Primo capitolo del volume La realtà della parola
L’inconscio trascorre in un film
Ruggero Chinaglia Cominciamo questa sera una nuova avventura, l’équipe la Realtà intellettuale, dove alterneremo conferenze, questioni, racconti, a proiezioni di film con dibattito, per l’esplorazione e l’elaborazione analitica e clinica, considerando ciascun film come materiale clinico da leggere e da cui trarre la lezione.
“Clinico” è nell’accezione specifica che indica l’unicità di una combinatoria, dove ciò che si racconta non partecipa più della fantasmatica materna, ma va in direzione della qualità, della cifra del racconto. Non si tratta di denominare caso clinico, o questione clinica, l’appartenenza di un dettaglio, di una storia, di un caso a un settore psicopatologico, anzi, tutt’altro! Si tratta, invece, di cogliere come a partire da una fantasia che potrebbe far inscrivere qualcosa in una negatività, la vicenda e il racconto traggano invece alla dissipazione di questa fantasia di negatività, di male, di morte, di psicopatologia. La psicopatologia altro non è che il catalogo, o un catalogo convenzionalmente accettato da alcune comunità, delle fantasmatiche sul negativo, sul male, sul danno applicato a sé o all’Altro, per costituire una realtà stabile, una realtà nosografica. Qui si tratta invece della realtà intellettuale e, quindi, la lettura del film è lettura del caso clinico. È lettura di ciò che il film offre nella sua combinatoria di testo, immagini, sceneggiatura, scenografia, narrazione, cogliendo anche ciò che il film non presenta esplicitamente, ma offre nello svolgersi della vicenda e soprattutto nella sua conclusione.
L’aspetto clinico di un film spesso sfugge e non è clinico ciò che riguarda la classificazione psicopatologica. Non ci sono film clinici in quanto raccontano di vicende patologiche: ci sono film sulla paranoia, film sulla schizofrenia, film sul delirio, sul male dell’Altro… Ecco, non è questo che fa di un film un film clinico. Clinica è la lettura. Il film non è già clinico di per sé, perché affronta un tema psicanalitico, psichiatrico o psicologico. Un film tipo Qualcuno volò sul nido del cuculo sarebbe un film clinico perché affronta la realtà psichiatrica di una certa epoca? Non è ancora clinico, non lo è solo perché affronta una certa questione. Bisogna vedere come l’affronta, come la svolge, se giunge con il suo materiale a dissipare il fantasma di negatività, il fantasma di male, il fantasma di padronanza, il fantasma di soggettività e le credenze relative a questo.
La soggettività è qualcosa di molto appiccicoso, non è che trova assoluzione con l’uso di un solvente, trova assoluzione per via di analisi. E l’analisi è laboriosa. Laboriosa è il meno che si possa dire. Noi abbiamo fatto, in altri momenti, in altre circostanze l’analisi di testi letterari, per esempio, di fiabe: dei fratelli Grimm, di Andersen, di Perrault e di altri e quindi abbiamo esplorato come il fiabesco, per via di analisi, giunge alla dissipazione della fantasia d’incapacità, d’impossibilità, di negatività relativa a sé o agli altri, collegati alla famiglia, all’origine, a chi ci sta attorno. E il materiale di questa analisi è contenuto in una dispensa che s’intitola La lettura delle fiabe, che offre alcune indicazioni su come non credere alla fiaba in quanto tale, e su come cogliere nel materiale fiabesco il pretesto per la dissipazione della credenza che viene presentata.
Così abbiamo fatto con alcuni testi di Pirandello, nella serie d’incontri Pirandello e l’amore, che non ha ancora trovato edizione e che sarà opportuno avvenga al più presto, perché è materiale che è ormai di qualche anno fa. Non ha perso nulla della sua freschezza, eh! E è ora che giunga all’edizione.
Si tratta qui di una équipe analitica e clinica, perché trovi modo di affrontare, grazie agli interventi di ciascuno, alcuni nodi che esigono assoluzione, non già con la spada di Alessandro per tagliare il nodo gordiano, ma l’assoluzione, il modo dell’assoluzione, cioè l’analisi. L’analisi che avviene, come dicevo, per via di lavoro, con la messa in questione di alcune credenze. In particolare, della credenza della sostanza, della credenza dell’essere, della credenza dell’identità e della propria personalità, cioè della credenza di essere fatti in un certo modo, di avere un certo carattere e di avere un bagaglio ereditato, che, quindi, impedirebbe, condizionerebbe o favorirebbe determinate cose.
