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Terzo capitolo del libro L’educazione e la direzione

L’efficacia dell’insegnamento

 Ruggero Chinaglia Ha formulato delle domande per oggi?

Luigina Giraldo Pensavo alla questione dell’aggressività che aveva iniziato la set­timana scorsa.

R.C. In merito a ciò non ha formulato qualche questione precisa?

L.G. Ho pensato a quello che avevo detto io e a guardare un po’ di più i bambini a come si comportavano, se c’erano motivi per cui si comportavano con una certa aggressività oppure con un’altra. Loro l’aggressività non la considerano una cosa cattiva, per loro è come fare una carezza, in un certo senso. È un modo per ottenere o perché gli hanno tolto qualcosa. L’aggressività del bambino non è cattive­ria, è un modo di esprimere le sensazioni del momento. Oppure ci sono altri tipi di aggressività, dovuti all’immedesimarsi in certi personaggi, in certe situazioni, pensando proprio alla persona cattiva che picchia, che fa del male, ma non per fare del male, perché, per loro… Dicono: “lo facciamo per scelta”, “non ci facciamo male”; ma non conoscono i limiti della lontananza l’uno dall’altro. Loro vogliono dare un pugno all’amico perché lo fanno per gioco, invece in certi casi si accorgono che fanno del male. noi abbiamo creato proprio stamattina una cosa molto bella, ci siamo fatti un angolo dove si deve usare la gentilezza e non le maniere aggressive, però poi c’è sempre quello che si esprime attraverso l’aggressività.

R.C. Certo. Quindi è in corso di elabora­zione questa faccenda.

L.G. Per noi è sempre in corso l’elaborazione, perché incomincia dall’inizio dell’anno.

R.C. Giustamente.

L.G. Cerchi sempre situazioni, cerchi di incanalare l’aggressività.

R.C. Deve essere incanalata?

L.G. Non sempre. Non incanalata, nel senso di riflettere su certe azioni, su certi modi di fare, dicendo al bambino: “Trova altre soluzioni per quello che fai, prova a pensare se ci sono altri metodi. Quando un bambino ti prende un gioco, tu gli dai un morso perché ti ha preso il gioco, invece prova a vedere se ci sono altri si­stemi”.

R.C. Sì, magari c’è anche un cazzotto, non solo il morso!

L.G. Qualcosa che non lasci traccia, di­cevo, in modo che le mamme dopo non di­cano “Mio figlio è un mostro”!

R.C. Esatto. Lei si chiama?

L.G. Luigina.

R.C. Non Maria Luigia. Ah, è lei Maria Luigia. Infatti, mi pareva. Lei è Maria Luigia e lei è Luigina. Quindi, an­che Maria Luigia…

Maria Luigia Mi dissocio in parte.

R.C. Ecco, lei si dissocia. Sentiamo al­lora la sua formulazione qual è.

M.L. A riguardo dell’aggressività? Dipende dal momento, dal bambino, anche dal mio stato d’animo. A volte sono un po’ più tollerante, a volte sono un po’ più in­vasiva, invadente. Mi preoccupo più di tutto dell’incolumità di questi soggetti, della loro incoscienza, che non si procu­rino dei danni eccessivi, perché può succe­dere purtroppo. Ciò è dovuto anche all’am­biente, alle barriere architettoniche, facil­mente dobbiamo porre molta attenzione. Eppure, non mi ricordo di avere avuto a che fare con dei casi di bambini estremamente aggressivi, cioè un’aggressività distruttiva o oggettiva, sempre lesiva nei confronti degli altri. Ogni tanto capita al bambino perché sta attraversando magari un mo­mento un po’ particolare, che si manifesta in questo modo, coi morsi, con le spinte, con l’invadenza nei confronti degli altri.

L.G. […] l’ansia e la paura che si facciano male. Sento molto questa tensione, ho sempre il terrore che si facciano male.

M.L. Anche perché, avendo due figli ma­schi abbastanza vivaci, ci ho fatto il callo forse, non lo so.

R.C. secondo lei, da dove viene l’aggressività?

M.L. Secondo me viene sempre da un di­sagio, da un mal stare.

R.C. Mal stare. Sarebbe il malessere?

M.L. Il malessere che può essere di tan­tissimi generi, anche fisico. Può essere un’indisposizione, una opposizione, tante cose. c’è anche la televisione che condiziona, soprattutto quando c’erano i Power Rangers, quando c’erano certi personaggi particolari della televisione. Loro si imme­desimano nelle varie parti e noi vedevamo imitare questi personaggi in ma­niera troppo aggressiva. Per loro la vita è anche cartoni animati. I cartoni condizio­nano moltissimo un bambino, soprattutto se sono cartoni violenti, perché loro non sanno vedere l’aggressività del cartone e la riportano nella realtà, perché, poi, il robot chi è? Si danno delle botte, ma poi ritorna in piedi e loro non vedono nella realtà il farsi male. Per fortuna adesso non ci sono più.

L.G. Spero non arrivi qualcos’al­tro, perché l’imitazione… Anche se provi a parlare di questi personaggi… Quando c’e­rano le Tartarughe Ninja, uno portò un film di queste tartarughe e gli dicevo: “Guardate, ci sono altre ma­niere”, e loro: “Va’ via!”, non gli impor­tava niente, per loro c’era solo il film da vedere.

R.C. Certo. È evidente. Ci sono altri con domande intorno alle questioni che ab­biamo sin qui dibattuto, cose da chiarire, frutti di riflessione? Ci sono dei frutti della riflessione di questa settimana o della scrittura? Non ci sono frutti? Una settimana senza frutti? Noi abbiamo seminato. Nessuno? Nemmeno Canestrale che è così preciso nello stilare gli appunti?

