Ventunesimo capitolo del volume La realtà della parola
Noi, qui
Ruggero Chinaglia Il titolo di questa sera è noto? Qual è?
Fernanda Novaretti Noi, qui.
R.C. Ecco, vediamo e sentiamo… dove. Sono annunciati degli interventi questa sera. Cominciamo a sentire qualcosa di Noi, qui. Chi ha annunciato l’intervento? Ercolani, Fornasier, Moda, Sanavia…
Barbara Sanavia No, Vezza.
R.C. Ah, lei ritiene che Vezza abbia bisogno di una presentatrice? Ho capito, lei si candida come presentatrice. Daniela Sturaro e Giampietro Vezza. Che si presenta da sé. Poi Sanavia.
B.S. No, non ho annunciato.
R.C. Non ha annunciato? Poi sentiremo. Allora cominciamo. Patrizia Ercolani, venga.
Patrizia Ercolani Dentro un sistema ognuno cerca di conformarsi a un modello, in cui trovare un posto, un ruolo, una funzione, insomma un senso, un sapere, un significato.
R.C. Senza correre, in modo che si possa udire, magari ascoltare.
P.E. Fuori dal sistema niente più è dato, localizzato, finalizzato. Semplicemente, pare impossibile un’altra vita.
Ognuno si sente perso, smarrito nell’infinito. Paradossalmente, nel sistema, ciascuno non si sente a posto, si sente male, a disagio perché non riesce l’adesione al modello. Qualcosa stride, urta, spinge. La conoscenza, il sapere già dato non è più sufficiente, non calza più. Niente è più pertinente. L’ambiente diventa troppo stretto, il parlare si volge in pettegolezzo e i luoghi comuni dominano. La fine incombe. Le cose come iniziano finiscono. Non era questo il suo desiderio. Qualcosa d’Altro occorre. Bisogna fare, cercare, trovare.
Da dove incominciare? Da una domanda inconscia, sottesa all’alternanza di mania e malinconia, di euforia e disforia. Quando un’idea di successo sembrava realizzarsi, euforia. Soluzione trovata. Fine del problema. Constatato invece il fallimento, disforia. Nessuna soluzione. Il problema non si elimina. Non c’è più soluzione.
Non c’è più soluzione, però, è un teorema dell’analisi per cui il problema si volge in questione sempre aperta e la via è altra, è da trovare, è da percorrere in direzione di Altro ancora, della qualità, dello specifico.
Come proseguire? Occorre il tempo, sempre eluso; occorre l’Altro, sempre inascoltato; occorre il terzo, sempre barrato per salvaguardare la padronanza sull’io e sul tu, senza Altro, senza lui. Insomma, una questione d’amore transitivo, senza tempo. Ma, accolto l’Altro, come procedere? Dove andare? Come fare? Dove si conclude senza finire?
Nei vari e differenti dispositivi come la conversazione dell’analisi, l’équipe, la riunione e altro, le questioni si pongono, si dipanano, si articolano in distinti registri e funzioni. Questione di lingua, di linguaggio, di dire, d’idioma in cui ciascuno procede dalla particolarità della parola. Allora, si esige di capire, e le rappresentazioni e i ricordi perdono consistenza, si svuotano di significanza. Ciò che sembra non è. Ciò che si ha non sta. Le cose non si danno, ma si dicono e nel racconto si alterano. Faccenda d’ascolto, in cui qualcosa si ode e si esige di intendere.
In ciascun lavoro, qualcosa è da fare. Per esempio, una trascrizione. Come farla? Secondo criteri di composizione, di leggibilità, di ritmo, di sembianza. Chi li stabilisce? Chi ha l’autorità, chi ha esperienza, chi sa? Chi ha il nome? L’ha detto lui.
Se l’io non è soggetto, chi fa, chi desidera, chi decide? Per me, questo lavoro è finito o concluso? Per me o secondo quel che suggerisce il testo, si fa la lettura del testo? Chi valuta? Il lavoro è da rifare o da integrare? Aspetti non considerati secondo indicazioni che vengono da altrove? E da dove vengono? Nell’irrappresentabilità e nell’intransitività del fare, nell’odio, come le cose si fanno? Quale organizzazione? Quali ragionamenti? Quali valutazioni?
R.C. Ecco, quali? Esatto. Rilegga l’ultima frase…
P.E. Nell’irrappresentabilità e nell’intransitività del fare, nell’odio, come le cose si fanno? Come e quale organizzazione, come e quali ragionamenti, come e quali valutazioni…
R.C. Ha saltato qualcosa.
P.E. No, pensavo a quello che non sono riuscita a scrivere, a mettere in rilievo. È la questione del sembiante, dell’oggetto, come si…
R.C. Intanto delle cose ci sono. Bene, molto bene. Prego, Giorgio Fornasier…
Giorgio Fornasier Dal libro Operazione guru, di Armando Verdiglione, edizioni Spirali.
Nel 1862 alla Salpetrière arriva Jean-Martin Charcot. Medico, taumaturgo, guaritore. Come già l’inquisitore era affascinato dalla strega, Charcot è affascinato dalla donna pazza. E alla Salpetrière va con il bel mondo, con i suoi allievi, dottori, dottorini e dottorandi. Convoca le donne, ne predilige qualcuna, qualche bella ragazza: Ah, questa è l’Ifigenia della Salpetrière! Come ti chiami? “Augustine, vieni, vieni!”. La famosa Augustine. Fotografo, pronto? Osservate! E queste donne si prestano. Augustine impara una parte della lezione e fa le convulsioni, fa tutto ciò che può dimostrare la sofferenza e il dolore per l’album di famiglia della psichiatria illuminata.
Il bel mondo è affascinato dalla strega: può dimostrare la sofferenza e il dolore per l’album di famiglia. E Augustine impara la lezione. E fa le convulsioni. E con le convulsioni impara la lezione. E intorno si riuniscono, attenti e interessati, molti personaggi provenienti dal bel mondo: allievi, dottori, dottorini e dottorandi. E qualcuno, magari, diventa anche protettore di Augustine. Che non ci sia chi la fa parlare, che magari spiffera il segreto, il segreto o i segreti della famiglia…
C’è un problema in Italia per chi non fa le convulsioni? Per chi non accetta di venire visitato, diagnosticato, curato dal bel mondo delle moderne Salpetrière? C’è un’opposizione alla ricerca, al di fuori della Salpetrière? La risposta è sì. Esiste questo problema.
