Pubblicato in “La cifrematica”, n. 6, La follia. La pazzia. La clinica
L’ISTANTE DELLA CLINICA
Sin dal sorgere dell’esperienza cifrematica, abbiamo distinto tra follia e pazzia, tenendo conto dell’indicazione di Armando Verdiglione che la follia è una proprietà della logica dei punti, il modo con cui interviene il contrappunto, e quindi il modo con cui procede il cammino artistico di ciascuno. Questo situa la follia nella particolarità della parola e implica che lo statuto intellettuale, scientifico di ciascuna cosa è anche secondo la follia; ne deriva l’esigenza di ricerca e di ascolto, d’intendimento e di cifratura: nessun soggetto folle, quindi, ma la follia come proprietà oggettuale, di cui si tratta di cogliere la varietà d’intervento e la specificità.
E si è lasciato al gergo comune, soprattutto al gergo psichiatrico il termine pazzia, lasciando che sfociasse nella rappresentazione della malattia mentale, quasi in un’identità fra il pazzo e il malato mentale. E il discorso comune vi si è buttato, avallando l’idea della pazzia come limite della ragione, come limite della salute. A questo punto della nostra esperienza, però, si tratta di trarre la lezione della clinica della parola e d’indagare più precisamente sullo statuto della pazzia.
Oggi, non è più possibile accettare il perdurare di questa mitologia del malato mentale, dell’assenza di ragione, della rappresentazione dell’illogicità.
Si è assistito in questi anni a una sorta di perfezionamento del processo di bollatura di ciascuna anomalia con l’etichetta di malattia o di disturbo, per giustificare l’impostazione biologistica e organicistica dell’intervento salvifico, sostenuto dal postulato che ogni anomalia è il segno di una malattia evidente o latente, nota o nuova, della mente, dell’anima, della psiche, del cervello. A scelta. Comunque ci sarebbe una malattia che è da debellare in nome del bene comune. Dopo anni d’ideologia dell’“accanimento terapeutico” grazie a cui l’industria psicofarmacologica è diventata tra le prime a livello planetario per fatturato, gli stessi fautori della loro somministrazione a oltranza ammettono che l’uso degli psicofarmaci non ha un’incidenza curativa nella maggior parte delle cosiddette patologie “mentali” e che anzi i danni sono superiori ai presunti benefici. È qualcosa che nessuno può più ignorare. Anche se non sono proprio novità, dato che da anni interveniamo nel merito, e basta percorrere i testi dell’esperienza, in “Spirali. Giornale internazionale di cultura”, in “Clinica. Rivista internazionale di psichiatria”, in “Vel. Collana periodica di psicanalisi”, nella “Cifra. Pensiero, scrittura, proposte”, e nella collana “La cifrematica”, e con i libri di Armando Verdiglione, per accorgersene.
Bisogna capire di cosa si tratti in ciò che viene chiamato “pazzia” e che sin dall’antichità ha costituito il paradigma della rappresentazione della sofferenza. Si tratta anche di questa ideologia: la pazzia è un altro nome della sofferenza. Con il nome di sofferenza è possibile etichettare ogni cosa e in nome dell’altruismo proporre ogni rimedio per alleviare l’altrui male. L’ideologia della sofferenza è rovinosa: per esempio, la caccia alle streghe è cominciata come rimedio alla sofferenza. In ogni caso si tratta di una sofferenza attribuita e catalogata: una sofferenza standardizzata, resa statistica, cui è stata tolta ogni particolarità. Il catalogo delle sofferenze serve solo per giustificare nuovi rimedi sostanziali o professionali.
