Decimo capitolo del libro Luigi Pirandello L’amore e l’odio
Il vittimismo e il fantasma di assassinio (Superior stabat lupus Novella di Luigi Pirandello)
Ruggero Chinaglia Prossimamente faremo un dibattito intorno al libro di Ruggero Guarini Fisimario 2008. Lettere immaginarie. Il dibattito s’intitola Il giornalismo, la satira, la politica. Intanto, ciascuno può cominciare a leggerlo, è un libro molto bello. Ruggero Guarini è scrittore, giornalista e intellettuale nell’accezione più ampia e ha attuato un dispositivo molto particolare in queste lettere immaginarie, ponendo degli scambi epistolari molto curiosi. Si può trovare Hitler che scrive a Carla Bruni, Leopardi che scrive alla plebe napoletana, Benito Mussolini che scrive a don Antonio Sciortino, Cassandra che scrive a Eugenio Scalfari. Ci sono vari interlocutori con differenti argomenti e con un’arguzia che percorre l’intero testo; veramente dà una notevole soddisfazione al lettore.
Questa sera cominciamo la serie La letteratura, l’amore, il piacere. È un modo, come dicevamo, d’incontrarci e di parlare di varie cose. Prosegue, parlando, una ricognizione che riguarda la parola, i suoi modi, quel che si dice, il modo dell’ascolto. Quindi, la letteratura interviene in più accezioni, non solamente come l’insieme degli scritti e dei testi che compongono una determinata materia o un argomento volto a assicurare il sapere su quell’argomento, ma interviene sopra tutto nell’accezione che riguarda qualcosa che nel suo scriversi produce un sapere altro, un sapere nuovo, un sapere che prima non c’era. Letteratura che si combina con la scrittura e con la lettura; non un qualcosa che va verso il passato, ma qualcosa che si compie nell’avvenire, con ciò che si va scrivendo, con ciò che si scrive.
In questa direzione va anche il compimento frastico della parola, perché il significante che si divide da sé produce la lettera, da cui la letteratura. La scrittura della lettera si compie nella letteratura, dunque nel processo che è di scrittura, di lettura, di qualificazione di ciò che s’incontra e dell’invenzione.
Quindi, la letteratura, l’amore, il piacere. Non si tratta solo della letteratura sull’amore, della letteratura sul piacere e di quanto è stato scritto sull’amore e sul piacere, si tratta piuttosto d’inventare, mano a mano, l’accezione di amore che interviene caso per caso, di cosa si tratta quanto al piacere, di ciò che viene chiamato piacere, di ciò che viene chiamato amore. Ossia, si tratta di andare oltre l’accezione comune, oltre una nozione comune già stabilita per inventare qualcosa di nuovo. Ecco perché invenzione, lettura e scrittura non sono elementi facoltativi. La parola che tende a qualificarsi, che tende a divenire qualità esige di scriversi. È questo che ci fa notare che la parola non è qualcosa di totalitario ma risente della complessità.
La parola è complessa, nella parola intervengono tante cose, ma quest’accezione di complessità è ben precisa e non riguarda l’intreccio di quante cose intervengono parlando. La complessità è qualcosa di specifico che s’instaura a un certo punto. L’idea più comune della complessità è che le cose sono difficili, per cui occorre che vengano semplificate per diventare più facili, cioè, la complessità è intesa come un problema, come uno sbarramento, come qualcosa che impedirebbe il capire, l’intendere con immediatezza ciò che si dice, ciò che si pensa, ciò che si fa. La complessità è intesa come un elemento negativo che deve volgersi al positivo, verso la semplicità, semplificandosi attraverso un processo di sfrondamento, di decifrazione, di spoliazione di quel che risulterebbe in più per giungere al nocciuolo, all’osso della cosa, alla sostanza, a quell’osso di cui parlava anche Hegel e che risulterebbe lo spirito nella sua unità tra coscienza e realtà. Questo è il miraggio: il miraggio del discorso comune di giungere all’osso, alla verità ultima, alla “buona sostanza”, che però non c’è!
