Sesto capitolo del volume La realtà della parola
L’encefalo senza cervello. Il nuovo psichismo
Ruggero Chinaglia Stasera leggiamo il film Inside Out. È un film recente, che è stato in programmazione nelle sale più importanti, in città e in tutta Italia e è stato promosso come film rivolto per lo più ai bambini. Invece, è da considerare in altro modo, perché questo film si rivolge soprattutto agli adulti; è un film per adulti e si rivolge agli adulti, con una sorta di alibi costituito dai bambini, dai ragazzi. Ritengo che, per lo più, i ragazzi non siano in grado di cogliere il messaggio di questo film, perché è un messaggio complesso.
Attraverso il cartone animato, è proposto un modello di cervello che è impostato sulla prevalenza delle emozioni. Come mai un’operazione così estesa, così importante, attraverso un film promosso dalla Disney, che è una delle case cinematografiche più importanti, su un tema come questo?
Anche questo è un argomento del nostro dibattito, che ora non anticipiamo, però sicuramente è una cosa su cui si tratta di porre attenzione, anche tenendo conto che questo modello di cervello, che prende lo spunto da una ragazzina, che è la protagonista del film, in realtà non è proposto solo per i ragazzi, i bambini, i giovani, ma diventa il modello per tutti, e quindi è un modello di cervello proposto come modello generale. Su questo, si tratta di porre attenzione, non accogliendo tutto quello che si vede nel film come oro colato, ma interrogandosi su ciò che si vede e si sente.
Ogni film può essere guardato e contribuire, come si dice, al relax. E è un’occasione persa. Guardare il film per rilassarsi è sicuramente un’occasione persa, cioè è persa l’occasione di un contributo che un film può dare alla nostra vita, perché anche il film apparentemente più banale, apparentemente più rilassante, più divertente, in realtà propone qualcosa, una combinatoria di immagini e di testi che dicono, comunicano qualcosa.
Che cosa comunica? Che cosa propone rispetto alla realtà, alle cose, rispetto a quello che può essere una mentalità? Oppure propone qualcosa che contrasta con la mentalità? Qualcosa di differente, di nuovo? Ecco, questo è da cogliere in ciascun film.
Proponiamo questo film perché ci sembra che, nonostante la sua pubblicità, nonostante la sua apparente banalità, invece diffonda un messaggio. Allora proviamo a cogliere il messaggio, che cosa propone, perché lo propone. Un messaggio non è che sia da condividere o rigettare, non è in questa alternativa. Si tratta innanzitutto di accogliere e poi valutare. Occorre non respingere o accettare in blocco, ma valutare i vari aspetti, le varie cose, capire. L’importante è capire.
Anche per quel che riguarda la scuola, l’importante non è sapere, per sapere basta documentarsi un po’, così si apprende e le cose “si sanno”. L’importante non è questo, è capire. Capire come ciascuna cosa che giunge e si aggiunge, quindi si integra, contribuisce a un ragionamento. Non per l’accettazione supina, ma per il ragionamento. Il ragionamento è sempre in atto, perché ciascuna cosa che si aggiunge mette in questione quel che c’era prima. Questo non è un problema, anzi, è un contributo.
Credo che, per i ragazzi e per ciascuno, sia davvero importante considerare che nulla è mai definitivo e ciascuna cosa che giunge, si aggiunge. E non c’è mai fine a quello che può aggiungersi, perché il cervello (poi ritorneremo sul significato di questo termine), non è un sacco che può riempirsi e a un certo punto non ci sta più niente. No. È infinito. E quindi ciascuna cosa può aggiungersi all’infinito.
Questa è innanzitutto una cosa da considerare: il cervello è infinito.
Seconda cosa da considerare è la distinzione tra cervello e encefalo. Abbiamo dato come titolo questa sera, L’encefalo senza cervello. Il nuovo psichismo. Titolo che può sembrare difficile, ma ci aiuta a ragionare. Non siamo per le cose facili, banali. Siamo piuttosto per capire ciò che sembra difficile, o che lo è.
Abbiamo posto una distinzione tra encefalo e cervello. L’encefalo, come dice la parola stessa, è ciò che sta nella testa. L’encefalo è contenuto nella testa e è noto come sistema nervoso centrale e quant’altro. Il cervello invece è un’altra cosa, non è l’encefalo; quello di cui parliamo questa sera non è l’encefalo, ma il cervello, che non è qualcosa che si ha, ma è qualcosa che si instaura.