Occorre, quindi, non lasciare che ogni rappresentazione della mancata gestione dell’anomalia, e, per altro, della volontà di gestione dell’anomalia sia ricondotta alla psicopatologia ottocentesca e alla relativa mitologia della malattia mentale con la sua energetistica, e con il suo ricorso alla chimica. Questa mentalità energetistica è la stessa mentalità che chiama esaurimento nervoso qualsiasi cosa intervenga a indicare il disagio. Esaurimento nervoso! È una formula che è usata ancora oggi, nelle ricette dei medici, e indica la mentalità vigente. Questa mitologia ha come unico sbocco l’uso degli psicofarmaci che chiaramente non consentono di capire i motivi, le ragioni di ciò che viene avvertito come insopportabile, come inconciliabile, come insormontabile, perché anziché entrare nell’elaborazione clinica, viene attribuito a sé o all’Altro. Non può stupire allora, se diventa, anno dopo anno, sempre più precoce, l’età di accesso alla droga o l’età di accesso agli psicofarmaci. E occorre pertanto diffondere e divulgare la clinica della parola, perché vi sia chi capisca che in ciascun caso si tratta di cogliere la particolarità e la specificità.
La direzione intellettuale è verso la cifra di ciascun dettaglio, non l’applicazione di etichette che hanno come unico sbocco l’abuso di psicofarmaci; essi non consentono di capire i motivi e la ragione di ciò che è denunciato o annunciato come disagio insopportabile, al contrario, inducono assuefazione e tolgono, a chi ne fa uso, ogni speranza. Occorre dare un messaggio intellettuale a chi avverte a suo modo il “disagio della civiltà”, occorre fornire ai giovani strumenti intellettuali perché non si dirigano verso la mitologia della droga.
Lasciato a se stesso ognuno partecipa della mitologia della morte, partecipa delle credenze di quello che Aleksandr Zinov’ev chiamava l’“umanaio globale”. Lì, ognuno pensa alla sua origine e si attrezza per il suo ritorno all’origine, per predisporre, nel migliore dei modi possibili, la sua buona morte, la sua eutanasia, nel segno della gestione del sapere sulla morte. E anche la libertà, intesa come concetto, si espleta nella libertà di scegliere come morire, intesa come massima libertà dell’uomo.
È constatabile che, essendo la libertà virtù del principio, con il modo dell’apertura si avvia la domanda e con essa la forza. Quale battaglia senza la forza? Chi può vivere senza la forza? Questa forza è la forza della parola, non certo la forza del soggetto, che in quanto ispirato dalla termodinamica è soggetto alla scarica, soggetto che si scarica, soggetto all’esaurimento, nervoso e energetico.
È la parola il dispositivo di forza di ciascuno.
Chi crede nella libertà possibile ha già accettato, almeno in parte, l’ipotesi di un regime di libertà limitata: il regime di soggetto alla libertà vigilata. È il regime del prigioniero a vita; del carcere a vita. Della vita come carcerazione.
La parola, dunque. Occorre chiarire quanto meno alcuni fraintendimenti intorno alla parola, vigenti a vari livelli, per cui anche chi si crede dalla parte della parola, si rivolge a pratiche o esperienze che negano la parola.
La questione della parola non può essere banalizzata. L’esperienza della parola non avviene all’università, non è imparabile dai libri, non è l’applicazione di becere teorie psicologiche. Non è materia disciplinare.
Scrive Armando Verdiglione che la parola originaria si staglia sul suo principio.
La virtù del principio è ciò che è proprio a ciascun elemento della parola, a ciascun elemento originario. Il principio della parola è in assenza di principio ideologico o morale, in assenza di fondamento sostanziale.
La libertà è virtù del principio, e per questo ciascun elemento è libero di qualificarsi, ciascun elemento è libero nel suo viaggio in direzione della qualità. Con la libertà, la leggerezza, l’aria, la tentazione intellettuale. Di che si tratta nell’elemento? Senza ontologia, quando s’instaura l’elemento?
I greci chiamavano elemento la lettera, quale costituente la sillaba e la parola. , in greco, elementum in latino, indicavano ciò che entra nella serie, anche l’ordine della serie.
Elemento è ciò che giunge all’indivisibile per via di divisione, e sarebbe un processo di elementarizzazione, o ciò che per via di analisi giunge all’assoluzione e, quindi si valorizza? Quali sono gli elementi della parola? Chi può dire di conoscere gli elementi? Mendeleev, con il suo Sistema periodico degli elementi intendeva per elemento l’atomo, ciò che non è più ulteriormente divisibile. L’insecabile. Ma intendeva gli elementi del sistema.
