Primo capitolo del libro L’educazione e la direzione
L’educazione, l’ambiente, la civiltà
Ruggero Chinaglia Buonasera. Lei come si chiama?
Anna Borgato Mi chiamo Anna Borgato.
R.C. È la prima volta che viene a un corso di aggiornamento dell’associazione?
A.B. Sì. Volevo sapere cosa vuole dire cifrematica.
R.C. Lei dove lavora?
A.B. Lavoro in una scuola materna di Piove di Sacco. Spero che questo corso serva per la scuola materna.
R.C. Speriamo di sì. Lei lancia una bella sfida.
A.B. Nel senso che io lo faccio come corso di aggiornamento, per cui spero che serva nella mia professione.
R.C. La sua professione qual è?
A.B. Insegnante di scuola materna.
R.C. Qual è il suo compito?
A.B. Il mio compito è di educare i bambini.
R.C. C’è insegnamento e educazione. Come lo trova questo compito?
A.B. Molto difficile e impegnativo.
R.C. Anche lei lavora a Piove di Sacco?
Pubblico Sì, qui siamo in tre da quella scuola.
R.C. Lei, come si chiama?
Luigina Giraldo Luigina.
R.C. Luigina il nome. E il cognome?
L.G. Guardi che non sono io quella che deve fare il corso, penso che sia lei quello che deve parlare. È meglio che dica il suo nome e chi è lei. A quanto pare, sembra che siamo qua per parlare del nostro lavoro e non di quello che deve fare lei.
R.C. Perché no?
L.G. Eh no, scusi, noi siamo qua per conoscere qualcosa del progetto, non solo quello che facciamo. Noi lo sappiamo quello che facciamo.
R.C. Non diamo per scontato che sappiamo tutto, perché talvolta facciamo delle cose, ma non sappiamo bene cosa e perché le facciamo, anche se le facciamo ciascun giorno. Apparentemente sappiamo, ma in realtà sappiamo qualcosa, non tutto e non proprio bene.
L.G. Il suo nome qual è?
R.C. Ruggero Chinaglia. Quindi, anche lei è la prima volta che interviene. Mentre, vicino a lei, sempre da Piove di Sacco, chi c’è?
Maria Odorizzi Maria Odorizzi.
R.C. La scuola in cui voi insegnate è la stessa? Bene. Lei, si chiama?
Ugo Riso Mi chiamo Ugo Riso. Insegno in una scuola per periti elettronici.
R.C. In un istituto tecnico?
U.R. Sì.
R.C. È una scuola superiore.
U.R. Sì.
R.C. La scuola dov’è?
U.R. Io lavoro all’I.T.I.S. di Mirano.
R.C. Mirano. In provincia di Venezia.
U.R. Sì.
R.C. Noi invece ci siamo già visti.
Roberto Canestrale Due volte.
R.C. Ben due volte! E lei?
Marzia Banci Marzia Banci.
R.C. Lei insegna?
M.B. All’istituto d’arte.
R.C. Istituto d’arte, ossia il “Selvatico”. Abbiamo tenuto un corso due anni fa al “Selvatico”: La scuola e il progetto di vita, un sabato e una domenica.
M.B. Io però non ho partecipato.
R.C. Infatti. Lei cosa insegna all’istituto d’arte?
M.B. Disegno, oreficeria, nella sezione di oreficeria.
R.C. Bene. Dietro, dicevamo che c’è?
R.Ca. Canestrale Roberto.
R.C. Dietro a Canestrale?
William Gasparini William Gasparini. […].
R.C. Perfetto. Va bene. Maria Teresa Renucci, che viene dalla scuola materna “Santi Angeli”. Avevamo già avuto l’anno scorso alcune insegnanti da quella scuola.
Lei come si chiama?
Anna Scarsi Anna Scarsi.
R.C. È lei che ha fatto la promozione?
A.S. Diciamo di sì. L’ho fatta per la scuola comunque.
R.C. Bene. Perfetto. Ci sono varie provenienze e varie questioni.
Allora, in questo corso si tratta di una testimonianza, soprattutto delle acquisizioni, degli elementi, delle indicazioni che provengono dalla pratica e dall’esperienza psicanalitica, in particolare dalla pratica dell’esperienza cifrematica, termine che indica la procedura, l’esperienza e la scienza della parola. Procedura nel senso della logica, esperienza nel senso di ciò che si produce e si effettua, scienza nel senso della novità, del nuovo che si produce nell’esperienza stessa, quindi scienza non come riferimento da cui partire, non come codice, come bagaglio, ma come la presa che la parola incontra nell’attuale.
È un’accezione di scienza certamente non usuale, non riferibile al discorso scientifico che si appoggia su capisaldi ben definiti per la riproducibilità dell’esperimento. Qui si tratta di un’esperienza assolutamente non riproducibile come è ciascun atto di parola. In questo sta la sua difficoltà e la sua originarietà. In questo sta l’esigenza di formazione, di ricerca, di itinerario come itinerario intellettuale, in modo da acquisire quegli elementi che non possono venire, per così dire, insegnati o imparati per apprendimento.
È questa una caratteristica della pratica e dell’esperienza analitica, dove ciascuna questione esige di venire attraversata e non di conformarsi a uno schema per una applicazione generica o generale. Si può già qui intravedere un primo connotato della questione educazione e della direzione, che indicano l’impossibilità di potere esercitare un controllo, un dominio, una padronanza sulla parola, sui gesti, sugli atti, sui pensieri e sui modi con cui ciascuna cosa si fa e giunge a compimento. L’educazione e la direzione indicano che non c’è la possibilità di esercitare un controllo, un dominio e una padronanza sulle cose.
Da questo primo connotato dell’educazione si può cominciare a porre la questione dello statuto dell’educatore, dunque dello statuto dell’insegnante come chi, in prima istanza, ha da fare un itinerario intellettuale, ha da attraversare determinate problematiche, questioni e difficoltà per fornire, di volta in volta, caso per caso, le indicazioni che sono indispensabili all’itinerario di ciascuno, bambino, ragazzo, adolescente che sia. Per fornire queste indicazioni occorre che l’insegnante, l’educatore, si trovi alla punta delle questioni stesse, ossia che non le tratti come questioni generiche, banali o facili, come questioni di tutti.
