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Secondo capitolo del libro L’educazione

Innamoramento e amore

Ruggero Chinaglia Nell’incontro di oggi puntiamo a qualificare l’innamoramento e l’amore, ma proseguiremo a esplorare le questioni che riguardano la logica diadica di cui abbiamo già cominciato a parlare la settimana scorsa, cioè amicizia, solidarietà, relazione. Infatti, c’è qualche ulteriore precisazione da fare in merito a esse, anche tenendo conto che i termini e i modi delle questioni che costituiscono il materiale del corso non vengono dall’accademia, da un sapere disciplinare, partecipabile o imparabile, ma vengono dall’esperienza della parola originaria e dalla sua scrittura. Esperienza che si scrive con l’intervento straordinario della novità, dell’inedito, dell’eccezione, ossia dell’eccellenza. L’eccezione indica la logica dell’eccellenza.

Eccezionale è l’oggetto che interviene in modo imprevisto e imprevedibile a cangiare l’avvenimento. L’eccellenza è la condizione indispensabile, imprescindibile perché qualcosa incominci, in particolare perché incominci nel suo itinerario verso la qualità, verso la qualificazione. La domanda parte dall’eccellenza, non può mai venire meno e non è mai il caso di banalizzarla o volgarizzarla, tanto meno di cercare di toglierla per facilitare le cose.

Ogni tentativo di facilitazione risulta un modo per sbarazzarsi dell’eccellenza, ossia della causa, di ciò che promuove, istiga, di ciò che nella parola costituisce l’oggetto. E tutto ciò importa a proposito della questione dell’innamoramento e dell’amore che è il tema di oggi.

Parlavamo la settimana scorsa della logica diadica, della relazione, di ciò che fa sì che le cose risultino inconciliabili. L’inconciliabilità delle cose è l’armonia. Ciascun tentativo di armonizzare le cose ottiene proprio l’effetto contrario, toglie l’armonia, ma non l’armonia naturale, bensì l’armonia originaria della parola che è, appunto, l’inconciliabile, ciò che non può mai puntare verso l’unità, ciò per cui non si può mai togliere l’apertura, ossia il due, la diade, la relazione.

Dicevo che amico e nemico non sono l’uno l’opposto dell’altro, non costituiscono una contrapposizione, casomai costituiscono una contraddizione, contraddizione che non si contrappone. Quindi, amico-nemico costituiscono il modo dell’apertura, il modo della relazione, non già una dicotomia, non già una coppia oppositiva. L’amico non è ciò che è in alternativa esclusiva al nemico, ma amico-nemico sono il modo dell’ossimoro, il modo della relazione, ossia comportano che ci sia contraddizione senza alternativa esclusiva, senza contrapposizione. Quindi, l’amicizia è ossimorica e anche l’armonia è ossimorica: amico-nemico, bene-male, alto-basso.

L’armonia non è ciò che talvolta viene pensata come armonia ideale dove tutto va bene. Quella non è l’armonia, ma è il regno della morte, il regno dell’ideale, il regno della calma che lo psicofarmaco tenta di riprodurre.

Lo psicofarmaco serve a riprodurre il regno ideale di una presunta armonia dove tutto dovrebbe essere piano, senza piega, senza increspatura, senza differenza, armonico, univoco, senza dissidenza, senza disagio, naturale. Questa naturalità ideale è quella che viene postulata e perseguita dalla così detta teoria del conflitto che, pur rappresentando un arcaismo, propone ancora oggi, con un certo seguito, che le cose debbano essere univoche, prescritte e seguite in un certo modo da tutti.

Il malessere, il disagio sarebbero l’espressione del conflitto, cioè dell’alternativa esclusiva che andrebbe sanata togliendola, cioè rendendo le cose univoche, ovvero togliendo la contraddizione, togliendo il due originario.

Su questa presunta necessità di unificazione, di universalizzazione, di univocità, sorgono varie figure di normalizzatore, sorge l’idea stessa di normalizzazione, perseguita ora dal politico, ora dall’educatore, ora dalla guida, ora dallo psicoterapeuta. Sono questi i vari modi con cui viene perseguita la scena ideale dove viene tolta la contraddizione, dove viene tolta la diade intesa come ciò che genera il conflitto.

Ma il conflitto è un’idea che segue alla logica aristotelica, cioè alla logica dell’alternativa esclusiva, dove c’è un uno e c’è un altro uno. Allora, i due uno fra di loro confliggono, soprattutto se sono contrapposti. Ecco la polemica! La polemica è pensare che esistano due idee, due uni, due cose uguali che si contrappongono, quindi confliggono. L’ostilità è un altro modo del conflitto, cioè le cose dovrebbero essere in un certo modo e quel che non segue questa prescrizione al dover essere, entra in conflitto.

Conflitto. C’è tutta una teoria dell’insorgenza della nevrosi che si baserebbe sul conflitto. Ci sarebbero due istanze tra di loro in conflitto, due cose che simultaneamente dovrebbero andare in direzioni contrarie, queste confliggono e su questo conflitto che cosa succede? Che si perde la ragione, che è una ragione ben da poco se basta una contraddizione per perderla. È un’idea di ragione molto domestica, molto labile. Tutto ciò perché l’idea di partenza è quella dell’essere, un essere immutabile le cui caratteristiche sono poste da ciò di cui abbiamo parlato la settimana scorsa, cioè dai principi di identità, di non contraddizione e di alternativa esclusiva, di terzo escluso.

Questo comporta che anche nell’educazione, nell’orientamento, venga talvolta postulata una traiettoria, una linea diritta mediante la quale le cose dovrebbero giungere alla loro destinazione, alla loro meta. Non si tratta più dell’itinerario della qualificazione delle cose, non si tratta più della qualità, ma si tratta del significato, si tratta dell’ideologia. La linea prescrive come pensare, come ragionare, qual è il senso, il significato delle cose, come bisogna saperle.

Ogni teoria dell’apprendimento parte da questo, parte da un presunto animale fantastico, l’uomo, che deve comportarsi in un certo modo per essere quell’animale reale che deve essere. Questo animale fantastico è il soggetto, ciò che viene comunemente chiamato il soggetto. Soggetto come ciò che sta sotto alla parola, come ciò che il discorso occidentale ha creato per cercare di controllare e dominare la parola a favore del discorso, di una scienza del discorso che non desti inquietudine, che non dia sorprese rispetto al sapere.