A un certo punto, sull’esigenza della regolamentazione a fine di bene, viene determinato cosa è bene e cosa è male, cosa può essere fatto e cosa no. Prima viene trasformata una facoltà, che era letteraria, in facoltà che produce professionisti. Poi, questi professionisti, per legge, diventano gli unici autorizzati a occuparsi di disagio. Poi, ogni pratica, che secondo norme costruite ad hoc può ricondursi alla loro professione, viene considerata abusiva e da contrastare.
Attualmente, in Italia la psicanalisi è stata definita, dalle massime autorità in materia giuridica, la forma più eminente di psicoterapia; e poiché la psicoterapia può essere praticata solo dai laureati in psicologia iscritti al loro Albo, in qualche modo il cerchio professionale si chiude.
È sbagliato questo? È sbagliato che ci sia una regolamentazione nella pratica psicoterapeutica e psicanalitica? Facile fare l’analogia con professioni più consolidate: oggi nessuno ammetterebbe un barbiere in sala operatoria come chirurgo. È chiaro che c’è una questione di formazione e una questione di casta, economica. Se tutti possono fare i dentisti, allora la professione diventa poco redditizia. Se tutti possono ricevere pazienti, con le forme più varie e magari strampalate di terapia, allora si riduce la fetta di torta, per coloro che escono dalle università di stato, con la formazione garantita da esami e verifiche. Certo, esiste anche il problema, e questo soprattutto viene sottolineato, della salute e dell’interesse delle persone, pazienti o clienti che siano.
Freud è un medico. Non è un filosofo, non è un cittadino che si mette a ricevere gente in cerca di terapia, è un medico; e il suo incontro con le persone avviene su questa domanda di cura medica.
Ancora moltissimi anni dopo, e ancora oggi, tantissime persone interpellano il medico di famiglia, addirittura il farmacista, per una marea di questioni rispetto alle quali, il medico e il farmacista, non hanno nessuna preparazione. Freud stesso chiama psicanalisi selvaggia questa pratica dei medici che, proprio in forza della loro posizione di terapeuti, tra un’iniezione e una prescrizione, si dilettano a fare interventi psicanalitici, che egli definisce appunto selvaggi.
C’è, dunque, una questione economica, come nel caso di tutti gli ordini, che da una parte sono istituiti a garanzia dell’utente e, dall’altra, per escludere il più possibile e ridurre il numero di chi può operare in un certo ambito. È una questione di qualità, per così dire, di certificazione o di garanzia che gli stati moderni vogliono garantire rispetto ai mestieri e alle professioni.
Giusto? Sbagliato? Si tratta di una falsa questione, non è questo il problema? La cosa è un’altra cosa? Come si pratica la psicanalisi oggi in Italia? Cioè, dove oggi si può parlare, si può affrontare quel che si pone come questione, senza dovere necessariamente fare le convulsioni davanti alla macchina fotografica, per la gioia dei novelli Charcot, dei loro allievi, dei loro dottori, dottorini e dottorandi, in una qualche Salpetrière moderna?
Di sicuro, l’esperienza cifrematica non è al servizio della fotografia della sofferenza e del dolore, il che non esclude che, dolore e sofferenza, si possano incontrare e attraversare. Negli anni, mi sono accorto che il dolore e la sofferenza apparentemente danno fastidio, per così dire, e provocano insofferenza e intolleranza. Ma nulla in confronto all’intolleranza che provoca un’istanza intellettuale, nulla in confronto alla non accettazione della prescrizione alle convulsioni, davanti alla macchina fotografica. Questa non accettazione provoca molto più fastidio e insofferenza. Anzi, non c’è proprio partita, al di là delle apparenze. E se per caso qualcuno che si è imbattuto nell’esperienza intellettuale, si allontana dall’esperienza di parola e va a destra e a manca a fare convulsioni, trova un accoglimento magnifico, euforico. E viene accolto a braccia aperte.
“Nessuno mi ha aiutato quando cercavo di ripartire con il lavoro a cinquant’anni”, dice un ex-allievo di un mio corso. “Allora sono andato in psichiatria, seguo il loro protocollo e se tutto va bene, mi daranno una pensione d’invalidità. Non ci vado per curarmi, lo faccio per la pensione. Ma, almeno, adesso ho una prospettiva”. Va a fare le sue convulsioni al centro d’igiene mentale di Castelfranco! E, se le farà bene, avrà risolto i suoi problemi!
Qual è la mia obiezione? Nessuna obiezione. Ho avuto la fortuna d’incontrare un dispositivo che non mi potevo neppure sognare, che non do e non ho mai dato per scontato. Non capisco tutto, non ho capito moltissime cose. E sono molto incazzato di tante cose negative che se ne dicono in giro, per la “rete” e altrove. Mi dispiace che tanta gente che se ne è avvalsa (e forse qualcuno, per dirla alla Vitaliano Trevisan, oggi sarebbe un residuo psichiatrico), oggi se ne vada in giro a sputtanare.
La sembianza è qualcosa che forse va ripensata. Se ti trovi in affabile conversazione, allora va bene, la sembianza. Ma no, non si può, è patetico parlare di sembianza con i marescialli, con le maestrine, con i farabutti e gli avvoltoi di tutti i tipi. Durante il nazismo, chiuso il portone del lager, i comandanti passavano come niente fosse alle loro linde casette, dove li aspettavano le loro famiglie pulite, bimbi e bimbe biondi, e i domestici e la cena pronta, fumante. Non c’è sembianza con questi robot. Non si ragiona, non si parla e non si fa battaglia. Trovarsi lungo il viaggio con un maresciallo o una maestrina che abbiano potere, è una tragedia. Oggi, molti intellettuali in Turchia, che si trovano davanti un maresciallo di Erdogan, vivranno qualcosa di questo. E non avranno scampo. Non so se sia possibile una dissidenza senza infastidire i marescialli o le maestrine. Sono sicuro che non è intelligente farlo. Che non è la strategia giusta provocare questi robot all’intelligenza, perché o c’è l’intelligenza oppure c’è il maresciallo e la maestrina. Se Cristo è stato inventato e se la croce è stata da lui assunta, perché altro martirio? Allora, l’alternativa sarebbe tra la croce o il fare le convulsioni davanti al bel mondo di allievi, dottori, dottorini e dottorandi, e magari anche qualche trombetto?
R.C. Ecco, ci sarebbe un’alternativa?
G.F. No, è solo una domanda.
R.C. Perché, non ha trovato la risposta?
G.F. Per questo l’ho scritto, perché mi dia lei una risposta adesso.
