Ottavo capitolo del volume La realtà della parola
La madre, il suo mito, la sua rappresentazione
Ruggero Chinaglia Il film per il dibattito di questa sera ha per titolo Tutto sua madre; è stato prodotto in Francia nel 2013 e distribuito in Italia nel 2014. Si tratta di un film recente, che non ha avuto grande risonanza, direi a torto dato che pone varie questioni in modo piuttosto interessante. E, fra le altre, la questione della sessualità in un’articolazione con il mito della madre e il mito del padre.
Come la sessualità possa essere ritenuta oscillare tra una sessualità omo e una sessualità etero, è un problema che non riguarda la sessualità, ma una sua rappresentazione: la sua codificazione in relazione umana, come modalità della relazione umana, interpersonale, intersoggettiva.
La sessualità originaria non risente dell’anfibologia tra sessualità omo o etero. La questione è se la sessualità s’instauri. Questa è l’effettiva questione: quando e come s’instaura la sessualità. E non come modalità relazionale interpersonale, ma come scommessa per la qualità della vita. Tutto ciò trae con sé varie conseguenze che nulla hanno a che fare con l’omo e con l’etero.
La sessualità non è di genere, ma riguarda il programma di vita, la sua scrittura, il suo compimento: possono la scrittura, il compimento, il modo della sessualità non risentire del mito del padre e della madre?
Questo è un altro elemento da considerare: la sessualità non s’instaura per natura, ma per l’elaborazione e l’articolazione del mito del padre e della madre; padre e madre intesi come indici, non come personaggi genealogici.
Il racconto del film si situa in questo contesto, da leggere non in maniera naturalistica, ma cogliendo gli spunti che ne vengono. Ne discuteremo a conclusione, con l’analisi del materiale del film, senza ritenere che si tratti di giungere a una morale. Il film dà indicazioni, non fornisce una morale. Occorre che per ciascun lettore questo sia il modo della lettura. Adesso leggiamo il film e poi ne discutiamo.
Bene, cominciamo con le domande, le notazioni, gli elementi della lettura. Pare che il film ponga varie questioni. Sicuramente, risente della lettura del saggio di Freud L’analisi della fobia di un bambino di cinque anni, noto come Il caso del piccolo Hans. Ma, occorre dire, non volge a una pedissequa riformulazione di teorie più o meno correnti. Ci sono elementi di un certo interesse, ma sentiamo se ci sono notazioni.
Giorgio Fornasier La notazione che volevo fare è che qui di psicanalisi scientifica proprio non c’è traccia. C’è la rappresentazione veramente impressionante di una serie di personaggi che sarebbero gli psicanalisti: sembrano un bestiario, più che la testimonianza della pratica psicanalitica. È proprio triste vedere come viene rappresentata ciò che va sotto il nome di psicanalisi. Riguarda solo una piccola parte del film però, certamente, non è da trascurare che sia la rappresentazione dello psicanalista più diffusa ancora oggi.
R.C. Sì, questo fa parte del contenuto “rappresentativo”. Se volessimo dirla freudianamente, sarebbe il contenuto manifesto del sogno. Come dicevo all’inizio, non c’è da aspettarsi dal film la versione psicanalitica. Con la sua lettura, ciascuno può fornire la versione psicanalitica. Questo film non è psicanalitico: narra qualcosa, racconta qualcosa e ciascuno può restituire qualche elemento nei termini, come lei dice, della psicanalisi scientifica. Non è che si possa delegare al film il compito di darci la versione psicanalitica, perché sarebbe un modo per evitare la lettura. Occorre fare la lettura.
Che tra i personaggi ci sia quello “psicanalista” è indicativo che il film è andato oltre quella rappresentazione. È un merito del testo e dell’autore che sta nel testo, aver prodotto qualcosa che va oltre il personaggio comune, oltre la vulgata, nonostante la vulgata: non è che si possa pretendere che la vulgata improvvisamente scompaia. Interessante è notare che, nonostante la vulgata, la parola non può essere tolta, non può essere negata e nella parola qualcosa si scrive. Che cosa, qui, per ciascuno, si scriva a partire dal film è quanto si tratta di accogliere. Non è già scritto questo film. Importa ciò che si scrive adesso, dopo la sua proiezione.