Marzia Banci Provo a farle una domanda, solo che non vorrei chiacchierare sempre io. L’altra volta abbiamo parlato del valore della parola, del discorso. Qui, noi ave­vamo come tema L’educazione senza ostilità, che si è fatto presente quando c’era da accettare lo straniero, quando s’era posto il que­sito “come viene accettato lo straniero?”. Però, l’educazione senza ostilità non l’ho ritrovata nei miei appunti in quanto era stato espresso. Ora, o io non ho compreso o non è stato sviluppato. Perché, fra essere insegnante, fra essere genitore, fra essere persona che dico “maleducata”, nel senso che è venuta su da tanta educazione, quindi non so dove sta l’educazione e dove sta la non educazione. Avevo interesse che fosse ripreso il titolo per dare uno svolgimento, se fosse possibile.

R.C. Diciamo che ne abbiamo parlato la settimana scorsa. Forse occorre esplicitare un po’.

M.B. Io non l’ho compreso.

R.C. Nel senso che sono sorte le basi per precisare oggi qualcosa in più, per ri­prendere la questione che si era po­sta la settimana scorsa sul finire dell’incon­tro, e che ci dà occasione di precisare la questione dell’ostilità.

Consideriamo il termine aggressività che ricorre spesso. Ricorre frequentemente nei discorsi, talvolta a proposito, più spesso, possiamo dire, a sproposito. Il termine aggres­sività cosa sarebbe, stando ai dizionari e ai manuali? Sarebbe una ten­denza più o meno spiccata, più o meno in­nata verso un comportamento violento con­tro gli altri e contro le cose. L’aggressività si rivolge, come no­zione, a quella di comportamento, privile­giando una caratteristica che è dell’animale e sfociando in una sorta di etologia umana. È noto che gli animali si distinguono per essere domestici o selvaggi, mansueti o aggressivi, docili o feroci, e ciò rientra nell’attribuzione dell’aggressività.

Si tratta, invece, di distinguere tra l’aggres­sività e l’aggressione. In ciascun caso umano si tratta dell’aggressione, mentre l’aggressività è una sorta di categoria che servirebbe per applicare l’etologia agli umani, per fare entrare gli umani in un or­dine e in un genere animale, dunque per potere attribuire genericamente una catego­ria.

La questione che interessa, in termini di educazione, di clinica e di parola, è eventualmente la que­stione dell’aggressione. Come accade che, in una determinata circostanza, in un de­terminato contesto, in un determinato caso vi sia aggressione? Per cui si tratta di intendere la particolarità, la singolarità, la qualità perché vi sia intervento effi­cace. Se ammettiamo l’aggressività come potenzialità comune, facciamo dell’educa­zione un addestramento, abolendo così la specificità e la logica dal caso che abbiamo dinanzi, per una riconduzione a una gene­ricità, a una standardizzazione. Cioè, ci priviamo di uno strumento per interve­nire, per intendere e intervenire.

Il termine aggressività, che è un neo­logismo recente, è proprio quanto di più generico si possa attribuire a qualcuno. Ammettendo l’aggressività in quanto tale, come potenzialità, l’Altro è sempre un pericolo, è sempre una minaccia. Potenzialmente aggressivo, potenzial­mente pericoloso, per cui potenzialmente sempre da correggere, po­tenzialmente sempre da guarire.

Consideriamo invece l’aggressione nella sua logica e nella sua struttura, perciò nel suo originario. Effettivamente, come accade spesso, si verifica che il bambino, o il ragazzo, o l’adulto va verso un compagno, un amico, un’amica e fa qualcosa che risulta violento, e subito gli viene detto che così non bisogna fare, senza tuttavia capire di cosa si tratti e a che cosa si sta dicendo di no. Questo perché l’aggressione, secondo uno schema pre­concetto, è fatta coincidere con l’odio, quando invece è tutt’altro, trattandosi nell’aggressione, di una parodia del­l’amore. Aggredire indicava, un tempo, l’andare verso qualcosa o qualcuno per parlare, e questo è il significato che troviamo in alcuni testi poetici, letterari di qualche secolo fa, significato che poi è andato man mano svolgendosi verso un’accezione negativa.

L.G. forse, anche per imporre la propria idea. Lei ha detto “andare verso qualcuno o qualcosa per parlare”, ma anche per esporre un’opinione…

R.C. Per parlare.

L.G. Parlare tranquillamente…

R.C. Adesso non sappiamo. Intanto, te­niamo conto che c’è questo aspetto. ag­gredire ad-gredior sarebbe, in latino, andare verso. Quindi, c’è andare verso quel che si desidera, andare verso qualcosa o qualcuno per parlare di quel che si desidera. C’è l’istanza di desiderio, di de­siderio che tuttavia non è padroneggiabile, e che perciò incontra la resistenza. La resistenza non è da parte di qualcuno, è resistenza del significante. La resistenza non è un attributo soggettivo, è resistenza del si­gnificante nel suo funzionamento. Adesso lo chiariamo meglio perché è l’essenziale.

Effettivamente, qualcuno notava che la rappresentazione dell’aggressione si verifica nel caso dei bambini, ma senza togliere nulla a altri casi, nel tentativo di prendere qualcosa, di togliere qualcosa. è coglibile immediatamente nel caso dei bambini che, nell’aggressione verso un bambino, un bambino che ha qualcosa, o c’è qualcosa che l’altro bambino o gli altri bambini vorrebbero prendergli o condividere, ecco che dove il desiderio non trova modo di articolarsi nella parola, viene immediatamente posto in atto il tentativo di prendere con un gesto, di prendere quella cosa di cui si tratta o la caratteristica. Un bambino che afferra un altro per i capelli oppure per i vestiti…

M.B. Quindi è l’atto violento che fa di­ventare il gesto aggressivo. Esiste l’ag­gressività quando ci si esprime con un atto violento.