R.C. Aah, bene!
Allora, dopo svariati annunci e disattese, questa sera Fabrizio Moda è qui è può intervenire.
Fabrizio Moda Ho la presentazione dell’altra volta.
R.C. Abbiamo il titolo di questa volta. Però, lei, magari già si trovava a dirne qualcosa.
F.M. Veronika, internata per tentato suicidio, chiede cos’è un ‘matto’. Lo psichiatra le mostra la sua cravatta: “Cos’è questa?”. “Una cravatta”. Eh no, perché, in realtà, le spiega lo psichiatra, si tratta di un ridicolo pezzo di stoffa colorata messo attorno al collo, assolutamente privo di ogni utilità, che rende difficile la respirazione, il cui annodare fa perdere tempo alla mattina e la cui unica soddisfazione sta nel toglierla alla sera. Qualcuno s’è pure strozzato! Solo un ‘matto’ potrebbe mai pensare di utilizzarla! Eppure…
Eppure, per il mondo psi, non vi è dubbio che ‘matto’ è colui che non segue, oppure soccombe alle regole morali della società. E dove sta l’utilità della poesia, della pittura, della scrittura, del teatro, della musica, del canto, del ballo, della scienza? O della moda? Infinita pure quella! Forse lo psichiatra potrebbe chiedersi dove sta l’utilità nel rincorrere in mutande un pallone da calcio, e la risposta che sembra scontata sarebbe nel prestigio sociale che ne deriva. Ma, chi si beffasse di questo prestigio? Chi irridesse al consenso dell’inclita plebe? Chi ‘dilapidasse’ i proventi, la ‘sostanza’ del suo fare? Chi non è ape, cosa cerca in un fiore? Chi non è calciatore, cosa cerca in una partita di calcio? Chi non è sarto, cosa cerca in una cravatta? E cosa fa emergere un sorriso o svanire un broncio in un bambino, o fa tenere la barra dritta nelle avversità della vita, in un uomo o in una donna?
“Dammi la tua anima!”, ordina l’aguzzino. È uno scherzo, certo, e stare allo scherzo magari può procurare vantaggio, in un Gulag. Piccolo magari, ma, a meno trenta… E l’internato non crede né a Dio né tanto meno all’anima. Però… No! L’anima non riesce proprio a dargliela! L’anima NO! L’internato uscirà dalla fossa ghiacciata orribilmente e irrimediabilmente martoriato nelle carni, ma ancora vivo, incredibilmente ancora vivo. E con la sua anima!
E il giudizio di tutti indica la risposta: la sopravvivenza. La sopravvivenza del proprio essere o del proprio clan. È sana l’attività, qualsiasi attività, che aumenti le probabilità di sopravvivenza del singolo o del gruppo, dove vi sia conferma alle proprie ideologie. E non conta quanto sia scriteriata e criminale quella attività: nazismo, comunismo, maoismo, polpottismo, bushismo, solo come recenti esempi. Come negare questa realtà? Qui il bene, là il male: innegabile. Bisogna essere proprio ‘matti’ per non capire una cosa così evidente! Come non segregare e punire i contravventori di tutto quest’ordine e di tutto questo bene! D’altronde, si sa che bisogna essere ‘matti’ per pensare di (sopra) vivere di cultura! Questa è la realtà dei fatti! Realtà comune, sostanziale, razionale. Realtà senza metafora, senza metonimia e senza catacresi. Senza parola. Senza Altro: il realismo.
Ma, la realtà non è il realismo: è la realtà intellettuale. È realtà di parola, è la realtà di ciascuno che si trovi a vivere nello statuto intellettuale, secondo la logica, la procedura e l’esperienza della parola. Senza idea genealogica, senza bisogno di aggrapparsi alle varie credenze umane. Senza umanesimo tout court. E se nulla è dato a priori, nemmeno l’essere umano, allora ciò che conta è la formazione intellettuale, per il compimento del proprio progetto e del programma di vita.
Mio figlio non è interessato al calcio, ma lo è per gli eroi del calcio, personaggi ricchi e famosi. E la questione genealogica fa spesso capolino tra risentimenti e recriminazioni, tra idealizzazioni e forme varie della prestanza. Il calcio non interessa forse, ma, se interviene un amico o un vicino, ecco allora che lo spunto vale per instaurare l’ospite, la novità, la cosa altra, l’interesse. E a un tratto, ecco l’aria, la leggerezza. Gli occhi diventano sfavillanti e la malinconia, o più modernamente la depressione, non c’è più, e senza bisogno alcuno di modulatori chimici esogeni che, fantasiosamente, controbilancino una qualche carenza di neurotrasmettitori endogeni. E il pezzo di stoffa acquista valore e diviene cravatta!
Nulla è saputo prima. Nessuna predestinazione quindi, nessuna idealità o recriminazione e nessun paragone se non con l’infinito, e la realtà particolare a ciascuno, in un viaggio disegnato sul contingente, sul valore da acquisire, da produrre. Assoluto.
R.C. Bene. Daniela Sturaro. Che ha chiesto al suo “segretario” di stampare il testo. Come occorre. E un buon segretario ubbidisce! Eccolo.
Daniela Sturaro Anche se, entrando in questa vita, recassi da qualche parte iscritta la data della mia morte, vivrei per questo più intensamente? E se da questa vita mia, che procede per linee spezzate e frantumate da non riuscire a ricavarne un quadro d’insieme, se da questo mosaico scomposto, più somigliante alla pittura del gesto, togliessi anche solo l’espressione di un viso, notata per caso o un’affermazione ascoltata di striscio, cambierebbe in qualcosa il suo assembramento di luci e voci che si avvolgono a spirale?
La lettura del testo filmico Dio esiste e abita a Bruxelles sembra indicare che, ricevuta la data di morte, solo chi viene avvicinato dalla di lui divina figlia ottiene l’intensità, mentre tutti gli altri perseverano nel tran-tran. Senza ambire a così elevato affiancamento, c’è chi ha avuto un’idea migliore, mettendo in campo lo strumento formidabile dell’analisi, detta anche psicanalisi, di freudiana e poi lacaniana e di seguito verdiglioniana interlinearità.
Ma, oltre l’importanza del nome, che pure conta, l’analisi va declinata come esperienza clinica che interferisce con il modo di vivere. Non si svolge unicamente in seduta sul lettino di uno psicanalista, ma diviene prassi costante che accompagna, istante per istante, ciascuna vicissitudine che contrasti il cosiddetto benessere. Perché il benessere è senza testo e poggia sulla sostanza che lo sostiene. Già uno dei testi più antichi parlava in questi termini:
13 Ma l’uomo nella prosperità non comprende,
è come gli animali che periscono.