Quando l’elemento è originario?
La questione è importante dato che il viaggio risente nel suo procedere dello statuto di ciascun elemento. Se l’elemento è inteso come rappresentazione della sostanza elementare, esso rimanda all’idea di origine, di sostanza prima. Se l’elemento è senza origine la pazzia, con la sua idea di padronanza è allora il modo di non tenere conto degli elementi della domanda. Degli elementi della parola. Degli elementi intellettuali.
Intorno al fantasma di origine e dunque al fantasma di morte ruotano la psichiatria e ogni disciplina che si fondi sul soggetto, ossia sull’animalità anfibologica circolare.
La serie è secondo il numero, secondo la logica particolare. L’elemento entra nella serie ripetendosi, ossia differendo da sé. Nessun elemento è identico.
Gli elementi, le cose. La cosa e l’indicibile.
L’afasia originaria è senza padronanza. La lingua non segue la volontà di dire, ma è il frutto della combinatoria linguistica, di elementi e cose, per integrazione. Secondo il numero singolare triale e procedendo dal numero diadico.
L’anoressia, come principio della parola, indica anche questo: l’assenza di padronanza. “Senza padronanza” è un modo per dire che non c’è il primato della coscienza, per dire “senza soggettività”. Senza padronanza, cioè: secondo l’idioma, secondo l’inconscio.
Anoressia: senza padronanza sul desiderio, sulla tensione, sull’appetito intellettuale, sul suo cibo, sul suo nutrimento. Dato che non c’è la sostanza che possa soddisfare quest’appetito secondo una qualche prescrizione.
Perché l’anoressia e il disagio indici dell’assenza di padronanza, dell’insostanziale, sono invece catalogati dalla psichiatria come malattie, o disturbi?
Sta qui lo spartiacque tra l’ordine del discorso e l’ordine della parola.
Anoressia originaria, anoressia intellettuale, anoressia mentale. Come sapere cosa mangiare? Cibo sano e cibo inquinato. Cibo o veleno. Grasso o magro. Puro o impuro. Nell’alternativa ogni cosa può costituire il segno del male o della morte. Per non nutrirsi di sostanza nociva ecco il digiuno purificatore: nulla deve contaminare il corpo puro, tanto meno la sessualità, che diventa il segno dell’incesto.
L’anoressia è anche tentazione intellettuale: nessuna cosa è già qualificata, nessuna cosa ha già un senso, un sapere, una verità. Ciascuna cosa tende a qualificarsi, per quell’altra virtù del principio che è il disagio. Il disagio ha il dubbio come suo modo. E il dubbio avvia la tensione intellettuale, il viaggio, l’indagine.
Chi sa e chi non sa. Due modi di togliere l’anoressia, il dubbio. “Non so cosa dire, non so cosa fare”. “Non dico più niente, non faccio più niente”. E intanto così è già istituito il soggetto del sapere, il soggetto della coscienza. Il soggetto anoressico. Il soggetto anoressico è il mentale, il soggetto mentale. Il soggetto mentitore, che dice la verità.
Il soggetto deve sapere: cos’è, cos’ha, cosa fa. Chi è. Il soggetto della conoscenza di sé e dell’Altro.
Il soggetto senza dubbio, tutto di un pezzo. Il soggetto che deve conoscersi. Chi può reggere, credendovi, a questa prescrizione? Chi può reggere all’idea dell’incesto? del male dell’Altro? Del peccato dell’Altro, della sua corruzione?
In assenza di dubbio sorgono certezze: su di sé e sull’Altro, sul corpo e sulla scena, sul desiderio, sul godimento, sulla verità.
Il mentale è il regno delle certezze e l’anoressia mentale è il modo della loro applicazione.