L’analisi procede da una scommessa, che è la scommessa di non essere più rappresentati da una certa soggettività, cioè da una propria idea di essere, da una propria immagine, o di essere, per forza di cose, connessi a un’idea dell’Altro o degli altri o a un’idea di appartenenza a una società, a un clan, a una casta, a un ambiente. Tutto ciò occorre sia messo in questione.
Non è automatico che qualcosa giunga a assoluzione, giunga al suo teorema. Fino a quando si crede che qualcosa sia tale, sia fatto in un modo che non può essere scalfito, fino a che qualcosa non entra nel racconto e di questo racconto non è udita e accolta la struttura linguistica, con faglie, varchi che comportano controsensi, effetti di sapere, un altro modo di collegare le cose, fino a quando ciò non si produce, beh, ognuno resta nella sua credenza di sé o nella credenza dell’Altro fatto in un certo modo, cioè ciascuno resta nella sua convinzione. Non va da sé che le convinzioni si dissolvano, non è automatico, c’è un lavoro da fare. E occorre anche accogliere l’ipotesi dello statuto intellettuale della parola, dello statuto intellettuale della lingua, dello statuto intellettuale delle cose.
Occorre mettere in gioco la domanda.
C’è chi si vanta di non avere domanda; né domanda, né domande e tuttavia magari pretende di avere dei frutti differenti dal mantenimento della propria identità. È una bella pretesa. Si chiama rivendicazione. Un indice che c’è analisi è dato proprio dalla dissoluzione delle rivendicazioni, che sono sempre pretesto per la denigrazione e la degradazione.
Le credenze sono innumerevoli. C’è chi crede che una smorfia, un gesto di qualcuno sia un segno. Un segno di malevolenza o di benevolenza e che questo significhi una disposizione, una persecuzione, una propensione fino a fondare una visione persecutoria, negativa o positiva, della presunta realtà. C’è chi presume di essere fortunato, chi invece di essere sfortunato e questo per nascita o per frequentazione o per benevolenza o per malevolenza divina, insomma, ognuno ha modo di credere tante cose. E finché queste credenze non sono messe in discussione, la realtà non s’instaura, quanto meno non s’instaura la realtà intellettuale.
L’analisi esige che vi sia formulazione della teorematica, che indichi che un’acquisizione è avvenuta dissipando l’idea di sostanza. Senza che vi sia la formulazione di un teorema, quindi che l’idea di un male, di una negatività, di un’idea di fine imminente, di una propria incapacità, di un proprio essere non c’è più e non c’è più perché non c’era neanche prima, ma era creduta, ebbene, senza la formulazione di questa teorematica, di cosa stiamo parlando? Del mantenimento della propria idea di sé; è constatabile l’analisi se questa idea è scalfita. Se non è scalfita vuol dire che non c’è analisi.
E chi la deve fare l’analisi? Non è lo psicanalista che deve fare l’analisi. Lo psicanalista è condizione perché il candidato faccia l’analisi, e il candidato la deve fare mettendosi in gioco, con l’elaborazione, l’articolazione delle fantasie, delle credenze, dei pregiudizi su di sé, sugli altri, sulle cose.
È qualcosa d’immane tutto ciò. Immane. Non è uno scherzo, ma la posta in gioco è pure rilevante. Chi si attesta sul proprio pregiudizio e sul pettegolezzo non ha fatto l’analisi di quel pregiudizio e di quel pettegolezzo e anzi ne fa un elemento fondante della propria rappresentazione.
Quindi, si tratta di dissipare le rappresentazioni di sé, le abitudini, le credenze, i pregiudizi e ogni idea convenzionale su ciò che viene chiamato, per esempio, realtà. Così come si tratta di dissipare ogni rappresentazione positiva o negativa di sé o dell’Altro, perché si tratta di accogliere ciò che viene dall’esperienza, non di mantenere ciò da cui si è partiti. Si tratta di accogliere ciò che viene, il nuovo che avviene. E quindi ci vuole umiltà, disponibilità, indulgenza, intelligenza, disposizione a ascoltare anche quelle variazioni che avvengono nella sfumatura. L’analisi non procede a colpi di accetta, avviene per variazioni impercettibili, per l’intervento del tempo anche, e il tempo è impercettibile. Il tempo non è ciò che noi pensiamo sia e ciò che continuiamo a pensare sia, nonostante sia stato messo in questione ormai da due secoli dalla fisica, per esempio dalla teoria della relatività e dalla fisica quantistica. Ebbene, ciò nonostante, del tempo ognuno mantiene una rappresentazione assolutamente superstiziosa, che fa riferimento al mito delle Parche, senza tenere conto che ogni idea di durata non è un’idea del tempo, ma della sua fine. Ora si tratta di accogliere il tempo, non l’idea della sua fine o della sua negativa, perché allora ognuno s’immagina guai.
