Decimo capitolo del volume La realtà della parola
La famiglia. L’idea di Dio e l’idea del padre
Ruggero Chinaglia Il titolo dell’appuntamento di questa sera è La famiglia. L’idea di Dio e l’idea del padre. Questo si affianca e si aggiunge al titolo del film Dio esiste e vive a Bruxelles.
Che ci sia un titolo al dibattito, giusto per porre in evidenza alcune questioni che si tratta di considerare con più attenzione, non toglie il film. Il titolo Dio esiste e vive a Bruxelles è già indicativo di ciò di cui si tratta. Questo “esistere”, che viene sottolineato nel titolo, pone già una questione che riguarda propriamente l’idea che possano esistere delle cose in quanto tali.
Di cosa si tratta nell’idea di esistenza? Nell’idea che qualcosa esista? Si tratta dell’idea che qualcosa possa essere tale, possa istituirsi a partire dall’origine e possa essere rappresentata dall’idea di origine. La stessa idea di Dio, o la nozione di Dio, non ha di per sé, come corollario, l’esistenza. L’esistenza di Dio ha invece come corollario la sua dimostrazione. In quanti casi, da parte di teologi, filosofi, matematici e quant’altro, è stata coltivata e inseguita l’ipotesi di poter dimostrare l’esistenza di Dio? Questa nozione di esistenza poggia sull’idea di dimostrabilità, di giustificazione, di dimostrazione, di spiegazione, di confutazione. Come dire, lungo questo percorso dalla dimostrazione alla confutazione, che qualche cosa può risultare conoscibile. Come conoscere Dio: questa sarebbe l’idea di esistenza di Dio.
La nozione di esistenza si affianca a quella di antropomorfismo: dio come rappresentazione umana, l’idea di dio come idea di uomo. Da qui prende avvio anche tutta una serie d’iconografie di Dio: dio padre, dio vecchio, dio con o senza barba, dio dalle sembianze umane. Questo sarebbe il dio esistente. Ma c’è necessità che dio esista? Che abbia questa forma, questa rappresentazione in termini di antropomorfismo? Questa è una delle questioni, che già il titolo del film pone. Poi, leggendo il film si tratterà di capire se anche il film la pone e in che termini.
Quel che è sicuro, accanto a questo, è che questa idea di esistenza (esistenza di dio, esistenza delle cose) è un modo della negazione dell’inconscio, è un modo della negazione della parola. Quel che si dice non ha la necessità di esistere, cioè non ha la necessità di essere dimostrato, spiegato, giustificato, confutato e tanto meno di essere conosciuto. Esistenza, conoscenza, realismo, fondamentalismo sono termini che vanno nella stessa direzione, di abolire la differenza, la particolarità, la dissidenza.
Questi sono alcuni termini di base per leggere il film. Il regista di questo film è Jaco Van Dormael, belga. Non a caso Dio vive a Bruxelles, visto che il regista è belga, solamente lì è a portata di mano, ovviamente. È un regista abbastanza giovane. Questo film è recente, è dell’anno scorso. È stato cominciato nel 2014 e è entrato nelle sale nel 2015. Non siamo qui per valutare l’opera nella direzione della valutazione cinematografica. Certamente il regista, che ha già prodotto e diretto altri film, è attento alle questioni cliniche e fantasmatiche, e si è proposto all’attenzione con alcune sue opere precedenti, in maniera piuttosto interessante. Questa sera valutiamo questa sua ultima opera.
Allora, chi vuole cominciare a dire cosa ha visto e cosa ha ascoltato? Sentiamo qualche spunto: di cosa si tratta, che cosa narra questo film? Qual è il protagonista? Qual è la vicenda?
Giorgio Fornasier A me pare che ci sia un bambino, la storia, il racconto di un bambino, che praticamente dice che il mondo è meglio con la mamma rispetto al papà, dove c’è un malinteso assoluto tra il papà e la mamma e dove la mamma costruisce per così dire un mondo bello, mentre il papà costruisce un mondo brutto e cattivo. Questa è una prima lettura.
E poi, c’è, in qualche modo, una separazione assoluta fra queste due figure. Al centro, c’è il bambino che attribuisce le cose spiacevoli, le cattiverie al papà, in questo caso a Dio padre, e invece le cose buone alla mamma, che all’inizio è sottomessa, ma poi, in realtà, quando esce fuori, riesce a trasformare tutto: e allora ci sono i fiori, il bene, il bello, ecc.