Non c’è la verità ultima, non c’è la sostanza delle cose, ma ciascuna cosa tende a qualificarsi, tende a divenire qualità e in questo processo di qualificazione, proprio dove la parola sembra approdare al semplice, sorge la complessità. Non è che la complessità c’è dall’inizio, ma la complessità s’instaura a un certo punto dell’itinerario della parola verso la sua qualità. Questo è il punto, il bello della cosa. Non tutto è complesso, non ogni cosa è complessa. La complessità riguarda propriamente il funzionamento della parola lì dove s’instaura l’Altro con la sua piega. Allora, dove s’instaura la molteplicità, quando s’instaura l’ascolto, interviene anche la complessità, che ha un’allusione al semplice e che indica la sua necessità come necessità intellettuale, come necessità che esige uno sforzo intellettuale, un lavoro per approdare al semplice, a quell’unicità della piega per cui qualcosa risulta preciso.
Prima le cose risultano vaghe, non chiare; quando la cosa incomincia a chiarirsi sorge la complessità. Non c’è già prima. Ecco la necessità dell’analisi, del lavoro analitico, perché solo lungo il processo analitico è possibile cogliere l’andamento che approda alla qualità, alla cifra, dove ciascuna cosa si precisa rispetto all’indistinzione, al generico, allo standard. Nel processo di qualificazione le cose si precisano.
In questo sta anche la clinica come compimento della struttura della parola. È per questa via che il sapere e il senso si effettuano e la verità s’incontra. La verità non è il frutto di un’operazione archeologica, la verità non sta sotto alle cose, non preesiste alle cose, non è un postulato da dimostrare, da rivelare, da estrarre. La verità è un effetto pragmatico, è un effetto che segue all’instaurazione della clinica. Per clinica noi non intendiamo una classificazione, tutt’altro! Noi intendiamo precisazione. Parlando qualcosa si precisa, quindi sfugge a qualsiasi classificazione e si precisa; può definirsi ma non per definizione classificatoria, ma per una definizione arbitraria, contingente.
Il processo di qualificazione, il processo letterario, è qualcosa che non va da sé. La letteratura, la scrittura, la lettura, tutto ciò non va da sé. Non basta fare scorrere qualcosa sulla carta o su un altro supporto perché questo sia scrittura. Siamo in un’altra accezione di scrittura, che esige il dispositivo complesso, clinico, di individuazione della piega, dal molteplice al semplice, dal complesso al semplice.
Qual è la piega di ciascun dettaglio? Quale piega incontro nella mia lettura, quella piega per cui una sezione di qualcosa si precisa? Questa non è la verità sulla cosa, è una piega, una lettura, una lezione, una sezione che non è l’ultima o la definitiva, è temporale.
La clinica pone l’accento sull’istanza di verità, mentre la letteratura pone l’accento sulla questione del sapere: come si produce, come si effettua e come si scrive il sapere. Dunque, si tratta dell’attuale nella letteratura e con ciò che nell’attuale si scrive, consentendo la produzione del sapere che si scrive. Questo è essenziale per acquisire quegli elementi per stabilire, mano a mano, il da farsi: come parlare, come pensare, come scrivere. Ciò non è preordinabile, non può rispondere alla predestinazione, ma esige la ricerca e il modo della ricerca è il modo analitico, non la sintesi, perché non c’è nulla da riunire.
Sintesi vuole dire riunificazione, ma la questione della parola è l’analisi e ciò che si coglie dall’analisi non ha da essere riunificato e reintrodotto in un sistema. L’analisi è asistematica. Per questo l’analisi risulta problematica, perché non risponde al sistema, a quello che per definizione deve rispondere al principio di unità. L’analisi non vi risponde e il sapere è una produzione istantanea, non è qualcosa su cui potere fondare una dottrina. Sul sapere non si può fondare nulla. Ciascun dettaglio esige ulteriore analisi perché il dettaglio precedente non serve a niente rispetto a quello che segue. Questa è la questione dell’esperienza che si scrive, della memoria che si scrive. La memoria non come serbatoio, ma come esperienza che si scrive; è la memoria originaria che non può aggrapparsi al passato, a ciò che è già stato fatto, a ciò che è stato, perché ciascun passo si rivolge all’avvenire, non al passato.
La questione è avvertita anche in ambito disciplinare. Assistiamo, infatti, a un curioso paradosso in quella che viene chiamata “letteratura scientifica”, cioè la serie di scritti attorno a un determinato argomento, caso, questione. La letteratura scientifica, prendiamo il caso della medicina, non approda a un sapere fondante, ma approda alla probabilità, a un sapere su cui poggia la probabilità statistica.