Noi ci siamo decisi a affrontare questo tema della realtà intellettuale sia tenendo conto della congiuntura dell’esperienza in corso, sia di ciò che è in atto sulla scena civile, e anche di ciò che avviene sulla scena cosiddetta scientifica, dove costantemente avviene la negazione della questione intellettuale, la negazione della parola, la negazione dell’esperienza analitica. Oggi, il discorso scientifico è un discorso organicista, è un discorso improntato alla sintesi, quindi all’unificazione, non all’analisi e all’apprezzamento e alla valorizzazione del dettaglio, ma a una visione sintetica, totalizzante, comune. Questo è anti intellettuale. Occorre rendersene conto!
Avremo modo di analizzare proprio questo nell’attualità, per esempio a proposito del film Inside Out che affronta una questione molto trascurata, ritenuta a torto acquisita, che è la questione della cosiddetta psiche. La psiche, banalmente ritenuta psiche umana e, in quanto ritenuta umana, uguale per tutti. Eh, no! La psiche non è qualcosa di comune e ogni discorso che si fonda sull’organicismo, sull’evoluzionismo, sull’idea di conoscenza, come qualcosa di comune e totalizzante, è da mettere in questione intellettualmente.
Allora cominciamo con la realtà.
La realtà è una nozione comunemente data per scontata, ritenendo che la realtà sia ciò che si vede, che “cade sotto i sensi”. Quella sarebbe la realtà. Ciò che esiste effettivamente senza possibilità di dubbio. Questa è la realtà? No! Questa è la realtà convenzionale, ciò che è ritenuto realtà comune, perché vista, considerata, e non letta, con le superstizioni e i pregiudizi di ognuno, con la morale comune, con la grammatica comune, prescindendo dalla questione linguistica. Perché se accade che questa presunta realtà ognuno prova a raccontarla, non è mai lo stesso racconto, dunque non è mai la stessa realtà. Invece, sulla realtà vige una sorta di pregiudizio, di conformità, di stabilità, di certezza.
C’è poi una sorta di sovrapposizione tra la realtà e il reale e non è considerato lo scarto tra la realtà presunta e la rappresentazione che ognuno ne ha. Nulla di più fallace che la realtà sia reale. Ma per giungere a questo non c’è la necessità di fare un atto di fede, occorre accogliere la parola, la sua logica, la sua struttura, i suoi modi. Quali sono i modi della parola? Questo è ciò che per lo più sfugge, non è accolto, è dato per scontato, perché vige la prescrizione all’idea, alla convinzione di parlare tutti la stessa lingua. Nessuno parla la lingua di un altro.
E se qualcuno crede di capire cosa altri dice perché fa la traduzione nella sua lingua, ebbene, non capisce di che cosa gli si sta parlando. Occorre dire che talvolta la nozione di realtà è sovrapposta a quella di normalità e c’è chi è molto attaccato alla nozione di normalità. L’importanza di essere normale, no? C’è la paura di non esserlo e, quindi, l’attaccamento a questa “esigenza” di essere normali.
La normalità, occorre dire, è un’idea purista. È un pregiudizio purista, che nasce da una credenza sull’impuro. Posti a fondamento l’impurità, il male, il negativo, il purismo esige che l’impuro sia evitato e, quindi, ecco come si afferma l’esigenza di essere normali e di porre dei limiti alla normalità, chiarendo che cosa sta dentro e che cosa sta fuori la normalità.
Questo purismo della normalità sfocia nell’intolleranza, sia che lo chiamiamo razzismo, sia che lo chiamiamo pulizia etnica; le varianti sono molte, ma si tratta sempre del purismo, si tratta sempre dell’intolleranza. Si tratta di una rappresentazione dell’Altro che dev’essere conforme a un canone, ai requisiti posti dal canone. Il purismo, che è una forma dissimulata d’intolleranza, poi neanche tanto dissimulata, ma accreditata e supportata, procede dall’idea che c’è un male fondamentale che occorre purgare. Credenza peraltro ben accreditata anche dalle religioni. Nemmeno il cristianesimo fa eccezione.