Un dato che emerge dall’esperienza clinica e analitica è che non c’è chi sia tale, in particolare che sia tale per nascita, per censo, per predisposizione o per predestinazione. Mentre capita molte volte di sentire affermare, da parte di alcuni insegnanti, che un ragazzo sarebbe predisposto verso quella determinata materia, quella data scuola o tipo di corso di studi. Predisposto! Ora, l’idea della predisposizione da dove viene?
Giustamente, può accadere che, vivendo in una certa famiglia, in un certo contesto, facendo alcune cose, ci sia un orientamento, una direzione verso una cosa piuttosto che verso un’altra, che vi sia un’identificazione verso una determinata istanza piuttosto che un’altra, ma questo non comporta la predisposizione che è parente stretta della predestinazione. è molto impegnativo perciò, per un insegnante, nei vari momenti, nei vari gradi della scuola, potere assegnare un indirizzo, un orientamento a un ragazzo, magari per il solo fatto che va bene nella sua materia.
Capita spesso che, siccome un ragazzo con un insegnante lavora bene, ha dei buoni risultati, nelle sue note caratteristiche viene detto “È predisposto per…”, “Ha una predisposizione per…”, da cui si consiglia una certa scuola. Ma, molto spesso, poi quella scuola risulta fallimentare perché non c’era nessuna predisposizione.
Ciascuno funziona sulla base di un progetto e di un programma che il progetto esige. E l’educazione è proprio ciò che mette in discussione, mette in questione la credenza nella predisposizione! La predestinazione è la credenza che vi sia qualcosa di innato in qualcuno. Ma non c’è nulla di innato, perciò importa l’educazione. Se ci fosse l’innatismo l’educazione sarebbe inutile, assurda, perché tanto c’è già il carattere innato. Invece, è proprio perché non c’è che l’educazione è essenziale.
Cosa vuole dire educare? Educare a cosa? La sfida dell’educazione è educare alla qualità, e educare alla qualità comporta l’educazione come missione impossibile, come missione di cui non se ne sa mai abbastanza, come missione che non può appoggiarsi a uno schema o a un modello. In questo senso Freud, a suo modo e nel suo tempo, poneva l’educazione tra i tre mestieri impossibili: educare, governare e psicanalizzare. Impossibili nel senso che non procedono dalla possibilità, dalla facilità, da un’idea propria delle cose, perché ciò equivarrebbe a assicurarsi il fallimento. Educare alla qualità comporta una certa accezione di qualità.
Cosa vuole dire qualità, educare alla qualità? Non che qualcosa è meglio di un’altra! Qualità è un assoluto, nel senso che la qualità è ciò che risponde allo specifico di un caso, per cui esclude il possibilismo. La qualità, e in particolare l’esigenza della qualità che la parola ha, esigenza che sta nella logica stessa della parola, comporta un altro modo di ragionare, di fare, di pensare. Esclude il soggettivismo, intendendo per soggettivismo l’idea personale che io posso avere di qualcosa. L’approdo alla qualità non è un approdo facile, banale, scontato. Quale sia la qualità, non è dato sapere prima.
Qual è la qualità di una domanda, la qualità di un’istanza, la qualità di una ricerca? Non lo sappiamo se non al compimento. Non sappiamo prima dove si diriga la domanda, l’esigenza di un bambino, di un ragazzo, di un adolescente, di un adulto. Io ho modo di constatare innumerevoli volte che, per ciascuno, l’esigenza essenziale è propriamente la qualità. Mentre, dire che frequentemente ci sia modo, per chi avverte questa esigenza, di trovare dispositivi che orientino, indirizzino, favoriscano l’approdo alla qualità, questo no. Il più delle volte mi è capitato di constatare che, a fronte di un’esigenza di qualità, quello che viene proposto sono dispositivi conformisti, che propongono un’idea comune di bene, di bene dell’Altro e che, molto spesso, questa idea comune di bene non corrisponde affatto alla qualità, a un’esigenza di qualità, a ciò verso cui la domanda si rivolge. Perché è ciò che occorre considerare in modo attento: la domanda non si rivolge al bene, si rivolge alla qualità!
La domanda di ciascuno che si rivolge all’educatore, all’insegnante, al medico, ai genitori, a un amico, a un parente, per un’informazione, per un’indicazione, per un orientamento, non si rivolge al bene ma alla qualità. Novantanove volte su cento viene inteso che si rivolge al bene. Quindi, la risposta è in direzione del bene, del bene presunto. Bene per lo più inteso come bene comune, quello che normalmente viene ritenuto il bene e verso cui ci si orienta. Ecco, molto spesso così cominciano i guai, perché il bene non va senza il male!
L’orientamento verso il bene è, in realtà, un orientamento verso l’anfibologia, verso una duplice possibilità, possibilità di bene o di male. E lì comincia la paura: “Come posso fare? Perché posso fare bene, ma posso fare anche male”. Come mi può andare vuoi l’esame, l’interrogazione o qualunque prova che ciascuno ha dinanzi a sé? “Può andarmi bene o può andarmi male”! È questa la base della paura. Per cui quella che sembra un’educazione ben orientata come educazione al bene, diventa educazione alla paura.
Pubblico […].
R.C. Così presto! Pensavo di arrivarci verso la terza lezione, invece già subito.
L.G. […]. Per esempio, la maniera con cui ci si rivolge a un bambino, e un bambino nostro, che non ha ancora un’educazione. Quindi è una cosa molto importante. E per queste cose ci si chiede “faccio bene adesso?”.
Poi, c’è un’altra cosa difficile, cioè l’immediatezza nel rispondere e nel fare. È anche difficile.
R.C. Non è “anche difficile”, è difficile, è solo difficile, e occorre sia difficile! Chi pensasse che la cosa può diventare facile, è fregato. O ciascuno di noi parte dall’assoluta convinzione che si trova in un passo difficile, oppure è fregato, nel senso che la sua ricerca viene meno e intellettualmente è finito. Che messaggio può dare, allora? Un gesto, un atto, una parola, un intervento può dare un messaggio effettivo verso la qualità, solamente se parte dalla constatazione che mai può essere facile, mai deve essere banale e mai seguire una consuetudine.
L.G. Pensi anche a un tuo equilibrio.
R.C. Sì, ma l’equilibrio…
L.G. Personale intendo, della persona che si rivolge al bambino.