Intanto guardiamo il film, anzi, più che guardarlo suggerisco di leggerlo. Leggerlo e ascoltarlo, cogliendo nella combinazione tra immagini e testo quel che il film comunica, e poi ne parliamo. C’è qualche domanda già adesso, da parte di qualcuno?
Patrizia Ercolani Se il cervello è infinito e l’encefalo è quello che abbiamo, non c’è uno spruzzetto di luce divina in questo, che…
R.C. Non possiamo né escluderlo, né assicurarlo.
P.E. Dal momento che Dio ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza non possiamo escluderlo.
R.C. Ecco, questa è un’ipotesi, tuttavia. È un’ipotesi che pone delle questioni di cui possiamo parlare. Non può essere che l’ipotesi diventi un postulato.
P.E. Ah, no, no, era una domanda.
R.C. È un’ipotesi di cui teniamo conto. Bene. Questi ragazzi sono di una stessa classe? Una gran parte, quindi non sono di una stessa classe. E che classi sono qui rappresentate? Una prima scientifico e un’altra prima. Quindi, siamo a livello di prima superiore. Bene. C’è chi ha già visto questo film?
Ah, perfetto. Giova rivederlo, perché la prima volta può sfuggire qualcosa. In particolare, suggerisco di ascoltare prima che si illumini lo schermo. C’è qualcosa che si dice prima che compaiano le immagini del film. L’avete notato, voi che avete già visto il film? C’è una frase che giunge a schermo ancora buio. Quella frase è rilevante. Ma, in molti casi è sfuggita a chi ha visto il film. Cerchiamo di non farcela sfuggire questa sera. Poi vedremo perché è rilevante. È rilevante rispetto al film che segue e al modo in cui può essere letto e ascoltato.
Procediamo con il film.
R.C. Adesso passiamo al dibattito. Ci sono domande? Chi vuole formulare la prima domanda? Prego. Chi si è chiesto come mai abbiamo lasciato scorrere tutti i titoli di coda? I titoli di coda dei film danno spesso molte informazioni: sulle musiche, sugli autori della sceneggiatura, della scenografia, sulla regia, sulle consulenze tecniche, che in certi casi possono essere pleonastiche, in certi casi utili. In questo caso sono utili, danno l’informazione che serviva. Certo ci vuole pazienza, lasciare scorrere i nomi, leggere le informazioni. Anche questo fa parte della lettura del film.
Dunque, questo film cosa ci presenta, che cosa ci fornisce, qual è il contributo che ci dà? È un film molto gradevole. Che cosa racconta questo film? C’è chi ha un’idea di cosa racconta questo film?
Protagonista è Riley, ragazzina che ha dodici anni, quindi è un po’ più giovane di voi studenti, mooolto più giovane di altri qui.
C’è chi azzarda un’ipotesi sul film? C’è Riley, che cosa fa? Si trasferisce dal Minnesota alla California, come dire da Milano va in Sicilia. È una trasformazione notevole: cambiano il paesaggio, le usanze ecc. E in questo viaggio Riley ha un dubbio, ha quantomeno un dubbio, che diviene una fantasia, formula una fantasia. Quale può essere questa fantasia di Riley, per cui scappa di casa, o meglio, arriva a pensare di scappare di casa?
Perché? Certo, lì non ha amici, non c’è l’hockey, gli amici del Minnesota, ma soprattutto la fantasia per cui decide di fare questo gesto, qual è? Che i genitori non le vogliano più bene: l’hanno portata lì e non si curano di lei, non le vogliono più bene, per cui dice, a questo punto, me ne vado.
Poi, però, questa fantasia si dissipa e Riley non fugge più di casa, anzi, trova confermata la famiglia, i genitori in un certo contesto, gli amici, altre cose. E questa è la storia narrata. Ma, la storia narrata indica non già fatti accaduti, ma una fantasia di Riley: come Riley vede accadere certe cose.
Attraverso il pretesto del viaggio dal Minnesota alla California, cosa è proposto al pubblico?
P.E. Il sistema delle emozioni
R.C. Il sistema delle emozioni, lei dice. Infatti. C’è la proposta di un cervello in cui hanno sede solamente le emozioni. Ci sono cinque emozioni di base: la gioia, la paura, il disgusto, la rabbia e la tristezza. È proposto un modello di cervello fondato sulle emozioni. E queste emozioni da dove vengono? Come si costituiscono queste emozioni che sono importanti nella vita di Riley, al punto che sembrano decidere ogni suo gesto?
Ogni suo gesto sembra dipendere, da quanto è proposto nel film, dalla prevalenza di un’emozione sull’altra, quindi c’è un cervello emotivo!