C’è un crimine originale che occorre emendare, di cui occorre pentirsi, rammaricarsi, fustigarsi fino alla rigenerazione. Questa credenza nel male originale, oltre a essere diffusa, condiziona il vivere di chi l’accoglie senza analizzarla. Questa credenza fonda la relazione sociale, fonda la comunità; questa credenza, che espelle la contraddizione, perché pone l’alternativa fra il bene e il male, con tutto ciò che ne consegue, è micidiale. E se non è dissipata, costituisce il timone della vita, che viene così orientata a evitare il male e a perseguire il bene. Ma quali siano il male e il bene è sempre questione di pregiudizi.
Che ne è della domanda, della sua direzione verso il compimento di ciò che ne costituisce i termini, fino a che vige la credenza nel male da purgare e nel bene da inseguire? Questa è appunto la questione.
Se la vita è improntata a questa alternativa, il tempo è bandito e ne abbiamo un esempio oggi, in maniera molto pressante, con la questione del velo. Velo sì, velo no. Velo da mettere, velo da togliere. Il velo come copertura, il velo come scopertura. La questione del velo è una questione antica. Lo svelamento. Anche per i greci il velo era da togliere. Aletheia era la verità svelata, senza più velo. Ma appunto questo velo originario, che non è né da mettere né da togliere, in che modo si pone, senza rappresentazione? Il contesto religioso non è giunto all’elaborazione sul velo, quindi non è giunto all’ elaborazione sul tempo e infatti pone l’alternativa fra la vita al di qua e la vita al di là, quindi la morte come timone della vita, anziché rilevare la paradossalità di questa alternativa.
La religione propone la conciliazione fra la vita e la morte. E cosa fa la scienza, la presunta scienza, in osservanza e in ossequio a questa idea religiosa? Raffina i metodi di buona morte come esempio di civiltà. Forse che sta nella civiltà morire bene? E che ne è del vivere? Bene è vissuto chi muore bene? Eh! Questioni che si pongono all’attenzione, no? Che vengono accettate però, accettate volentieri. Accettate! Perché ne parla bene Francesco I, perché ne parla bene la medicina tanatologica, perché il business costruito sulla morte è fiorente e quindi diventa una questione di civiltà. Ma che civiltà è quella che fiorisce sulla buona morte, anziché sulla vita di qualità? Anziché sulla realtà intellettuale, che non è la realtà convenzionale fatta di questi pettegolezzi e pregiudizi?
E un’altra convenzione sulla realtà, pedissequamente condivisa, è che vi sia una realtà obiettiva e una realtà soggettiva: in entrambi i casi siamo alle prese con una realtà convenzionale. La realtà non è oggettivabile, ne è soggettivabile. Presumere che vi sia una realtà soggettiva è quindi consacrare il soggetto, l’agente, togliendo la parola, togliendo l’astrazione, la distrazione, la sottrazione, cioè togliendo i modi della lingua che costituiscono le sfumature del racconto. Metafora, metonimia, catacresi, sfumatura, tutto ciò è abolito da questa rappresentazione della realtà come realtà oggettiva o soggettiva, che dipenderebbero quindi dall’agente, il soggetto che se le rappresenta.
E l’aspetto linguistico? Sta nella parola con cui si enuncia la realtà, ma non come realtà in quanto tale, realtà che deve essere partecipata, realtà la cui visione deve essere comune, no! È la realtà che entra nel racconto in cui la combinatoria è imprevedibile. Se accogliamo la parola, non c’è più l’alternativa tra l’osservazione della realtà che dovrebbe darcene la rappresentazione vera e un’allucinazione della realtà, che sarebbe la conseguenza di una patologia o di una visione distorta della realtà stessa. In entrambi i casi c’è una sostanza chiamata realtà, rispetto a cui c’è chi si discosta e chi invece vi appartiene. E chi si discosta, che cos’è? È anomalo, anormale, è malato, è delirante? È! Comunque è! È fuori dalla visione comune. E non è questa un’epurazione, non è pulizia etnica, non è intolleranza? Non è una chiusura rispetto a capire, a ascoltare cosa si sta dicendo di questa visione, di questa realtà, di qualcosa che si dice?
La realtà non è, ma entra in ciò che si dice. La questione della realtà intellettuale procede da questo. È realtà senza il pettegolezzo rispetto a ciò che ne ha detto Tizio, che ne ha detto Caio come prova di conformismo, di una conformazione o meno al dato oggettivo; la realtà intellettuale esige piuttosto la prova di realtà.