Non è tuttavia un elemento secondario che la psicanalisi sia intesa in questo modo; ma da chi? Da uno psichiatra militare e dalla sua rappresentazione della cura come modalità di ortopedia, di correzione, di raddrizzamento? Non può che essere così, per l’apparato. Sarebbe quasi assurdo che fosse altrimenti. In base a cosa? Perché?
Maria Antonietta Viero Non so se ho sentito bene, ma all’inizio lei diceva che, quando s’instaura, la sessualità non ha niente a che vedere con l’omo e con l’etero. Nel film, mi è sembrato che quando si è instaurato qualcosa della sessualità, l’ultimo psicanalista comparso abbia detto a Guillaume che la mamma “gli vuole poco bene”.
R.C. Non la mamma, gli dice che lui non si ama! Dice: “Ma lei si ama così poco?”.
M.A.V. Ho pensato che fosse trasferibile alla mamma. Che questa questione si riferisse alla mamma. E questa constatazione producesse l’abbandono intransitivo rispetto a una sorta di simbiosi: Tutto sua madre, è tutto la mamma. Ecco in questo senso. È un dettaglio che mi sembrava importante, e lo psicanalista “buono”, mi vien da pensare, dice: “Ma lei si vuole poco bene”. Si sente dire con frequenza, in ambito psicologico, qualcosa di somigliante a questa frase.
R.C. Ecco, però la questione non verte sugli psicanalisti. La questione principale non riguarda gli psicanalisti e nemmeno i personaggi.
M.A.V. No, ma prendo a pretesto questa allucinazione acustica.
R.C. Né la portata taumaturgica di un gesto o di un atto. Qui è narrato un viaggio. Si tratta di un viaggio e ciascun elemento del viaggio risulta essenziale per la traversata che il viaggio compie. Non vorrei che ci si focalizzasse su questo o quello psicanalista, come se fosse l’elemento decisivo del film. Diciamo che è un elemento fra altri e nemmeno il più importante. C’è qualcosa di molto importante che il film narra e su cui invita a riflettere.
Sabrina Resoli Mi pare sia la traversata della fantasia di essere il figlio prediletto. Il figlio distinto dagli altri figli: Guillaume e i ragazzi. E per confermare questa fantasia di essere il figlio prediletto dalla mamma, Guillaume asseconda quello che crede sia il desiderio della mamma, cioè avere una figlia femmina. Ma, più che interrogarsi sulla genitalità, sembra proprio la questione di una fantasia di elezione.
R.C. Cosa indicherebbe questa elezione?
S.R. All’inizio del film, Guillaume dice ai fratelli che la mamma lo picchia perché lui e la mamma si vogliono molto bene, per esempio: con la mamma si assomiglia al punto da essere lui scambiato per la mamma, proprio perché entrambi si assomigliano. E la mamma lo distingue dai fratelli chiamandolo per nome. Così lei lo distinguerebbe dai ragazzi: ci sono i ragazzi e c’è Guillaume. Ma è lui a dire che la mamma avrebbe voluto una figlia femmina. Nei dialoghi del film la mamma mai dice questa frase, né gli si rivolge come fosse una ragazza. Lo riferisce lui. Quindi, si tratta appunto di una sua fantasia.
Una cosa mi ha colpito, a un certo punto, quando Guillaume dice di essere una ragazza, cioè non si pone la questione. Fino a un certo punto non ha dubbi: è una ragazza. Anzi, è sorpreso che il papà non si accorga di questa evidenza. Guillaume è una ragazza e questo non gli crea nessun problema, fino a un certo punto.
R.C. Beh, qualche problema c’è.
S.R. Così sembra.
Fernanda Novaretti Mi ha sorpreso, come si può dire, questa identificazione, o mimetismo, rappresentata dal fatto che l’attore protagonista fa le due parti, sia quella della madre, sia quella del figlio. Solo nell’ultima scena del teatro i due personaggi sembrano diversi.
R.C. È decisivo, questo. È rimasta sorpresa da questo?
F.N. Mi ha incuriosito questa cosa. Quindi, questa svolta è avvenuta in teatro, con la decisione di fare una rappresentazione, di mettere in scena.