Cosa viene meno in un cervello fondato sulle emozioni? Cosa sembra venire meno?
P.E. Il ragionamento
R.C. Il ragionamento, giusto. Riley non si pone questioni, non ha dubbi, ma agisce sulla scorta delle emozioni che prevalgono nel “quartiere generale”. Non c’è il cervello propriamente detto, c’è il “quartiere generale”, rappresentato da una consolle e, a seconda delle emozioni, e quindi delle relative reazioni alle emozioni, accade qualcosa.
Riley, più che ragionare, reagisce alle emozioni che intervengono al quartiere generale. Chi sarebbe contento di aver un cervello così, dove non interviene la valutazione rispetto al da farsi, con un calcolo, un conto, ma solamente la spinta delle emozioni? Emozioni non poste in una gamma, e quindi con le varie sfumature che possono presentare, ma, rigorosamente, gioia, tristezza, rabbia, disgusto, paura.
Possiamo veramente credere che la vita si fondi sulla reazione a queste emozioni? Possiamo veramente credere che ciò che accade sia predeterminato dalla dominanza di queste emozioni? È questo il modello di cervello che il film propone. In una cornice molto ben curata, simpatica, a cartoni animati, una storia ora commovente, ora umoristica, a lieto fine. Bello, ci viene da dire. Tutto ciò è molto apprezzabile. O no?
Non è per nulla apprezzabile, perché ci dà un modello di condotta del tutto indipendente dal calcolo, dal ragionamento, dalla valutazione, da istanze culturali, artistiche, scientifiche. Solamente emozioni e ricordi, che sarebbero “ricordi guida”, quindi “ricordi base”, che si acquisirebbero nella prima età e che condizionerebbero tutto ciò che segue.
L’avete notato? Persi i ricordi base è lo sfacelo. Accade di tutto, negativamente.
È vero che, poi, nella fiaba c’è modo che le cose si ricostituiscano, però, persi i “ricordi base”, l’isola della famiglia crolla, l’isola dell’amicizia crolla, l’isola dell’onestà crolla, l’isola della “stupidera” crolla, crolla tutto. La vita sarebbe “a rischio crollo”.
Un pregio del film è di non dare a questa immagine del crollo un’interpretazione patologica, l’inscrizione in una patologia. Questo è un merito apprezzabile in questa epoca dove ogni cosa è invece patologizzata. Infatti, se accade un problema è facilissimo che questo problema venga convertito in deficit, malattia o patologia. Nel film c’è questo merito, se non altro: non c’è una conversione aperta in patologia. Però, dove si accenna “all’esaurimento”, lo specialista interpellato dice che no, non è esaurimento, Riley non è esaurita, “è solo stress”.
Cioè, se non è zuppa è pan bagnato, però, in questo caso, il pan bagnato è meglio della zuppa, nel senso che, se non altro, la mitologia dell’esaurimento nervoso non viene avallata dal film. È una mitologia invece tuttora in voga, non solamente nelle zone rurali o sperdute del nostro paese, ma dappertutto. L’“esaurimento nervoso” è un’etichetta che ancora è usata persino nelle diagnosi mediche, ma l’esaurimento nervoso non esiste, il cervello non si esaurisce mai, può solo acquisire, e non c’è pericolo di esaurimento.
Questa è una cosa da tenere presente in modo assoluto, per non costituirsi alibi rispetto alle difficoltà che si possono incontrare. Non c’è esaurimento nervoso. È una mitologia, una storiella come quella della befana, di babbo natale, dell’uomo nero o quant’altro. L’esaurimento nervoso non ha ragione non solo di essere, ma nemmeno di essere creduto. Qui non viene dato l’avallo alla mitologia dell’esaurimento, ma viene dato l’avallo alla mitologia dello stress. È una moda. Sullo stress si regge un’industria che è quella del benessere. Anche questo non va accettato a scatola chiusa: qual è l’uso che si fa di questo termine? Uno è stressato, quell’altro è stressato. Stressato vorrebbe dire che è esaurito, praticamente. È stressato e quindi deve rilassarsi. Ma la parola stress, che è una parola inglese, che cosa vuol dire?
P.E. Sollecitare.
R.C. Sì, anche. Stress è tensione, ma anche forza. È tensione che dà forza, nulla si fa per inerzia. Questo s’impara sui banchi di scuola, fin dai primi anni. Per inerzia cosa avviene? Nulla. Perché avvenga qualcosa ci vuole una spinta, una forza. E quella forza consente di organizzarsi, di affrontare le cose, di elaborare i progetti. In tedesco si dice trieb, in inglese si dice stress, noi la traduciamo pulsione.