R.C. L’equilibrio non è una nozione statica, contrariamente a quello che può sembrare. La definizione scientifica di equilibrio dice che è uno stato di quiete. Nel nostro caso, quello che lei chiama equilibrio è la tranquillità da cui può venire un’indicazione, quindi non è uno stato di quiete, ma è un’attività intellettuale incessante, altrimenti lei farà un intervento assolutamente generico e il suo messaggio non sarà specifico, non terrà conto del caso particolare.
È facile che ciò accada, perché ci troviamo in un’epoca che va in questa direzione, un’epoca assolutamente conformista, televisiva, dove il messaggio è la facilità, l’immediatezza, il tutto e subito, da cui questo tipo di impostazione. È contro questa impostazione che occorre andare, perché l’educazione sta dove non c’è né il conformismo, né l’anticonformismo, perché sono la stessa cosa. Conformismo e anticonformismo sono due facce della stessa medaglia, due facce del letto di Procuste possiamo dire. Sapete quel tal Procuste?
C’era un tale, anticamente in Grecia, Procuste, che aveva una casa molto accogliente e ospitava i viandanti. A chi passava di là, lui diceva: “Prego, entrate!”, e i viandanti venivano fatti accomodare. Lui aveva un letto molto accogliente, un letto standard, e il viandante vi veniva fatto accomodare e vi veniva conformato: se era troppo lungo, veniva accorciato, se era troppo corto, veniva allungato quel che bastava per essere conforme alla misura del letto. Così diventava un uomo normale, perfetto, conforme ai caratteri e alle misure della vera normalità. È un educatore Procuste? No! È un conformatore!
Allora, c’è differenza fra l’educatore e il conformatore, nonché il conformista. In un caso è facile, un bel colpo di mannaia e la misura è fatta, oppure una stiracchiata e si arriva alla misura giusta. Nell’altro caso è molto più difficile, perché non si tratta di assestare nessun colpo, ma di seguire un itinerario che conduca alla qualità per via di intellettualità, non per via di ghigliottina o di allungamenti.
M.B. Ho sentito dire: “come io arrivo faccio lezione, cioè dico quello che so e l’altro mi ascolta”. A me pare che debba essere il contrario, voglio dire, l’educazione avviene se dagli studenti tu trai delle tracce e a queste ne dai seguito. Perché, se educare vuole dire arrivare, fare una lezione e andare via, allora di tutti gli insegnanti nessuno è educatore, perché avviene una comunicazione generale, soggettiva e oggettiva, che diventa così generale che tutte le scuole sono diseducative. Perché educare vuole dire recepire ciò che la classe, questo specifico che stava dicendo lei un po’ prima, una classe di venti persone, li conosco, so come sono, quindi do il sette, ripasso il compito, cioè una maniera diversa da come viene intesa l’educazione che l’insegnante comunica, interroga a seconda […].
Qui dico educazione – quanto meno andrebbe un attimo sgrezzato questo significato – che non è Tizio o Caio che fa lezione. Io faccio così.
R.C. Bravissima. L’alimento dell’educazione viene chiaramente da ciò che si produce nel dispositivo. L’insegnante che si limita a trasmettere i dati certamente non assolve alla sua missione, soprattutto in un periodo come l’attuale dove le possibilità di acquisire informazioni e dati sono moltissime anche fuori dalla scuola: televisioni, giornali, riviste, computers, CD-ROM, documentari. Lo specifico della scuola non è nella trasmissione dei dati, ma è propriamente nell’instaurare un metodo, un criterio, un modo con cui i dati possono venire impiegati.
Ho constatato che ci sono ragazzi che arrivano al liceo e non hanno ancora acquisito un modo per lo studio, un modo per prepararsi all’incontro con l’insegnante nel momento in cui ci sia una verifica o un’interrogazione. Arrivano al liceo e non c’è l’educazione all’incontro che viene inteso come momento traumatico per via della verifica – quelle che adesso vengono chiamate verifiche, neanche più interrogazioni – o di un compito, e non vanno al di là del momento successivo all’incontro.
L.G. Se guardiamo bene, i bambini sono già inquadrati e hanno bisogno di essere stimolati. Ci sono bambini di tre anni, ma anche di cinque, sei, sette anni che ormai sono così inquadrati in quella determinata maniera che vedono solo quella.
M.O. Però noi, come insegnanti, e qua siamo quasi tutti insegnanti, accogliamo degli esseri diversi da noi in seconda istanza, cioè sono già frutto di una famiglia e di un’educazione familiare. Fino a che punto noi possiamo intrometterci? Noi abbiamo la nostra idea, come si diceva prima, di bene e di qualità, rivolta in bene e in qualità. Naturalmente la famiglia, il più delle volte, ha una sua idea di qualità o di bene. Noi ci inseriamo, a volte ci intromettiamo anche con forza, imponendo un pochino quella che è la nostra ideologia, la nostra idea di bene su quel bambino. Fino a che punto questo può essere giusto? Mi è venuto in mente questo ora, ma è da tanto che mi pongo questa domanda. Come possiamo noi sapere già? Noi tendiamo a una qualità, va bene, però, se si scontra con la qualità presupposta della famiglia, cosa si fa?
M.O. La seconda agenzia educativa, non sei la prima.
R.C. E neanche l’unica!
M.O. E neanche l’unica, però siamo quelli che si giostrano di più.
R.C. […]. Conforme a un’ideologia o in opposizione a un’ideologia, ma dare un contributo che vada in direzione della qualità, di un messaggio in quella direzione, perché non c’è chi sia imbecille, cioè non in grado di valutare. Se non ha elementi, su che cosa può valutare? È importante che ci siano dati, elementi, quantità, perché senza quantità non c’è nemmeno la qualità. La qualità è un caso particolare della quantità, ma senza quantità che qualità può esserci? La qualità ideale, ma allora c’è il codice, c’è l’ideologia. Bisogna pur ammettere che vi sia la quantità, senza la quantità precludiamo anche la qualità.
Non credo, perciò, che quello di far sì che qualcosa si aggiunga sia il problema, anzi. La questione dell’educazione è proprio che vi sia aggiunta. non si tratta mai di togliere, sempre di aggiungere, di aggiungere qualcosa a ciò che c’è già. Togliere può essere problematico, perché qualcosa viene tolto come riferimento al male, come riferimento a qualcosa da evitare, e quindi introduce la paura. Aggiungere, invece, non compromette nulla, anzi dà una chance in più.