L’occorrenza della domanda, l’istanza di sanità e di salute, senza padronanza, non prescrivono alcuna conoscenza, che è conoscenza dell’alternativa. Sapere e/o non sapere. Chi sa e/o chi non sa. So, non so. Sono soggettività che si affidano alla certezza di sapere o alla certezza di non sapere. Tolgono l’avventura, tolgono il rischio, tolgono il viaggio, negano l’audacia a favore del maternaggio, dell’idea di protezione. L’anoressia in quanto principio della parola, è questione intellettuale, non è né malattia né disturbo alimentare. Occorre distinguere tra la logica e la rappresentazione. Che qualcosa sia assunto come cibo, non dice nulla della fantasia e della rappresentazione in cui quel cibo risulti preso; è cibo sessuale, è cibo intellettuale, è il cibo dell’eucaristia? O è cibo sostanziale, il cibo dell’impurità, dell’avvelenamento, il cibo del pericolo, il cibo della mortalità? Che cibo è? La fa facile la psichiatria a parlare di disturbo alimentare, o di disturbo dell’alimentazione. L’alimentazione, caso per caso, può essere un pretesto per rilevare che anziché procedere dal dubbio e dal suo modo, qualcosa ha fissato una certezza. Quali siano gli elementi in gioco è impossibile stabilirlo prima, è impossibile stabilirlo senza la clinica della parola. Dire che l’anoressia è un disturbo dell’alimentazione vuol dire farne un caso generale, addirittura una malattia generale. Socialmente parlando, sarebbe molto sconveniente dire che la famiglia, la sessualità, la genealogia possono costituire un problema, meglio dire che l’alimentazione può costituire un disturbo e addirittura causare malattie. Malattie che, addirittura per ammissione degli stessi psichiatri sono “molto difficili da curare”! Non è così! Occorre dirlo: la malattia è incurabile. La malattia mentale è incurabile per definizione: nel momento in cui si accetta qualcosa come malattia, con il suo corredo fantasmatico, essa è incurabile; perché si accetta il principio della sostanza e il principio dell’accettazione della morte. Chi accetta la diagnosi di malattia, e accetta il principio che deve essere curato da qualcuno, cioè accetta il principio del maternaggio, si trova già nell’accettazione della morte.
L’enunciazione dell’anoressia indica che non c’è più la padronanza rispetto all’idea di gestione e amministrazione della sostanza, della prescrizione alla sostanza.
In assenza dell’ignoranza originaria, dell’umiltà, in assenza del dubbio originario, dove vigono le certezze, dove ognuno sa quel che vuole, sa quel che è, sa già quel che deve fare, lì s’instaura il “mentale”, cioè l’idea della sostanza. Il mentale è l’idealità che esista una sostanza in grado di soddisfare il desiderio. Ma il desiderio non si nutre di sostanza, il desiderio è un paradosso che non finisce. L’idea della sostanza come alimento, invece è l’idea stessa di fine, “se mangi la sostanza la cosa finisce, il desiderio finisce, il godimento finisce, le cose finiscono: “Allora, non mangio più, perché non so se questo cibo, questa sostanza, sia pura o impura, se sia cibo buono o veleno, se sia cibo sano o inquinato, se sia grasso o magro.” Nell’alternativa.
Come dirimere l’alternativa? Come giungere alla padronanza sull’alternativa? Se l’idea di sostanza, se l’idea di padronanza giunge a fissarsi, anziché entrare nell’elaborazione, chi si situa in questa alternativa, che è l’alternativa fra la vita e la morte, sicuramente va verso la morte. Se la morte è ciò che deve evitare, si dirigerà verso la morte, non perché lo voglia, perché ciò che deve evitare diventa il suo timone, la sua bussola. Nell’alternativa ciò che si deve evitare, diventa la meta, non per volontà, ma, perché questa fantasia opera e guiderà a quella meta. Introducendo il male o il pericolo dinanzi, quello diventa la guida, il timone e pervicacemente ognuno arriverà a quel pericolo che vuole evitare.
Se l’elemento non è ciò che preesiste alla parola, non è il fondamento ontologico della cosa, o della parola, ma è ciò che si qualifica per divenire elemento di qualità, allora l’elemento non è ontologico, è al di fuori della possibile presa, al di fuori della padronanza soggettiva.