Già qui la letteratura scientifica è incerta perché incontra lo scarto tra il matema e il sapere, lo scarto tra il sapere effettuale e il sapere fondante. E nemmeno quella che viene chiamata letteratura scientifica può aggrapparsi a un sapere certo. Quindi, anche la letteratura scientifica esige un supplemento d’indagine, un supplemento di ricerca, perché ciascun caso presenta aspetti particolari. Ciò comporta varie riflessioni sulla natura della scienza, quale sia la materia della scienza e indica che non c’è un sapere universale. Ma questo non è un problema, anzi, è una fortuna.
Che ci sia apertura è essenziale, ma anticipiamo dicendo che proprio l’assenza di sapere universale è ciò che vanifica l’infanticidio, l’omicidio, il suicidio, che invece si attuano proprio dove interviene una chiusura e un sapere avviluppante cui l’infanticidio, l’omicidio o il suicidio dovrebbero porre un riparo, costituendo un intervento che dovrebbe indicare la possibilità di gestire il tempo e il suo taglio. Sarebbe l’applicazione del metodo di Procuste; il mito di Procuste indica quali sono le conseguenze di un’ipotesi di chiusura rispetto a un sapere che risulta fondante l’origine, una prescrizione all’omogeneità.
Ma perché ci occupiamo di letteratura? Di quale letteratura? Rivolgendoci a cosa? Perché non siamo trombetti, come diceva Leonardo, e non siamo umanisti, non siamo romantici, non ci rivolgiamo alle umane lettere né all’uomo, ma ci rivolgiamo alla parola e al suo destino, perché il destino della parola è il nostro destino. Il destino dell’uomo non è il nostro destino, che sarebbe un destino di morte; noi non partecipiamo al destino umano, ma ci rivolgiamo al destino della parola. È un’altra scena e, per indicare in che modo ciò comporti un’altra scena, affrontiamo la questione per la sua punta e non per la sua coda.
Entriamo allora nella combinatoria che letteratura, scrittura, lettura, amore, piacere ci propongono. Lo facciamo con un testo da leggere che s’intitola Superior stabat lupus. È noto, no? Avrei giurato che qualcuno dicesse: “Ma è Fedro!”. Una volta le favole di Fedro si leggevano alla scuola dell’obbligo. Adesso, nella scuola che è divenuta democratica, queste cose non si fanno più, il latino sopra tutto, però la fiaba del lupo e dell’agnello magari è nota.
Il lupo e l’agnello, Superior stabat lupus, inferior agnus, che semplicemente vuole dire che il lupo stava sopra e l’agnello sotto, dato che ad rivum eundem lupus et agnus venerant, siti compulsi.
Allo stesso ruscello giunsero un lupo e un agnello spinti dalla sete. Superior stabat lupus, longeque inferior agnus. Il lupo stava sopra e, poco lontano, l’agnello sotto. Tunc fauce improba latro incitatus iurgii causam intulit: “Cur – inquit – turbulentam fecisti mihi istam bibenti?”. Laniger contra timens: “Qui possum –quaeso – facere quod quereris, lupe? A te decurrit ad meos haustus liquor”. Il lupo interroga l’agnello: “Perché mi intorbidi l’acqua?”. L’agnello risponde: “Com’è possibile? L’acqua arriva a me dopo di te”. “Ah!”, dice il lupo “è vero”. Repulsus ille veritatis viribus: “Ante hos sex menses male – ait – dixisti mihi”. Allora il lupo vinto dalla verità di queste parole dice: “Sei mesi fa hai parlato male di me”. Respondit agnus: “Equidem natus non eram!”. Risponde l’agnello: “Ma non ero ancora nato!”.”Pater, hercle, tuus – ille inquit – male dixit mihi!”. Dice il lupo: “Se non sei stato tu è stato tuo padre”. Atque ita correptum lacerat iniusta nece. E qui con un balzo gli si avventa contro. Haec propter illos scripta est homines fabula qui fictis causis innocentes opprimunt. Questa fiaba è stata scritta per quegli uomini che con cause fittizie opprimono gli innocenti.