Quante volte si sente dire “Ah, mi raccomando non stancarti, non affaticarti, non fare troppe cose perché potresti esaurirti”? Terribile! E ciò temendo che possa capitare effettivamente che x si esaurisca, si affatichi. Ma non c’è modo che si produca stanchezza intellettuale. L’intelletto è qualcosa che non può stancarsi. La stanchezza è una pena assegnata da una credenza nel male che diventa malattia, stanchezza mentale. La mentalità è già una stanchezza, quello sì.
Ecco, si tratta per ciascuno di fare in modo che ciascuna cosa entri nel processo di qualifica, si tratta di non impedirlo mai. L’insegnante, a un certo punto, si scopre a chiedere “Faccio bene?”. Invece di chiedersi “Faccio bene o faccio male?”, l’insegnante si deve chiedere “Quello che faccio adesso, impedisce qualcosa? È nella direzione della qualificazione o di un contenimento? È in direzione dell’aggiunta o del toglimento?”.
Questa è già una valutazione intorno a ciò che sta facendo, intorno alla posizione in cui si trova, se è di promozione o di contenimento, se è posizione di identificazione o di maternage.
Pubblico Di?
R.C. Maternage, di protezionismo, di protezione. Perché chi si sente proteggere ha subito modo di pensarsi debole, o incapace, o malato e si adegua subito. Subito! Si adegua immediatamente. Il bambino che si sente proteggere, ma anche l’adolescente, l’adulto, c’è sempre modo di trovare qualcuno di materno. Sempre.
M.B. Scusi, ma lo pensa anche chi lo fa, anche chi lo protegge lo sente inferiore, incapace, altrimenti non lo proteggerebbe.
R.C. Può darsi.
M.B. Io penso senz’altro.
R.C. A maggior ragione, quindi, no?
M.B. È quel fin di bene che fa male.
R.C. È quel bene mortale “Per il suo bene”, “Poverino, da solo non ce la fa, bisogna proteggerlo”, “Poverino”. È già una pugnalata quel poverino, uno è stroncato completamente. Tre pugnalate, già se sopravvive è bravo, bisogna proprio riconoscerlo. “Poverino di qua, poverino là, attento lì, attento là”. E quindi quello dice “Ma allora io sono proprio cretino!”. Il messaggio viene tra le righe, tra le pieghe, non è qualcosa che procede così esplicitamente. Magari esplicitamente uno dice una cosa, ma ovviamente il messaggio è un altro.
Cecilia Maurantonio Quando lei diceva aggiungere…
R.C. Aggiungere. Cosa vuole dire aggiungere?
C.M. Bisognerebbe intendere cosa vuole dire promuovere.
R.C. Aggiungere, anche.
C.M. […] Se io dico una cosa differente da quella…
R.C. Benissimo, è una cosa differente da quella detta nel passato.
C.M. L’alunno, il ragazzo […] si fa confusione.
R.C. Ma quale confusione? Farà una valutazione! Quale confusione. Altrimenti uno deve sentire solo la stessa cosa? Allora diventa proprio un cretino!
C.M. Lei ha detto “Farà una valutazione”. Probabilmente questo enunciato “Si fa confusione” è già un pregiudizio sull’intelligenza.
R.C. È già un indice di dove si situa quell’insegnante.
C.M. Anche rispetto alla questione dell’età, cioè l’età diviene misura dell’intelligenza.
R.C. Misura dell’intelligenza, certo.
Lucio Panizzo Lei, prima aveva detto che la paura deriva da un orientamento anfibologico, […] quindi una questione duale che introduce la paura. Però, spesso viene chiamata nello stesso modo anche la paura per una cosa difficile da fare. Invece, probabilmente è un termine che non si addice verso la difficoltà o verso l’itinerario. E spesso, però, viene scambiata…
R.C. Certo. Giustissimo. Questo è molto importante.
L.P. Nel senso che non è anfibologico. “Questa cosa è difficile”. Uno dice “Madonna, è difficile, allora non la affronto”, ma non è paura questa?
R.C. Certo, è protezionismo, può chiamarlo maternage, maternaggio. L’idea che occorre porre al riparo il figlio, l’alunno, il bambino, l’adolescente, questo x che ha una difficoltà, induce l’idea che la difficoltà sia qualcosa di negativo, che la difficoltà sia un segno del male. “Poverino! Fa così fatica! È così difficile per lui! Non è per lui! Quella cosa non è per lui, perché è troppo impegnativa, gli risulta difficile, troppo difficile!”. Allora, questo “poverino” dice “Caspita, se io trovo una cosa difficile, vuole dire che qualcuno che me l’ha messa tra i piedi, e non dovrebbe”. Da cui l’idea che se c’è una difficoltà è opera di qualcuno, è un segno o del destino avverso o della malevolenza di qualcuno, per prima cosa. Poi, che non dovrebbe esserci nessuna difficoltà e, quindi, se incontro la difficoltà, me la devo prendere con qualcuno, perché è colpa dei genitori, dell’insegnante, della società o di chissà che cosa, ma c’è comunque un referente negativo con cui prendersela e che è la fonte della recriminazione e della rivendicazione. Inoltre, a fronte della difficoltà, chi vi s’imbatte non si appresta per affrontarla. Non si appresta perché è una cosa ingiusta, perché non dovrebbe esserci e perché è troppo debole. Così, prende avvio tutta una mitologia del negativo o una mitologia negativa della difficoltà, che viene etichettata in vario modo: come male, come malattia, come incapacità, come forma soggettiva di male.
M.B. Bisognerebbe che i professori di matematica facessero una lezione più specifica per dire questo, perché ogni problema porta in sé la soluzione, senza cercare la soluzione di quel problema in un altro problema. Se devo trovare la soluzione della mamma che ha dieci uova, ne rompe due per strada, non posso calcolare l’area del rombo; così nella vita. Voglio dire, se si dicesse ai ragazzi che ogni volta che incontrano un problema e l’analizzano, lì dentro c’è sicuramente la soluzione, allora la soluzione non è nella droga, perché quello è un altro problema. Non posso risolvere il problema delle due uova rotte andandolo a cercare dentro il problema dell’area del rombo. Questa è una cosa semplicissima che si può applicare tutti i giorni nella vita. È estremamente semplice, è pratica, è adesso e subito, invece di pensare che i problemi siano solo problemi. I problemi portano la soluzione in se stessi. Quindi, questo andrebbe meglio specificato al ragazzo di tutte le età. Questo è l’inizio e la fine della problematicità, altrimenti si cerca altrove la soluzione di quella cosa. Credo di essere stata abbastanza chiara.