Il soggetto dovrebbe padroneggiare, controllare la parola, i suoi effetti, gestire le cose, evitare le contraddizioni, evitare le inquietudini, prescrivere, vietare, guidare, come se le cose fossero già note, come se tutto fosse già saputo e si trattasse di trasmettere il sapere. Questa è la scienza del discorso, ciò su cui nascono le discipline, ciò su cui nasce l’università, ciò su cui nasce anche la religione ortodossa. È la negazione del figlio, cioè la negazione del significante che funziona e quindi differisce e, differendo, produce altro sapere.

Le discipline e l’università sorgono sull’eliminazione del significante che differisce, e si basano su un nome del nome stabile, sulla parola in quanto stabile, che non produce sapere nuovo, ma che è trasmissibile in quanto tale. Su questa idea sorge la corrente dottrina della comunicazione, che più che comunicazione si trova a essere una trasmissione dati.

Con la parola sorge, invece, la questione da dove le cose vengono, dove vanno, cosa vogliono dire, dato che la stabilità che il discorso occidentale postula nella comunicazione non viene incontrata e, anzi, parlando, ciascuno si accorge che la materia della parola è tutt’altro che stabile, che si incontrano lapsus, sviste, paradossi, dimenticanze, controsensi. Quindi, la padronanza sulla parola non riesce, la parola è qualcosa che sfugge. Ma proprio per ciò che sfugge, per ciò che non si riesce a prendere, c’è domanda!

Domanda, cioè spinta, pulsione, ricerca, curiosità. La stessa curiosità non avrebbe nessun motivo di esistere se le cose stessero come postula la scienza del discorso, se cioè le cose si sapessero già, fossero già note, fossero stabili, se il significato fosse sempre quello, se cioè non ci fosse una combinazione infinita delle cose per cui senso, sapere e verità risultano aspetti della parola che non rispondono a un codice predeterminato, ma di volta in volta sono effetti sorprendenti, nuovi, cioè temporali.

Proprio per questa caratteristica della parola, la domanda esige la mano intellettuale, mano le cui dita sono costituite dall’umiltà, dalla generosità, dall’intendimento, dall’intelligenza e dall’indulgenza.

Cecilia Maurantonio In luogo della tolleranza?

R.C. No, non in luogo. Intendimento e intelligenza in qualche modo indicano la stessa questione, quindi si tratta effettivamente anche della tolleranza.

Umiltà nel senso della disposizione all’ascolto, della disposizione a intendere ciò che ciascuna combinazione comporta e generosità nel senso dell’ammissione dell’Altro, della differenza nella parola.

L’educazione che comporti la severità, chiaramente manca al suo stesso compito, in quanto prescrive e toglie l’ascolto come se applicasse i canoni di un discorso, senza tenere conto di quel che sta avvenendo, di ciò che è in atto in quel momento. È molto facile applicare la severità, è assai difficile, invece, lasciare che vi sia generosità nell’intervento, intervento che l’educatore o l’insegnante nella sua funzione occorre compia.

Si tratta di non confondere l’autorità con la severità, l’autorità con l’autoritarismo, la generosità con la bontà o con l’altruismo. Perché occorre certamente che vi sia aiuto, ma non è detto che l’altruismo aiuti. L’altruismo può risultare la negazione dell’aiuto in quanto prescrive qualcosa nel senso dell’identità reciproca.

Per esempio, può capitare che un ragazzo dica “Io non riesco a fare i compiti, non riesco a fare questa cosa per la scuola”. Allora i genitori dicono “Ti diamo una mano, ti aiuto, te la faccio io, ti aiuto a farla”. Ecco, non è detto che ciò risulti un aiuto, anzi, l’aiuto sta nel far sì, che si instauri il dispositivo opportuno perché ciò che risulta impossibile fare, trovi il modo di venire fatto. Non è detto che questo debba comportare che la mamma aiuti il bambino, il ragazzo, oppure che debba trovare una complicità nell’ammissione di incapacità, perché questo è un torto all’intelligenza.

Si tratta di trovare un dispositivo opportuno perché ciò che viene enunciato come impossibile, trovi la sua via. Sta qui l’aiuto, dove invece l’altruismo è come se togliesse l’intelligenza, togliesse la fiducia, togliesse il dispositivo. Taglia corto e dice: “Facciamo insieme”! Oppure: “Fai così”! Prescrivendo il modo di fare. E questo può valere banalmente per i compiti, ma ha un’importanza ben superiore in altre cose.

Infatti, accade che certe modalità che vengono applicate nell’educazione dei bambini, permangano come istanza, ossia “Io devo essere aiutato. Tu mi devi aiutare, senza l’aiuto non ce la faccio”! Cioè, sempre con un’idea di sé come mancante, incapace, bisognoso, quindi come soggetto. Soggetto carente, mancante, bisognoso.

Queste rappresentazioni traggono il loro materiale proprio dalle modalità che, fin dai banchi di scuola, vengono applicate in relazione a ciò che viene enunciato come aiuto. Certamente, ciascuna domanda è domanda d’aiuto, ma non di altruismo. Non è domanda di venire riconosciuti come soggetti incompetenti, incapaci, deboli, inabili! È domanda di aiuto in direzione della qualifica di ciò che sta nella domanda.

Nadia Vidale Posso chiedere una cosa? Mi sarà capitato un mese fa. Si tratta di una bambina di quarta elementare. La nonna che si occupa della bambina dice che, siccome la bambina non vuole fare i compiti, allora lei o altre persone che si trovano a casa, l’aiutano a fare i compiti.

R.C. Sono casi molto frequenti.

N.V. Sono casi certamente frequenti.

R.C. Anche perché è uno dei pretesti più immediati, per un bambino, per avere vicino qualcuno che altrimenti non sarebbe lì.

N.V. Io ho avvertito che non potevo fare finta di niente. Lungo la conversazione ho detto che era comunque meglio che la bambina andasse a scuola con i compiti da fare, oppure con il lavoro fatto da sola, completamente da sola.

R.C. Chiaro.