In che cosa consiste la prova di realtà? Nella scrittura della ricerca, nella scrittura di ciò che giunge a formularsi. Non è la prova di realtà come prova di adeguamento all’esistente. No, è prova di realtà nel senso che la realtà, che è data dalla combinatoria dei termini, dei modi delle cose che entrano nel racconto, giunge a scrittura, giunge a formularsi, giunge alla formula della qualità.
Non è un’adesione a una credenza, ma è piuttosto la formalizzazione di un’acquisizione. Questa è la prova di realtà, per cui nessuno è tenuto a condividere nulla, ma è tenuto a formalizzare le acquisizioni che giungono dalla realtà intellettuale della domanda. Senza più pettegolezzo, senza più sostanzialismo, senza più adesione a una convinzione, a un moralismo, a una superstizione, ma con la chanche di portare a valore ciascuna acquisizione. È l’avviamento del processo di valorizzazione della vita stessa.
Tutto ciò è detto molto rapidamente. Questa è la traccia di un cammino, di un percorso da fare, come dicevo prima, di un’avventura che incominciamo questa sera ignorando dove ci condurrà. Procedendo quindi dalla parola, dal film come tessitura tra il linguaggio, la sembianza, la materia, dalla tessitura fra i significanti e le immagini – il cinema è l’arte della semovenza delle immagini – per approdare alla cifra di ciascuna cosa. È questa la scommessa: che vi sia cifra.
Ciò che nel titolo di questa sera è posto come “l’inconscio” è questo: è la logica, la particolarità della parola in direzione della cifra. Questo è l’inconscio. Non è un organo. Non è neanche un’entità. Non è una profondità. Non è un codice da scoprire. Non è qualcosa che sta sotto il velo, o sopra il velo, si avvale del velo in quanto velo del tempo, per cui non c’è nessuna operazione di scoperta o copertura.
Ecco, direi che intanto sono queste alcune delle questioni. Se ci sono domande o aspetti da chiarire o notazioni, evocazioni o pensieri che sono sorti ascoltando… l’équipe è per questo, perché è senza spettacolo.
Maria Antonietta Viero Qualcosa che riguarda la nozione di formalizzazione. Cioè, come si formalizza l’acquisizione. Se già l’acquisizione, come dire, è il modo in cui giunge la testimonianza e l’acquisizione è già in un percorso di scrittura, e quindi d’intendimento di qualcosa che si scrive, allora mi chiedo cosa voglia dire formalizzazione dell’acquisizione, se un processo è già avviato lungo la valorizzazione. Perché, l’acquisizione è un effetto di questo processo di valorizzazione che non termina, ma che comporta un momento…
R.C. Un’acquisizione non è un effetto. Il senso è un effetto, il sapere, la verità…
M.A.V. Sì, sì.
R.C. Ma l’acquisizione, no. L’acquisizione è acquisizione. Qualcosa cioè che giunge come acquisto.
M.A.V. Ha a che fare con l’effetto di verità?
R.C. E quindi di arricchimento. È qualcosa che arricchisce, l’acquisizione.
M.A.V. Certo, ma ha a che fare con gli effetti di senso, di verità e di sapere?
R.C. Non solo. Non basta all’acquisizione che vi sia un effetto di senso. Freud diceva che c’è bisogno dell’elaborazione, e poi della perlaborazione, e poi della costruzione. È una cosa complessa.
M.A.V. Ma, come dire, post acquisizione, allora?
R.C. Né pria né post. Senza prima e senza poi, perché è nel gerundio. Che vi sia la formalizzazione è interessante, perché indica che il gerundio si è instaurato, che non c’è più il prima e il poi, che non c’è più il soggetto agente del tempo, padrone del tempo, che decide cosa sta prima e che cosa sta poi. Non c’è più il prima e il dopo.
M.A.V. Allora la formalizzazione è data dalla testimonianza? Investe la testimonianza, di scrittura in scrittura?
R.C. C’è questo e c’è quello. Non è che si possa stabilire il protocollo. È senza protocollo questa cosa. Non è un’operazione protocollare, né protocollata. È libera.
M.A.V. Un’altra questione riguarda un’ulteriore distinzione tra la fantasmatica e la fantasia. Allora, nel dissolvere la fantasmatica, la fantasia non smette, diciamo così. Perché altrimenti sembrerebbe che dissolta la fantasmatica, fosse quella a implicare un nodo, ma la fantasia non è dissolvibile. Cioè, sembrerebbe che la fantasmatica sia il modo con cui si costruisce un fondamento che poi va fino al disagio, alla sua rappresentazione, al realismo. La fantasmatica si dissolve, ma la fantasia prosegue, è per via di fantasia che c’è il modo del racconto, no?