14 Questa è la sorte di chi confida in se stesso,
l’avvenire di chi si compiace nelle sue parole.
15 Come pecore sono avviati agli inferi,
sarà loro pastore la morte;
scenderanno a precipizio nel sepolcro,
svanirà ogni loro parvenza:
gli inferi saranno la loro dimora. (Salmo 48,13-15)
Se per prosperità intendiamo benessere e per comprendere intendiamo fare l’analisi, risulta chiaro che chi coltiva il benessere non comprende perché non fa l’analisi, e si limita a consumare la sostanza che dovrebbe garantirgli un riparo dal malessere, cioè dal dolore e dalla difficoltà.
Senza dolore e senza difficoltà non c’è Dio, cioè l’operatore che permette la riuscita di ciascuna nostra iniziativa che si raggiunge attraverso la sapienza che, in metafora, gli siede accanto vestita con l’abito dell’analisi.
Il primo risultato dell’analisi è il racconto e il suo testo, che l’intesse congiunge o disgiunge come la relazione amorosa, dove ciascun giorno qualcosa si aggiunge per integrazione. E infatti l’integrità è un altro effetto dell’analisi.
Prendiamo la mia vita prima dell’analisi, nella sua corsia di marcia come in sogno, quando di notte percorro una strada sconosciuta senza sapere dove andare e nessun luogo dove ritornare. A illuminare il buio, alcune insegne luminose di casinò, intitolati “ La credenza”, più in là “Ideologia”, vicino a “Fine dell’amore”, e dall’altra parte della strada “Fatalismo”, seguito dalla casa da gioco più sontuosa, con la scritta iridescente “Tutto subito o mai più”.
Ovunque entrassi, per giocare i miei pochi spiccioli, perdevo tutto. E, quando, decisa a ripartire, mi fermo alla pompa della benzina niente rifornimento e il serbatoio rimane vuoto. Allora abbandono l’auto e mi metto sulla strada a piedi, senza sperare in un passaggio, perché di lì non passa mai nessuno. Senza più mezzi, contando solo sulle risorse reperibili nell’inconscio, trovo un foglio con una mappa che mi conduce qui. Ascolto e leggo di analisi e di cifrematica, partecipo all’équipe di scrittura, per cercare gli elementi e i termini e orientarmi verso una direzione di viaggio inedita, puntando alla qualità delle cose che sto facendo in famiglia, nell’insegnamento come lavoro e anche nella vendita. Quest’ultimo aspetto risulta temporaneamente molto interessante per le implicazioni di aumento dell’esperienza, che si avvale della parola, in primo luogo nell’approccio, nella trattativa e nella conclusione dell’atto di vendita. Il punto cruciale sta proprio qui: nulla accade nell’assenza di parola, ma niente è impossibile nella parola che punta alla qualità della vita, per via di affinamento linguistico.
Nell’inconscio sta scritto che non c’è una meta da raggiungere oltre la quale inizia il riposo. Non c’è tregua nella battaglia della vita. Piacere e soddisfazione sono saldamente intrecciati alla ricerca intellettuale secondo la traiettoria dell’esperienza, unica per ciascuno, senza la pretesa di conoscere prima il punto di arrivo, apice o vertice ma, attingendo, momento per momento, la qualità che serve per vivere.
R.C. Bene, Giampietro Vezza. Prego.
Giampietro Vezza Qualche settimana fa ero in visita al Museo di storia della medicina e della salute di Padova, e a conclusione del percorso guidato è stato chiesto al pubblico “Vi piace l’arte?”. Si entrava in una sezione del museo in cui erano esposti quadri o disegni del corpo umano, che ponevano in risalto l’anatomia degli organi. Lì per lì, ho risposto che dell’arte avevo sempre pensato non si potesse prescindere nella vita. Non quindi che l’arte possa piacere o non piacere. E non tanto per la riduzione della stessa arte a una mondo-visione di un quadro, una statua o un disegno, ma per capire quale sia il modo in cui l’arte può divenire questione intellettuale.
Spesso relegata all’intellettualismo, più che all’intellettualità, nell’arte non viene tenuto conto della bottega, degli strumenti, della formazione, del pensiero, della ricerca, dell’analisi. L’artista, spesso accostato a termini come “folle” o “creativo”, diviene dispositivo intellettuale, e la sua opera non è più da considerarsi una creazione, ma una generazione.
Ciascuno può essere artista se la vita non è sospesa, ossia se c’è programma e progetto di vita, se c’è l’analisi come altra accezione di terapia del sintomo. Ecco, il sintomo. Perché, visitando il museo della medicina, si percepiscono il corpo e i suoi sintomi da curare. Tanto corpo, troppo corpo, quasi solo corpo: anatomia, fisiologia, patologia e naturalmente (naturalmente?) farmacologia. Un totem di plexiglass, riempito di miliardi di pastiglie, è esposto accanto a una vecchia incubatrice e al tavolo per l’autopsia, a rassicurazione che un possibile rimedio c’è dall’inizio alla fine. Quasi sempre. Quasi sempre, perché la sezione successiva ci ricorda che il primo trapiantato cardiaco in Italia muore qualche anno dopo a causa di una trasfusione di sangue infetto. La tecnica ha funzionato, ma c’è chi ha dimenticato di analizzare il sangue delle trasfusioni. Questione di stile, non solo di tecnica. Senza lo stile, il protocollo si avvale solo della statistica, la tecnica è imitazione e ripetizione, s’impara, fa il discorso del caso ideale, mira all’efficienza.
Lo stile non si può trasmettere, né copiare. Per ciascuno lo stile è invenzione, particolarità, è differente caso per caso, e pone la differenza come risorsa e non come difetto da correggere. Lo stile mira all’efficacia. La tecnica, che non sappia lasciare il posto allo stile, nega la parola e rimanda al discorso mortifero.
Tanto corpo, tanta chimica a sostegno del corpo e alla mentalità del corpo sano o malato, per il quale gli umani fanno uso di sostanza, in varie forme addomesticate dal discorso, nell’alimentazione, nella cosmesi o nelle altre varie forme di bene-male essere che l’epoca propone. Gli umani che si abbandonano al proprio destino contenuto nel nome, l’attesa del seppellimento, della dissoluzione della sostanza, del corpo come peso e, in quest’attesa, si consegnano alla sostanza con la sua assunzione.