Non so come mai il regista abbia deciso di fare questa separazione attribuendo gli aspetti negativi al papà e quelli positivi alla mamma, però, devo dire, è in buona compagnia, ecco.
R.C. Cioè, in compagnia di chi?
G.F. Del modo comune di pensare. Non è una cosa inedita, come pensiero. Direi che è dominante. Questa è la cosa che mi ha colpito.
Andrea Orlando Anche a me è piaciuto molto il film. Non so se ci azzecco molto, perché ci sono molte tematiche. Probabilmente anche quelle dell’inconscio, però io non sono un addetto ai lavori e mi sembra che in tutti i personaggi ci fosse un trauma che andava risolto. Cioè tutti conducevano un’esistenza traumatizzata; sostanzialmente, liberi non erano. Non avevano la propria coscienza di se stessi, perché chi aveva avuto la mancanza del papà, chi del braccio, chi aveva una mancanza d’amore con il marito, non ricordo adesso, ma alla fine, quando vengono risolti questi traumi, ognuno prende possesso della propria vita. E quindi, in realtà, quando uno s’identifica diviene se stesso e poi diviene padrone della propria vita e può affrontare la realtà che è determinata da qualcosa che ci viene imposto; ma la realtà cambia, è soggettiva.
Lì c’è anche la figura del dio, non so, però subito mi sono chiesto: perché Dio viene rappresentato dal papà del bambino? Probabilmente perché tra tutte le persone sicure e pseudo sicure di sé, c’era proprio il papà. Invece alla fine era la persona più insicura di tutte, era una finta autorità. Non sono riuscito a inquadrarlo bene, però in apparenza era l’unica persona che non si metteva in discussione. Magari ci possiamo chiedere: “Perché cerchiamo Dio?”.
Non voglio entrare in polemica con gli psicanalisti. Io sono appassionato di paranormale, però bisognerebbe capire cos’è questo dio. Lei parlava prima di dio con la barba, in realtà quelli sono stereotipi che ci sono stati imposti, bisognerebbe capire cos’è. C’è anche la mamma, il bambino, la figura del Cristo… Ho avuto l’impressione che non riuscendo a sviluppare la propria coscienza, il proprio io, ci si aggrappa a un dio per giustificare e dare un significato alla propria esistenza, per compensare quella mancanza, quella incompletezza che si ha. Questo mi ha attratto, a me è piaciuto molto.
R.C. Molto bene, grazie. Altri? Altre note? Testimonianze di cosa ciascuno ha visto e ascoltato?
Barbara Sanavia L’idea di fine certa, a me non è sembrata male.
R.C. Non le è sembrata male. Cioè?
B.S. Perché può far scattare il desiderio di vivere meglio il tempo che si ha a disposizione, al contrario di una morte così, che arriverà ma non si sa quando, per cui magari si perde tempo. Quello che faceva Ea, cioè stimolare le persone a seguire la propria musica interiore, mi fa pensare a questo. La musica interiore mi fa pensare alla particolarità di ciascuno e in questo Nuovo Testamento io ci vedo questo. Poi alla fine la mamma risolve, in un certo senso la toglie di nuovo, non lo so.
R.C. La madre toglie. Che cosa toglie?
B.S. La consapevolezza del momento della fine, del punto di fine della vita terrena, poi non è detto che ci sia una fine. Poi c’è questo padre, questo papà che lascia un po’ a desiderare e la figlia si ribella. Però, direi che Ea ha ragione a ribellarsi.
R.C. Ecco, le dà ragione. Ho capito, perché il papà era cattivo.
B.S. È un eufemismo dire cattivo. Non era certo un esempio da seguire, anzi.
R.C. Bene. Poi, altri?
Maria Antonietta Viero Il riferimento a un certo punto alla “coscienza di morte”, per cui s’innesca quanto ancora racconta verso la fine, la musica, che è propria a ciascuno, riporta al sogno.
R.C. Sì. Propongo di non tentare l’esegesi del film, ma di raccontare, testimoniare quel che si è visto e ascoltato.
M.A.V. Mi sembra che ciascuno ha un dio fantastico, nel senso che ci sono per ciascuno delle fantasie che riportano a dio in quanto operatore. Ecco, mi sembrava che ci fosse questa questione. Come dire, ognuno pensa al Dio creatore, da dove provengono le cose e qui si ascolta che dio opera.