R.C. Beh, certo. Dissipare una fantasmatica non vuol dire che allora non interviene più una fantasia nelle cose. Certo, ma può essere interessante che anziché esservi una fantasia distruttiva rispetto a qualcosa, vi sia una fantasia costruttiva, anzi, che vi sia una serie di fantasie rivolte alla costruzione di qualcosa e non solamente alla stigmatizzazione, alla denigrazione, alla degradazione e alla distruzione, e alla negatività; e dire che tutto va male, che Tizio, Caio, Sempronio sono contro, e che quindi… ecc. ecc. Osare la formalizzazione è una bella cosa, è come dire giungere alla formula di qualcosa, la formula non è mai definitiva. Per lo più, sono state apprezzate nei secoli, e inseguite, le formule magiche, ma ci sono anche formulazioni non magiche e ciascuno può cogliere quali sono le formule del proprio itinerario, le acquisizioni, la combinatoria di queste acquisizioni che sfocia in qualcosa d’Altro. Tutto ciò è una bella cosa.
Patrizia Ercolani La differenza tra la realtà e il reale. Mi domandavo la differenza intorno a questo.
R.C. Ecco appunto, se lo domandava. Qual è l’ipotesi?
P.E. Che la realtà sia convenzionale, d’accordo, c’è una costruzione fantastica, che entra in una rappresentazione, verosimile o inverosimile.
R.C. Ecco, la realtà non è né verosimile, né inverosimile.
P.E. Pensavo che prende radice, prende spunto, quantomeno, da qualcosa di reale.
R.C. Sì, può accadere, dove il reale…?
P.E. Eh, è invisibile, non si sa qual è. Non è dato di sicuro, altrimenti non si rappresenta.
R.C. Ma qual è la proprietà del reale, qual è una proprietà del reale?
P.E. Che esiste.
R.C. Allora c’è il fondamento. Non lo chiamiamo più realtà, ma lo chiamiamo fondamento, e il reale che abbiamo fatto uscire dalla finestra entra trionfalmente dalla porta.
P.E. Non so se intendevo questo, quando pensavo alla metafora, alla metonimia, al nome, al significante e all’Altro. Mi domandavo se sia materia reale, nel senso che esistono in quanto operano, funzionano.
R.C. Ecco, questa è una bella connessione: qual è la materia del reale, per esempio, a proposito di… Qual è la materia del reale?
P.E. Una rappresentazione, una mitologia per esempio.
R.C. Eh no, senza rappresentazione e senza mitologia.
P.E. Il reale. E allora non c’è più realtà.
R.C. Non confliggono. Non si escludono. Non sono alternativi.
P.E. Allora, c’è il reale e la realtà.
R.C. Certamente, e non sono equivalenti, non sono sovrapponibili.
P.E. Non ho colto comunque la differenza tra le due cose. Che sono adiacenti? Sì, se non si escludono, non si oppongono, non sono in relazione fra loro, allora sono adiacenti.
R.C. Certo.
P.E. Ah, e dopo, rispetto alla lettura: lei diceva all’inizio che la clinica e l’elaborazione dissipano una fantasmatica. Allora, mi domandavo, così per chiarire, cosa entra nell’elaborazione per cui una fantasmatica si dice che si dissolve, cioè non ci si crede più? Il dissolvimento di una fantasmatica, penso voglia dire anche che non è più creduta, quindi non è più una credenza, non è più un pregiudizio, non è più.
R.C. Chiaro.
P.E. E non credendola più, non diventa più la premessa di qualcosa per cui qualcuno fa o non fa, agisce o non agisce. Però, mi domandavo a quale punto si dissolva.
R.C. Con l’analisi.
P.E. Sì certo. Analizzando interviene qualcosa per cui a un certo punto raccontando, dicendo… non so se ha a che fare con il tempo, con il taglio… È come dire, cosa distingue la fantasia dalla realtà, dal reale.