N.V. Però, poi, ripensando alla situazione, mi è sembrato che se la bambina andasse a scuola senza compiti, la maestra ne scriverebbe male, malissimo, e la cosa potrebbe peggiorare la situazione. Se da domani la bambina andasse a scuola con i compiti da fare, si direbbe che quella bambina va male a scuola, e ciò accentuerebbe il giudizio di incapacità che evidentemente c’è già adesso. Per cui, se è già stato deciso che alla fine della terza media questa bambina andrà a lavorare, così facendo ci andrà a maggior ragione. Cioè, verrà rinforzata l’idea di incapacità dal fatto che ci saranno i risultati negativi a scuola.

R.C. È possibile, certo.

N.V. Allora, mi chiedevo, dal momento in cui io dico questa cosa, forse dico troppo poco e tanto varrebbe che non dicessi nulla. Non posso dire “Facendole voi i compiti non la aiutate”, perché la cosa verrebbe sentita come una ingerenza. Mi si potrebbe rispondere “Va beh, provaci tu. E se fosse tua figlia? Noi già facciamo anche troppo”. Quindi mi sono chiesta a posteriori quale margine di intervento avessi.

R.C. Lei è nella funzione di insegnante della bambina?

N.V. No. Era una conversazione in una famiglia.

R.C. Perché qui, la questione dei genitori in questo caso, è che non vogliono mandare la bambina a scuola senza i compiti, perché farebbe brutta figura lei, ma anche la famiglia.

Pubblico Un giudizio che si ripercuoterebbe anche sulla bambina.

Pubblico Ma la bambina lavora a scuola?

N.V. La bambina a scuola ha un andamento altalenante. La famiglia è stata avvertita della cosa e ha respinto le indicazioni delle maestre, si è asserragliata dicendo che la bambina va benissimo così. La scuola ha avvertito che c’è un disagio, lo ha segnalato, ma è stato negato immediatamente.

R.C. Certo gli elementi sono un po’ scarni, tuttavia qui la questione è di intendere la domanda che la bambina rivolge ai genitori, ma anche verso gli insegnanti, segnalandosi in questo modo rispetto a quello che sarebbe un rendimento ideale dell’alunno che va bene.

Allora, bisogna certamente avvertire la famiglia, ma occorre anche instaurare quella comunicazione che forse in famiglia non c’è, provare a instaurarla nella scuola, allestire un dispositivo per cui questo disagio si articoli. Questa è la scommessa che riguarda l’insegnante, non solo come istruttore, ma come interlocutore di chi ha dinanzi a sé nella sua classe.

D’altronde, sono questi i casi attorno a cui, effettivamente, l’insegnante si trova sollecitato a svolgere una funzione, non dove tutto va da sé. Dove qualcosa non va, dove qualcosa non funziona, dove, probabilmente, vige una rappresentazione di sé o dell’Altro improntata alla sufficienza o alla deficienza per cui sembra possibile accontentarsi dei propri limiti, delle proprie ridotte capacità dove, insomma, c’è una accentuazione dell’impossibile come impossibilità soggettiva, lì occorre l’intervento eccezionale, straordinario che comporti l’eccellenza.

Un conto è l’impossibile della parola come impossibile della rimozione e impossibile della resistenza, ciò per cui la parola va verso la qualifica, e un conto è se si instaura la rappresentazione di sé o dell’Altro come soggetto, quindi come qualcosa di finito, di già dato, la cui identità è già certificata. Anzi, è proprio per l’impossibile che sta nella parola che c’è la spinta verso la qualifica, perché le cose non sono già dette, non sono già fatte, non sono già sapute, non hanno già senso e quindi tendono a qualificarsi. Questa tensione, questa tendenza procede dall’ambiguità, dal disagio, dalla diade, procede dalla relazione originaria.

Allora, in questo caso, l’unico modo che si presenta come varco rispetto all’identità imprigionante è il sintomo. Il sintomo è il varco rispetto alla rappresentazione già data di sé o dell’Altro, rispetto a una presunta identità che risulta come una prigionia, perché ogni identità assegna i limiti. Il sintomo tenta un varco rispetto a questi limiti.

Gianfranco Dalle Fratte In merito alla sua affermazione che ciascuna domanda è una domanda di aiuto, lei prima ha detto che occorre un dispositivo perché la domanda trovi il modo della sua qualifica.

R.C. Sì, il dispositivo che risulti opportuno a che la domanda si svolga, si precisi, trovi la sua qualità.

G.D.F. Perché arrivi alla qualità. Quindi serve un dispositivo, altrimenti non c’è domanda?

R.C. Certo, un dispositivo in cui possa avvenire la ricerca, l’indagine, l’analisi, la qualifica, la formazione, dove sia possibile trovare le risposte.

G.D.F. Allora, chi si crede soggetto ha il sintomo. Che lo abbia è una possibilità oppure no?

R.C. Diciamo che, per chi si crede soggetto, il sintomo è una risorsa, è una chance.

G.D.F. Ma può esserci o non esserci? Se io ho la rappresentazione di essere soggetto, quindi di stare sotto alla parola, il sintomo può esserci o può anche non esserci? Questa è la domanda.

R.C. C’è!

Per tornare al caso che poneva Nadia Vidale, è chiaro che c’è una surdeterminazione in ciò che viene proposto come sintomo, o impasse, o deficit, soprattutto come incapacità come lei diceva. Allora, dopo la scuola dell’obbligo, che accadrà? Se il rendimento a scuola deve significare del destino di ciò che avverrà dopo, sarà caricato di tutta una serie di rappresentazioni che non c’entrano nulla con la scuola e con lo studio. Se io avverto che in famiglia il papà, la mamma o chi altri spera, si aspetta da me che io prosegua gli studi, oppure che vada a lavorare, questo ha incidenza rispetto al rendimento a scuola.

E questo, se non entra in un dispositivo di comunicazione, di parola, diventa una predestinazione, una prescrizione, per cui ciò che avviene a scuola deve già costituire il segno di ciò che seguirà! Se i genitori vogliono che io vada a lavorare, nel caso che per me sia importante soddisfare il presunto desiderio dei genitori, allora io andrò male a scuola perché così non si porrà nemmeno l’eventualità di proseguire! Al contrario, invece, se l’istanza non è di soddisfare il desiderio dei genitori, ma piuttosto di autonomia, ecco allora che ci sarà uno sforzo per dimostrare l’eccellenza a scuola. Quindi, la deficienza, o la sufficienza, o l’eccellenza che vengono giocate a scuola, non hanno nulla a che vedere con le materie scolastiche.