Qui la morale di Fedro, per il quale il mondo si divide in due, da una parte stanno gli innocentes e dall’altra gli opprimentes. Siamo alla questione che non è, come sembra, quella della prepotenza, ma quella del vittimismo e che occorre leggere. Non basta attenersi così facilmente al senso, occorre leggere. La lettura giova per cogliere la piega che si compie nella clinica, e per giungere alla piega ci avvaliamo ancora del nostro amico Luigi Pirandello, che ha scritto, mentre voi eravate un attimo distratti, una novella. Come s’intitola la novella scritta lì per lì mentre voi eravate occupati? Superior stabat lupus, che è la vicenda di Corrado Tranzi, quanto meno sembra trattarsi della sua vicenda.
Corrado Tranzi, chi era costui?
Corrado Tranzi, fino a ventiquattr’anni disprezzatore implacabile di tutte le donne, implacabile derisore di tutti gli uomini che se n’innamoravano, appena presa la laurea di dottore in medicina, chiamato per un caso d’urgenza mentre di buon mattino stava a concertare una partita di caccia nella farmacia di un amico […] s’innamorò anche lui tutt’a un tratto, proprio in quella sua prima visita di medico.
Viene chiamato a casa di un moribondo, che nella fattispecie era una moribonda, e quando arriva gli apre la porta una fanciulla scarmigliata, mezza discinta, in lacrime e …restò abbagliato a guardarla in bocca, mentr’ella affollatamente gli parlava della zia trovata a letto, un quarto d’ora prima, rantolante e senza conoscenza.
Quindi viene introdotto nella camera della zia rantolante, e, mentre gli viene descritto di cosa si tratta, Corrado Tranzi nota che la fanciulla accarezza i capelli di un ragazzotto che era ai piedi del letto di quella che era la madre malata e che, nella fattispecie, era il cuginetto della ragazzina.
Tranzi si stizzì di questa carezza …e se ne stizzì tanto, che improvvisamente s’interruppe per ordinare che, perdio, quel figliuolo se ne poteva andare a piangere di là. Aria! aria! Un po’ d’aria attorno al letto! L’inferma morì tre giorni dopo.
Tre giorni in cui Tranzi si prodiga intorno al letto della malata, ma si prodiga invano. D’altronde, lui ha già capito al primo sguardo che si trattava di un caso indubbio e irrimediabile di embolia cerebrale. In questi tre giorni viene a sapere che la ragazzina si chiamava Ebe, che era figliola di un professore di fisica che insegnava al collegio nautico, che la malata era la cognata del professore accolta in casa a lato della sua vedovanza.
Qui, la prima scena è che Tranzi odia tutte le donne e odia tutti gli uomini che si innamorano delle donne, ma quando arriva a casa di un fanciullo orfano dove la madre sta morendo s’innamora della prima donna che vede. Curiosa combinazione, no? Bene, e tra le altre cose viene a sapere che il ragazzo si chiama Marco Perla, il quale aveva chiesto la mano della cugina, la quale però, con molto dolore, aveva rifiutato, confessando che le sarebbe stato impossibile sposarlo perché, fin da bambina, era cresciuta con lui e lo amava come un fratello e solo come un fratello avrebbe potuto amarlo. Allora, immediatamente, Corrado Tranzi si fa avanti e chiede la mano di Ebe.
Al primo momento c’è un certo sconcerto. Come? Questo è arrivato qui qualche giorno fa e subito chiede la mano! Però insiste, dice che bisogna decidere subito, che lui sta per vincere un concorso importante, così ha la carriera assicurata, che la ragazza è di suo gradimento. Il padre acconsente. Vengono celebrate le nozze.
Fu una furia, una frenesia d’amore, che durò appena un anno. Ebe morì di parto. La sera stessa della sciagura, Corrado Tranzi, senza voler neanche vedere la bambina che, nascendo, aveva ucciso la madre, scappò via di casa come un pazzo; scomparve.
E se ne va in America.
Altro risvolto della scena è che abbiamo una bambina orfana di madre, anzi, di più, che nascendo aveva ucciso la madre – così dice – orfana di madre e abbandonata dal padre. Peggio di così, più fosco di così! E la bambina crebbe in casa dei nonni che la chiamarono Ebe come la loro figliola: Ebe la madre, Ebe la figlia.
E sembrò ad essi che veramente la loro Ebe ricominciasse a vivere in quella bimba, dapprima tra le loro braccia, custodita con l’anima e col fiato, poi tra le loro cure piene di palpiti e di sgomenti.