R.C. Eh, sono cose che hanno caratteristiche, proprietà differenti. Si tratta di qualificarle. Quale può essere l’idea per cui c’è un Tizio che crede che non può lavorare insieme a suo padre? Cosa fa sì che, a un certo punto, questo impedimento non ci sia più? È l’analisi dell’impedimento presunto, che trae a dire che non c’era neanche prima. Se si dissipa come impedimento reale, non c’era neanche prima, no? Era un impedimento presunto, quindi quell’impedimento che non c’è più, strutturalmente non c’era neanche prima. Però ce n’era l’idea, ce n’era la credenza che lo fondava come impedimento. Ora, qual è lo specifico, qual è la caratteristica, quali sono i termini per cui si è fissata questa credenza? Perché può accadere che ci sia chi, convinto di non potere lavorare o collaborare con il padre, non può fare nient’altro, perché se facesse anche mille altre cose riuscendo, sarebbe cosa da poco. Non può collaborare con il padre, ma non può fare nient’altro.
Altre domande?
Daniela Sturaro Per me è un enigma la questione che l’analista è la condizione dell’analisi e che l’analisi deve essere fatta dal candidato.
R.C. È un enigma per lei. Lo chiamiamo candidato, in questo caso.
D.S. A cosa?
R.C. All’analisi. A che cosa? Alla cifratura. Candidato.
D.S. Candidato vuol dire che c’è una prova da superare per…
R.C. No, che c’è una domanda in atto. E per via di questa domanda c’è una scommessa. Quindi la candidatura è la candidatura che questa scommessa si compia. Nulla di automatico, no? Nulla di scontato. Lacan lo chiamava l’analizzante, psicanalista e psicanalizzante, ma è una formula che costituisce sempre una rappresentazione di ruoli, quindi di una sorta di coppia che dovrebbe funzionare, come medico–paziente, insegnante–studente, ecc. Qui si tratta invece di un dispositivo, dove occorre che vi sia lo psicanalista e anche il candidato, che non fanno coppia, ma un dispositivo.
D.S. Per l’amor del cielo.
R.C. Per carità…
D.S. Avevo sentito invece dire l’analista come direttore di ricerca. Allora, se c’è una ricerca e c’è chi dirige la ricerca, non si lascia annaspare il candidato.
R.C. No, non deve annaspare il candidato. Cosa deve fare il candidato? Camminare sulle acque? E gli si sostiene il piedino, in modo che cammini sulle acque, invece di annaspare?
D.S. Eh no. Bisogna mettere la pulce nell’orecchio, no?
R.C. Eh certo. Perché no? Certo. La pulce nell’orecchio ci sta. E poi?
D.S. E poi, la prossima volta c’è il film.
R.C. Ok. Lei aveva alzato la mano.
Fabrizio Moda Sì, era sorta la curiosità del velo. Va qualificato come qualcosa che ha a che fare con il tempo?
R.C. Voleva indossarlo?
F.M. Era su questo argomento, che è stato solo accennato come proprietà del tempo e quindi in un’accezione totalmente diversa da quella di morale, di costume, di segregazione e quant’altro che è discussa in questi tempi.
R.C. Eh, no. Il modo in cui se ne discute attualmente è sempre il modo dell’erotismo. Velo da indossare, velo da togliere, velo per non mostrare, per non esibire, per nascondere, per purezza. È sempre in nome di un erotismo, sempre in vari erotismi occorre dire. Forse anche in un antropomorfismo di Dio, no? Bisogna avere il capo coperto per non mancare di rispetto a Dio, sennò si arrabbia, cioè un dio proprio più banale degli uomini, no? Per alcuni il capo deve essere coperto, per altri dev’essere scoperto, le donne devono avere il capo coperto, verso Dio, verso gli uomini, cioè sempre comunque in una rappresentazione in nome del purismo, del rispetto, dell’impuro e del puro. Qual è la proprietà del velo, una volta che è sgombrato il campo da questo erotismo? Occorre fare l’analisi del velo, non è che sia automaticamente già bella e fatta no? C’è chi l’ha fatta e chi no, quindi occorre farla. Vero? Lei cosa dice?
Pubblico Stavo pensando di fare una domanda per quanto riguarda la percezione della realtà nella realtà virtuale.
R.C. Ecco. Lei subito ha colto. Infatti avevo anche un appunto sulla realtà virtuale. Lei cosa dice esattamente?
Pubblico Eh, è una domanda che rivolgo a lei perché non so contestualizzarla, onestamente.
R.C. Lei come la formula esattamente?
Pubblico Come cambia la percezione della realtà nella realtà virtuale.
R.C. Percezione, lei dice. Sì, anche quest’accezione di realtà, di per sé, non l’affranca dal pregiudizio e dalla convenzione. Lei mi può fare un esempio di realtà virtuale?