Ragionando del corpo, sorge il fantasma della sua rappresentazione, e questo equivale a renderlo sostanza. La rappresentazione è il limite, il personaggio, il tempo ridotto al presente, passato e futuro, confini del soggetto della durata, con la morte come fine inevitabile, fondata sul corpo come sostanza, per fornire l’appiglio del lamento e di tutti i mali da curare.
Supposta la sostanza, il corpo non può che essere concepito come sano o malato. Il sintomo, che dovrebbe essere percepito come sollecitazione a una possibile occasione, viene medicalizzato e la soluzione è sempre il farmaco.
Se non più sostanza, il corpo può definirsi materia? Materia intellettuale, dispositivo del fare, dell’occorrenza, pragmatico. Materia dell’Altro. “Non c’è vita senza l’Altro”, ecco un possibile teorema. Non c’è vita senza l’ospite, ignoto nella condizione di ospitato e ospitante, in un luogo altro, ospite nell’assemblea, nel dispositivo intellettuale, sia esso medico-paziente, maestro-allievo, ecco la cura intellettuale per giungere al caso, ciascuno differente e non assoggettato allo standard, al discorso del benessere o malessere, che si riferiscono a un corpo evidente e concreto nella rappresentazione e quindi mutilato dal tempo.
E si tratta d’interrogarsi sulla portata di questa mutilazione. Tolto l’Altro, tolto il tempo, il corpo è reso soggetto, isolato, rigettato nella riva della sopra o sotto vivenza, come cadavere, sostanza inerte. Senza analisi, il degrado è sempre e solo il farmaco, dove un corpo è prima di tutto un corpo sano o malato da curare, e non un corpo che parla, o meglio, un corpo nella parola.
Ospedale, scuola, famiglia, azienda, quando sono intesi come statuti sociali, in quello spazio, lo psicofarmaco ha la sua giustificazione. E risulta il complemento necessario a sostenere il dialogo e la ragione chiusa, senza ascolto e senza generosità, a sostenere che il disagio sia una patologia che abbia origine in una qualche parte del corpo, localizzabile, uno scompenso delle sinapsi, che il delirio sia un errore del cervello. Questo genera la vittima, la colpa, la pena da espiare. Prendersi cura del quotidiano, trasformare uno spazio in un luogo, un luogo in un dispositivo, senza contenimento della domanda, dare la parola alle formazioni dell’inconscio per desiderio e non per calcolo, questa è una direzione, per l’instaurarsi della salute.
L’inconscio non è malato. L’arte e la cultura non sono malate. Il non dell’arte. Non se piace l’arte, non cosa sia l’arte, ma dove sia l’arte. Il dove dell’arte inventa il corpo come strumento della parola e della sua qualificazione.
R.C. Bene. Abbiamo ascoltato molte cose. Lei vuole dirci che cosa ha ascoltato? Qualche parola? Una nota.
B.S. Così, in velocità?
R.C. Sì, ecco, venga qui, in velocità.
B.S. No, posso anche da qua.
R.C. Ah, lei può comunque!
B.S. Sì… troppa velocità.
R.C. Venga qui.
B.S. No, non serve. Ho sentito concetti diversi.
R.C. Ma, lei, rispetto al titolo, cosa dice? Venga qua. Dia una testimonianza del fatto che anche lei si trova qui.
B.S. Sì, ci sono, posso stare qui, ci sono anche da qui.
R.C. Allora? Una nota, breve, che lei ha colto, che ci vuole consegnare?
B.S. Tante cose, per cui è difficile.
R.C. Una nota in merito alla sua esperienza in corso.
B.S. Questa esperienza la trovo utile per me. Mi ha attratto fin dall’inizio per molte cose a cui avevo pensato in passato, distrattamente, non approfondite… sulla vita, sulla società in cui viviamo e sul come viviamo. Mi è utile a capire e a sua volta mi permette di essere utile, che è molto importante per me. È anche una questione di responsabilità.
R.C. C’è una questione di utilità. Bene, molto bene. Come questa utilità si attui, la volta prossima ci dirà qualcosa. Con un testo magari. Bene. Ciascuna testimonianza è preziosa perché si rivolge al valore e indica la tensione al valore. È preziosa perché è un modo per accorgersi che l’istanza del valore consente invenzioni, novità, articolazioni, produzione, scrittura, organizzazione non secondo schemi e luoghi comuni, ma per vie impensabili e irrappresentabili, per cui ciascuna testimonianza serve per cogliere la dissipazione dell’idea di mondo, quand’anche facesse capolino. Consente di andare oltre il mondo e oltre la mondanità, oltre il sistema e oltre le possibili rappresentazioni e prese che l’idea di sistema può, talora, consentire.
L’analisi non avviene una volta per tutte. L’analisi è ciascuna volta. È in ciascun atto e non c’è atto che possa essere esente da analisi e da cifratura, perché ciascun atto è originario. E l’esperienza non è l’esperienza degli atti, ma l’esperienza dell’atto nella sua originarietà e nella sua tensione, tendenza a qualificare ciascuna cosa.
L’esperienza dell’atto è esperienza di valorizzazione; esperienza del valore di ciascun atto. E questo nel linguaggio, nella sembianza, nella materia: nelle dimensioni della parola. Non c’è atto senza la sembianza, non c’è atto senza il linguaggio, non c’è atto senza la materia. E tutto ciò non è mai detto, già fatto, già acquisito. È da trovare, da instaurare.
La sembianza è imprescindibile. È qualcosa di cui non si tratta di parlare, ma il parlare non va senza la sembianza, senza cioè la dimensione dell’immagine. È anche per via della sembianza, del linguaggio, della materia, che non c’è alternativa all’intellettualità, non c’è alternativa alla parola se non negando la parola, se non nella sopravvivenza, nella rappresentazione animale della vita.
L’analisi non è un rimedio al male, non serve per instaurare il bene, non è finalizzata. L’analisi è teorema, è teorematica. Indica la dissipazione di una presa sostanziale sulla parola. Indica la dissipazione della padronanza sulla parola: questo è analisi, che esige la procedura, il procedimento, il processo intellettuale. Non è rappresentabile.
Come avviene l’analisi? Questo esige il poi. Ma se il poi è negato, l’eventualità di capire e d’intendere è negata per un fantasma di origine, anche l’analisi s’inceppa, perché è negato il poi, l’avvenire, il tempo. Si tratta di capire secondo cosa, ciascuna cosa avviene. Non già perché, non tanto perché, ma secondo che cosa: secondo la logica, secondo quale logica.