L’elemento originario è elemento dell’intero, così entra nella parola, partecipa dell’integrazione della logica e della struttura. È elemento della logica, della lingua, dell’esperienza, della procedura, del dispositivo, del glossario, del dizionario, del viaggio, elemento del transfert, nel transfert, elemento della struttura.
La qualificazione è qualificazione degli elementi della parola, e ciascun elemento entra nell’atto di parola in quanto ignoto.
L’ignoranza strutturale alla parola è ignoranza degli elementi e del valore di ciascun elemento. Il viaggio va, allora, dal sembiante al valore, dal corpo alla scena. Il compimento del viaggio esige l’ignoranza da un lato e l’azzardo, la scommessa, l’ipotesi, la costruzione, l’astrazione, l’abduzione.
L’avvenire come s’instaura? L’avvenire è una proprietà dell’atto, una proprietà del contingente: Necessita dell’intervento del tempo, che non passa. L’avvenire esige la domanda. E quali sono gli elementi della domanda?
Nulla di fatalistico. Nulla di predeterminato. Il viaggio esige gli elementi, la parola, la domanda, il processo di qualificazione e procede secondo la logica. Nessuna sostanza, nessuna inerzia, nessuna ontologia. Il viaggio procede nello statuto intellettuale, nello statuto dell’infinito e del gerundio: quando ciascun elemento incontra la proprietà intellettuale, diviene cifrema del viaggio. Il cifrema non è assegnabile al personaggio della fiaba, né alle figure della soggettività, ma qualifica gli elementi della domanda.
Che cosa indica che l’esperienza di qualificazione è in corso? La dissipazione della soggettività con i ciframi dell’esperienza. La soggettività è l’idea agente di sé, per esempio, l’idea per cui qualcosa risulta impossibile da fare per le giustificazioni addotte dall’idea agente. L’idea agente contribuisce alla misurazione del passo, del gesto, delle conseguenze di ciò che si vorrebbe fare ma che la paura interviene a impedire.
Quando le cose risultano pesanti? Quando si pensano. Quando ci si pensa. Pensare le cose è attribuire un peso alle cose. Un conto è il pensiero come operatore sintattico, frastico, pragmatico: è il pensiero senza volontà. Un altro conto è il “pensarci”. Se l’occorrenza esige l’obbedienza, pensarci è un modo per rimandare, per aspettare, per convincersi che si può farne a meno. Il dispositivo intellettuale non pensa. L’intellettuale non pensa perché è senza soggettività.
Perché c’interroghiamo intorno alla follia e alla pazzia? Non già per fare il catalogo di ciò che sta dentro o fuori la normalità. L’interrogazione intorno alla follia è l’interrogazione intorno all’arte, alla variazione, ai modi con cui le cose variano. Variazioni non già dell’umore, dall’euforia alla disforia, ma variazioni in cui s’imbatte il cammino dell’identificazione. Variazioni con cui si scrive la memoria. E la memoria si scrive con la qualificazione e la valorizzazione di ciò che entra nell’itinerario, senza casi ipotetici. La clinica è istantanea, si produce nell’eternità dell’istante, non vale per il prima e per il dopo. Anzi la clinica si avvale della dissipazione dell’idea di successione, come di quella di durata; dell’idea che il tempo finisca.
La clinica va in direzione della chiarezza e della semplicità, che non sono fondamenti, non preesistono all’atto, ma sono, per così dire, conquiste.
Parlando interviene la cosa e non il concetto della cosa. La nozione di concetto procede dal principio di unità secondo il quale ogni cosa è identica a sé stessa in quanto della stessa sostanza del tutto. Il concetto ha come suo seguito lo standard, la generalizzazione, l’idea comune, il diritto comune, anziché il diritto dell’Altro.