R.C. Questa è la banalizzazione. Viene chiamata aggressività questa istanza nel momento in cui viene “tradotta” in violenza. Invece, è altrettanto aggressione nel mo­mento in cui ci sia qualcosa che va verso l’altro secondo un’istanza di desiderio. C’è la consuetudine di tradurre l’aggressione come atto violento, non tenendo conto di questo andare verso, qualificandolo come aggressivo solo nella misura in cui sia un gesto d’irruenza, di violenza, un gesto che produce effetti di drammatizza­zione, il bambino che urla, il bambino che piange, oppure un graffio, uno schiaffo, un pugno, qualcosa; ma è altrettanta aggressione una carezza. Strutturalmente, schiaffo o carezza sono due aspetti del­l’aggressione, due facce della stessa cosa.

L.G. Bisogna vedere anche cosa intende l’altro che riceve.

R.C. Qui entriamo in un altro contesto, della cosa come viene letta, come viene accolta o non accolta l’aggressione, questa parodia amorosa, che si tratti della ca­rezza o dello schiaffo.

L.G. Anche una parola.

R.C. Sì, certo.

L.G. Perché noi vediamo soltanto i gesti per paura che si facciano male, non ci cre­diamo tanto alle parole […].

R.C. Valore.

L.G. Sì, esatto, è la parola giusta.

R.C. Che è senza peso. E qui si apre il capitolo dell’immunità, del dispositivo immunitario della parola, che adesso non affrontiamo perché da solo comporte­rebbe tutto un corso, comunque, giusto per intendere che la questione c’è e che è essenziale per ciascuno, come testimo­niato oggi anche dal discorso medico. Oggi la ricerca nel discorso medico si orienta moltissimo nel campo dell’immunità. Cancro, AIDS, malattie di vario genere considerate au­toimmuni o non autoim­muni, tutto ciò ha prodotto un’attenzione verso quello che il discorso medico chiama sistema immunitario; mentre nella parola noi constatiamo l’esistenza di un dispositivo immunitario, dispositivo non sistematico e che per cia­scuno è es­senziale.

Quindi, si tratta di indagare e intendere come l’insorgenza di alcuni ac­cidenti come l’infarto, l’ictus, il tumore, l’AIDS e altre malattie, dipendano dalla perdita del dispositivo im­munitario, un aspetto del quale è dato proprio dal peso delle cose, quando le cose cominciano a pesare, ossia quando le cose diventano sostanza, sostanziali. Già que­sto è un indizio che il dispositivo immu­nitario non c’è più. Magari poi ve­diamo di addentrarci ulteriormente, ma prima proseguiamo con la questione che stavamo indagando. Non che questo non c’entri, evidentemente, però ci porta un po’ altrove, ma non tantissimo, perché nella questione dell’aggressione, soprattutto quando non si tratta più di bambini, ma di ragazzi o adulti, l’ag­gressione che si rappresenta effettiva­mente nel colpire qualcuno, nel percuo­terlo, assalirlo, toccarlo, ferirlo, indica una non articolazione, una assenza di artico­lazione del desiderio, per un tabù del tempo.

Pubblico Del desiderio?

R.C. Del desiderio per un tabù del tempo, per una rappresentazione del tempo, cioè per la prevalenza del tabù che si compie nel soggettivismo.

M.B. Posso, scusi, perché ho perso il senso.

R.C. Sì, è un passaggio difficile questo.

M.B. Perché sto pensando al tabù.

R.C. Esatto. Lei pensa al tabù. A quale tabù?

M.B. Al tabù del tempo. Il tabù io lo in­tendo come la cosa proibita, da non fare. Del tempo. Tempo in­teso?

R.C. Occorre precisare la nozione di tempo. Facciamo un esempio, la durata, l’idea di durata è un tabù del tempo. La nozione di durata è una negazione del tempo, della temporalità, privilegiando una misura rite­nuta possibile del tempo e abolendo il tempo. Quello che nel discorso occiden­tale si chiama tempo, e qualificato in mesi, giorni, anni, ore, minuti, secondi, non è il tempo, è un’idea di durata, è una misura­zione, quindi è una spazializzazione. Il tempo, propriamente, è immisurabile. Immisurabile, incontabile, imprevedibile, inconoscibile, infinito e istantaneo. Accade che gli umani tentino di rappre­sentarselo, ma ciò non vale a padroneggiarlo. Noi ci accorgiamo del tempo per i suoi effetti, ma non possiamo vedere il tempo, o toccare il tempo, o contare il tempo. Ci accorgiamo del tempo per i suoi effetti e ne abbiamo una rappresentazione attraverso alcuni suoi indici.

M.B. Il limite è per le cose, non del tempo. Voglio dire, il limite è la mia cre­scita, è la foglia che cresce, è il sole, sono altri soggetti. Il tempo non si esprime nelle cose. Le cose sono così, ciascuna porta avanti se stessa, ma non in relazione al tempo.

Pubblico Le rughe…

M.B. Ma non sono le sue, sono le mie. Io posso avere le rughe a 35 anni, a 25, a 18, a 98…

R.C. Le rughe non c’entrano niente con il tempo.

M.B. Neanche i capelli bianchi, nean­che…

R.C. La ruga acquista un significato per gli umani chiaramente per via che pensano alla morte, ma non per il tempo.

William Gasparini Si parlava di limiti. C’è chi considera la vita, il solco della vita.

R.C. possiamo considerare la morte un indice del tempo, ma non è il tempo. È un indice.

M.B. Se guardiamo gli elettroni, i protoni e i neutroni, ci danno il corpo fisico per la diret­trice del tempo, perché questo era e questo saranno. Voglio dire, non è che io sono elettrone, protone e neutrone, ma quando non ho più questa fisionomia, i miei elettroni, protoni e neutroni ci saranno comunque, quindi non ho perso niente, hanno cambiato forma. In Lavoisier nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Il tempo non c’entra.

R.C. Come non c’entra?

M.B. Adesso noi misuriamo il tempo, ci siamo dati questa cosa, però abbiamo detto che è un indice per l’uomo, è un effetto di cui l’uomo tiene conto, non un’espressione del tempo. L’uomo si misura attraverso questo.