A mano a mano che cresceva, la bambina, soprannominata Bebè, Ebe/Bebè, somigliò sempre più alla madre.
Ne ripeté tutte le grazie infantili, le mosse, i sorrisi, i primi giuochi, tra lo stupore accorato de’ due vecchi che credevano d’assistere a una prodigiosa resurrezione.
Un raggio di luce sembra entrare nella casa dove la scena è invece tra le più fosche. Casa in cui continua a vivere Marco Perla al quale non sfugge che la bambina assomiglia sempre più alla mamma, a quella mamma che lui aveva tanto amato. Non solo pensa al ricordo della sua infanzia trascorsa insieme a quell’altra bimba, ma rivive quegli stessi sentimenti …che si rifacevan vivi della vita stessa della piccina.
La quale, ecco, come quell’altra, voleva giocare con lui; voleva – senza saperlo – far ripetere a lui quegli stessi giuochi già fatti con quell’altra se stessa, ch’era stata la sua mamma piccina.
E lui ripeteva quei giochi.
E le cose procedono. La bambina cresce e Marco Perla rinfocola i ricordi e sopra tutto …tra tutti i ricordi, più vivo e più preciso aveva quello del giorno e dell’ora che per la prima volta in un bacio della cuginetta aveva sentito d’improvviso, lui solo, il sapore e il calore d’un amor nuovo, diverso dal solito, per cui s’era tutto turbato e acceso, quasi che da quelle rosee e fresche labbra ignare gli fosse venuto un fuoco delizioso per tutte le vene. Ebe aveva dodici anni; lui quindici; ed era stato un giorno d’aprile, nelle prime ore del mattino.
È un ricordo indelebile.
Tutto sembra procedere per il meglio, anche se Marco Perla è un po’ imbarazzato: non riesce a rispondere agli abbracci e ai baci della bambina che vuole scherzare e giocare con lui. È un po’ restio perché ha i suoi ricordi. Un certo giorno cosa accade? Il professor De Vitti muore, il nonno di Ebe muore, lo zio di Marco muore. E questa morte …venne a strappare violentemente Marco Perla da quell’ibrido e atterrito stato d’animo.
A complicare le cose accade che il professor De Vitti entrò tardi nell’insegnamento, per cui al momento di morire non aveva compiuto quel percorso necessario a garantire la pensione. È un bel problema, per cui alla moglie toccano poche migliaia di lire e l’incombenza di provvedere alla famiglia spetta a questo punto a Marco Perla, unico sostegno della famigliola. Marco Perla, oltre ai ricordi, teme un altro pensiero: l’idea che Bebè cominciasse a vedere in lui un altro, il capo di casa, quasi il padre, e a considerarlo come tale.
Quindi, mentre prima era stato amato da Ebe come un fratello, teme ora che Ebe figlia lo possa amare come un padre.
Da un pezzo la zia notava in lui curiose assenze di memoria, strane smanie, improvvise tristezze; e lo vedeva dimagrire e fissarsi sempre più in una ispida e squallida bruttezza.
Non per una qualche malattia, ma per questi pensieri. La zia allora ha il sospetto che sia innamorato.
E sospetta …che quella morte dello zio gli avesse troncata la speranza di farsi una casa; che gli pesasse il debito di gratitudine per i benefizii ricevuti da bambino.
La zia dice che Marco ha ricevuto da bambino, quando era rimasto orfano, molti benefici che adesso gli pesano perché li deve restituire occupandosi della famiglia. C’è un debito morale che dovrebbe pesare; questo è il sospetto della zia. Ma non è questo il problema per Marco Perla, che invece era invasato dalla paura che un altro, d’un tratto, vedendo Bebè crescere di giorno in giorno più bella, venisse a strappargliela, quindi la considerava già una cosa sua che poteva essergli strappata da un altro.
Dunque, da una parte c’è la zia che ipotizza un debito morale, dall’altra c’è Marco che teme lo strappo: un altro d’un tratto venisse a strappargliela, come già gli era stata strappata la madre di lei.
Già aveva avuto uno strappo, adesso potrebbe ricevere il secondo. Lo strappo. Parrebbe curiosa la fantasia dello strappo. Strappo cui non aveva potuto opporsi allora, né potrebbe opporsi …in alcun modo pur sentendosi amato. Ma sì! una volta da fratello; ora forse da padre.