Pubblico Beh, un esempio estremo potrebbe essere il visore VR, che è quella maschera che si mette e con cui si vede un’altra realtà. Oppure, come realtà virtuale, mi viene in mente quella dei social network, con cui abbiamo un approccio quotidiano.
R.C. Ma è virtuale per modo di dire, perché in realtà cosa comporta? Che alcune modalità, che sono ritenute fondanti nella realtà sociale, vengono applicate a una realtà che è più ampia, non localizzata, che però ha le stesse prerogative di quell’altra. Cioè il concetto che consente la rappresentazione della realtà, come realtà convenzionale, non è in realtà dissipato o articolato dal fatto che intervenga questa formula di “realtà virtuale”. È mantenuto, quindi la realtà virtuale non è un’analisi della realtà, non fa sì che giunga alla realtà intellettuale, perché la soggettività di chi vi si rivolge è mantenuta, con in più l’idea di anonimato applicabile a sé o all’Altro, anziché al nome.
Ciò che è prerogativa del nome viene attribuito a sé o all’Altro e è considerato uno strumento “per”; per evitare qualcosa, non come mezzo strutturale, originario, ma come evitamento, in quanto io nell’anonimato posso fare cose che altrimenti non mi sentirei di fare. Per esempio, anche l’uso dei vari social è indicativo, in moltissimi casi, proprio di questo. È un esempio, ma è una cosa che dobbiamo affrontare in modo più preciso. È una bella domanda questa. Il fatto che vi sia una realtà virtuale non porta a articolazione, per esempio, l’idea che sia una realtà da scoprire, anziché da inventare. La questione della realtà intellettuale è che si tratta dell’invenzione della realtà, reperendone i termini nel racconto, nell’atto, nel fare, ecc. Lì si mantiene invece la credenza della scoperta, cioè di un velo da togliere. Nella cosiddetta realtà virtuale questo è ancora più marcato. C’è l’idea che questo velo possa fare da copertura.
F.M. Rafforzamento della credenza, diciamo.
R.C. Si, certo. Cioè, non è un’articolazione, ma è solamente un frutto della tecnologia. Non è un avanzamento dell’elaborazione sulla realtà.
F.M. Cioè l’alibi dell’alta tecnologia…
R.C. L’alibi o il mezzo che attraverso la tecnologia “consente di”, ma non è un attraversamento o una elaborazione sulla questione della realtà. Anzi, rafforza il fatto che c’è una rappresentazione che può essere allucinatoria e quant’altro, cioè mantiene determinati capisaldi fantasmatici. Sì, la domanda è bella. Lei cosa fa?
Pubblico Sto lavorando attualmente come video maker, però mi piace molto la tecnologia quindi…
R.C. Quindi, lei lavora nella costruzione di video?
Pubblico Sì, nel cinema.
R.C. Cinema. Noi abbiamo presentato alcuni video, alcuni corti diciamo così, qualche anno fa di Rocco Cosentino. Lo conosce? Un regista di Cittadella, bravo. Ha prodotto alcuni bei corti e ne abbiamo fatto la lettura clinica, come faremo con i prossimi film. Lei dove ha visto la notizia di questi incontri?
Pubblico Su “DAMS news” di Padova, mi sembra.
R.C. “DAMS news”, quindi è attraverso…
Pubblico L’università di Lettere e Filosofia di Padova.
R.C. Che ha inserito la notizia nella sua newsletter. Ah, bello questo. Non so se gliela abbiamo mandata. Forse l’hanno recepita attraverso…
Pubblico So che c’è Maria Salvatore che è laureata in Cinema per Psicologia e è insegnante al DAMS.
R.C. E quindi diciamo per via digitale, insomma. Bene, bene. Infatti, sono strumenti di cui avvalersi. Ci sono altre domande?
Allora per oggi terminiamo qui e ci vediamo giovedì prossimo con la proiezione e il dibattito del film Babadook. C’è chi ha già visto Babadook? È stato distribuito l’estate scorsa, è un’opera prima di una regista australiana. Il film, a torto inserito, a mio parere, nel filone horror è molto interessante. È stato distribuito in questa categoria dei film horror, ma è un’etichetta che non dà nessuna qualifica a un film che invece è interessante. E giovedì capiremo perché.
F.M. Sthephen King dice che è profondamente disturbante, non horror.
R.C. Disturbante? Perché l’ha visto, ma non l’ha letto. L’ha visto e ne è stato disturbato. Credeva di fare un complimento, ma va bene.