Secondo. La logica non è già definita. La logica è logica della nominazione, e esige di scriversi. Non è una codifica, la logica. È ciò che poi, non negando il poi, può capirsi, può intendersi e consentire quel che seguirà. Intanto occorre non negare la domanda, non negarsi la domanda e ciò che sta nella domanda.
L’esperienza della parola è impareggiabile e esige che ciascuno ne testimoni per la qualità che si produce nella domanda. Non c’è esperienza standard o ripetibile. È questo che sconcerta, talvolta, chi vorrebbe anteporre il sapere al fare, al procedere, al dare corso, allo svolgimento, come se potesse essere già previsto, anticipato, saputo, già fatto. Già fatto!
Il già fatto è, diciamo così, l’imperativo dell’epoca. Tutto è già fatto, già saputo, si può solo ripetere. L’importante è sapere cosa ripetere, sapere come fare, applicare il saputo, secondo i desideri. Così, sapendo i propri desideri, ognuno può fare quello che vuole, purché sia secondo i desideri. Ma, in questo schematismo così perfetto, accade che le cose non vadano così.
Diceva un cifratore in una conversazione: “Non sono contento, non sono affatto contento, eppure faccio quello che desidero. Il problema – diceva – è che quello che faccio non è nel mio nome, ma in nome di qualcosa che non so definire e che non mi soddisfa”. In nome di qualcosa, in nome di qualcuno. Intanto se ne trae questa indicazione: le cose si dicono e si fanno secondo il nome. E non in nome di, non in nome del nome!
In nome del padre, in nome di dio, in nome del popolo, in nome del bene comune, in nome della religione, in nome della ragion di stato, in nome della morale civile, in nome dell’approvazione. In quanti modi il nome, che è innominabile e anonimo, può essere negato, e al suo posto essere invocato, invece, il nome del nome, cioè una rappresentazione, un ente che dovrebbe fare da garante della bontà o della validità di quel che si fa: in nome del nome, il fondamento, il garante, l’avvallante, il giustificante, in nome e per conto di.
Il ricorso al nome del nome consente di evitare il compimento di ciò che è in corso, il compimento della Sintassi, la Legge come compimento, l’Etica come compimento, la Clinica come compimento, a favore di un adeguamento al discorso comune, alla morale comune, allo standard, alla mediocrità, alla burocrazia. “Si può fare, non si può fare, si può fare, ma non adesso, si può fare, ma non subito, si può fare, ma non oggi, si può fare, ma non si sa quando”.
Si può fare, non si può fare: adeguamento alla burocrazia. Si può fare, ma non così: adeguamento al canone, al modo comune, in nome del nome, in nome del modo corretto, del modo comune, del modo di fare, il modo comune di fare.
Di cosa si tratta nella burocrazia? Di un fantasma, che vorrebbe avere ragione sul non, sul non dell’avere e sul non dell’essere, sull’impossibile della rimozione e sull’impossibile della resistenza, per instaurare il non del non, ossia il toglimento del non, il toglimento del funzionamento originario, in nome di un funzionamento prescritto. L’abolizione della parola sta anche qui, nell’adeguamento alla abolizione, nell’accettazione di questa abolizione, per instaurare la versione canonica, la versione corretta dettata dal nome del nome: questo modo è corretto, quest’altro non lo è.
La correttezza è l’altro nome del canone, è l’altro nome della prescrizione, è l’altro nome dell’abolizione dell’arte e della differenza. E allora, “Come devo fare?”. “Cosa devo fare, e come?”. Che dire? Che fare?
Ma chi racconta, chi parla, chi narra può ascoltare e constatare se il racconto che sta facendo s’imbatte negli indici dell’infinito, del tempo, del malinteso e del nome o se si avvita su se stesso, circolarizzandosi nelle giustificazioni, nelle rappresentazioni, nelle argomentazioni, nelle significazioni della ragione presunta comune o propria, o del torto altrui.
Ogni tentativo di affermare la propria presunta ragione è un modo di negare la ragione dell’Altro, la ragione e il diritto dell’Altro. La ragione dell’Altro, negata, diventa ragione sull’Altro. La ragione sull’Altro è la ragione dell’intolleranza, è la ragione della sostanza. E questo è il cedimento della ragione sufficiente, che porta al principio di drasticità, di severità, di rigidità, di bontà!
Questi principi, che si devono affermare sulla parola, negano le virtù del principio originario: l’aria, l’anoressia, l’apertura. E negano l’identificazione, negano il rigore e la follia, instaurano la rigidità e l’idea di potere o dovere fare quello che si vuole, negano il funzionamento, negano l’arte del malinteso, negano la particolarità della parola, la struttura della parola. Negando questo, è negato lo statuto intellettuale e ognuno si rappresenta. Allora, ognuno crede di esistere e crede di potere o dovere esistere. Dove? Come? Non più nella parola, ma nel mondo. Nell’idea di sé, nell’idea dell’Altro, finalizzando le cose a un buon giudizio universale, per evitare la pena e ricevere il premio. Ogni cedimento è un compiacimento, una piaggeria rispetto all’ente superiore che dovrebbe comminare il premio o la punizione, sia esso divino o umano.
E questo ha come conseguenza l’abolizione del talento. Il talento è abolito abolendo il rischio. Il talento non sta nascosto nelle proprie doti o facoltà. Il talento sta nella prova. Dove si situa la prova? Tra il diritto e la ragione dell’Altro. Quindi, se l’Altro è negato, se il funzionamento è negato, nessun talento. Ognuno si limita rispetto alla rappresentazione che ha di sé o dell’Altro. E così, non c’è più Altro e non c’è più talento.
Accade che ognuno si affaccendi e si chieda cosa fare. Ma, il fare non è fare qualcosa. Il fare è la struttura dell’Altro: sogno e dimenticanza. Fare qualcosa è l’umanizzazione dell’Altro. Allora, ognuno si affaccenda, ognuno si arrabatta, ognuno fa il possibile, ognuno fa tante cose, ma fare qualcosa, fare le cose, non è fare, perché l’idea di fare qualcosa è in conformità alla rappresentazione che ognuno ha di sé. Non è secondo l’Altro, che è irrappresentabile e invisibile, ignoto; ma è da lì che viene il talento. È da lì che viene quel talento che nessuno sa di avere, perché non c’è modo di possederlo.