R.C. No. È un indice nella parola, perché se aboliamo la parola non c’è nemmeno l’indice. Occorre tenere conto che tutto ciò esige la parola e la sua logica. La stessa idea di tutto è un modo di negazione della parola. Già Leonardo Da Vinci diceva che il tutto risulta una parte nel momento in cui c’è la parola, e attorno alla questione del tutto anche i logici si sono a lungo interrogati per trovare che non c’è il tutto. Esiste ciascuna cosa nell’infinito e, stante l’infinito, non c’è il tutto.

M.B. Scusi, ma l’infinito è già infinito. Voglio dire che l’infinito, come diceva lei, col tempo si misura. allora, solo perché non è misurabile è infinito, e poi quello che non sia misurabile è infinito. Poi, ci sarà qualcuno che misura di più e quindi…

R.C. La questione è logica, non tecno­logica. È una questione logica. È chiaro che uno dei miraggi principali del discorso occidentale è di trovare il fondamento. L’idea è che non è stato tro­vato per mancanza di strumenti abba­stanza precisi ma, perfezionandoli… Ecco, allora, che l’indagine va sempre più verso il piccolo, il più piccolo, l’infinitamente piccolo, il piccolissimo, ma ciò non può togliere il pa­radosso di Achille e della tartaruga, così come non può togliere il paradosso della menzogna.

Simone Barison Anche il paradosso di Achille e della tartaruga si pone nell’infinito.

R.C. No, perché l’infinito sta tra lo zero e l’uno, quindi è insuperabile. L’infinito sta tra lo zero e l’uno e non è superabile proprio per la proprietà del tempo che è divisione, divisione che funziona parlando. Il tempo è la divisione che funziona nell’atto di parola, per cui ciascun significante, parlando, differisce da sé e si situa in una differenza incolmabile.

M.B. Mi scusi. Il tempo è la divisione della parola in cui ciascun parlante…

R.C. Ciascun significante si divide da sé.

Cecilia Maurantonio Il tempo è divisione della parola?

R.C. Tra quanti sono qui presenti, cia­scuno ha scritto una frase differente. Questo è già una testimonianza che il tempo interviene in modo assolutamente imprevedibile, incontenibile e non assog­gettabile alle intenzioni di questo o di quello. L’ascolto stesso è un effetto temporale. Quindi, noi ci troviamo esposti, parlando, all’effettualità temporale.

S.B. Se diciamo che l’infinito sta tra lo zero e l’uno, definiamo per questo già dei limiti, lo zero e l’uno, per cui l’infinito sta tra zero e uno. Ma

possiamo assegnare dei limiti?

R.C. Occorre che lei intenda cosa vuole dire “tra lo zero e l’uno”.

S.B. Che sono dei paletti?

R.C. No.

S.B. O sono dei “tra”, dico tra uno e l’al­tro, presuppongo un inizio e una fine.

R.C. No. Che cosa non è chiaro fin qui?

Maria De Lorenzis Lei ha detto che l’aggressione indica l’assenza del desiderio per un tabù del tempo, cioè il passaggio…

R.C. Non ho detto l’assenza.

M.D.L. L’assenza no, ma l’articolazione del desiderio…

R.C. Assenza di articolazione, non di de­siderio. È il contrario. È l’assenza di articolazione del desiderio.

M.D.L. Sì, praticamente intendendo il tempo come qualcosa di definito e il desi­derio…

R.C. Per un tabù del tempo. Così ho detto, mi pare.

M.D.L. Intendendo il tempo come qual­cosa di definito e il desiderio… Cioè, nel senso di articolazione del desiderio che sfocia nell’atto, come praticamente in atto in una cosa compiuta. Quindi, la differenza tra l’atto e la parola. L’atto non indica il tempo, mentre la parola indicherebbe il tempo. Ma perché l’atto non indica la trasformazione, non indica il tempo, mentre la parola sì? Perché, nel momento in cui c’è il detto, praticamente già c’è stata una trasformazione che noi non riusciamo poi… Anche fare qualcosa, non solo parlare, modifica una situazione. L’impronta delle mani su una guancia o fare un oggetto, da una sostanza fare un’altra cosa, può indicare l’indice del tempo, perché diventa una cosa defi­nita.

R.C. No, è il contrario.

M.D.L. Del tempo che è passato.

R.C. Uno schiaffo ha poco di temporale nell’accezione che dicevamo poco fa. Perché giunge uno schiaffo?

M.d.l. […].

R.c. Lo schiaffo è proprio il segno del­l’assenza di parola. Ma in che termini? Nei termini dell’assenza di autorità: non c’è nome che funziona, non c’è titolo. Può accadere una circostanza in cui lo schiaffo sia l’intervento da fare, ma è rarissima, è proprio quella circostanza particolarissima, non come invece accade. basta andare per strada e la cosa più comune da vedere è che una mamma picchia il suo bambino, e spesso per motivi assolutamente inutili, perché ha lasciato cadere per terra qualcosa, o ha chiesto una cosa, o ha alzato la voce, e nei modi veramente più assurdi e abominevoli. Non c’è parola. Ma non parola nel senso che non c’è dia­logo. Non c’è parola, cioè, quella madre non si situa nella parola e non situa nella parola quel bambino. Sono due animali che stanno tra loro in modo animalesco e, allora, il gesto dell’uno è visto come mi­naccia per sé, e scatena una reazione che la minaccia comporta, cioè la contromossa. La mossa e la contromossa.

M.D.L. La differenza tra l’atto e la pa­rola…

R.C. L’atto è atto di parola, innanzitutto. L’atto, cos’è l’atto? È atto di parola. Non c’è antinomia tra l’atto e la parola. Abbiamo l’atto come atto di parola, quindi atto che si situa nella logica della parola.