R.C. Addirittura, noi possiamo spingerci più avanti, nel senso che non è affatto scontato che, posto un problema, ci sia la soluzione. Non va da sé.
M.B. Per sé no, ma la soluzione c’è sempre. Anche la soluzione della vita, che è quella data dall’aborto. È quello il progetto, è l’ultimo atto del progetto.
R.C. Ecco, allora lei ha posto una questione precisa, la questione logica. Presupporre la soluzione è un modo per ribadire la soluzione finale. Noi abbiamo avuto un esempio del progetto della soluzione finale. Abbiamo avuto un esempio nel Novecento di ciò che veniva chiamata la “soluzione finale”. Ha presente Hitler e l’Olocausto? È proprio questa la questione. Lei stessa lo dice “In vista di un progetto la cui soluzione finale è la morte”!
M.B. Però non volevo essere così drammatica! Forse non mi sono bene espressa.
R.C. No, si è espressa benissimo! La questione dell’educazione è proprio di non produrre soggetti predestinati alla morte, perché questo è un altro alimento della paura. Ora, se il messaggio è che ogni cosa ha la soluzione perché la vita ha la sua soluzione nella morte, occorre elaborare un po’ il messaggio.
M.B. Sì, comunque, non arrivavo a questo.
R.C. No, però ne è la conseguenza estrema, che è quella che ci interessa perché le conseguenze intermedie sono solo rappresentazioni di quella estrema, e la paura viene da quella estrema, che trova alimento in ciascuna di quelle intermedie, perché rimandano a quella. Per cui le occasioni di paura si moltiplicano.
Il riferimento è sempre il riferimento alla morte. Tra l’altro, l’ideologia della soluzione porta anche allo psicofarmaco come facile soluzione al disagio. Da dove viene il fatto che per i giovani è così facile andare verso la droga o verso lo psicofarmaco? Viene dal fatto che ci dev’essere una soluzione, e dato che io non so, non posso, non sono in grado di trovarla, allora viene dalla sostanza, che ci deve essere. Forse così è detto in modo rapido, frettoloso, però è un’altra questione importante con cui si tratta di fare il conto. Perché, dire che c’è la soluzione è dire qualcosa che noi, in realtà, non sappiamo. Assegnare la soluzione preventivamente, è assegnare la morte, l’unica soluzione di cui l’uomo presume di avere certezza, di cui cerca la conoscenza per farne l’economia.
M.B. Questo vuole dire che ha temuto di fare tutto quello che c’era da fare intorno […], la metto così la parola. Io faccio il progetto di una casa, il progetto si compie quando io ho disegnato l’ultimo elemento, è finita, cioè il progetto vuole dire fine. Tutto quello che c’è prima sono altri passaggi, per cui il progetto in sé contiene la parola fine.
R.C. No.
M.B. Ho compiuto, nel senso che ho compiuto quello di cui stiamo trattando, l’ho portato a termine.
R.C. Bisogna distinguere tra il compimento e la fine.
M.B. Allora volevo dire, appunto, che fine non è sempre in questo concetto di morte. La mia vita, avrò finito il mio progetto di vita nel giorno in cui morirò, perché avrò prima tutti questi altri intervalli di vita che mi faranno […]. Però, nella vita, inizio e finisco molte altre cose, voglio dire. Non è che faccio tutto contemporaneamente. I problemi e le soluzioni li intendevo interni a questi intervalli. Tante volte, nella vita come nelle cose, gli intervalli vengono un po’ lasciati così e poi, invece, gli intervalli sono anni. È come quando si mette il seme e si pensa al frutto; ma prima che nasca la pianta, prima che arrivi il frutto, è un tempo così lungo che l’intervallo diventa un elemento importante.
La soluzione di cui io parlo […], dico che in ogni cosa che si affronta la soluzione c’è, nel senso di portare a compimento la cosa che io tratto, senza fuoriuscire da questo e andare a pensare a un altro tema, pensando di portare a termine quello che stavo trattando, ecco, queste continue fuoriuscite. La questione che lei ha aperto, quella della droga per i ragazzi, non è la soluzione della loro carenza affettiva, è una panacea. Si appoggiano a questo, ma non è la soluzione. È per questo che è negativa. Se fosse la soluzione… È per quello che io dissento da questo, ma adesso non so nemmeno quello che voglio dire io.
Il fatto di portare a una fine, non vuole dire che quella era la soluzione. La soluzione vuole dire portare a compimento il progetto per il quale io mi ero predisposto o stavo facendo. Non so, adesso non ho un linguaggio così raffinato. Allora, a fronte di questo, uso la parola “C’è sempre la soluzione al problema”, però la soluzione dev’essere di quel problema. Quando io ne antepongo o ne pospongo un’altra, facendola passare per soluzione ma non lo è, per esempio la droga per i ragazzi, quella non la posso chiamare soluzione, oppure lo psicofarmaco non è la soluzione […].
R.C. Chiamiamola tensione. Della tensione non c’è conoscenza linguistica, c’è tensione, cioè tensione verso la qualità, tendenza verso la qualità, verso la precisione. Questa è la tensione linguistica: tendenza verso la precisione, verso la qualità. La qualità è questa precisione, perché si specifica il quale, quale cosa, qual è. Fra tante, qual è quella che soddisfa questo caso? Ce n’è una, mica tante, una, unicum, la cifra di quel caso. Questa è la tensione linguistica verso la precisione. Non c’entra niente la conoscenza, anzi, la conoscenza toglie; se ci fosse, la conoscenza toglierebbe la tensione linguistica. Invece, la tensione linguistica c’è per via di ricerca, per questa spinta verso la precisione.