S’instaura, si produce il talento, non si possiede. Così come criticare non è fare, non equivale a fare. Promettere non è fare. Sperare non è fare. Sperare non indica la parola in atto, ma un tentativo di padroneggiamento. Fare non segue il criterio del volere fare, del potere fare, del sapere fare. Fare è secondo l’occorrenza. Fare si situa nell’intervallo. Cioè, come fare è questione d’infinito, ma cosa fare è questione di finitezza, è questione di soggettività: “Io so cosa voglio fare”. Eh sì, siamo a posto, la domanda non c’è già più, è tolta. Se ognuno sa cosa vuole, non c’è più la domanda, non c’è più dispositivo ma il soggetto saccente, il soggetto del compromesso fantasmatico. Con che cosa? Con ciò che nega la parola, cioè con la rappresentazione che ha di sé o dell’Altro o degli altri o del mondo.
L’esperienza di parola non finisce mai. Non è mai fatta, è in corso. O è in corso o è già finita. Non è mai fatta. Chi asserisce di averla fatta è evidente che bluffa. L’esperienza in corso esige la testimonianza di cifra, esige il pubblico della cifra, il pubblico della cifratura. La cifratura non è una pratica intimista che avviene tra sé e sé, clandestinamente, intimamente e le cui acquisizioni restano tra sé e sé. Sarebbe un modo riduttivo di considerare la cosa.
Nella parola nessuna clandestinità. Nessun nascondimento, nessuna omertà, nessun segreto. Nessun segreto, nessuna riserva, remora o rimando. Può accadere che intervenga qualcosa di questo, ma giusto come materiale per l’attraversamento, per la cifratura, per l’analisi, per l’invenzione, per andare oltre. Non per giustificare l’impedimento. Nessun impedimento alla parola, nessun impedimento nella parola. Come nessun pudore e nessuna vergogna, se non di sé, se non dell’Altro presunto, cioè rappresentato.
Nella testimonianza, nel fare, nel dire, non si tratta di dire o di fare qualcosa di cifrematico, si tratta di dire e di fare. Nulla è “cifrematico” per definizione, o è già “cifrematico”. L’esperienza è cifrematica. Impossibile dire qualcosa di cifrematico. Sarebbe metalinguaggio. Sarebbe dire dove sta il valore, la cifra, il modo. È da trovare! Il metalinguaggio è un fantasma di padronanza.
Ciò che importa è come quel che si dice e quel che si fa si rivolge alla qualità, alla cifra, al valore, non allo standard, a ciò che è comune. Se qualcosa sembra impedire il rivolgimento della domanda alla sua cifra, questo, lo statuto intellettuale non può accettarlo, il cifratore non può accettarlo, non può considerarlo un male dell’Altro e attribuirlo o giustificarsene, ma ha da attraversarlo.
Accontentarsi, vivacchiare, limitarsi e tutto ciò che va in questa costellazione, si accompagna a contropiedi, contrappassi e contraccolpi. Cioè, tutto ciò che è accettato e giustificato contro la pulsione, contro la parola, contro la direzione alla qualità, non va senza inghippi.
Tutto ciò che è accettato come contrarietà, perché è accettato? Perché si produce? Perché è contrassegnato dall’idea di fine. E l’accettazione non va in direzione della salute. No! L’idea di fine è ciò che nega la salute, mina la salute, fino a togliere la salute e può impedire addirittura d’intendere di cosa si tratti.
Negare il tempo vuol dire immobilizzare le cose e trovarsi, come raccontava Giampietro, nel museo della salute con le visioni dei beni e dei mali, del corpo, del funzionamento. Dove la visione è visione del corpo morto, è la visione della salute che non c’è più, perché se è tolto l’avvenire, se è tolto il tempo, se è tolto il poi, è impossibile capire. E allora, ecco il soggetto che non capisce, s’imbambola, s’instupidisce, si stupisce e crede che le cose stiano in un certo modo, crede nell’Altro come persecutore, come despota, come vampiro, come rivale e si adegua a questa rappresentazione o si ribella. Ma, la ribellione è un modo dell’adeguamento.
Il toglimento della sembianza comporta la specularità. La specularità di sé a sé, di sé all’Altro, di sé al bene o al male rappresentato. E allora, il fantasma originario, che è il fantasma che opera per la riuscita, per l’organizzazione, per la scrittura, per lo svolgimento, diventa fantasma che agisce, diventa credenza sullo stato delle cose. Questa è la normalità, questo è il discorso occidentale. Questa è l’epoca.
Noi non accettiamo l’epoca, noi viviamo nella parola. Noi, voi, loro sono indici dell’infinito della parola. Se l’infinito è instaurato, allora noi, voi, loro sono indici dell’infinito, e se l’infinito è instaurato, impossibile perdersi. Smarrirsi, perdersi è proprio al sistema, dove vigono le coordinate di riferimento. Perdere le coordinate di riferimento comporta lo smarrimento, il perdersi, la rappresentazione di perdersi e smarrirsi. Ma, come perdersi nell’infinito dove non c’è il punto di arrivo ma c’è la direzione, la rotta, la bussola, il timone? Dove non c’è il traguardo segnato rispetto a cui sia possibile perdersi o smarrirsi?
È questione di direzione, di tensione. Noi, voi, loro e non “noi sì” e “voi no”. Noi senza loro? Loro contro di noi? Noi, voi, loro indici dell’infinito attuale. Noi tutti? No, noi! Noi non siamo tutti. Non siamo pochi, non siamo molti, non siamo nella contabilità. Noi, voi, loro. C’è da avere paura? Loro sono più di noi? Voi siete contro di noi? Allora non si tratta dell’infinito, si tratta di una rappresentazione spaziale del duello. Infatti, senza l’infinito, ognuno si trova a tu per tu, in un rapporto di sé a sé o di sé con l’Altro, in una specularità da soggetto a soggetto.
Lo statuto intellettuale è questione imprescindibile, dove si tratta della parola senza cedimento, senza compromesso fantasmatico, qualcosa che esige l’invenzione incessante, la bottega in atto, la bottega dell’arte, dell’invenzione, della scienza, della parola. Quindi noi, non noi soli, noi due, noi e voi, ma noi, voi, loro nella domanda.
Ciascuno vive nella domanda. Ma se bara nella domanda, allora contropiedi, contrappassi e contraccolpi sorgono a minare la salute. Abbiamo indicato alcuni di questi nell’AIDS, nel cancro, nell’infarto, nell’ictus, nel Parkinson, nell’Alzheimer e altri ancora. Contropiedi e contrappassi, ossia contrasti, contrarietà, alternative all’oggetto, al tempo, al funzionamento. Accettazioni di rappresentazioni che contrastano la pulsione. Non sono da prendere, come dire, sottogamba, o sotto piede o sotto passo, perché la questione è quella del passo, del piede e del colpo, che non possono diventare contrappasso, contropiede e contraccolpo.