La pulsione è quella spinta, quella forza per cui, a partire dal desiderio, qualcosa si mette in moto. A partire dall’istinto qualcosa si mette in moto, anche un dispositivo pragmatico. Per fare qualcosa c’è bisogno della spinta, altrimenti che si fa? Nulla. Ma la spinta non è meccanica, non c’è qualcuno che ti dà una spinta e allora tu fai qualcosa. È la spinta che viene dalla curiosità, è la spinta che possiamo tradurre anche con il termine “domanda”. Nulla avviene senza la domanda.
Ecco uno degli aspetti discutibili di questo film: non compare la domanda, se non nella forma della nostalgia di Riley. Parte un po’ da lontano ma, attraverso la nostalgia, Riley si pone una questione che ha a che fare con la domanda. Nulla accade senza la domanda. E la domanda non è innata, non c’è “a prescindere”.
La domanda si costituisce per integrazione di varie cose e soprattutto “per fare”, per andare in direzione della qualità. Questo film ci ha mostrato, invece, una concezione meccanicistica, innatistica del cervello: le emozioni avrebbero la caratteristica di essere innate.
Non è proprio così, ma la proposta fatta qui è questa. E da dove viene la proposta di questo tipo di cervello? Ve lo chiedo e vorrei sentire la risposta; ho lasciato scorrere i titoli di coda, perché aveste gli elementi per rispondere a questa domanda.
P.E. Dalle neuroscienze.
R.C. No, viene dall’Istituto Zuckermann di scienze comportamentali. Precisamente dal Columbia University’s Mortimer B. Zuckerman Mind Brain Behavior Institute. Le neuroscienze sono qualcosa che abbracciano tante cose.
Qui c’è un modello molto specifico, che viene dal comportamentismo, secondo cui non c’è ragionamento, c’è condizionamento. Non c’è intellettualità, ma c’è condizionamento. Avete notato che alla fine, per gentilezza del regista e della Pixar, c’è un’equiparazione tra il cervello dei bambini, degli adulti e degli animali? Lo avete notato? Non vi ha quantomeno sollevato una curiosità? Ma sarà proprio così? Cioè il cervello del gatto, del cane e del topo è uguale al cervello mio, tuo, suo, nostro? Funziona allo stesso modo? Un gatto sente l’odore del cibo e dice: “Procuriamoci del cibo” e insegue quello che ha il cibo per prenderselo. Anche gli umani fanno così? Sentono odore di cibo: “Chi ha il cibo?” “Lui”. “Andiamo a prenderci il cibo”. Tutti addosso. È questo il criterio? Può questo essere un criterio accettato di cervello? È quantomeno avvilente. Però non è un caso che questo modello sia proposto e non è nemmeno un caso questa equiparazione.
Avete mai sentito mai parlare del cane di Pavlov? Voi, ragazzi, il cane di Pavlov, il riflesso di Pavlov? No? Il riflesso pavloviano è una delle basi del comportamentismo. Cosa accade nel 1900, a un certo punto del 1900? Alcuni studi in Russia erano speciali per tentare di escludere ogni ragionamento e istituire il condizionamento. Eravamo all’epoca dell’Unione Sovietica. Quindi accertarono che, ponendo un cane davanti a una fetta di carne, questo cominciava a agitarsi un po’, a salivare, finché gli veniva la voglia di mangiare la fetta di carne; e se col tempo gli si faceva ascoltare una musichetta, ripetendo l’esperimento, il cane associava la musichetta con la fetta di carne. Per cui, a un certo punto, ripetendo l’esperimento, non occorreva più esibire la fetta di carne: bastava suonare la musichetta e il cane salivava, perché “pensava” alla carne, e invece ascoltava la musichetta. Questo si chiama condizionamento: associati due stimoli, la risposta è data come se ci fossero entrambi, quando invece ne basta uno.
Questa cosa constatata nel cane, venne ritenuta bella, tanto che venne applicata agli umani. E questi studi arrivarono poi al tentativo di superare paure e cose varie, sempre con l’ipotesi del condizionamento.
Occorre dire che questa cosa è miseramente fallita, perché non viviamo di condizionamento. Le nostre istanze sono molto più raffinate e elaborate di quelle dell’animale, per cui il condizionamento non ha presa, perché c’è un piccolo trascurabile dettaglio che il comportamentismo non considera: la parola.