M.D.L. Poi, volevo chiedere un’altra cosa. Quando interviene l’autoaggres­sione, cioè l’aggredire se stessi, nella pro­pria persona c’è l’identificazione con due possibili persone; possono essere tante cose. Se noi intendiamo l’aggressione pa­rodia dell’amore, allora l’aggressione verso se stessi cos’è?

R.C. Anche quella che si chiama aggressione di sé è sempre qualcosa che esige il sé, e il sé non sono io. E anche questo occorre situarlo in una struttura e in una logica che non sia binaria. Ora, stanno emergendo degli esempi che bisogna qualificare. Nel senso che, con il termine aggressività e, per estensione, aggressione, rischiamo di considerare cose che non stanno nella struttura dell’aggressione. Non è detto che l’autolesionismo rientri nella struttura dell’aggressione; oppure si tratta di indagare e trovare qual è la sua particolarità rispetto a questo, ma non va da sé. Non va da sé. Così come non va da sé che lo sia il suicidio, o l’omicidio, o la rivalità, o l’idea di concorrenza, o l’invidia, o la gelosia, o la fantasia di strappo, quella che Freud chia­mava Penisneid, l’invidia del pene. Tante cose ci sono.

M.B. L’aggressività può essere ostilità? Si può negare l’ostilità all’aggressività?

R.C. dicevamo la settimana scorsa che l’ospite è amico-nemico, l’estraneo è amico-nemico. mettiamo che un estraneo se ne va per la strada, tranquillo, estraneo, amico-nemico. Incontra l’algebra, la quale algebra, cosa gli fa? Lo divide in due, metà amico e metà nemico. Uno più, l’altro meno. Uno positivo, l’altro negativo. L’algebra dicotomizza, nel senso che attua una rappresentazione del tempo. Il tempo divide parlando, e quindi ciascuna cosa differisce. L’algebra divide algebricamente, cioè lasciando un segno, un segno positivo da una parte e negativo dall’altra. Allora, quell’estraneo, dopo avere incontrato l’algebra, diventa o amico o nemico. Non più amico-nemico, ma o nemico o amico, aut–aut. Una parte sarà ospite e l’altra sarà ostile. l’ostilità viene da questa rappresentazione dicotomica delle cose che hanno incontrato l’algebra, l’algebra come modalità di applicazione della logica binaria. L’ostilità è il prodotto dell’applicazione della dicotomia, di un fantasma che opera l’alternativa esclusiva o-o, rispetto allo sta­tuto originario e-e, ossia amico-nemico, un’alternativa esclusiva, di contrapposizione.

M.B. Scusi. In questo caso, sempre re­stando nell’ambito di due persone che s’incontrano, stabilire… Lo straniero, dato che sono io che lo sto guardando, può essere lui ostile o sono io ostile? Voglio dire, l’ostilità è una cosa che può riguardare me o lui. O questo no? O diventiamo ostili?

R.C. Nel novantanove per cento dei casi riguarda entrambi, per dir così.

M.B. No, nel senso che, anche come di­ceva, nei ragazzi, nelle cose, nelle persone, non è perché quello ti viene addosso e ti dà un morso, adesso prendendo… Per esempio l’Altro che diviene ostile.

R.C. l’aggressività non è un caso di ostilità. L’aggressione non è un caso di ostilità, è un caso d’amore, è un caso di desiderio, è un caso, possiamo dire, di acting out. Rispetto alla differenza che il processo di desiderio incontra, rispetto al paradosso della realizzabilità del desiderio, ecco che l’aggressione si pone come acting out, come il tentativo di realizzare il desi­derio fuori dalla parola.

Occorre sia chiaro che il desiderio è irrealizzabile. Irrealizzabile il desiderio! Come dire, e qui torniamo alla questione che abbiamo introdotto la volta scorsa intorno alla lin­gua, che il desiderio è qualcosa che è artico­lato linguisticamente e trova la sua soddi­sfazione con la lettera e nell’etica. Il significante, differendo nel suo processo, rilascia la lettera. Il processo di qua­lificazione del significante, che rilascia la lettera, è ciò che soddisfa il desiderio.

Allora, il processo di soddisfazione del de­siderio è ben lungi da essere ciò che si ritiene sia, e cioè che il desiderio possa essere soddisfatto o realizzato con la presa di quello che si ritiene essere il suo oggetto, che invece è ciò che lo causa ma che non lo soddisfa!

Quello che Freud ha chiamato la nevrosi, in particolare la nevrosi da transfert, ma già con il termine nevrosi si chiarisce bene, è proprio il fraintendimento di ritenere che il desiderio possa soddisfarsi con ciò che lo causa, quando, invece, il desiderio va in direzione della lettera e non in direzione di ciò che lo causa. Come dire che noi non sappiamo ciò che soddisfa il desiderio prima che trovi soddisfazione. È molto semplice questo, ma per taluni è insopportabile, assolu­tamente insopportabile.

Ora, in particolare in un bambino in cui il processo linguistico non è ancora ben avviato, articolato, l’av­vertire il desiderio e cercare di prendere ciò che ritiene di essere la causa e ciò che ne dà soddisfazione, può risultare imme­diato, per cui va a prendere la cosa che sente gli manca, nel senso che… sì, Luigina.

L.G. Voglio chiedere una spiegazione. Ci sono dei bambini, magari vedono una macchinetta, ognuno per conto suo la vede, e arrivano perché la vogliono prendere tutti e due. Uno arriva prima, l’altro arriva dopo.

R.C. Chiaro. E quindi l’altro lo piglia, lo butta via e si prende la macchinetta.

L.G. No. L’altro piange, dice: “Quella l’ho vista prima io”. Ma, chi ce l’ha prima, chi l’ha presa prima? “Io, perché l’ho vista prima io”.

R.C. Siamo già in una avanzata situazione di conversazione in quel caso, è già un momento di articolazione.

L.G. No, ma l’immediatezza di tutti e due…

R.C. C’è qualcuno che è arrivato prima, però anche chi è arrivato dopo.