Di ciò occorre tenere conto nell’insegnamento, nella comunicazione, nell’interlocuzione, in ciascun caso, perché non è irrilevante e indifferente rispetto al conseguimento della precisione stessa per chi parla e per chi ode. Lei dice giustamente “La droga non è una soluzione positiva”. Certo, è una soluzione negativa. Ma è soluzione comunque! Rientra nell’idea della soluzione, nell’alternativa della soluzione: può essere buona o cattiva. Siamo già presi nella soluzione e, poi, questa soluzione può essere buona o può essere cattiva. Ma è comunque cattiva, perché non è più precisione se è presa nell’anfibologia del buono e del cattivo. È già in deroga alla precisione. La precisione resterà, per così dire, dietro questa anfibologia e risulterà impedita dall’idea di bene o di male: bene che devo conseguire o male che devo evitare, per cui, anziché rivolgermi al processo di qualificazione, mi impegnerò molto nel processo di evitamento, a scapito del conseguimento della qualità, a scapito del mio itinerario e della ricerca, a scapito dell’efficacia. A scapito!
Allora, non sappiamo nulla della soluzione, non sappiamo nemmeno se c’è. Abbiamo un problema, per cui possiamo solo dire che occorre affrontarlo e per affrontarlo bisogna attrezzarsi. Questa attrezzatura va cercata e trovata, perché non è innata, né viene fornita gratuitamente da un ente sovrannaturale. È un’attrezzatura logica. Ciascuno deve munirsi dei mezzi e degli strumenti che ci sono. Ovviamente ci sono, ma ciò esige uno sforzo, lo sforzo intellettuale. Occorre che si instaurino quei dispositivi per cui lo sforzo giunga all’approdo, al compimento, che non è la morte, non è la fine; è compimento!
Poi, accanto a quel problema se ne troverà un altro, sorgeranno altri dispositivi e il progetto prosegue. Perché non possiamo partire dall’idea che il progetto è finito e che un giorno arriverà la morte e il progetto sarà terminato. Ci siamo già assegnati la paralisi, la paura, la paura di questo momento. È questo il dramma. La drammatizzazione, che viene introdotta in varie circostanze, parte da lì. Se noi siamo soggetti a quest’idea, non c’è più la spinta, non c’è più il fare.
M.B. La paura conosce la soluzione, per questo, avendo paura della soluzione, non ci si muove per cercarla a sua volta.
R.C. Presumendo la certezza della soluzione, presume pure la necessità di avere paura del cerchio, del cerchio della morte. Per ciò, siamo propriamente nel nucleo della questione.
M.B. Mentre lei dice “La paura toglie la tensione”, perché estingue…
R.C. Perché è come se avesse già trovato.
M.B. Chi cerca trova.
R.C. Ma trova l’ipostasi, cioè trova la conferma. Trova la conferma dell’ipostasi, cioè trova sempre il cerchio.
C.M. L’alternativa di bene o male […], c’è una procedura differente che può incontrarsi, per cui anche…
R.C. Sì, perché, a un certo punto, la necessità di soluzione può configurarsi come necessità di salvezza, salvezza dal male e dalla morte.
C.M. Se adesso può dire ciò è perché c’è una procedura per cui è possibile constatare dove si svolge in termini di negazione di ciò che non va, e promettendosi d’incontrare il positivo, ma c’è una procedura dove immediatamente… Non si possono escludere le cose non necessarie.
R.C. Già dire così, siamo nella gnosi.
C.M. Dire che la credenza non è necessaria è gnostico?
R.C. Analizziamo questo detto “Non possiamo escludere le cose non necessarie”. Non c’è niente di non necessario. Quali sono le cose non necessarie?
C.M. Non possiamo escludere?
R.C. Le cose non necessarie. Dice “Non possiamo escludere le cose non necessarie”. Lei non sa quali sono le cose non necessarie, fa come se lo sapesse, come se ci fosse la necessità di escludere le cose non necessarie. Ma che cosa non è necessario? Cosa non è necessario al suo dispositivo, al dispositivo di qualità? Talvolta, accade vi sia chi presume di sapere quello che può servire o che non può servire, e assegna “Questo ti serve e questo non ti serve” sulla base di un’idea di comportamento e non della tensione linguistica.
Alessio Menegazzo Se non è necessario, non c’è bisogno di escluderlo.
R.C. Precisissimo, infatti. È proprio di una semplicità assoluta. È così, in effetti: se non sono necessarie, non bisogna escluderle. Ovviamente, ogni esclusione toglie qualcosa di necessario. Ogni esclusione che viene attuata al fine di evitare qualcosa toglie qualcosa che è necessario. Perché quel che non è necessario non entra nel dispositivo, perché non è necessario, giustamente. Ci sono altre domande? Lei aveva una mano alzata prima.
Marina Nives Pojani No, un dito alzato.
R.C. Un dito alzato, ecco, mi pareva infatti.
M.N.P. A proposito della soluzione. La signorina diceva che la soluzione sta […], però, che differenza c’è tra soluzione e assoluzione?
R.C. Sta facendo confusione.
M.N.P. Pare proprio di sì.
R.C. Quindi vorrebbe una mano, un aiuto? Vediamo di dargliela. Vediamo se ci sono altre cose. Lei, prego, stava dicendo?
L.G. Facciamo osservazioni su di lei. Glielo dirò dopo.
R.C. Io non lo voglio sapere in privato.
L.G. E allora va bene, non gliela dirò mai! Cioè, è un’osservazione che stavo facendo, ma non è una cosa che volevo dire in pubblico.
R.C. Non è ancora elaborata. Lasciamo che lei la elabori in uno statuto di qualità, per cui lei non deve rammaricarsi […] di definirla la lingua dei litiganti, che è la lingua del rumore, del gergo, del luogo comune, lingua senza tensione. Mai! Mai può farlo lo psicanalista e mai dovrebbe farlo l’insegnante. È una questione intellettuale. Dirò di più, mai dovrebbe farlo ciascuno, ciascuno che non debba poi rammaricarsi di sé e quindi fare scontare a altri questo rammarico. Ma è così che capita. Il proprio rammarico ognuno lo fa scontare al suo vicino, con le recriminazioni, le rivendicazioni, i pettegolezzi e via discorrendo. Ma non è il suo caso, dico in generale.
L.G. […] e invece ci vuole l’autocontrollo.
R.C. No, ci vuole la tensione linguistica, cioè l’istanza della cifra, l’istanza della qualità, perché non si tratta di scagliare cose belle o brutte addosso a nessuno. Per la propria soddisfazione si tratta di giungere lungo la tensione linguistica al piacere di vivere. Non qualunque cosa dà piacere dicendola. Il piacere sta proprio alla punta della qualità. Ci sono insegnanti che talvolta dicono “Domani ho quattro, cinque ore di lezione. Mamma mia che dramma, che noia, che patema, che schifo”. Viene da chiedersi che cosa dicono, qual è la loro ricerca, la loro tensione.