Per gli umani è essenziale la parola. E ciò che accade, accade per via di parola. È attraverso la parola che la domanda si formula, si articola, si svolge, e tutto ciò da luogo alle vicende della vita di ciascuno. E ciò esige una nozione di cervello molto complessa, complicata e, soprattutto, praticamente ingestibile.
Come gestire i desideri, le curiosità, le speranze che ciascuno coltiva e che giungono a costituire un progetto e poi a dar luogo a un programma e a una direzione della vita stessa? Tutto ciò non è prestabilito, non è preordinato. Esige vari processi. Questa idea di cervello va molto per le spicce. Taglia corto su questo. Bastano le emozioni. “Si, vabbè, dai, questi la pensano così.” E non è così banale la cosa. Tutto ciò dà luogo a un cervello basato sulla trasmissione. Quelli che sono i ricordi, le vie dei ricordi, avete presente nel film? Ci sono i vari tubi che portano ai vari depositi, quindi c’è la rappresentazione locale, spaziale, di quello che potrebbe configurarsi come un organo fatto un certo modo, l’organo chiamato cervello. E quindi per funzionare di cosa necessita? Di determinate sostanze.
Dunque questa è una concezione organicista: un cervello che diventa praticamente un organo, quindi l’encefalo. Una rappresentazione dell’encefalo, di ciò che sta dentro la testa, come di ciò che è sufficiente a spiegare e significare quello che accade invece nei nostri pensieri, nelle nostre idee, nelle nostre fantasie, nei nostri desideri, nella curiosità e che necessita della domanda, della ricerca, della tensione. Non va tutto in via automatica, anzi, nulla in via automatica. Questa ideologia di un cervello automatico è invece proposta in questo film. Già c’è la consulenza delle scienze comportamentali, per le quali quindi non si tratta di valutare la domanda, le idee, i pensieri, le fantasie, quelle che, insomma, per ciascuno costituiscono la sua ricchezza, ma tutto è in automatico: c’è un’emozione, avviene questo, c’è un’altra emozione, avviene quello e quindi sembra che sia valore il comportamento. Se hai quel comportamento sei ok, se ne hai un altro sei out.
Le ragioni di questo o quel comportamento non interessano a nessuno. C’è questo comportamento e questo va bene, c’è quel comportamento e quello non va bene. E allora vuol dire che c’è un deficit. Dove sta il deficit? Beh, che discorsi, nell’encefalo! Quindi occorre somministrare all’encefalo la sostanza di cui è deficitario. Questo è lo schema. Questo offre la concezione comportamentistica.
Beh, più che accettarla così com’è, si tratta di valutare, di discutere, informarsi. È proprio così? Oggi si sa che la cosiddetta scienza medica è fatta di mode, soprattutto di mode, perché non è una scienza e non può esserlo, però tutte aspirano al titolo di scienza, ve ne siete accorti? Tutte vogliono avere il riconoscimento di scienza, quando invece oggi ciò che passa come scienza è mera statistica.
Cioè, se qualcosa accade più spesso di un’altra diventa scientificamente rilevante. Ma non è scienza, è statistica. E non bisogna confondere la scienza con la statistica. Sono due cose tra di loro molto differenti, perché se possiamo chiamare scienza qualcosa che indaga sul perché qualcosa accade, non possiamo confonderla con la statistica, che ci dice invece quante volte accade, nulla di più.
Quindi, che qualcosa accada più spesso di un’altra è statisticamente rilevante, ma non scientificamente rilevante. E non è detto che sia socialmente rilevante, anche se viene presentato così. Siccome è più frequente, allora è più socialmente rilevante e diventa una prescrizione. Ciò che è più frequente diventa una prescrizione.
Allora, quindici giorni fa abbiamo avuto in parlamento la votazione sulla legge per le unioni civili e i diritti delle unioni civili. Avete fatto caso che c’è stato questo dibattito importante, con tutto il dibattito su omofobia, omosessualità, eterosessualità e quant’altro, famiglie in cui la composizione può essere varia, quindi con una reinvenzione o quantomeno un tentativo di reinvenzione dello stesso termine di famiglia. Bene. Nel 1950, avete presente il 1950, cioè sono 70 anni fa neanche, l’omosessualità era considerata una malattia, ok? Siete al corrente di questo? Era considerata malattia e come tale si cercava di curarla. Dove? Nei manicomi. Era considerata una malattia mentale. Oggi, in seguito a un processo civile, politico, culturale, artistico e quant’altro, non è più così. Anzi, viene ritenuto che c’è il diritto all’inclinazione sessuale come uno meglio preferisce. Bene, ma come la mettiamo col fatto che 50 anni fa era una malattia proclamata dall’OMS?