R.C. Quella scena in cui la madre non è più un personaggio, e quindi non c’è più mimetismo fra sé e la mamma, è indicativa del teorema che non c’è più la mamma come personaggio da cui discende anche il suo personaggio; è indicativa del teorema che si scrive, ossia che non c’è più questo imbrigliamento genealogico mimetico che ha sancito, fino a quel punto, la prescrizione di essere una donna, in base al presunto desiderio che la mamma volesse una femmina. Questo elemento è importante: la dissipazione della paura e la dissipazione del personaggio. E c’è un brano significativo in cui la paura propria è correlata alla paura rappresentata dalla mamma. Quindi, c’è un’attribuzione della paura alla madre e una paura attribuita a sé. Questa paura passa attraverso la paura del cavallo nella sua rappresentazione varia: da cavallo a cavallo, a cavallo a un altro cavallo, dove si tratta della rappresentazione sessuale.
Maria Antonietta Viero Peraltro l’attribuzione della mascolinità, che a lui sembra negata, nel personaggio è rappresentata dalla mamma che è molto mascolina, e c’è una differenza enorme con l’ultima scena, dove la madre dissipa questo personaggio.
R.C. Questo è rilevante nel film. È lo stesso attore che fa due personaggi. È evidente questo. C’è Guillaume che è la controfigura della madre e la madre che è la controfigura di Guillaume. E Guillaume è imbrigliato in questa reciprocità. Quando il racconto giunge a un certo grado di elaborazione, questa presunta reciprocità del personaggio non c’è più. E infatti Guillaume si rivolge alla madre, che non ha più le sembianze del personaggio rappresentante la madre e se stesso.
M.A.V. In quel momento nel racconto cosa diceva?
R.C. Che si era accorto che la mamma aveva paura. È la mamma a avere paura. Ma, anche questo non è la verità. Quando la paura è attribuita a qualcuno, ciò comporta la condivisione della paura stessa. La questione è da esplorare: come la questione che è narrativa, come la paura che trascorre lungo l’articolazione fino alla dissipazione dei personaggi. Per l’intero film, della madre c’è una rappresentazione speculare, a parte la scena del teatro: solo a quel punto è dissipata. Ma è dissipata perché sono dissipate tante altre cose che hanno sorretto questa rappresentazione. E ciò mette in questione non solamente il papà e la mamma come personaggi, ma il padre e la madre come indici, il padre e la madre nel loro mito. C’è lo svolgimento dalla fiaba fino alla saga, dove la madre non è più personaggio della fiaba. Che cosa si articola in questo percorso dalla fiaba alla saga?
Barbara Sanavia Il superamento della paura.
R.C. No, non è il superamento. È la dissipazione, cioè la paura non si supera. È insuperabile.
B.S. L’affrontamento.
R.C. La paura si dissipa a un certo punto.
B.S. A un certo punto, Guillaume dice di essersi reso conto che faceva tutto per paura. In particolare faceva ogni cosa per compiacere la mamma, perché, secondo me, se non la compiaceva, temeva di non essere amato dalla mamma… La prima paura che ha affrontato è stata quella del cavallo e quando l’ha superata è stato un momento liberatorio.
R.C. No, la paura non è stata superata. Neanche lui è stato liberato.
B.S. Dissipata.
R.C. Se lei continua a dire che la paura è stata superata, allora continuiamo a credere che si tratta di liberarsi dalle cose. Non c’è liberazione possibile da nulla, perché la libertà è originaria. Il teorema indica l’originarietà della libertà, che è senza liberazione, perché il teorema indica che la credenza non c’è più! Non che c’è stato un superamento! La credenza non c’è più. Ciò che era ritenuto l’impedimento non c’è più, non perché è stato superato, ma perché non c’era mai stato! E si era istituita però la credenza. Quindi è la credenza che non c’è più. È il soggetto che non c’è più, perché non c’era mai stato!
B.S. Soggetto che gli è stato affibbiato dalla famiglia. Lui credeva nel soggetto riconosciuto dalla famiglia in lui.