E, neanche a farlo apposta, un bel giorno la zia gli conferma che, effettivamente, ci sarebbe un giovane pittore che si è accorto di Ebe, e lui è bello come un angelo, per cui anche Ebe si è accorta di lui. Pittore che tra breve deve partire per Roma per compiere il suo itinerario. A quel punto Marco si altera:
Ah, questo per Roma? come quell’altro per l’America? – sghignò orribilmente. – Ma non vi basta una? Due eh? volete buttarne via due, così, al primo che capita?
Lo strappo.
Così, dinanzi all’eventualità che lo strappo si compia, Marco confessa alla zia che lui ama Bebè e grida alla zia tutta la sua passione.
La zia, dapprima sbalordita, poi quasi atterrita, cercò di calmarlo. Gli disse che mai e poi mai avrebbe sospettato ch’egli avesse potuto prendersi così d’amore per quella piccina.
La quale difficilmente avrebbe potuto capire, dato che c’era anche il precedente con la madre. Quindi …la zia sarebbe stata felice d’affidare a lui quella piccina sua; proprio felice. Ma Bebè?
Bebè, sarebbe stata felice?
Per ora gli garantisce che se ne occupa lei di comunicare a Bebè la faccenda. Marco acconsente e comincia l’attesa che la zia parli a Bebè, convinca Bebè, comunichi a Bebè come devono andare le cose.
E …furono per Marco Perla mesi d’angoscia e di disperazione.
Così non sarà per voi, invece, che avrete modo di leggere nei prossimi giorni il seguito della novella in modo da capire perché è la novella del vittimismo. Intanto, riflettiamo su quanto abbiamo letto e su quanto leggendo, magari, abbiamo ipotizzato. Qui siamo a metà della faccenda, non è conclusa, però degli elementi sono già emersi.
Pubblico Può riassumerci in parole brevi la conclusione della novella?
R.C. “In parole brevi”!
Pubblico La donna detesta l’attesa.
R.C. “La donna detesta l’attesa”? Appunto! È per quello che subito lei andrà a leggersi la novella già stasera!
C’è qualche elemento tra quanto letto sino a qui e che sia sembrato non trascurabile?
Lucio Panizzo Il ricordo e il debito morale mi sembrano assolutamente non trascurabili. Io non ho letto la novella, ma danno al personaggio la sua costruzione. Io penso che l’attesa, per esempio, si strutturi sul ricordo e sul debito morale, perché lo stesso ricordo è un’attesa di una ripetizione del passato. Però, è impossibile che si ripeta qualcosa del passato, mentre nel ricordo il passato ritorna sempre, probabilmente anche come debito – e qui c’è un qui pro quo – allora s’instaura l’attesa. E anche che deleghi il compito di parlarne alla zia è un grosso problema. Come si fa a fare il portavoce di qualcuno se la voce non è nemmeno assumibile e non è una facoltà? La zia è il suo portavoce. È un grosso problema. È impossibile.
R.C. Eh già. Questo è un punto non da poco. Quindi, lei dice che qui c’è una delega, una delega verso la zia. Bene. Altri?
L.P. Però può essere…
R.C. “Può essere”. Dice che ci possono essere delle buone probabilità, probabilità statistiche secondo la letteratura scientifica.
Cecilia Maurantonio C’è una concomitanza con le morti come evento per cui – questo non l’ho ancora capito ma ho notato questa cosa con la morte – sono come due eventi in cui qualcosa accade. L’unica volta che lui ha manifestato l’amore con una domanda è avvenuto lo strappo, quindi, molto probabilmente anche la delega è avvenuta per un ricordo. Comunque, c’è da chiedersi come ama quest’uomo e cos’è questo amore. Si tratta di amore, di passione o d’innamoramento? Che si sia innamorato, questo lo si è colto dalla lettura; che ami è più una questione di sacrificio che di altro e si fa carico di alcune cose lungo la vicenda.
R.C. Quindi, lei è curiosa di sapere come ama Marco.
C.M. Beh, se poi effettivamente si tratta d’amore, che è incontrollabile come amore. Però, io ho colto che è innamorato, da come lei ha letto.
R.C. Quindi è innamorato, ama.