Allora, noi qui. Noi stiamo qui, nella parola che diviene cifra. Non nella parola immaginaria, immaginata, ma nella parola che diviene cifra. E che esige, da ciascuno, la prova, la testimonianza, il corso, lo svolgimento, la scommessa e i dispositivi per la riuscita.
C’è qualche domanda? C’erano altre cose, ma…
P.E. Io, una precisazione. Lei diceva che le cose si fanno secondo il nome e non nel nome del nome, in quanto il nome è anonimo e innominabile. Allora vuol dire senza giustificazione, senza garanzia, senza…
R.C. Garanzia e giustificazione sono due cose molto differenti e distanti tra loro. Ma, perché qualcosa che si dice o si fa o tende a scriversi dovrebbe giustificarsi? Cioè, dovrebbe essere giustificata da che cosa? Che cosa può giustificare che cosa? Chi può giustificare chi, se non in nome di una padronanza, se non in nome di un nome, cioè di una genealogia? Sarebbe a dire che è tolto il rischio, tolto l’originario, per stare in un solco già segnato, secondo una predestinazione. Ma, se non c’è predestinazione?
P.E. Per questo si dice anche l’erranza del nome, fuori da un solco, che non è significato.
R.C. Esatto, sì.
D.S. Io vorrei capire meglio l’idea del sembiante. Il sembiante che cos’è? Si collega all’immagine, quindi fa pensare che questo sembiante dovrebbe essere qualcosa in assenza di chi è il sembiante. Non so. Un’idea che rimane anche dopo… Il sembiante può essere riferito a una persona? O no, per niente? Lui diceva prima dei gerarchi, di quelli dei campi di concentramento che andavano a casa dalla mogliettina, dai figlioli. Che sembiante potevano avere? Allora il sembiante è di una persona, se quelli lì non ce l’hanno.
R.C. Loro ce l’hanno e lei no?
D.S. Non lo so, voglio capire. Non so se ho il sembiante. Questo non c’entra. Ma è riferito a qualcuno o è qualcosa che riguarda…
R.C. Che riguarda? Sì?
D.S. Non so… mi viene da pensare che sia quello che rimane, quando lui non c’è.
R.C. Cosa rimane di una persona quando lui non c’è?
D.S. Quando non c’è, rimane l’immagine che non corrisponde all’immagine fotografica, ma che si compone di un atteggiamento, di un portamento, dell’autorità, non so…
R.C. Sì…
D.S. Quello che rimane di una persona, non so dire. Quando dici il nome non ti viene in mente la sua faccia o la sua corporatura, ma ti viene in mente qualcos’altro. Può essere quello il sembiante?
R.C. Come prima approssimazione… benissimo. Un’approssimazione interessante.
D.S. E poi, per la prossima volta, come entra in gioco nella vendita, il sembiante?
R.C. Questo è veramente decisivo. Lei intanto ha capito questo, allora andiamo avanti. C’è qualche altra domanda. Moda?
F.M. Sì. Volevo una precisazione sull’impossibile della rimozione e della resistenza. Ma, se senza la rimozione e senza la resistenza c’è la fissità del nome e del significante, come può esserci l’impossibile della rimozione e della resistenza?
R.C. Com’è possibile che…?
F.M. Questo termine impossibile della rimozione, se la rimozione è il funzionamento del nome e la resistenza è il funzionamento del significante, perché c’è questo termine “impossibile”? A cosa si riferisce questo impossibile?
R.C. Al non. Il non. L’impossibile è il non.
F.M. Non mi è ancora chiaro.
R.C. Il non del funzionamento. Il funzionamento è nel non della rimozione e nel non della resistenza, che è il non dell’avere e il non dell’essere.
F.M. Quelli sono chiari.
R.C. Sembra!
F.M. Ah, sembra!
R.C. Il non indica l’impossibile di ciascuna cosa, del nome e del significante, rispetto alla significazione. Così, non c’è identità e non c’è sovrapponibilità tra nome e significante. E quindi, ne oinom. Il non. La funzione di non. La rimozione, la resistenza: impossibile dire le cose. Ciascuna cosa si dice, funzionando però. Funzionando, impossibile dire le cose. Impossibile che quel che si dice si sovrapponga al detto. Nulla è mai detto. Per la rimozione, per è la resistenza. Questo è il funzionamento della parola. Come avviene è inspiegabile. Non si può spiegare, occorre viverlo.
F.M. Se la rimozione e la resistenza impediscono la sovrapposizione, perché aggiungere questo impossibile, se già la rimozione e la resistenza impediscono l’identità, la sovrapposizione e così via, la ripetizione?
R.C. Cioè, la rimozione e la resistenza non impediscono nulla, non sono impedimenti. È l’ideologia del discorso che tenta l’economia della rimozione e della resistenza, abolendo il non, come se le cose si potessero dire in quanto tali. Le cose non sono tali per via del non, ossia per via della funzione di rimozione e per via della funzione di resistenza. Nomi e significanti non sono padroneggiabili. Il nome è innominabile e anonimo. Impossibile dire il nome o nominare il nome. E questo è qualcosa di complesso, che esige l’accoglimento, esige l’ammissione, esige lo statuto intellettuale, l’accoglimento della parola, perché il funzionamento rende la parola non padroneggiabile, non prevedibile. Da cui, impossibile sapere il senso.
L’idea di sapere il senso delle cose, come si struttura? Togliendo il nome, allora sarebbe possibile il sapere sulle cose, sapere le cose, senza che funzionino. Basterebbero le cose in sé. Una cosa in sé è già saputa. Si applica una cosa saputa al discorso e c’è il discorso di padronanza, il discorso delle cose così.
Questa idea non è casuale, no? È sorta qualche migliaio di anni fa, per contrastare la parola libera, cioè il senso libero, il sapere libero, l’invenzione libera. E questo è un aspetto essenziale della cifrematica come esperienza della parola che diviene cifra. Sarebbe impossibile la qualificazione, senza la rimozione e senza la resistenza. Basterebbe il sapere sulle cose, basterebbe la filosofia, basterebbe il museo del corpo umano, la museografia, la museologia, basterebbe l’enciclopedia.
Questa sera abbiamo fatto un passo avanti.
F.M. Certamente.
R.C. Altri ne restano da compiere.