R.C. Anche la questione dell’eterosessualità o dell’omosessualità, è la questione di un soggetto etero o omosessuale che dunque ripropone o propone un personaggio che deve essere conforme all’origine. A un certo punto s’instaura la sessualità, in assenza di contrapposizione o di alternativa tra etero e omo. Non c’è omo. Non ci sono simili. Non c’è più simile, cioè non c’è più cavallo. “Non c’è più cavallo” vuol dire non c’è più simile. Perché il cavallo si istituisce come ciò che deve tenere le fila della fobia? Il cavallo è un pretesto. Leggete il piccolo Hans: il cavallo è del tutto pretestuale. Non è che a un certo punto si libera dalla paura del cavallo in quanto tale. Non c’è più paura, che non è paura del cavallo, è paura. Rispetto a che cosa? Rispetto all’origine, all’idea di origine, che comporta anche l’idea di fine. Non è il cavallo l’elemento che scatena la paura. Quello è il mero pretesto. Però, non per questo è irrilevante.
B.S. Dunque, dissipando la paura, Guillaume ha ritrovato la sua identità nel senso che, non credendo più in quel personaggio è venuta fuori…
R.C. Cosa è venuta fuori?
B.S. La sua…
G.F. Vera natura.
B.S. Sì, cioè Guillaume è se stesso. Prima era come volevano gli altri, credendo a quello che gli altri vedevano in lui, non era se stesso.
R.C. Così dicendo lei introduce la predestinazione. Dice che è diventato se stesso, il vero se stesso.
B.S. No, non mi vengono le parole giuste.
R.C. Sono giuste, rispetto all’idea.
B.S. No, forse non trovo le parole giuste perché penso: è venuta fuori, mi verrebbe da dire, la sua essenza.
R.C. Ecco, appunto, l’essenza… Questo è il punto. Non c’è nessuna essenza, cioè non c’è né la vera natura, e ringraziamo Fornasier per il suggerimento, né c’è l’essenza. Questa concezione platonica va analizzata, altrimenti rimane la fiaba con i suoi personaggi, che sono tributari dell’idea di origine, dell’idea di essenza. È chiaro?
B.S. Non è che uno nasce e è predestinato. Non è questo che volevo dire, ma che è venuto fuori quello che lui è.
R.C. Ma è così che ha detto effettivamente, effettivamente ha detto così.
B.S. Però non volevo. Non credendo più in quel soggetto…
R.C. Ma chi? Chi sarebbe costui?
B.S. Guillaume, ora, agiva, si comportava senza credere in quel soggetto, per adeguarsi a quell’idea di soggetto.
R.C. Si, certo.
B.S. Era veramente lui ma non in senso assoluto, non è venuto fuori “il vero lui”, non ha scoperto “chi è lui” veramente, ma si è rivelato il lui originario: leggero, senza pesi, che non è un lui, definito una volta per tutte, ma un lui in divenire, costantemente, liberamente, con leggerezza.
L’originarietà c’è con la leggerezza.
R.C. Quando si istituisce il teorema che cosa accade? Non c’è più la prescrizione a essere, né a avere quelle caratteristiche, quegli aspetti o quelle attribuzioni che il personaggio era creduto avere o dovere avere. Nel momento in cui non c’è più la credenza nel personaggio, non c’è più nemmeno il personaggio e non c’è più nemmeno chi crede o non crede. Non c’è più il soggetto della credenza e quello che fino a quel momento era il figlio di mamma, non c’è più. Nel caso in questione c’è Guillaume. Ma non più preso nella differenziazione tra lui e i fratelli, ma Guillaume che non si situa più nella fiaba genealogica, ma nella parola. Il titolo in francese è Les garçons et Guillaume, à table! I ragazzi e Guillaume, a tavola! La mamma chiama i ragazzi e, per così dire, a parte, Guillaume.
Invece, quando è sulla terrazza con le amiche l’annuncio è: “Le ragazze e Guillaume, a tavola”. Mentre per tutta la vita lui ha sentito “I ragazzi e Guillaume”, come dire, i ragazzi e Guillaume che non è un ragazzo. Qui ci sono le ragazze e Guillaume. Guillaume finalmente ragazzo.
P.E. Il nome. Per cui s’instaura la particolarità.
R.C. S’instaura il nome e non più un significante collettivo: le ragazze e Guillaume. C’è Guillaume. Prima non c’era, se non come alternativa ai ragazzi, ai fratelli e quindi si doveva differenziare. Questo c’è nel testo, la differenziazione. Anziché la differenza, la differenziazione perché non sono ammesse le ragazze, ma solo i ragazzi che sono indicativi della genealogia. Sì.