Si potrebbero portare altri casi che comportano che non è la cosa in sé che determina la partita, ma una serie di combinazioni in cui è in gioco la rappresentazione di sé, la rappresentazione dell’Altro, come Altro che desidera, Altro che vuole da me, Altro che mi chiede di essere in un modo piuttosto che in un altro, Altro da amare, Altro da odiare, Altro che ama, Altro che non ama, cioè dove l’Altro è soggetto, non è l’Altro di cui si tratta in termini strutturali, cioè l’Altro dell’alterità, l’Altro modo, l’Altro tempo, l’Altro assoluto cioè la differenza irrapresentabile, l’Altro che caratterizza la struttura, sogno e dimenticanza. Diventa un altro.

La questione essenziale è come per ciascuno si instaura l’Altro. Solamente a partire dall’Altro come differenza assoluta noi avremo l’assenza di razzismo, non il narcisismo delle piccole differenze, ma il narcisismo assoluto, in cui avremo la qualifica delle cose in termini di assoluto, non di adeguamento a una rappresentazione.

Qui entriamo nell’ambito della precisazione intorno alle logiche della parola, quindi entriamo precisamente nel tema di oggi, dell’amore e dell’innamoramento. Occorre fare sempre lo sforzo di non ricondurre quel che si ode a quel che si presume di sapere. Questa è la condizione base dell’umiltà, da cui l’ascolto. Infatti, quando io dico Altro, il modo più facile di intendere l’Altro è come un altro, un altro rispetto a me, il così detto altro da sé, altro da me, altro da te. Quello che viene chiamato l’altro da sé, in realtà è la copia speculare di sé, è la copia speculare dell’uno, per cui l’uno e l’altro farebbero coppia. Sarebbe generosità ammettere che vicino all’uno ci stia l’Altro.

L’altro da sé inteso come un altro è banale, intellettualmente è proprio pochissimo “Ci sono io e c’è anche un altro”. Basta guardarsi intorno per capire che non siamo soli, che non siamo monadi. Ci sono io e vicino a me c’è un altro e un altro ancora, tanti altri. Questo sarebbe il pluralismo, il plurale, la pluralità dove, di volta in volta, possiamo valutare quest’altro che ci sta di fronte, vedere se è compatibile, incompatibile, gradito, sgradito, se è amico o nemico, se è simile o dissimile, se possiamo tollerarlo o se è intollerabile, se ha la pelle troppo chiara o troppo scura, se è pulito o se è sporco. Perché se è pulito è più simile a noi, se è sporco è meno simile. Questo modo di giudicare non è l’alterità, è il criterio omosessuale. Omo o uomosessuale, dove la base è il simile, la similarietà, l’omoios.

La questione dell’Altro invece, nei termini in cui è posta dal titolo, non è quella di un altro, ma dell’Altro, ossia dell’Altro come indice della differenza assoluta, indice dell’alterità, della differenza, dell’Altro tempo, cioè si tratta dell’Altro irrapresentabile. Non si può rappresentare come simile e non si può rappresentare come diverso; non si può rappresentare.

L’instaurazione dell’Altro comporta l’insignificabile, cioè che ciascuna cosa non significa un’altra cosa, che quel che si dice, quel che si pensa, quel che si fa, non è segno di qualcos’altro. Quindi, se io dico una cosa, questa non significa l’altra cosa che ci sta dietro o che ci sta sotto. Non è quella cosa! E se io la dico ciò non fa di me il segno di un genere, di una stirpe, di una famiglia, di una genealogia, di una ideologia. Non significa. Non significa nulla.

Ciò è qualcosa che è, a dir poco, essenziale. Freud diceva che è più facile per le persone comuni, per gli umani, confessare i propri peccati, confessare una colpa che non raccontare una fantasia, una fantasticheria, soprattutto se è un po’ particolare, una fantasia balzana. Perché? Perché è chiaro che il peccato e la colpa si appellano a un genere che c’è per definizione, e cioè al genere umano che è caratterizzato dalla macchia. Allora, se io ne confesso una in più, non è che mi discosto molto dal mio destino: “Sono macchiato. Siamo tutti macchiati”, perché noi tutti portiamo la macchia originaria, il così detto peccato originale!

È la macchia comune, per cui anche peccando più o meno, e quindi confessando i peccati, io resto comunque nella comunità, resto in comune, senza arrivare alla follia. Invece, una fantasia, una parola differente, un’idea differente comportano il giudizio, e il giudizio potrebbe estromettermi dalla comunità, dagli uguali, dagli omoios.

La questione del pensiero viene tradotta che un’idea, un pensiero mi significa, diventa il segno del mio essere, o del tuo essere, o del suo essere, comunque il segno dell’essere. Se pensi queste cose sei malato, matto, criminale, sei diverso, sei abnorme, sei così, sei cosà. Insomma, comporta una attribuzione, un segno. Immaginariamente, postulata la significabilità delle cose; allora un pensiero, un’idea, una fantasia “significa che”.

È proprio qui che la psicologia va a nozze, nel trovare i segni delle idee, dei pensieri, delle parole. Per cui se io credo che un’idea mi possa segnare, la tengo per me, e magari mi faccio segnare da quell’idea, nel senso che, effettivamente, posso giungere a crederci e a ritenere che sono segnato da quell’idea, che mi segni, cioè diventa la mia predestinazione negativa, oppure una predestinazione positiva, poco importa, comunque diventa segno dell’essere, segno della soggettività.

La severità procede sempre da questo segno, da questa significabilità, è l’applicazione della significazione. “Ah, hai fatto questo e allora vuole dire che…”. E segue la punizione. Cioè, ciascuna cosa, significando, viene inscritta nel sistema della colpa e della pena, cioè del giudizio severo.

È solo a condizione che non vi sia la significazione postulata che può instaurarsi l’ascolto, che può venire inteso ciò di cui si tratta nella domanda, in un sintomo, nella rappresentazione sintomatica che viene proposta, o nell’impasse. Se noi invece postuliamo il segno di, cosa diventa l’applicazione della significazione? Diventa l’applicazione alle cose di una genealogia, dell’albero genealogico, dove Tizio è figlio di Caio, figlio di Sempronio, figlio di Felicino, cioè è segno, porta il segno della discendenza, sarebbe il discendente, il figlio di, e sarebbe significato dalla genealogia.

