oggetto, ma la domanda. Però, in che senso la pulsione e la domanda sono apertura e quindi…

R.C. La relazione è apertura, non ho detto che la pulsione è apertura. Questo lo sta dicendo lei.

G.D.F. Sì. Ma perché due è apertura? Poi ha detto che due è relazione, ma non relazione tra due cose, bensì è relazione. E, appunto, apertura; in che senso apertura? Potrebbe avere a che fare con la dualità della pulsione? Apertura in che senso? E perché due sarebbe apertura? Apertura perché non c’è chiusura perché, se non viene abolita la trialità dell’oggetto, allora…

R.C. No, il due non ha niente a che vedere con la trialità. Casomai è il numero triale che procede dal due. Proprio in quanto c’è l’apertura, anche il numero singolare triale procede dall’apertura. Senza l’apertura abbiamo la logica della vendetta


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Edizione
  • La politica del brainworker
  • Come combattere per la salute
  • Un vaccino per il linfoma follicolare
  • Con la crisi non c'è più sistema
  • Dove cogliere i frutti del tempo
  • Il criterio dell'ascolto
  • La forza del progetto e dell'ingegno
  • La scuola e l’abuso di sostanze
  • L'amore senza fine, l'odio senza rimando
  • La medicina e la cura. Non c'è rivoluzione transumanista
  • Noi, l’infinito e il gerundio della psicanalisi
  • L’istante della clinica
  • Il gerundio, la complessità, la lettura
  • Come ciascuno diviene art ambassador
  • Libertà originaria o libertà possibile?
  • Integrità e annunciazione
  • Come leggere le fiabe
  • L’inconscio trascorre in un film
  • Babadook e la fantasia dell’uomo nero
  • Il delirio e la clinica
  • La famiglia. L’amore, l’odio e il fantasma d’incesto.
  • La famiglia, il diritto, la sessualità
  • L’encefalo senza cervello. Il nuovo psichismo
  • La morsa dello psichismo tra demonologia e organicismo. Ma c’è la parola, che non si può togliere.
  • La madre, il suo mito, la sua rappresentazione
  • Sessualità e mimetismo
  • La famiglia. L’idea di Dio e l’idea del padre
  • Il padre debole e il figlio ribelle
  • L’amore e l’odio. La famiglia, il diritto, la sessualità
  • La famiglia e l’altra famiglia
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