R.C. Perfetto. Va bene, altri?
Daniela Sturaro Per me la cosa più importante non è come sia il papà o come sia la mamma, ma il passare attraverso il cunicolo che porta all’incontro con questi nuovi apostoli. È una lettura del tutto differente dei casi che vengono interpretati comunemente.
R.C. Sì, dica. Cioè
D.S. Ci troviamo di fronte a sei figure, a sei casi insomma, comunemente considerati come persone con problemi, con difficoltà, che anche vengono condannate o considerate malate, sbagliate. E invece questa bambina va proprio da loro, cerca tra loro gli apostoli, per scrivere il suo Nuovo Testamento.
R.C. Beh, la scelta è casuale. Non c’è questa intenzione della bambina. La scelta è casuale. Aveva sei schede. La scelta è casuale. Non attribuiamo alla bambina intenzioni che non ha.
D.S. No, non alla bambina, allora al regista, che sceglie questi personaggi. Mi sembra che sia molto particolare il suo modo di leggere, di raccontare la loro storia e di farli elaborare, per poi costruire per ognuno una riuscita. C’è la riuscita, nel senso di venire fuori dal buco nel quale erano entrati. Che poi Dio sia collerico, che la mamma sia invece una casalinga può costituire la ragione per andare oltre questo, per cercare qualcos’altro. Poi ci sono tanti altri elementi che lascio.
R.C. Bene. Lascia generosamente a altri.
B.S. Pure la fine dalla guerra, perché tutti presi dalla propria, in tanti volevano realizzare il loro sogno e non pensavano più a farsi la guerra.
R.C. E quindi?
B.S. E quindi ci penserò.
R.C. Bene, altri? Altre note?
Elisa Ruggiero Sì, il film è molto interessante, molto bello, anche per le note di surrealismo che danno tono al film, proprio in relazione al sogno. Pare quasi che questa immagine, questo non senso dia una certa leggerezza, perché la vita di quei personaggi, dei sei apostoli, era una vita un po’ particolare. Dall’incompletezza della loro vita, dal loro essere immersi in una vita che praticamente è come il tunnel che hanno percorso inizialmente per uscire dalla loro abitazione e entrare nel mondo e incontrare altre persone, il tunnel della lavatrice, la vita che era incanalata in una certa direzione, attraverso il sogno incontra una combinazione nuova e un modo per risolvere il desiderio, in un’altra maniera. Cioè, pare che sia quasi attraverso il sogno, attraverso la novità, che ciascun personaggio riesce a trovare elementi, modi, maniere per giungere al miglioramento della qualità della vita. Credo che sia così. Ove la questione è correlata a Dio, perde un po’ di significato nello svolgersi del film, sembra quasi una giustificazione per svolgere in quella determinata maniera il film, per mettere delle note di surrealismo, per renderlo divertente.
In realtà secondo me, perde di tono questo dio antropomorfo e sadico, che pare sia il risultato della risposta di tutte le umiliazioni, perché la cosa che mi ha fatto pensare, è che mentre programmava tutte le cose attraverso il computer, sembrava una persona. Se gli cade la fetta di marmellata, come nel luogo comune, anche qui nel Veneto, un uomo medio solitamente potrebbe essere blasfemo e anche magari inveire contro Dio. Sembra quasi un “botta e risposta” fra un atteggiamento che in termini religiosi viene considerato peccaminoso, una reazione, una provocazione da parte di Dio. E questa è una cosa che mi ha fatto un po’ sorridere. Sicuramente, vale la questione della vita e della morte perché anche in termini religiosi ha un termine ben preciso, da cogliere anche attraverso i personaggi che non sono nel paradiso terrestre, ma sono sulla terra; non nell’Eden, ma sulla terra, nel pianeta con le loro vite.
R.C. Bene. E fin qui siamo più all’esegesi che alla clinica di questo testo. Però ci sono ancora spunti clinici.
A.O. Clinica. Mi scusi, che c’entra la clinica, in che senso?
R.C. La direzione verso la cifra delle cose.
A.O. Cifra?
R.C. La cifra, la qualità e il valore.
A.O. Valore è il significato intrinseco del film?