La pazzia è questo: ritenere che non ci sia nessuna qualificazione e valorizzazione da fare, che non ci sia nessun valore. Che le cose siano quelle che sono, e basta. Allora, diciamo che questa idea caratterizza la pazzia, perché esclude la clinica, quella piegatura, quell’arte della piegatura per cui cogliendo una sezione, un aspetto una sfumatura, una cosa non è più “una cosa”, diviene “quella” cosa. In quel dettaglio narrativo, in quel racconto, in quel caso linguistico, non si tratta di una cosa, ma, con la clinica, si tratta di “quella” cosa, e quella cosa può giungere al valore, al suo valore assoluto; mentre “una” cosa è una cosa come un’altra, non giunge al valore, non va verso la valorizzazione; è una cosa come un’altra, una cosa così.
Allora, la clinica, come compimento pragmatico, dice proprio che le cose non sono, ma divengono. E questo compimento, così come la legge e l’etica, per la sintassi e per la frase, non è mai compiuto. Non è un compimento che diventi compiuto, nel senso che a un certo punto finisce, diventa un fatto, un dato, ma è un compimento che non è mai finito, è in un processo infinito. La clinica non è un processo per elencazione, ma consente piuttosto la definizione di qualcosa. Definizione pragmatica, cioè definizione in atto. Definizione che non consente mai di dire che quella cosa è definita una volta per tutte, perché è la definizione di “quella” cosa, non di “una” cosa. Una cosa non è mai una cosa. Una cosa occorre divenga quella cosa. Questo è il processo di qualificazione, processo linguistico, clinico di qualificazione, per giungere al valore di quella cosa. Senza che s’instauri il valore, non giunge nemmeno l’effetto di verità, per cui una cosa, una cosa come un’altra, senza valore, senza effetto di verità.
Il discorso occidentale, con la sua impostazione filosofica volge la lingua in volontà di dire, volontà di fare, secondo l’intenzione di bene. Così il discorso occidentale è anche il discorso dove l’identità sarebbe la volontà d’identità. Volontà di conoscersi, volontà di essere se stessi.
Già Aristotele non ignorava il paradosso dell’identità, ammettendo che nella formula A=A “ci si serve dello stesso come fossero due”, ma lo attribuiva alla spazializzazione tra A e A, e lo riporta al principio di unità, per esempio l’unità di genere che dovrebbe salvaguardare l’identità. Verdiglione afferma che l’identità procede dal due e distingue tra identità, inidentità, singolarità, stessità, autismo.
E la questione della follia procede da qui: egli precisa che si tratta appunto della condizione della variazione, della condizione del cammino artistico. Più che sull’identità Verdiglione insiste sull’inidentità del significante da se stesso e sull’inidentità tra l’io e il significante. Che il significante sia inidentico rispetto a se stesso è una precisazione indispensabile a indicare l’impossibile sua pluralizzazione. L’inidentità è una virtù del significante, che occorre distinguere dalla singolarità e dalla semplicità. Così, l’identità è senza uguaglianza e procede dal paragone.
Verdiglione proponendo che la follia è il modo dell’intervento del contrappunto, svincola la follia da ogni negatività, da ogni possibilità o impossibilità, dall’errore, dalla volontà di divenire altro, dalla volontà di essere, da ogni facoltà umana. Solo così può divenire la condizione dell’arte. La follia, cioè non è caratteristica umana, né soggettiva, non è legata alle rappresentazioni dell’Altro, né all’eventualità di potere divenire Altro né l’Altro, né è significata dal punto di partenza e dal punto di arrivo. Tutto ciò sostiene invece un’accezione di follia che varrebbe a rappresentare la volontà di potenza, la potenzialità dell’atto, la possibilità di padroneggiare e dirigere il divenire, in quanto divenire Altro in termini di oltrepassamento o di divenire l’Altro.
Volere il bene, dire il bene, fare il bene confermano e istituiscono il concetto di dire e di fare come proprietà comune. Il concetto è il rifugio di chi ipotizza il discorso quale contenitore generale delle coscienze: attraverso il concetto ogni coscienza si esplica, si riunisce in una coscienza, la coscienza umana, la coscienza del bene. Attraverso questa nozione di concetto e di coscienza da esso derivata, viene avanzata filosoficamente l’ipotesi di un’identità umana: l’uomo è animale razionale, l’uomo è animale mortale.