L.G. Ma loro non capiscono che l’altro è arrivato, perché l’ha vista anche lui. Per loro, quando l’hanno vista, il meccanismo di andarla a prendere è immediato, però non riescono a capire.

R.C. Tuttavia, la questione linguistica qual è? La questione linguistica, strutturale, che riguarda la struttura della parola, è che “macchinetta”, la macchinetta o quell’altra cosa, è un significante!

W.G. L’oggetto di desiderio è un signifi­cante? L’oggetto presunto è un significante?

R.C. È un significante!

Pubblico Non ho capito. La parola è un significante o l’oggetto?

R.C. La parola, cioè “macchinetta”.

Pubblico La macchinetta è reale, e la parola “macchinetta” è un significante del­l’oggetto?

R.C. È significante della macchinetta.

Pubblico Dell’oggetto macchinetta?

R.C. Dell’oggetto macchinetta, va bene. Allora, è attorno al significante “macchinetta” che litigano i due bambini? Attorno all’oggetto?

Pubblico Litigano con la parola e con l’atto intorno all’oggetto macchinetta.

R.C. L’oggetto e la macchinetta non coin­cidono! L’oggetto che causa il desiderio, e ciò che viene desiderato, non coincidono! Diceva bene Luigia: il bambino vede un altro bambino guardare la macchi­netta, e desidera la macchinetta. Desidera la macchinetta perché? Perché ha visto l’al­tro bambino che la guarda. Quindi, c’è uno sguardo che funziona come oggetto che ha causato il desiderio in direzione della mac­chinetta, che è il significante del desiderio.

Pubblico La fa ritenere desiderata.

R.C. Esatto, per esempio.

Pubblico Ma succede anche a noi, un mito, un cantante famoso, un attore, un divo è desiderato in quanto sai che è desi­derato.

R.C. Certo. Comunque c’è una struttura, c’è una combinazione. L’oggetto che causa è indotto dal desiderio, mentre ciò che viene desiderato è il significante, in questo caso “macchinetta”. E il si­gnificante, tuttavia, nel momento in cui entra nel processo di qualificazione, non è lo stesso, differisce, cioè risulta menzo­gnero. Dunque, la macchinetta non soddisfa il desiderio. Tanto è vero che se il bambino arriva a prenderla, dopo cinque minuti la lascia e si rivolge altrove.

M.B. C’entra qualcosa la competizione?

R.C. La competizione è un fantasma, per esempio, di desiderare o di potere usufruire della stessa cosa. Competere: domandare in­sieme la stessa cosa. La competizione è andare verso lo stesso traguardo.

M.B. Quindi, l’aggressività può scaturire da questo fantasma? C’è un collegamento o no, secondo Lei?

R.C. Sì. Qui usciamo dall’ambito dei bambini. Ci sono varie forme di competizione, nel lavoro, in termini pro­fessionali, oppure…

Pubblico Normale competizione.

R.C. Sì, normalissima, proprio la più normale! Nel senso che è un fantasma che nega la temporalità, nega il tempo, in quanto presume che la mia domanda e la tua domanda o la sua domanda, si rivol­gano verso la stessa meta, e possano trovare soddisfazione dalla stessa cosa. È propriamente un fantasma di abolizione del transfert, cioè del funzionamento della parola. È un tabù del tempo. Come la gelosia o lo zelo.

M.B. Questo fantasma lo fa crescere l’e­ducazione? Viene coltivato nel campo del­l’educazione, specialmente didattica?

R.C. Questo fantasma è coltivato dai cultori dell’algebra, quelli dell’aut-aut. I cultori dell’algebra sono gli stessi che promuovono il ricatto, la recriminazione, la rivendicazione; così abbiamo già co­perto il novanta percento dei guai.

Pubblico La ripicca.

R.C. Bravo, la ripicca. Sono le varie forme di abolizione del terzo. L’algebra questo fa, ribadisce che tertium non datur. Non c’è terzo. Tertium non datur, cioè o-o, positivo o negativo quando, invece, esiste anche il neutro. Dicevano per esempio i la­tini: maschile, femminile e neutro, tre generi. I greci dicevano: singolare, plurale e duale. Introducevano il terzo negato filo­soficamente, per altre vie, in altre forme, nella grammatica per esempio.

Chi sono i cultori, diceva lei, del fantasma di esclusione? Sono quelli che Leonardo chiamava gli umanisti, i “trombetti”, quelli che si appellano alla conoscenza del si­stema, di come devono essere le cose, le cose finite.

M.B. Nel 1998?

R.C. Chi sono nel 1998? Vuole un elenco o solo qualche accenno?

M.B. Un accenno.

R.C. I pedagoghi, gli psichiatri, gli psico­pompi.

Pubblico Gli?

R.C. Gli psicopompi. C’era lo psico­pompo nell’Inferno. Psicopompo: il tra­ghettatore di anime, la guida delle anime morte. Ce ne sono tanti che guidano le anime, morti che guidano le anime morte. Questi coltivano il fantasma delle anime morte, cioè dei morti viventi, che sono coloro che vivono e pensano di es­sere già morti data la loro predestinazione; e sono numerosissimi. E poi ci sono quelli che dicono: “Tu hai bisogno di una guida. So io come fare” e sono gli psico­pompi che la sanno lunga sulla morte del­l’altro. Essendo già morti molto prima è chiaro che la sanno lunga o, meglio, credono di saperla lunga sulla morte. Vuole altri esempi? Bastano questi! Quanti, cioè, si appellano alla scienza del discorso, all’insieme delle cose finite. Ogni sapere disciplinare fa riferimento a questo fantasma.

M.B. Quindi, rimanerne incontaminati è possibile?

R.C. Adesso lei introduce la contamina­zione.

M.B. No, ma nel senso che… Siamo sem­pre legati all’educazione. Io parto sempre da questo tema.

R.C. Questo fantasma non è che debba es­sere purgato. non si tratta di epurare la società dai fantasmi, di epurare la vita dalle fantasie. Importa at­traversarle.