C.M. Sì, ma se questo amore è un sacrificio, non è amore. È sempre pagamento di un debito o per una forma di ricatto per portarsi avanti e ricevere dopo, non so; quindi, c’è sempre qualcosa che non è meritabile, non è meritevole da parte sua.
R.C. Bene. Molto interessante. Altri elementi? Prego. Sì, prima lei e poi la nostra amica a fianco che si chiama?
Pubblico Maddalena.
Giorgio Fornasier A proposito della fiaba, della vittima, del lupo e dell’agnello. Oggi è stato pubblicato in internet, e credo abbia avuto un successo mondiale, un video della polizia inglese in cui ci sono dei bulli in città, dei ragazzotti che in mezzo alla folla picchiano a destra e a manca della gente. A un certo punto passano due transessuali e chiaramente loro si scatenano. Si avvicinano ai transessuali e vanno per picchiarli, e in due secondi – proprio questo è il bello della scena – i bulli sono a terra, distrutti, non riescono più a camminare, né a fare niente perché i due transessuali, in realtà, erano due lottatori di lotta estrema che andavano a una festa vestiti da donna. Il bello del video era vedere compiersi una giustizia, in qualche modo, nel senso che le presunte vittime, avvicinati da tre bulli belli grossi, in effetti non erano più vittime, ma hanno compiuto una giustizia e quindi non c’è stato vittimismo perché hanno reagito. È come se la pecora si fosse sbranata il lupo. In questo senso mi sta bene, altrimenti il non vittimismo di cui lei parla me lo deve dimostrare, perché il lupo è un criminale, è un prepotente, realisticamente e anche non realisticamente. Non trovo un varco per non dargli una lezione come hanno fatto quelli di oggi.
R.C. Quindi lei è tifoso di Fedro!
G.F. Sì, non mi viene così semplice ammettere che ci sia una storia di vittimismo, ma piuttosto di prepotenza. E questo cambia, cambia anche come impostiamo la società.
R.C. Forse bisogna chiarire un dettaglio: il lupo è il vittimista!
G.F. Così è più complicato.
R.C. No, così è più semplice, perché è il lupo il vittimista.
G.F. Cioè, le argomentazioni che pone per passare all’azione sono i soprusi che avrebbe subito?
R.C. Sì. Allora la prepotenza non è che l’altra faccia del vittimismo. È semplice.
G.F. Sì, così mi convinco.
R.C. Bene, ha visto? Parlando si trova. Prego Maddalena.
Maddalena Una cosa molto importante è stata come parla del ricordo. Il ricordo fa parte del passato. Com’è possibile che una persona viva il presente di soli ricordi, quando i ricordi non ti permettono di vivere assolutamente il futuro? È impossibile. Poi, nel ricordo del passato c’è la delusione, una delusione di un amore non corrisposto; quindi, il ragazzo è o non è innamorato? Io dico che non è innamorato della ragazza, cioè lui vive esclusivamente solo di ricordi e basta. La cosa che ho trovato molto toccante è stata come lui cita questi ricordi. I ricordi fanno parte del passato, quindi, secondo me, non puoi vivere nel presente e non puoi vivere nemmeno nel futuro. Lui ama questa ragazza, ma non Bebè, perché lui ci vede sua mamma, dunque fa parte del passato, non del presente e nemmeno del futuro. È il passato. Ama la madre. Con Bebè lui rivive i ricordi del passato, ma parliamo sempre del passato che, arrivati a questo punto, va cancellato.
R.C. Il passato è incancellabile, è per questo che non ha bisogno di essere ricordato.
- Sì, condivido e non condivido, però tante volte il ricordo fa male. Un amore non corrisposto, come in questo caso. Lui vede in questa ragazza sempre l’amore non corrisposto.
R.C. Chiaro. È molto preciso, per cui non è che il ricordo a volte faccia male, perché è sempre un modo di negare l’attuale. Certo, molto interessante.
- Però, io dico che il ricordo fa parte del passato. Basta. È bello ricordarlo se è bello, ma se il ricordo è brutto va cancellato.
R.C. E, però, qui lei un po’ si contraddice.
- Perché? Lui vuole vivere con la figlia ciò che non ha vissuto con la madre.
R.C. Sì, certo.
- Ha capito? È qualcosa che lui non ha vissuto e quindi lui vuole rivivere, vuole portare nel presente il passato. Ma questo è impossibile.