La credenza nella genealogia e nell’appartenenza, quindi in una predestinazione vuoi positiva vuoi negativa, trasposta sul piano della comunicazione comporta, per esempio, la severità, comporta la significabilità delle cose, cioè comporta una lingua che dovrebbe essere comune e che, in quanto comune, vale, deve valere per tutti allo stesso modo.

È questa la lingua dei litiganti, cioè la lingua senza comunicazione, dove la significazione sta al posto della comunicazione, dove un senso, un sapere, un valore già dati vengono attribuiti a prescindere da ciò che si dice. Ecco, perché importa l’instaurazione dell’Altro, cioè della differenza assoluta che comporta l’aiuto e non già l’altruismo. Altruismo che sarebbe il segno di cosa farei io al tuo posto “Come farei io al tuo posto? Allora facciamo così”! Cioè, l’uno e l’altro la pensano allo stesso modo perché sono sempre uno, si tratta sempre dell’uno, dell’uno al plurale. Nel pluralismo, che sarebbe l’altruismo, non c’è né tolleranza, né generosità, né solidarietà, ma c’è l’identità, l’identità reciproca al plurale. Cioè, il pluralismo è una forma di procreazione dell’identico, una clonazione.

Vincenzina Carbone Questo modo di intendere il pluralismo, io lo definirei in un’altra maniera. Perché, se poi uno va a dire in giro queste cose nella società, è spacciato!

R.C. In quale società?

V.C. Se va a dire che il pluralismo è una clonazione.

R.C. Se lo dice così, magari, anche, ma se lo dice indicando le ragioni logiche per cui è così, di che cosa può venire tacciato? Che ha fatto una esplorazione della cosa che va al di là del senso comune?

Mentre comunemente si crede che il pluralismo sia il massimo della tolleranza, il pluralismo in termini logici è il massimo del razzismo. Se poi lei dice che ciò non sta bene dirlo rispetto alle convenzioni sociali, io posso essere d’accordissimo con lei. Si tratta proprio di non rimanere schiacciati dalle convenzioni sociali, di andare oltre le convenzioni sociali, di indagare le stesse convenzioni sociali, per intendere da dove vengono, dove portano, perché ci sono.

Le convenzioni sociali altro non sono che materia per la ricerca. Noi non dobbiamo accettarle o respingerle o adeguarci a esse. La questione intellettuale rispetto alle convenzioni sociali comporta di indagarle. Non si tratta né di accettarle, né di respingerle, perché sarebbe sempre un modo dell’alternativa.

V.C. Non vorrei trovarmi di fronte a una barriera di incomunicabilità, perché c’è una diversità enorme nell’uso del linguaggio. Non mi ritrovo in questo uso terminologico, perché ci potrebbe essere, a un certo punto, una barriera di comunicazione, per cui si rischia di non intendersi e di non potere comunicare. Se andiamo a indagare troppo, il termine pluralismo si trasforma in qualcosa di assolutamente contrario a quanto comunemente inteso, allora non ci si intende, ecco.

R.C. Tuttavia, occorre pure dare un contributo alla civiltà. Se noi ci troviamo oggi, a un punto in cui un termine sembra indicare una cosa e invece dice il suo contrario, e pur tuttavia viene accolto per quello che sembra indicare, cioè in un fraintendimento totale, occorre pure scuotere le intelligenze.

Se sulla base di ciò che viene proposto come pluralismo, noi ci troviamo coinvolti in una ideologia avvolgente che non lascia scampo, ebbene perché non dobbiamo levare una parola per indicare che quello che sembra il massimo dell’apertura, è una chiusura globale, un modo di dire sempre la stessa cosa, di proporre l’unica direzione, di togliere la dissidenza, l’intelligenza, l’arte, la varietà, l’aria?

E che cosa dobbiamo fare? Accettare? E perché? Occorre pure non togliere la parola. Non bastano le buone intenzioni. Uno dice pluralismo e sembra improntato alle migliori intenzioni. Ebbene, non bastano le buone intenzioni, non ci si può accontentare delle buone intenzioni e nemmeno delle cattive, cioè non ci si può accontentare delle intenzioni. L’educazione non può reggersi sulle intenzioni, buone o cattive che siano, perché le intenzioni non esistono, quindi non sono né buone né cattive perché non esistono!

Cos’è l’intenzione? Esiste la domanda, esiste l’esigenza di qualcosa, esiste l’istinto, il desiderio, il bisogno rispetto a qualcosa; questo è l’essenziale. Occorre, per la civiltà della parola, che l’essenziale non risulti spazzato via da ciò che può rappresentare un formalismo o una convenzione.

V.C. Del linguaggio o della parola?

R.C. Della parola. Il linguaggio sta in una delle logiche della parola. La parola è ciò che non manca di nulla, neanche del linguaggio.

V.C. Comunque, anche quella è una convenzione. Si tratta di convenzioni molto precise e limitanti anche. E allora?

R.C. Per esempio?

V.C. Si basa su delle regole ferree, a mio avviso, così come la matematica si basa su delle convenzioni senza le quali non esisterebbe. Non c’è nessuna certezza matematica se andiamo a togliere quelle convenzioni.

R.C. Ne può indicare una?

V.C. I numeri, il modo di indicare i numeri, uno, due, cifre da zero a nove, anziché zero e uno, binari.

R.C. Questa non è una convenzione.

V.C. Usare la cifra da zero a nove è comunque una convenzione.

R.C. È una logica. Se noi…

V.C. Per esempio, cosa si intende per due, la cifra due cosa rappresenta? Lo sappiamo tutti che cosa rappresenta due. È una cosa che non può essere dimostrata in alcun modo. Si sa, punto e basta.

R.C. Certo. Quindi lei dice che dipende dal sistema di riferimento che viene adottato. Perfetto.

V.C. È ovvio, anche la parola si basa su un sistema di riferimento, mentre il linguaggio secondo me è un modo di articolare queste regole.

R.C. Perfetto. Può darsi che lei dice linguaggio e io dico parola e intendiamo qualcosa che è molto prossimo, mentre se io dico linguaggio intendo una cosa totalmente differente da ciò che lei chiama linguaggio.

Pubblico La volta scorsa parlava dell’oggetto.

R.C. Oggetto che sta nella parola, non il soggetto della parola, ma l’oggetto.