M.B. Il fare, insomma.

R.C. Brava, certo. Ho visto delle mani alzate. C’era Simone Barison, poi Maria Luigia, poi ho visto anche… Non lei, dietro di lei. Non quello che diceva: “Après-moi, le déluge”! No, dietro di lei c’è ancora qualcuno. Non è che finisce tutto. Dietro di lei c’è ancora qualcuno.

S.B. A proposito dei bambini, è stato detto che, non essendo il processo linguistico articolato in ciò che avvertono come og­getto di desiderio, vanno incontro a tale oggetto.

R.C. Sì.

S.B. Allora sono, per usare un ter­mine un po’ provocatorio, “spacciati” finché non arrivano a avere un sistema linguistico articolato, in cui possono svi­luppare il desiderio.

R.C. Per questa via i bambini entrano nel­l’esperienza di parola. Il bambino si rende benissimo conto che la macchinetta, a un certo punto, sorge come interesse perché interessa all’altro bambino o altre cose. Certamente, c’è tutto un modo di…

S.B. Si può aiutare un bambino a elabo­rare questo desiderio, oppure è necessario che cresca per potere elaborare e articolare la questione?

R.C. Esatto. Questa è una bella domanda.

S.B. Una clinica dei bambini.

R.C. La questione di cui si rende subito conto un bambino, e la cui esperienza è importantissima, è la frustrazione, che gli psicopompi moderni, i morti che traghet­tano le anime morte, attribuiscono come caratteristica soggettiva: “Tizio è frustrato”, “Quell’altro è frustrato”, “Una situazione frustrante”, “Bisogna evitare la frustra­zione”. È assurdo! La frustrazione è costi­tutiva della parola, è costitutiva dell’espe­rienza del desiderio!

Frustrazione vuole dire vanità. L’esperienza della vanità è es­senziale. Frustra, in latino, vuole dire invano. Invano, vano. Indica che tu non puoi prendere l’oggetto. Questa è la frustrazione. L’oggetto non è prendibile. La soddisfazione non viene dalla presa del­l’oggetto, perché l’oggetto è vano, è vuoto, è invisibile, è intoccabile e quindi il tenta­tivo di prenderlo è vano. Ciò non vuole dire che non lo fai, ma tenti invano. Frustra: invano. Ma non è che per questo uno diventa frustrato. Per nulla. Attraverso l’esperienza della frustrazione c’è modo di accorgersi della struttura della parola. Non è il soggetto frustrato, ma co­stitutivamente l’atto è vano e intro­duce alla frustrazione, che non è un guaio. Assolutamente. È esperienza costitutiva, e occorre pure che avvenga. Dice: “Ma que­sto sarebbe frustante, se accadesse sarebbe frustrante”. Prima, William Gasparini mi pare, evocava la questione della droga. Ecco, possiamo dire che chi non accetta la frustrazione, si rivolge poi alla droga. Chi ritiene che la frustrazione sia un optional, cerca la soddisfazione nella sostanza, in quella cosa che sicuramente mi consente di evitare la frustrazione: la droga. Assurdo, perché, anzi, è un supplemento alla fru­strazione, ma è supplemento alla frustra­zione che viene da un’esigenza di articolare qualcosa che non è stato articolato.

Ecco che la questione della così detta terapia della droga occorre che tenga conto di questa struttura, non che crei l’ambiente protetto per evitare la frustra­zione, ma che consenta di articolare la frustrazione, consentendole un incontro in condizioni di elaborazione, non di evitamento. Questo sì. La droga, ma poi c’è tutta una vasta gamma delle possibili rappresentazioni di ciò.

Questa è propria­mente la questione del transfert, cioè del funzionamento della parola, funzionamento lungo cui la parola incontra la tra­sformazione, incontra la metafora, la me­tonimia, la trasposizione. Incontra e esige, innanzitutto, un processo di astrazione che è essenziale fin dall’infanzia. Un processo di astrazione. Questa è la questione essenziale per i bambini, senza cui non c’è nemmeno l’adulto se non av­viene il processo di astrazione: dall’oggetto, alla cosa, alla parola. Da papà e mamma, a Dio. Da papà e mamma, al sem­biante. Processo di astrazione, in cui cia­scuna cosa ha uno statuto intellettuale e non sostanziale, e esige la parola con la sua logica e con la sua qualità.

C’è chi dice: “Ma è troppo piccolo per ca­pire”. Assurdo! Se capisce, vuole dire che non è troppo piccolo. Se è troppo piccolo, non capirà. Ma non possiamo prescrivere noi se può capire o non può capire, se ca­pirà o non capirà. Importa av­viare il processo di astrazione, consentire che si avvii. Non ostacolarlo, prima di tutto. Come alcuni traghettatori di anime morte, invece, talvolta tendono a fare, inca­nalando, prescrivendo tipi, modelli, età per un funzionamento di un certo tipo o di un altro.

Pubblico Che ritarda assolutamente la stigmatizzazione.

R.C. Sì. Non lo stigma, ma le stigmatiz­zazioni. Esatto. Anzi, favorendo lo stigma, cioè che ciascuna cosa abbia la sua caratte­ristica, la trovi nella parola. Senza stigma­tizzazione, che è la moralizzazione dello stigma, della caratteristica e quindi la ge­neralizzazione. Certo. Ciò è precisis­simo.

Lucio Panizzo Volevo dire che, se la fru­strazione dimostra che l’oggetto non è prendibile, che c’è un tentativo di presa che però risulta impossibile, allora lei ha parlato dell’astrazione. L’astrazione com­porta che c’è un itinerario verso la qualità. Se la frustrazione indica che l’oggetto non è prendibile, come trovare la soddisfazione se l’oggetto non è prendibile? Allora, dal­l’oggetto verso la qualità, ma attraverso un processo di astrazione.

R.C. Esatto.

L.P. È questa la via, dal sembiante alla cifra.