Daniela Sturaro Di questo film ha fatto un’analisi splendida. Non ho mai visto né sentito fare un’analisi così articolata della questione. C’è un punto cruciale quando Guillaume vede Amandine. Che succede in quel momento?
R.C. Che succede?
D.S. Forse è lì che comincia la dissipazione , secondo me, quando lui la vede.
R.C. La paura si è già dissipata, per quello la vede. Altrimenti, non la vedrebbe. Vedrebbe sempre sua madre e le sue sorelle, le zie, la nonna, cioè la genealogia familiare e basta. Quando questa fantasmatica di appartenenza alla genealogia non c’è più allora…
D.S. … Guillaume può vedere Amandine.
R.C. Non solo vedere. S’instaurano Amandine e altre ragazze, non più come alternativa alla madre.
D.S. Lui ha compiuto una lunga ricerca. Arriva a quel punto quando ha attraversato moltissime cose, situazioni.
R.C. Quando s’instaura la madre, perché fin lì c’era la mamma, ma non c’era la madre. La nonna ha l’Alzheimer, tra le sorelle della madre una ha delle “stranezze”, l’altra oscilla tra omo e etero, quindi ogni donna è caricata di una caratteristica propria alla genealogia. Il film si conclude in maniera molto precisa. Vi ricordate al termine? “Amandine e io ci sposiamo”. “Con chi?”. Non è solo una battuta.
Maria Luisa Biancotto Il percorso lo fa lui, non sua madre.
R.C. È indicativo.
S.R. Non c’è reciprocità.
R.C. Non c’è il personaggio chiamato madre. C’è la mamma come personaggio e la madre. Questa battuta, “Con chi?”, viene dalla madre, non più dalla mamma. Teniamo conto che questa battuta segue alla scena del teatro, dove è un’altra la madre rispetto alla rappresentazione che ha avuto per tutto il film. È un’altra attrice. Ha un altro volto. È un’altra cosa. È stata molto brava Fernanda a notare questo dettaglio, che è decisivo. Questa battuta, che è conclusiva del film, non può venire da prima. Segue a quella che è l’instaurazione della madre nel viaggio. Eppure c’è questa battuta. Niente accordi con la madre! Irriducibile la madre rispetto al malinteso! È solo con la mamma che ci può essere compromesso, accordo, reciprocità presunta.
La madre è indice del malinteso, per cui “Amandine e io ci sposiamo”. “Con chi?”, cioè non ha un senso comune questa frase. Non è qualcosa che chiude il cerchio. Non c’è cerchio. Anche in questo annuncio, che potrebbe sembrare il lieto fine, bene, non c’è lieto fine perché il cerchio non si chiude.
“Amandine e io ci sposiamo”. “Con chi?”. Non c’è chiusura del cerchio. Non c’è un senso compiuto che possa dire, ecco, è finita qua. No, la madre è l’indice per cui la circolarità non c’è, non si compie mai, non c’è chiusura. È straordinaria questa cosa, indicativa dell’itinerario che si è svolto. È indicativo di un’accezione di madre originaria, che quindi non è genealogica, non è naturale, non è un personaggio, non è accondiscendente. È caratterizzata dal malinteso: “Amandine e io ci sposiamo”. “Con chi?”
Bene, tutto ciò come accenno all’incontro di giovedì prossimo, che ha per titolo Sessualità e mimetismo e che quindi prosegue la lettura del film, andando anche oltre ovviamente. Voleva dire qualcosa d’altro?
M.L.B. A proposito di trovare una identificazione sessuale, praticamente in questo film sembra che ci sia un continuo divenire di un caso, di una storia che non ha fine, che ha un suo percorso e non si sa quale sarà l’ultimo.
R.C. Esatto, senza l’ultimo. La frase conclusiva indica anche questo: non c’è l’ultimo avvenimento, non c’è la chiusura della storia. La storia prosegue.
F.N. Ma in un biglietto c’era scritto…
R.C. Che la mamma gli faceva gli auguri. Gli augurava una grande merda e lo abbracciava, ma merda, se avete notato, è la frase convenzionale che si scambiano in teatro per dire in bocca al lupo. La mamma quindi, nonostante il dolore “arrecato”, mandava il suo augurio. Non è che se s’instaura la madre, allora la mamma muore.