Che cos’è l’OMS? È l’Organizzazione Mondiale della Sanità, quindi non un qualunque organismo di provincia, ma un organismo mondiale, che decretava l’omosessualità malattia mentale. Altre malattie cosiddette “mentali” sono ancora tutt’oggi riconosciute come tali, disturbi della personalità.
Le isole della personalità, avete presente? Le isole della personalità che ogni tanto crollano e quindi danno origini a disturbi della personalità, a malattia. Disturbi del comportamento, disturbi della condotta, disturbi, malattie. Fino a due anni fa sentire le voci… Vi è mai capitato di sentire che alcune persone ogni tanto odono delle voci? Non è che lo vanno a dire in giro spesso perché, se si sparge la voce, si dice che tizio è matto. E dove si curano i matti? E uno non vuole finire lì dove stanno i matti, anche se magari sente le voci. Cosa che è più intellettuale che patologica, cioè capire queste voci cosa dicono, da dove vengono, perché ci sono. Indicano che c’è qualcosa che probabilmente non è ascoltato, non è attuato, diviene voce, come dall’esterno, ma sono invece istanze interiori. Bene, ma fino a due anni fa anche le voci erano considerate uno dei sintomi maggiori di psicosi. Poi da due anni a questa parte non è più così. Perché non è più così? Perché la frequenza, la percentuale delle persone che sentono le voci nel mondo supera il 15%. Allora siamo tutti matti? Nooo. Non è più sintomo di psicosi, con l’avallo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Quindi le cose vanno così. Occorre non cedere alla tentazione di affibbiare facili etichette a qualcosa che accade. E la questione intellettuale, che è anche la questione della tolleranza e dell’accoglienza, non vale solamente verso i profughi o verso gli omosessuali, vale per ciascuna cosa che accade, che accada a me, che accada a un altro. Ciascuna cosa che accade esige di non essere immediatamente etichettata, inscatolata e trattata come un bene o un male in maniera aprioristica.
Con un cervello a consolle, come quello che abbiamo visto nel film, come instaurare la tolleranza, l’accoglienza, l’accoglimento della differenza? Diventa praticamente impossibile, perché azione – reazione, emozione – comportamento, tac – tac. Non c’è scampo. Quindi ci sono i comportamenti accettabili e quelli inaccettabili. La tolleranza va a farsi friggere. Questo cervello è un cervello intollerante.
Queste le prime considerazioni attorno al film e il suo messaggio. Si sarebbe mai detto che un cartone animato poteva proporre tutta una serie di questioni così ricca, così impegnativa, così essenziale? Perché è un cartone animato. Apparentemente ci dice cose banali, una storiella familiare che poi va a lieto fine, cose che possono capitare a tutti. Sì, può capitare a ciascuno di avere una delusione, di provare tristezza, avere disagio. Sì, è chiaro. Ciascuno può incontrare questa questione. E il film ha il pregio di non patologizzare questa cosa, questo è l’unico pregio che ha. Non è poco, perché in milioni di altre parti, a fronte di un’idea di tristezza scatta subito l’idea di depressione. Non è più lecito parlare della tristezza. Diventa un sintomo negativo per cui va nascosto. Sei triste? Sei malato. No, sono triste. Può capitare un’idea di tristezza. Sì, bene. Ma vallo a spiegare a chi dice che basta una notte di tristezza, una notte d’insonnia di un bambino per poterlo diagnosticare depresso. Vaglielo a spiegare che esiste la tristezza insieme con la gioia, insieme con tante altre cose. Ma la patologizzazione dei comportamenti è una cosa diffusa.
Oggi un ragazzo che ha un periodo di difficoltà diventa un ragazzo difficile. Non è un ragazzo che probabilmente va ascoltato per un disagio che avverte. Diventa un ragazzo difficile, se non peggio. Siccome questa catalogazione comincia dalle scuole, comincia in età sempre più precoce, occorre anche accorgerci di questo e non prestarsi a queste facili categorizzazioni.
Ho qualche cosa d’altro da dirvi, ma ora voglio sentire qualche domanda perché fino a ora ho parlato solo io. Doveva essere un dibattito e allora una domandina? C’è qualche elemento che ritenete utile di tutto ciò? Qualcosa che vi ha sorpreso? Era già chiaro tutto ciò nel film?