Pubblico Quindi la parola viene prima, voglio dire.

R.C. Prima di che cosa?

Pubblico Dell’essere.

R.C. Ah, certo!

Pubblico Allora il linguaggio è strutturato attraverso le parole.

R.C. Occorre distinguere tra la parola e le parole. Quando dico parola intendo la parola in quanto logica e struttura, quindi presa nella sua logica, nel suo funzionamento, nella sua struttura e nella sua qualità. Non è una parola, è la parola. Se noi diciamo le parole, allora si tratta della questione del linguaggio.

Vally Pilotto Diceva prima che le intenzioni non esistono. Che le cose non siano basate sulle intenzioni sono d’accordissimo, anche perché in nome delle buone intenzioni si sono fatte e si continuano fare cose terribili. L’intenzione io la definirei come un pensiero che precede l’azione, un pensiero, se vogliamo, che è guida di un’azione, che vorremmo proseguire in un’azione.

R.C. Quindi un pensiero.

V.P. Sì, ma che vorrei proseguire in un’azione.

R.C. L’intenzione che cosa indicherebbe? L’interno rispetto a qualcosa che sta all’esterno: intus, intimo, intenzione. L’intenzione che cosa sarebbe? Qualcosa di intimo, il vero pensiero, il vero del vero. Non basta il pensiero? Che qualcosa venga qualificata intenzione non aggiunge nulla all’idea, al pensiero. Comporta solo la soggettività, quindi l’intenzione è ciò attraverso cui…

Pubblico Allora, esiste o non esiste il soggetto? Il soggetto esiste nella fantasia, però esiste.

R.C. Il soggetto in quanto tale non esiste, anche l’intenzione in quanto tale non esiste. Esiste ciò che si enuncia come fantasia, come fantasticheria, come idea. Dire che un’idea, una fantasia, qualcosa che si enuncia è un’intenzione, è un modo di farla significare, cioè l’intenzione dovrebbe significare il soggetto che la dice. Poi, introducendo il sistema delle buone e delle cattive intenzioni, per cui se l’intenzione è buona può venire accolta, ma se l’intenzione è cattiva, ahi, ahi, è male! E già questo, rispetto all’ascolto, costituisce una limitazione.

Se io qualifico l’intenzione come qualcosa che mi viene detto, introduco un sistema formale di riferimento improntato alla morale. Allora lei capisce che l’ascolto lì si frantuma, non si instaura più, ma sorge un sistema di riferimento morale, con una valutazione che è determinata dai termini di questa morale.

Pubblico A me interessava l’affermazione “l’intenzione non esiste”.

R.C. In quanto tale.

Pubblico Mi interessava definire in qualche modo l’intenzione.

R.C. La possiamo qualificare come fantasia. L’intenzione è una fantasia o una fantasticheria.

Pubblico Un pensiero.

R.C. Un pensiero, certo, che importa in quanto operatore. Se ascoltando una fantasia io intendo qual è l’operatore, che cosa opera nella fantasia, vengo assolutamente distolto dal sistema morale di riferimento che mi porterebbe a chiedermi se è buona, se è cattiva e dove va.

Lei dice che l’intenzione è rispetto a un’azione, e io guardo se questa azione è buona o è riprovevole, se mi piace o non mi piace. In questo modo dell’intenzione, cioè di ciò che opera in questo pensiero, lei non coglie nulla. Perché? Perché se si impronta l’ascolto alla coerenza tra pensiero e azione, è micidiale, non c’è più la libertà di enunciare alcunché! Perché se io dico una cosa devo farla! Perché se io dico una cosa questa mi rappresenta, mi significa! E allora non dico più niente! Questo è il realismo soggettivizzante, non le pare?

Pubblico L’intenzione in quanto operatore?

R.C. Per l’operatore che vi opera, non già per l’azione che dovrebbe seguire, ma per quel che vi opera come operatore, cioè come fantasma originario. In questo senso un pensiero lo qualifichiamo come logica della parola, cioè come logica delle operazioni, mentre non possiamo reperire una logica delle intenzioni, perché sarebbe molto riduttiva rispetto alle operazioni.

L’intenzione rispetto all’azione, in quanto mitologia dell’azione, è da indagare più che da applicare come schema educativo. Noi non possiamo ascoltare quel che si enuncia rispetto a un progetto traducendolo come un’intenzione, perché ciò equivarrebbe a inscrivere il progetto, o quanto meno la fantasia, l’idea del progetto, in un sistema di riferimento già dato.

In questo caso il meno che potrebbe accaderci sarebbe di togliere l’invenzione al progetto, nel senso che se ci sfugge qualcosa di una combinazione nuova, magari diciamo che si tratta di un’idea strampalata e non lo accogliamo. “Per carità, è un’idea strampalata, fandonie, fanfaluche, mattane. Fai una cosa molto più sensata, fai così”, “Ma, veramente, io pensavo a tutt’altro”, “No, no, non è una buona idea, non è un’intenzione saggia”. Ma ciò perché, anziché ascoltare l’idea, noi siamo già all’azione, cioè alla rappresentazione di quello che dovrebbe accadere secondo le nostre conoscenze. Ecco perché in termini logici, come dicevo prima, l’intenzione non esiste, perché è una riduzione operata in termini psicologici del fantasma, della fantasia.

La questione che interessa intendere nell’ascolto è la coerenza del fantasma, non la coerenza tra fantasma e azione. Un conto è intendere come un’idea insiste in un progetto per qualcuno, e un conto credere che l’idea comporterà che l’azione sarà conforme a ciò che ne pensa. Può darsi che qualcuno enunci qualcosa che non farà mai.

Vi faccio un’ipotesi di cosa comporta questo modo di leggere secondo la coerenza dell’azione. Se io dico che penso alla morte, vengo definito depresso e mi danno le pastiglie. Cioè, non devo pensare alla morte, perché potrei anche “farla”, se la penso, la faccio! Se dico “Ho pensato che potrei uccidermi”, “Per carità, venga che la ricoveriamo subito”! Questo è un esempio di cosa vuole dire l’applicazione della coerenza del fantasma all’azione.

Pubblico Il prendere alla lettera proprio.

R.C. Proprio coerenza, detto fatto. Non c’è nessun varco in quel che si enuncia, perché quel che si dice è fatto. Ma quando mai?