Ecco l’“identità” dell’uomo. Questa identità, questo concetto d’identità costituisce la base della pazzia, come ipotesi di conferma o di deroga rispetto al concetto d’identità.
Il paradosso dell’identità della cosa: la stessa cosa e la cosa stessa. L’autismo della cosa rinvia alla causa e alla sua identificazione.
Se ognuno risponde al concetto d’identità, allora è normale, è conforme. Ma se ognuno fa quel che vuole non è savio, il principe è addirittura pazzo. È Machiavelli a introdurre questa notazione, a proposito del principe. Egli introduce questa sua stigmatizzazione della pazzia quasi a rilevare che subordinare il fare alla volontà, introducendo la possibilità come modo della volontà, è la base della pazzia.
Per il discorso occidentale, chi è se stesso può fare quel che vuole. Come essere se stessi? Come divenire se stessi? Qui si introduce una questione importante, quella della padronanza sostenuta dal discorso filosofico, a favore della creatura fantastica chiamata il soggetto, quale fondamento della volontà, della coscienza, ma in assenza di parola. In assenza di domanda, di logica.
Il cambiamento è ciò che viene invocato come colmo della padronanza. Si sente dire spesso: “Ci vuole un cambiamento, ci voleva un cambiamento”. “Bisogna cambiare”. E allora c’è chi cambia casa, cambia città, cambia mestiere, cambia la macchina, per dimostrare la propria padronanza sulle cose e sul destino.
Impossibile studiare la vita. Impossibile studiare il caso. La clinica è istantanea.
La valutazione, la valorizzazione non sono lo studio. Lo studio è senza ascolto, si basa sul sapere di ciò che è stato, sul ricordo di ciò che è stato. Lo studium è un modo di rendere presente la rievocazione, di rendere presente il ricordo.
Di che cosa si tratta nella pazzia e nella follia originaria? Nella pazzia si tratta della “volontà di fare quel che si vuole”. Cioè, la pazzia tenta di delimitare il vuoto, nell’isolamento di un cerchio dove girare in tondo; giro del cerchio, giro che esclude la spirale e anzi vorrebbe dimostrare la padronanza sulla spirale. Girando in tondo ognuno rappresenta l’anfibologia della sua volontà.
La pazzia è, quindi, il modo della volontà, del saperci fare. Del sapere sul fare. Se la pazzia è un fantasma di padronanza e il fantasma di padronanza per eccellenza, per dir così, è il fantasma di morte, allora la pazzia è la condotta ispirata dal fantasma di morte: in questo senso è la volontà. Infatti, l’idea di potere, dovere, sapere, volere fare quel che si vuole interviene quando il fantasma di morte agisce per evitare il pericolo, quindi agisce per l’alternativa. Possiamo allora chiamare pazzia anche la presentificazione dell’avvenire. Rendere presente l’avvenire non è forse un modo per riservare qualcosa “in vista di ciò che potrà avvenire o servire domani?”.
Cosa quindi distingue la prudenza, la provvidenza e la pazzia? Il fantasma di padronanza. Nella padronanza, all’atto viene contrapposta la potenzialità di qualcosa che potrà avvenire. È la dinamica, presunta mentale. La dinamica ossia il modo presunto probabile, potenziale dell’accadere delle cose. La dinamica diviene quindi superstizione, fatto probabile, probabilistico. L’appello alla dinamica è l’appello a una predeterminazione presunta, a una predestinazione. Quale sarebbe la dinamica dei “fatti psichici”? Come funziona la mente? O la psiche? Nessuna dinamica intellettuale, nessuna dinamica delle cose, del ragionamento, dell’esperienza. L’esperienza intellettuale è senza dinamica perché si svolge secondo la logica della dominazione, di atto in atto. La follia esclude ogni dinamica: nessuna dinamica della follia, né dello stile. Nessuna dinamica della giustizia, né della provvidenza. La dinamica sarebbe l’arte del prevedibile, della predestinazione, della precognizione? Gli aruspici erano gli amministratori della dinamica mentale, così come gl’indovini, gli oracoli e le sibille.