P.E. Tra le emozioni c’è anche il disgusto.
R.C. Sì. Il disgusto impedisce di essere avvelenati, no?
P.E. Ci sono quattro emozioni negative e una positiva.
R.C. Sì. La paura protegge dal pericolo, la gioia protegge dalla tristezza, la rabbia protegge dall’essere vittima di soprusi. Dunque c’è innanzitutto che tutto ciò contraddice al titolo. Il titolo è un bellissimo titolo, l’avete notato? Si, sennò non sareste qui. Il titolo Inside Out è bellissimo. Inside, dentro, out fuori, quindi dentro-fuori.
È vero che, nell’economia del film, ci fa vedere come è il dentro e come è il fuori, quindi dentro c’è la consolle e attraverso la consolle vedi il fuori. Però, nonostante questo impiego funzionale all’ideologia che il film propone, il titolo resta bello, perché inside out è una contraddizione che non viene tolta. Cioè inside out è un ossimoro che in italiano è dentro-fuori. Non è la proposta alternativa o dentro o fuori, che è il solito ricatto: o sei con noi o sei contro di noi, o sei dentro o sei fuori, o fai così oppure no. È senza alternativa, inside out, dentro-fuori.
È una cosa che non può essere rappresentata, mentre l’alternativa può essere rappresentata, c’è il dentro, c’è il fuori, o – o, secondo il principio aristotelico del terzo escluso, o dentro o fuori, o alto o basso, o bene o male. Ecco, il titolo non ci propone l’alternativa, ma invece l’esistenza di una contraddizione aperta. Questo è molto bello! Guardate, se c’è una cosa che è veramente essenziale è l’apertura. E l’apertura è questa: l’assenza di alternativa, l’assenza quindi di ricatto, perché ogni alternativa porta al ricatto, alla rivendicazione. Invece questo ossimoro è modo dell’apertura, è modo della contraddizione aperta. C’è una contraddizione che mai può diventare o – o, resta e – e.
Questa è la cosa più interessante da intendere: l’assenza di alternativa, l’apertura, a partire da cui le varie cose possono venir qualificate, e quindi valorizzate. Perché, se esiste l’alternativa, c’è valore e c’è disvalore. Quindi alcune cose avranno già un valore positivo, altre cose avranno già un disvalore negativo. Il mondo è già fatto, diviso in due e non c’è da fare un granché se non rispettare questa divisione algebrica tra il positivo e il negativo, tra il bene e il male, tra il dentro e il fuori. E nascono le etichette, così! Non c’è tolleranza.
Allora, il film che parte da questo titolo non mantiene poi le promesse che fa nel titolo, perché giustamente lei rileva che ci sono quattro elementi negativi, uno positivo, quindi offre già dalle prime inquadrature che c’è questa dicotomia, questa separazione tra il positivo e il negativo. A un certo punto dice: “Su, pensa positivo”, che è come dire “sii idiota”. Come si fa a pensare positivo? Il pensiero viene dalla contraddizione, quindi dall’inside out, non tutto positivo, perché poi, allora, sarà tutto negativo. L’integrazione non è più ammessa, c’è solo la prescrizione. Invece l’intellettualità è una cosa complessa che esige questa apertura. Il film ci mostra che c’è una prevalenza e ci sarebbe il fine di bene. C’è la gioia che ha il compito di assicurare il fine di bene alle azioni, le altre invece hanno il compito di proteggere dal male. Quindi fuori è una giungla: c’è bisogno di protezione contro l’avvelenamento, contro il pericolo, contro la tristezza.
Però poi c’è un rovesciamento: la gioia senza la tristezza sarebbe nera. A un certo punto, cosa accade nel film? C’è una traversata dei motivi per cui Riley vuole scappare di casa proprio attraverso la tristezza. Cosa dice l’elefantino Bing Bong? “Ho pianto. Adesso mi sento meglio.” E se ci avete fatto caso c’è una postilla che è subito coperta dal rumore del treno e dice: “Mi ha fatto bene essere ascoltato.”
È quasi una cosa istantanea, poi il rumore del treno prevale perché non sia mai che sia data importanza alla questione dell’ascolto! Ci devono essere i disturbi, i ricordi primari, la memoria a lungo termine. Tutta una rappresentazione organicista questa! Ma se voi scavate nell’encefalo, voi, il centro della psiche non lo trovate, la mente non la trovate. Tutto ciò che è intellettuale, nell’encefalo non c’è. E quindi è impossibile tradurre organicisticamente qualcosa che organico non è. Però il tentativo di questo film è questo: di avallare l’impostazione organicista.