M.G. È in aiuto a se stesso chi dice così. Si dichiara.
R.C. Certo. Non è l’insegnamento che è noioso, è il modo con cui viene fatto. Ma è attorno al modo che si tratta di fare un lavoro.
Mi pare che ci fosse la mano alzata della nostra amica. Ci può dire il suo nome?
Anna Scarsi Mi chiamo Anna Scarsi. Nulla è innato, ha detto, in ciascuna persona. Però, da ciò che ho studiato, è stato detto che ogni persona porta appresso un bagaglio. Faccio l’esempio di Mozart. Mozart a cinque anni sapeva già suonare, cioè sapeva già suonare il pianoforte. Allora io dico, in questo caso, non è valida questa affermazione o si riferisce solo nell’ambito dell’educazione? Perché anche nell’ambito dell’educazione posso azzeccare, cioè ci sono delle maestre che sanno educare bene e ci sono quelle che non sanno educare bene, se vogliamo, prendiamo un po’ la massa del nostro campo. Allora non è, secondo me, molto esatto questo, perché ogni persona ha delle qualità che gli sono state tramandate, o no? Quindi, non è solo una questione di educazione. A cinque anni un bambino può uscire spontaneamente con delle qualità e ti accorgi che le ha. Non solo quelle del disegno, o del sapere esprimersi, o del sapere collaborare, oppure tanti altri atteggiamenti o capacità che possono… È difficile, un po’ l’ambiente, però non solo l’ambiente, sicuramente c’è qualcosa di innato. Se ci sono stati i geni nell’ambito della musica, oppure con Leonardo Da Vinci, perché non dev’esserci anche nell’ambito dell’educazione e in qualsiasi esperienza che uno possa fare? Per esempio, c’è chi si trova a scrivere perché si sente di scrivere, e magari lo fa in maniera molto distinta e geniale. In ogni campo c’è il suo genio.
R.C. Quindi si tratta di…
A.S. Capire, soprattutto.
R.C. Non impedire ciò che può compiersi!
A.S. Se Mozart l’avessero limitato, supponiamo, avrebbe continuato a farlo o no?
R.C. Se, per esempio, i familiari gli avessero detto: “Non devi suonare, perché sei troppo piccolo”.
A.S. È venuto fuori spontaneamente questo.
R.C. Una cosa è quella di non svilirlo ma di favorirlo, di favorire lì dove si presentano in modo evidente…
A.S. Allora è innato questo.
R.C. Non è innato, è qualcosa che si produce. Cosa vuole dire che è innato? Non ce l’ha dentro. È qualcosa che si sta producendo.
L.G. È sempre un qualcosa che si produce. Per esempio, c’è il bambino, il ragazzo che preferisce la pittura. Nel senso che quella è una cosa che lui sente di averla.
R.C. Senza la produzione, questa qualità innata o non innata, non ci interessa. Innata o non innata ci interessa la produzione, che la produzione abbia modo di farsi. Questo importa. Che interesse ha dire “Potenzialmente un genio”?
A.S. […] è stato insegnato così.
R.C. Potenzialmente? Praticamente! Cioè la produzione. Occorre vi sia la produzione, occorre vi sia provocazione, la promozione della produzione, orientamento verso la produzione, quella produzione in direzione della quale anche il progetto, come progetto di vita, spinge.
L.G. A questo punto, allora è giusto il mio modo di fare, è bene fargli fare diverse esperienze. Per esempio, c’è un bambino a cui noi proponiamo questo e lui non lo vuole fare.
R.C. La questione è semplice: il disegno è un’occorrenza? È qualcosa di essenziale senza cui qualcosa non può accadere?
L.G. Delle volte può capitare, però non è che sia necessario.
R.C. La questione è nel modo con cui qualcosa viene proposto. “Vuoi o non vuoi?” è già il modo dell’anfibologia, lascia aperta ogni sorta di rappresentazione intorno alla possibilità. La questione è: occorre o non occorre? Qual è il modo con cui lei propone la cosa? Il modo della necessità pragmatica o il modo del possibilismo?
Ecco allora che, nell’ambito del possibilismo, questo bambino le rende pan per focaccia, cioè le dice che non c’è identificazione verso il possibilismo, che non è per possibilità che lui farà qualcosa nella vita. Se non lo fa lì, non lo farà neanche un domani. Non è secondo la possibilità, per cui rifiuta, rifiuta la modalità del possibilismo. Peraltro, se non viene educato a altro, si attesterà sul possibilismo, in particolare magari su quello negativo. Ecco, non bisogna affidare alla speranza questo. Occorre vi sia un orientamento.
Anche capire perché, certamente; ma prima di capire perché il bambino risponde in quel modo, bisogna interrogarsi sul modo in cui è stata proposta la cosa. Perché un affare si concluda bisogna che ci sia soddisfazione di chi compra e di chi vende, sennò non si concluderà mai, giusto? La stessa cosa per quel bambino. È anche nel modo con cui viene proposto l’affare, in questo caso il disegno, che stabilisce se può esserci soddisfazione o no. Anche questo dev’essere a porre la questione. Non è detto che non lo voglia fare per partito preso, ma proprio per il modo con cui viene proposto. Questo bambino è piccolino?
L.G. Io non parlo di questo, ma del rifiuto di prendere in mano… In questo senso, non del sapere fare una cosa, perché, se non è capace, lui dice: “Io non sono capace. mi aiuti?”.
R.C. Perfetto. Può darsi che, pur nella sua precoce età, avverta un finalismo di azioni verso cui non è d’accordo. Ossia, che non è conforme a quel finalismo che avverte. Avverte un finalismo che può essere lì come altrove, verso cui tenta di operare uno squarcio. Allora dice: “No!”, che non è un “no” in sé, ma verso il finalismo a cui si sente costretto, e ciò andrebbe indagato. Ovviamente, non chiedendo “È perché avverti un finalismo?”, che certamente non avrebbe risposta!
L.G. Il nostro lavoro, parlando anche agli altri, non è solo l’attività psicomotoria, linguistica, varie cose, matematica, logico-matematica, sono tutte cose… Una personalità…
R.C. È un’esperienza globale, assolutamente. Ne convengo. In questo senso ancora più difficile, esige più responsabilità, quindi una formazione intellettuale assoluta.