R.C. È ancora più curiosa la cosa. Vuole rivivere qualcosa che non ha vissuto! Giusto? Perfetto. Dunque, è una eventualità impossibile. Ora, rispetto a questa struttura, che cosa cambia rispetto al fatto che il ricordo sia bello o sia brutto?
- Se il ricordo è bello ti fa bene.
R.C. Del passato?
- Del passato. Se il ricordo è brutto ti fa soffrire.
R.C. Del passato?
- Del passato. È una differenza che segna.
R.C. Quindi, sia nel primo caso sia nel secondo caso, si tratta sempre del passato, di ciò che lei diceva prima impedisce l’avvenire, no? Dunque, che sia bello o che sia brutto sempre impedisce il futuro!
- Eh, ma se è bello c’è una grande apertura, mentre se è brutto c’è la chiusura.
R.C. Ci ragioniamo. Bene. Però è interessante la cosa. Molto interessante. Altri? Altre note?
C.M. È curiosa la somiglianza della figlia con la madre che viene notata, annotata, evidenziata.
R.C. La somiglianza chi la nota?
C.M. La mamma, cioè i nonni.
R.C. I nonni. Non solo.
C.M. Beh, lui ovviamente gioca, ripete gli stessi giochi in cui c’è un contenimento continuo della sessualità, resta nel gioco. Lui riceve un bacio e c’è una fissazione che poi impedisce di vivere.
R.C. Bene. Altri? Forse lei? Sento quasi un prorompere di un ragionamento fragoroso e il migliore modo di ragionarci è parlare.
Manuela Macario Sono confusa. Mi è capitato di sovrapporre alcuni modi, esperienze personali al libro. Cioè, è la prima volta che m’accorgo di fare una sovrapposizione così forte, quindi sono un po’ confusa, perché pensando al libro è chiaro che arrivo a un ragionamento mentre, poi, pensando, trasporto sulla mia esperienza un ricordo, oppure una paura che accada una seconda volta la stessa cosa, e ciò mi fa arrivare a un altro ragionamento; quindi, sono andata fuori strada con il mio ragionamento.
R.C. Non lo sappiamo.
M.M. Poi, come racconta la novella, sembra più di pensare di leggere i pensieri di Pirandello piuttosto che leggere i pensieri dei singoli personaggi, cioè a volte non è chiaro chi pensa cosa. Lui descrive una scena, la sta descrivendo lui, però non è chiaro se la scena, così come la descrive lui, è vista da tutti i personaggi o da qualcuno. Ci sono personaggi che hanno la loro visione della cosa; fa parte della scena che la zia pensasse che Marco si sentisse in debito e, invece, per lui era diverso, ma per tutto il resto è una scena che viene descritta dall’autore. È difficile capire ciascun personaggio come e quali pensieri sviluppa, come analizzare ciascun personaggio.
R.C. Esatto, brava, perché è proprio questo che occorre fare: l’analisi del personaggio! Infatti, è solamente così che il personaggio può imbattersi nell’autore e non continuare a cercarlo facendo il personaggio. Perché la questione dell’autore è sottile. Il destino del personaggio è di riconoscere l’autore e non applicare al personaggio il principio d’autore, che lo condanna a essere personaggio. La lettura analitica consente al personaggio di non essere condannato a fare per sempre il personaggio, quel personaggio.
M.M. Quindi, non è sbagliato partire dal personaggio. Stavo tentando di capire il personaggio.
R.C. Però bisogna non trascurare l’autore. L’autore, non lo scrittore! L’autore, per cui non importa sapere quali pensieri sono di Pirandello e quali del personaggio, perché non si tratta di applicare il principio d’autore, ma l’autore. Anche per Pirandello si pone la questione dell’autore. L’autore non è lo scrittore. Lo scrittore s’imbatte nell’autore, si avvale dell’autore, che è sconosciuto.
M.M. Appunto, forse è quello che volevo dire io, nel senso che si trova l’autore cominciando dalla costruzione del personaggio.
R.C. Questa è la scommessa: che il personaggio non sia più personaggio ma incontri lo statuto intellettuale, la piega e l’altra cosa.
Vediamo di chiarire ulteriormente la faccenda la settimana prossima, dove parleremo in maniera semplice della struttura del vittimismo e come e perché il ricordo giova al vittimismo.