Pubblico Quindi, la prevenzione si fonda su questo?

R.C. Per esempio, tutto ciò che passa come prevenzione del suicidio è fondata sulla paura e sull’assenza di ascolto, quindi sulla credenza che la coerenza del fantasma non ci sia, e ci sia la coerenza tra idea e azione, la corrispondenza tra idea e azione. Cioè, se io penso questo, o se dico di pensare questo, o di fare questo, secondo questa lettura, lo faccio di sicuro. Ma quando mai?

G.D.F. Detto fatto.

V.C. Cos’è la coerenza del fantasma?

R.C. Il modo con cui un’idea opera. Lo statuto del fantasma è la coerenza per cui qualcosa opera come idea. C’è un operatore e si tratta di intendere quale sia e come operi. Tuttavia, è operatore di idee.

All’interno di un certo discorso che si basa su un’idea di controllo, dove cioè io mi credo soggetto e credo di dovere esercitare una padronanza su alcune cose, l’idea opererà in vari modi. Questi modi li possiamo chiamare insistenza, coerenza. Insistenza, dice che insiste in modo vario. Coerenza, dice che c’è un modo che ha quella caratteristica, quella particolarità.

C.M. L’operare del pensiero è come dire l’agire della parola?

R.C. C’è sia l’operare, sia l’agire. Dell’agire non abbiamo ancora parlato, per cui lei introduce qualcosa che non abbiamo ancora qualificato. Adesso ci arriviamo.

Un conto è l’azione come azione soggettiva, e un conto è l’azione della parola. Non è che l’azione non esista; c’è l’azione e la parola agisce. Come agisce? Agisce con i suoi effetti. Qual è l’azione della parola: il senso effettuale, il sapere effettuale, la verità effettuale.

La parola agisce con i suoi effetti, e gli effetti sono il sapere, che è ciò che si produce per la funzione di resistenza, il senso, che è ciò che si produce per la funzione di rimozione e la verità.

Rimozione e resistenza sono due funzioni della parola. C’è anche una terza funzione, funzione vuota o funzione di Altro, che è ciò che struttura il sogno e la dimenticanza.

C.M. E la verità?

R.C. La verità non funziona.

C.M. È un effetto di questa funzione?

R.C. No. La verità si instaura per la funzione di Altro, quindi esige un processo ulteriore. Diciamo che, in qualche modo, ha comunque a che vedere con questa funzione, si trova su questa funzione vuota, ma che la funzione sia vuota indica che non c’è qualcosa che possa colmare la funzione, che possa situarsi nella funzione per colmarla. Questo è l’Altro, come Altro insignificabile, irrappresentabile, perché non c’è nulla che possa porsi come ciò che soddisfa quella funzione.

Per questa componente di logiche non binarie, la parola sfugge alla logica binaria. Oltre alla logica diadica che abbiamo visto, la logica delle relazioni, ci sono altre quattro logiche singolari triali. Noi adesso stiamo considerando una di queste logiche, la logica delle funzioni dove ci sono tre funzioni, rimozione, resistenza e funzione vuota o funzione di Altro.

Perché ho introdotto ciò? Perché la settimana scorsa c’era chi aveva chiesto di precisare la struttura del desiderio. Cos’è il desiderio? Qual è la struttura del desiderio? Come dobbiamo intendere il desiderio? Noi non possiamo intendere la struttura del desiderio se non partiamo dal funzionamento delle cose, dal funzionamento della parola.

La parola, funzionando, differisce, e lungo la funzione di rimozione abbiamo il senso. Come avvertiamo il senso che procede dalla parola? Come senso in perdita, cioè parlando noi avvertiamo una perdita, un dispendio. Il dispendio, la perdita è ciò che instaura il senso, sempre come controsenso, cioè come senso inedito.

Perché a un certo punto si pone la questione del soggetto così detto mancante, carente, che avrebbe perduto qualcosa? Questo è il modo con cui viene giustificato, e in qualche modo controllato, l’effetto di perdita che ciascuno incontra parlando, perché le cose che si dicono non giungono mai a dirsi totalmente. Per quanto si dica, molto resta ancora da dire, c’è sempre qualcosa da dire. Questo effetto comporta la rimozione e il senso è dovuto alla funzione di rimozione.

Dalla funzione di resistenza abbiamo invece, come effetto temporale, il sapere. È la resistenza del significante, non la resistenza di qualcuno rispetto a qualcosa, è la resistenza del significante all’identità, poiché il significante nel suo funzionamento differisce. Il tempo introduce nella parola la differenza, per cui l’effetto temporale è che il significante differisce non solo rispetto a un altro significante, ma anche rispetto a se stesso; questo è il tempo nella parola. Il tempo è questo taglio per cui non c’è identità delle parole, né rispetto alle altre, né rispetto a se stesse. Dalla mancanza strutturale in atto del significante si produce sapere. La trovata, l’invenzione, procedono da questo differire.

Il desiderio è il paradosso introdotto dalla differenza e dalla mancanza, per cui non c’è chi possa dire tutto, non c’è chi possa dire quello che vuole. La mancanza struttura quella che Freud chiamava la Versagung, la disdicenza. Il desiderio muove dal paradosso del potere dire le cose e indica che non c’è chi possa desiderare le cose. Quindi, il desiderio non è il desiderio di qualcuno per qualche cosa, ma è la marca della mancanza strutturale delle cose. Cioè, strutturalmente, il desiderio non sta nell’enunciato “Io desidero”, ma nel paradosso di questo enunciato, nel senso che dicendo “Io desidero qualcosa”, questo enunciato incontra la differenza, la menzogna.

Il desiderio è quel che si enuncia rispetto alla mancanza costitutiva da cui muove la disdicenza, il sapere effettuale e indica il significante della menzogna, cioè della differenza, menzogna intesa come differenza costitutiva.

C.M. Ciò che si enuncia nella struttura della parola è mancante di significazione? Allora si parla sempre di desiderio oppure si qualifica in altro modo?

R.C. Il desiderio si qualifica in modo preciso, il desiderio non è ciò che qualcuno desidera, ma è un paradosso, il desiderio è la marca di un paradosso.

C.M. E come tale rimane.

R.C. Come quale, non come tale. È la marca di un paradosso che non per questo non incontra il suo svolgimento. La struttura del desiderio è essenziale per intendere l’amore e per intendere dove sta la soddisfazione.