Pubblico […].
R.C. Ritengo di sì. Però, giustamente, c’è un aspetto globale che poneva in rilievo Luigina che non è da sottovalutare. Senza togliere nulla a altri aspetti di globalità che possono riguardare altri momenti e altri… Adesso non parlavamo della fascia, né tantomeno di età, ma dell’impegno dell’insegnante.
Luigina Giraldo metteva in evidenza una sezione della difficoltà nella sua esperienza. Non per questo rendeva più facile un’altra esperienza, o più scontata. Ma non c’è competizione.
R.Ca In altri livelli, magari di primo grado.
R.C. Non c’è competizione tra un grado e un altro della scuola. Assolutamente. Non c’è affatto.
Un momento, perché da tempo la dottoressa De Lorenzis aveva alzato la mano.
Maria De Lorenzis La prima domanda: si parlava di qualcosa di mortifero, però c’era la parola la soluzione. Si cambia l’articolo, si mette una soluzione. Se noi troviamo una soluzione a un problema, questo è un procedere verso. Perché comunque c’è la risoluzione di un problema, una soluzione… Diciamo che di soluzioni ce ne sono, ma si prende una soluzione e questo è un procedere, non è la soluzione, l’unica soluzione. Mi sembrava che alludesse a questo, nel senso che si cerca una soluzione e si procede verso altri progetti e verso altre cose. La parola soluzione, di per sé, che…
R.C. […] è l’evocazione che comporta che occorre analizzare. Il concetto di soluzione è nell’itinerario.
M.D.L. E il problema?
R.C. è nell’itinerario e nel dispositivo. La questione è il dispositivo, dispositivo per fare. Vediamo di esplicitare.
A.B. Prima diceva “Non sappiamo nulla della soluzione”. Poi diceva anche “abbiamo un problema. si tratta di affrontarlo, con la logica noi dobbiamo trovare […]”. Io volevo sapere se sforzo e tensione per lei sono uguali, cioè se le intende nello stesso modo, se “vanno a braccetto”, perché abbiamo parlato sia di sforzo che di tensione.
R.C. La tensione è un aspetto dello sforzo, in quanto la tensione linguistica è un aspetto dello sforzo intellettuale.
A.B. Parlando di uno sforzo intellettuale che ha una tensione linguistica, mi veniva da pensare che la tensione da una parte mi va bene come la intende lei, […] una cosa più rigida, capito? Direi la tensione verso l’approdo. Mi sembra che lei la intende così.
R.C. Non è quella tensione per cui uno dice “Mi sento teso”.
A.B. Esatto. Non è questo tipo di tensione, però si potrebbe anche equivocare, perché noi abbiamo parlato di tensione.
R.C. Quella è la paura.
A.B. Ha parlato anche di paura, allora volevo, così, un attimo… Lo sforzo che ha come sua qualità la tensione.
Simone Barison La soluzione toglie l’itinerario e il dispositivo. Per altro, mi sembra che il concetto che non ci sia soluzione, che uno pensi che non ci sia soluzione, tolga itinerario e dispositivo. Sia che uno pensi di sapere già la soluzione e dunque la mette in pratica, magari con lo psicofarmaco o che altro, sia che uno sia convinto che non troverà soluzione a fronte di un problema, in entrambi i casi viene tolta la ricerca, l’itinerario, il dispositivo.
R.C. Che non c’è soluzione.
S.B. A meno che uno non sia convinto che non ci sarà mai soluzione.
R.C. Dipende se il dispositivo in cui si trova glielo consente di accettare, di rimandare, eccetera. Sono tutte modalità. Noi stiamo dicendo di un modo dell’educazione che non privilegi tutte queste rappresentazioni della morte che stanno nell’attesa, nel rimando. Di questo è piena la società conformista. Io constato che è pieno di queste modalità. Si tratta di attuare qualcosa che non vada in quella direzione, che non privilegi queste modalità, ma l’urgenza. Bisogna pure che s’instauri l’urgenza perché, altrimenti, è un modo di morire.
Pubblico Questo no.
R.C. Eh sì! È vivere contro il tempo.
M.D.L. A volte si rimanda fino…
R.C. Fino alla morte! Tutto ciò comporta un gran dispendio che abolisce l’urgenza. Questo è il problema del discorso occidentale: ha tolto la temporalità a favore della cronologia, a favore della spazialità, a favore della conoscenza. Perché il tempo è inconoscibile. Questo è il punto. È un punto importante però, che allora vediamo per la prossima volta.
Dica la questione!
L.P. Mi ero interrogato sulla questione del genio. È giusto questo significante genio […].
R.C. Il genio questo è, giustamente.
L.P. Ma non è una questione di predestinazione quella per cui uno nasce genio o è molto intelligente.
R.C. Certo. È da esplorare in questa direzione: genio, ingegno.
L.P. Perché si tratta della scrittura dell’esperienza, insomma.
R.C. Generosità, genialità, generazione.
L.P. Per esempio, il caso di Leonardo, che ha dato una testimonianza di produzione di un’esperienza.
R.C. Sono tutti termini di una stessa costellazione genio, ingegno e generosità.
L.P. Non è predestinato, non è innato.
R.C. Generosità, generazione.
L.P. C’è la fantasia che il genio sia nato.
R.C. Il genio sarebbe il “ben nato”. È un’altra cosa il genio, perché viene da gignere, che vuole dire nascere.
M.B. Quindi sarebbe contrario a questo. Cioè, non “nato con”.
R.C. Esatto. Perché il genio, il “ben nato”, nato bene, viene da…
Pubblico Lei sa che esiste Eugenio Bennato?
R.C. Eugenio Bennato. Hanno praticamente tradotto il cognome nel nome. Bennato vuole dire già Eugenio. L’hanno chiamato “Eugenio Eugenio”. È un atto di erudizione da parte dei genitori. Non è casuale il riferimento, non è casuale neanche che gli abbiano dato questo nome. Ottimo, una precisazione molto interessante.
L.P. Perché sembra che ci sia il genio che nasce, invece non è possibile.
R.C. Può accadere anche che nasca.
L.P. È un’altra questione, comunque.
R.C. Allora concludiamo qui. Noi ci diamo appuntamento alla prossima settimana e vediamo di trovare quella soddisfazione che adesso non c’è. Lei, certamente, utilizzerà questi giorni per indagare ulteriormente.