Occorre dire che l’organicismo prevale nei periodi culturalmente più bui. Tenete conto di questo. L’organicismo prevale nel momento in cui arte e cultura sono sottovalutate, sottostimate. Infatti, cercate voi, oggi, in Italia, intellettuali di valore: ne vedrete ben pochi. Intellettuali che non avvallino la concezione organicista del mondo. L’idea che una notte di insonnia si traduca in una malattia da curare con gli psicofarmaci per tutta la vita è una pazzia. Questa sì è una pazzia, però è avallata. Se voi cercate nei social, c’è in questi giorni un’intervista a un neurologo americano, il quale dice che l’uso degli psicofarmaci per curare alcune malattie del cervello è una truffa. Andate a cercarlo, lo troverete.
E questo è un capitolo che meriterebbe tante parole perché l’uso dello psicofarmaco è una condanna già in età adulta, in età precoce è ancora peggio. Non c’è psicofarmaco che fornisca risposte alle domande rispetto cui si avverte un disagio. E quindi occorre trovare le risposte e cercarle. Ma volevo darvi un’ultima informazione: da dove viene questa equiparazione tra uomo e animale, al di là di Aristotele che diceva che l’uomo è un animale mortale con il suo famoso sillogismo. Non occorre credere a questa favola che l’uomo sia animale, l’uomo non è per nulla animale. E ciascuno può trovare motivi perché non sia equiparato.
Ma volevo darvi questa notiziola, su come mai nel 2000, quindi non tantissimo tempo fa, sedici anni fa, è stato assegnato un premio Nobel per la medicina a Eric Kandel. Kandel è uno scienziato di quell’istituto Zuckermann, che ha dato la consulenza al film, che ha vinto il premio Nobel, o meglio non ha vinto, non è un concorso, gli è stato assegnato il premio Nobel per i suoi studi sulla memoria neuronale. Caspita, ha fatto degli studi sulla memoria dei neuroni, studi che hanno fatto sì che vincesse il premio Nobel. Come ha fatto questi studi? Cosa ha studiato, per giungere alla conclusione che la memoria è fatta di memoria a lungo termine, a breve termine? Avrà fatto studi condotti sull’uomo. No, ha fatto degli studi condotti su una lumaca. Sia chiama Aplysia californica. È un mollusco. Perché condurre degli studi sul tessuto nervoso umano, sui neuroni umani sarebbe risultato impossibile perché sono numerosi, dell’ordine di miliardi e miliardi. Allora è stato rilevato che questo curioso mollusco ha un sistema nervoso simile a quello umano, però con un numero di neuroni molto inferiore. Basta. Allora è stato preso come modello, è stato fatto uno studio sulla Aplysia californica e le conclusioni sono state attribuite all’uomo. Premio Nobel per la medicina.
Ciascun premio Nobel va indagato, va capito. A cosa è dato questo Nobel? A un effettivo riscontro che costituisce per l’umanità un significativo contributo o invece è una concessione al luogo comune? Anche ciò che può sembrare più qualificato, più scientifico talvolta costituisce un cedimento a un luogo comune, a un’ideologia. Per questo occorre stare all’erta, intellettualmente dico, e non accontentarsi delle fiabe. Le fiabe sono una bella cosa, ma occorre capire di cosa si tratta nella fiaba. Bene, capisco che l’ora è tarda, non ho avuto il piacere di sentire una domandina da parte di nessuno di voi, ragazze e ragazzi, però sono sicuro che qualche domanda c’è. Magari necessità di qualche ora in più per formularsi. Ma noi siamo qui, non la settimana prossima, neanche quella successiva, ma riprendiamo dal sette aprile per discutere anche di quella cosa che oggi è considerato lo psichismo.
Ci sono questi modi di dire: la psiche, la mente, che poi sfociano nella mentalità. Uno pensa di dire chissà che cosa dicendo: “Questa è cosa psichica.” Che cosa sarà? Ecco, cerchiamo di capire questi termini cosa indicano e dove conducono, come elaborarli perché risultino effettivamente un contributo intellettuale per ciascuno alla sua ricerca e al suo viaggio. E poi proseguiremo con altri film di cui adesso non vi dico i titoli, ma verrete informati.
Se c’è chi è interessato a altri film, a altri dibattiti può lasciare la sua e-mail per essere informato. Comunque penso che attraverso i vostri docenti la cosa può accadere ancora. Bene, allora io vi ringrazio, conto che ci vediamo presto. Arrivederci.