Follia originaria: modo con cui interviene il contrappunto a causare la variazione artistica. L’intervento del sembiante si caratterizza come stile in quanto intervento del punto e follia in quanto intervento del contrappunto: questo intervento è la provvidenza. Niente di soprannaturale, di predestinato, di divino, di religioso. Intervento inevitabile e, come dice Verdiglione, inesorabile. Secondo la logica puntuale. Il modo dell’intervento è la giustizia del sembiante, questo modo è lo stile (o rigore) del punto e follia del contrappunto.
La parabola dei talenti, Matteo, 25,14 e la parabola del principe e delle mine, Luca, 19,12, forniscono materiale clinico intorno alla clinica della paura: il servo timoroso di Matteo dice: “Signore, so che sei un uomo duro che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo.”.
Qui opera l’idea del danno, ma, ancor più la rappresentazione negativa del padrone. Sono questi pregiudizi a impedirgli di investire, a impedirgli di azzardare, a impedirgli di giungere all’ipotesi pragmatica che segue all’obbedienza. Questo servo agli antipodi dell’obbedienza, rappresenta il soggetto pedissequo, che in quanto soggetto è per definizione debole, malato e incapace.
E cosa fa il servo? Si cautela dal pericolo del danno. Quel danno che si è rappresentato, che ha previsto per la credenza di poter fare quello che voleva, in conformità a una possibile scelta; e in questo senso possiamo chiamare pazzia anche la presentificazione dell’avvenire, quel tentativo di rendere presente l’avvenire come modo di riservare o preservare qualcosa, di esercitare una riserva, in vista di ciò che può avvenire in seguito. La riserva coltiva l’idea di pericolo, cioè coltiva l’idea negativa. La riserva è il modo di mantenere, di proteggere l’idea negativa di qualcosa.
Anche la parabola di Luca esplora questa fantasia. E nella parabola che ci racconta Luca viene messo in risalto questo aspetto, in modo ancora più esplicito: “Signore, ecco la tua mina che ho tenuto riposta in un fazzoletto. Avevo paura di te, che sei un uomo severo e prendi quello che non hai messo in deposito, – vale a dire: che prendi agli altri – (e) mieti quello che non hai seminato”. E il principe gli rispose: “Dalle tue parole, dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio. Non già per il fatto di avere conservato la mina, ma per l’idea che l’ha determinato.
L’idea di protezione comporta che l’ipotesi pragmatica non si instauri, non ci sia il processo di valorizzazione; non ci sia il malinteso, cui segue l’obbedienza, che instaura l’ipotesi pragmatica.
È veramente interessante questa parabola, perché comporta la questione dell’atto, indica la questione dell’atto, dell’attualità, non già della potenzialità. Dell’attualità, dell’atto, e quindi dell’occorrenza. Nulla a che vedere con la dünamis, con la potenzialità.
Quanti sono i talenti di ciascuno, e quali sono? Non è dato sapere fino a quando non vengono messi a frutto. Nessuno sa dei talenti, sino a che una circostanza propizia non fornisce l’occorrenza perché questi talenti entrino nel processo di produzione che è produzione poetica, produzione pragmatica, produzione in direzione della cifra, quindi del valore. Non sono i processi di produzione della fabbrica, sono i processi di produzione narrativa, poetica, pragmatica.
La dinamica è esattamente l’idea agente, il modo per sbarazzarsi di dio quale operatore pragmatico. L’idea agente, cioè l’idea probabile, l’idea possibile, risente dell’ipotesi di fine. Qualcosa è probabile in quanto soggetta all’idea di fine. Non c’è nessuna dinamica intellettuale, nessuna dinamica delle cose, del ragionamento, nessuna dinamica dell’esperienza, nessuna prevedibilità. L’infinito è imprevedibile, la parola è imprevedibile, il modo con cui interviene la parola è imprevedibile, e il modo con cui, nella parola, interviene l’oggetto è pure imprevedibile, è pure incalcolabile. E questo modo è la follia.