Barbara Valerio È il godimento?

R.C. No, il godimento è un’altra cosa ancora.

B.V. È anche alla base della soggettualità.

R.C. Sì.

B.V. Non solo l’occorrenza, anche il desiderio è alla base della soggettualità.

R.C. Certo, indubbiamente.

B.V. Allora, io chiedo più precisamente il rapporto tra desiderio e occorrenza, un confronto tra le due cose, dato che ambedue invitano all’azione.

R.C. No, non invitano all’azione.

B.V. Porterebbero…

R.C. Noi adesso abbiamo qualificato il desiderio, che è caratterizzato dall’impossibile, nel senso che è metonimico, il desiderio si svolge lungo la serie infinita degli scostamenti.

Pubblico Uno stato dell’animo.

R.C. L’animo? Caso mai non è uno stato, ma un moto, se proprio vogliamo riportarci all’animo. Proprio per questa sua caratteristica di procedere lungo la differenza della parola, quel che si enuncia come desiderio non incontra mai il significante del desiderio, se non come menzognero, quindi in uno scarto. Scarto che rinnova la domanda e rinnova il desiderio, per cui rinnova il procedere dell’istanza del desiderio che è marcata da questo paradosso, che è il paradosso stesso della freccia e del bersaglio se vogliamo. Nel senso che il significante è menzognero e, in quanto menzognero, mai può trovarsi a soddisfare il desiderio, che ne è il paradosso. Il desiderio procede da questa mancanza a sé del significante.

Psicologicamente, la cosa viene convertita nell’enunciato “Io desidero quello che mi manca”, che è proprio una banalizzazione volgare. Io non desidero quello che manca a me, e soprattutto non è l’Io a desiderare. Il desiderio non è coniugabile come “io desidero”. Dire “io desidero” è un tentativo soggettivo di controllare questa metonimia, lo spostamento costante, infinito, del significante che differisce. Dire “io desidero, io desidero questo”, sarebbe la rincorsa alla parola piena.

L’isteria basta da sé a dimostrare la paradossalità di questa enunciazione quando dice “Ma non è questo che voglio. Non è questo, non è questo”. Basta leggere i casi di Freud, anche senza addentrarsi nel materiale clinico. L’isteria indica che “non è questo”, che “non è mai questo”! Per cui l’altruismo, che mira a soddisfare le richieste sulla base della credenza che “sia questo”, va in scacco costantemente, oltre che per i motivi che dicevo prima, perché “non è mai questo”, cioè non è mai sostanza ciò che viene chiesto, perché se “fosse questo”, si tratterebbe di sostanza.

La questione della droga ruota intorno alla credenza che il desiderio possa soddisfarsi di sostanza. La psichiatria risponde al desiderio con la sostanza e le discipline attuano la modalità di dare sostanza dove si tratta di materia, di logica, di qualità, di struttura della parola, che non è una struttura sostanziale, né formale. È qualcosa che si svolge, che è in atto, in trasformazione costante e esige l’ascolto, il fare, non la sostanza, non ciò che dovrebbe colmare la domanda.

La scommessa della domanda è di non trovare mai colmamento, ma soddisfazione in ciò che la rinnova, perché ciò che dà soddisfazione, simultaneamente rinnova la domanda.

La questione della psicosi sta qui. E dico ciò per indicare qualcosa riguardo al desiderio, ma non c’è solo il desiderio. C’è anche ciò che i greci chiamavano entusiasmòs e che Cicerone traduceva con istintus.

Quindi, accanto al desiderio c’è l’entusiasmo, l’istinto, che non è l’istinto animale, ma l’istinto come significante dell’equivoco, di ciò che è preso nella funzione di rimozione, cioè nel controsenso.

Pubblico L’entusiasmo è il significante dell’equivoco, preso nella funzione di rimozione?

R.C. Sì. Diciamo che l’istinto è il significante in cui l’equivoco è l’indice del funzionamento. Quindi, anche l’entusiasmo marca un paradosso rispetto alla stabilità. Né il desiderio è stabile, né l’istinto è stabile. L’entusiasmo è ciò a cui l’istinto trae, l’istinto come significante dell’equivoco.

Si dice “Fa quelle cose per istinto. È un istintivo”. Qual è il significante di questa istintività?

G.D.F. Non lo sa. Non lo sa mai.

R.C. Non lo sa di per sé, ma in ciascun caso si tratta di intendere.

G.D.F. Non lo sa perché agisce inconsciamente. Non c’è nessuno che lo sa.

R.C. Non è impossibile intendere, non è che le sia vietato, ma non va da sé. Non è l’istinto come istinto animale, per cui sarebbe dettato da leggi di natura, non è l’istinto come la fame, le spinte naturali. No, anche l’istinto è artificiale, risente della questione intellettuale.

Pubblico Quindi può giungere a un’acquisizione?

R.C. Certo. E poi c’è il bisogno. Quindi c’è l’istinto, il desiderio e il bisogno.

Il bisogno è il significante del malinteso, è il bisogno dell’Altro, il bisogno che è impossibile colmare con l’altruismo appunto, che è impossibile prevedere secondo una presunta teoria o ideologia dei bisogni. Ciascuno ha il suo bisogno, secondo l’occorrenza. E mentre istinto e desiderio sono contraddistinti dall’impossibile, l’impossibile della rimozione e l’impossibile della resistenza, il bisogno è contingente, cioè si situa nell’occorrenza.

C.M. Il contingente sarebbe la funzione vuota praticamente.

R.C. Sì. Tutto ciò per dire che quel che accade nella parola esige la perdita e la mancanza strutturali, avviene lungo la perdita, lungo la mancanza e lungo il dispendio.

La pulsione esige il dispendio, non il risparmio. Il dispendio dove c’è perdita, mancanza, ma non di qualcosa, di me o di sé, ma la perdita che istituisce il senso e la mancanza da cui procede il sapere. Cioè, perdita e mancanza sono due modi con cui la parola funziona. Se non ci fosse perdita, se il nome non fosse un nome in perdita, non avremmo il senso e la sensazione. Se noi vogliamo contenere il dispendio accade che avvertiamo l’angoscia come sensazione del dispendio che vogliamo contenere.

Tutto ciò era per introdurre alla questione dell’amore, senza cui era impossibile, effettivamente, cogliere di cosa si tratti.


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