R.C. Esatto. La questione qual è? In che modo talvolta viene ostacolato, impedito questo processo? Finalizzando l’atto alla soddisfazione, cioè situando la soddisfa­zione dove crediamo che sia, in termini drogologici. “Fai questo, fai così, fai colà, fai quello”, “Fai così, che è per il tuo bene”, “Fai così, perché così va bene”. Tutta una serie di prescrizioni finalizzanti e, molto spesso, distoglienti, perché fina­lizzano a una soddisfazione presunta. Già questo è una sorta di prescri­zione sostanzialista, come se si dovesse abolire il dispendio, come dovesse essere eco­nomizzato: “Il maggior risultato con il mi­nimo sforzo”. Ecco, la psicosi è assicurata. Prescrivere a qualcuno l’ideologia del maggior risultato col minimo sforzo, è assolutamente letale, vuole dire togliere il dispendio, togliere la base stessa della soddisfazione, togliere la ricerca, togliere la particolarità dell’itinerario, dello svol­gimento. Senza dispendio, non c’è nem­meno godimento. Tutto deve essere ri­sparmiato, tutto nel piccolo, nel poco. Questo è già un incanalamento verso una forma di quel fantasma che dicevamo prima, di economia del tempo, della soddisfazione, della ricerca, dello sforzo, cioè del risparmio più che dell’economia.

M.B. Questa è una teoria economica, la si potrebbe lasciare nell’economia e non nella vita. Voglio dire, la teoria che ha enunciato lei è una teoria economica, keynesiana. Allora dico, è lecito? è giusto? lo possiamo fare di portarlo nella vita o lo possiamo lasciare nell’economia?

R.C. È già nella vita se è nell’economia. Diceva Jacques Lacan una cosa molto semplice: “Il motto che spesso si sente fare ‘O la borsa o la vita’, è solo apparen­temente un’antinomia, una possibilità di scelta. Se togli la vita, che te ne fai della borsa? E se togli la borsa, che te ne fai della vita?”, nel senso che fanno parte en­trambi della vita. L’economia è nella vita.

M.B. Ma non è l’unica sostanza della vita.

R.C. Certo, ma c’è un’integrazione delle cose, non è che si possa adottare una logica in un pezzetto, poi in un altro pezzetto un’altra logica. C’è un’integrazione. Le cose avvengono per integrazione.

Pubblico La borsa e altro.

R.C. È la questione dell’integrità delle cose. Le cose sono integre, non sono ma­late, non sono da salvare. C’è l’inte­grazione, la chiarezza, l’integrità.

S.B. Ha detto qualcosa su come evitare d’impedire il processo di astrazione, ma come favorirlo?

R.C. Lo stiamo dicendo. Prima di pensare a come favorirlo per i bambini…

S.B. Come promuoverlo, dico.

R.C. Bisogna prima accorgersi di qual­cosa, bisogna prima avere inteso qualcosa, situarsi nella logica della parola, altrimenti si favorirà l’impedimento.

S.B. Ma, dato per scontato che…

R.C. No, non diamo per scontato nulla!

S.B. Ammettiamo…

R.C. Stiamo propriamente parlando dei modi per favorire e, tenendo conto di que­ste cose, sicuramente il modo dell’inter­vento già è un altro. Non è che si possa prescrivere come. Non c’è né prescrizione positiva né prescrizione negativa, perché si tratta di attuare qualcosa che sta nella parola, e non è che possiamo trasfor­mare la parola in una disciplina.

S.B. Però abbiamo detto che nei bambini la parola non è ancora…

R.C. Abbiamo detto “il processo lingui­stico”.

S.B. Il processo linguistico non è an­cora…

R.C. Certo. Questo, comunque, è solo un pretesto per capire qualcosa che riguarda anche l’adulto, in cui non sempre il pro­cesso linguistico è articolato nei termini della parola ma, molto spesso, si attua in­vece in termini dicotomici.

Ho visto una mano là in fondo.

Alessio Menegazzo È la mia. A proposito dell’aggressività, mi sembra che Freud, non so in quale testo, parli di […]. Adesso non so se sia in un caso clinico che lui ha seguito. Mi pare parli di un uomo che, dopo avere avuto una relazione con una donna, insomma, dopo questo episodio, è diventato aggressivo proprio per questo motivo.

R.C. Questo introduce a un aspetto del­l’aggressività o, meglio, dell’aggressione, a una caratteristica che è l’erotismo. Prima dicevamo carezza o schiaffo, due aspetti della stessa cosa. In entrambi i casi c’è un erotismo che riguarda l’oggetto e il tempo, cioè una sorta di fantasma di padronanza e di controllo sulla fonte, sulla meta, sull’oggetto del piacere. L’erotismo è questo.

Mi rendo conto che ci sarebbe da spendere qualche parola in più ma, come spesso accade, le questioni emergono in scadenza di tempo e di orario, per ciò è una que­stione che annoto e sicuramente la ripren­diamo la prossima volta. Mi pare, adesso, che la questione dell’ostilità forse risulta maggiormente svolta rispetto alla volta scorsa e consenta d’intendere che si tratta di […]. Il titolo L’educazione senza ostilità, è un invito al ragionamento. Caso per caso, si tratta di intendere quel che accade, non di partire dalla presunzione di sapere, ma di dotarsi di umiltà, generosità e intelligenza nella pratica di ciascun giorno che riguarda l’educazione, l’insegnamento e l’educazione.

Qui avevo alcune altre note intorno all’affrontamento, alla rivalità, alla gelosia e all’invidia che eventualmente riprendiamo la volta prossima, vedremo anche la questione stessa della paura, in che modo si combina con questo.

Ecco, per oggi terminiamo qui. Le cose che ciascuno ritiene che esigano un’ulteriore precisazione può annotarle, durante la settimana ci riflette, ci scrive qualcosa e così la volta prossima possono venire formulate delle ulte­riori richieste, domande, annotazioni.

 


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