R.C. No, appunto. Qual è l’indicazione del valore che questo film ci rilascia? Dove sta la questione del valore? E la vicenda che è narrata nel film, in che modo risulta vicenda e non già una serie di spot per alcuni messaggi morali? Dove cioè sarebbe bene fare così, sarebbe male fare colà, è bene fare questo, è male fare quello.
Se noi cediamo a una lettura morale, ritenendo che il film abbia un messaggio morale da rilasciare, allora non stiamo facendo una lettura clinica, non stiamo cogliendo la vicenda, stiamo attribuendo al film o al regista intenzioni di bene o intenzioni di male. Cioè, facciamo una lettura morale, una lettura anfibologica, dove sono le cose buone e le cose cattive, dove è meglio fare questo piuttosto che fare quello.
Ma il film narra una vicenda: qual è la vicenda narrata?
Occorre cogliere questo aspetto: qual è la vicenda narrata nel film, chi la narra e come, lungo questa narrazione, accadono cose che non sono casuali ma rispondono a una concatenazione precisa. Quindi, che cosa avviene in questo film?
A.O. A me sembra di capire che ognuno superi i propri traumi, però non so se è quello.
R.C. Sì, avviene anche questo: c’è una sorta di andare oltre determinati problemi che sono rappresentati per alcuni personaggi. Ma questo andare oltre, come avviene? Come avviene che ci sia questo andare oltre, che lei ha rilevato?
A.O. Affrontandoli. Come nel caso della bambina.
R.C. La bambina che cosa ha affrontato?
A.O. Ha affrontato la situazione familiare, il padre con il quale viveva in quella condizione. Anche la madre si è accorta a un certo punto che era libera, perché mancava la figura del marito che rompeva le scatole dalla mattina alla sera, per cui ha iniziato a prendere coscienza di sé stessa mentre prima aveva una condizione di oppressa, quindi ha preso in mano la propria vita. Alla fin fine tutti hanno preso in mano la propria vita e sono diventati padroni di sé stessi.
R.C. Quindi lei ha rilevato che c’è nel film un’idea di padronanza: un’idea di essere o diventare padroni della propria vita. Perfetto. Questo è un elemento che adesso consideriamo meglio. Lei aveva alzato la mano?
Vanni Francescato Io ho notato che è rappresentata l’idea del dio cattivo che poi è stato sconfitto, quindi c’è un dio buono. Poi c’è la madre che gestisce tutta la faccenda. E c’è stata, se non ho capito male, la volontà del fratello che voleva i diciotto apostoli e c’è riuscito. È mancato il padre che dettava legge. È stata superata l’idea della legge del padre, è stata sconfitta. Non ha avuto più valore la legge del padre.
R.C. Sì, quindi c’è, lei dice, questo conseguimento del risultato dei diciotto apostoli. In effetti questo è un dettaglio non trascurabile: i diciotto apostoli. Diciotto apostoli e in più il giornalista o lo storico, cioè quello che scrive, che non è un apostolo, non è uno dei diciotto. Non è uno dei sei nuovi apostoli. Questo è il punto. Lo scrittore non è uno degli apostoli. Contrariamente al Nuovo Testamento dove gli estensori del testamento, i testimoni sono fra gli apostoli, a parte Luca, che però era apostolo di S. Paolo, un seguace di S. Paolo, quindi era nell’orbita. Allora, questo invece non è fra gli apostoli.
Patrizia Ercolani Perché non ha ricevuto la data di morte, mi pare. Pensavo alla questione della morte, c’è una data di morte per ciascuno dei discepoli, l’altro, il barbone no, non aveva il cellulare, quindi non ha neanche…
R.C. Non ha ricevuto questa…
P.E. Quindi nessuna interrogazione sulla propria vita.
R.C. È anche dislessico. E scrive. Questo non è casuale. È un elemento degno di nota. Quindi diciotto apostoli, lo scrittore e Ea, che ha il compito di raccogliere, di accogliere e di cercare questi apostoli. Curiosamente ciascuno di questi apostoli cosa fa? Cosa fanno questi apostoli? Ciascuno degli apostoli cosa fa?
B.S. Racconta di sé.
R.C. Racconta, certo. Quindi c’è la questione narrativa, ciascuno di questi apostoli racconta qualcosa della sua storia e quel che segue non è fedele alla fiaba dell’origine, ma è qualcosa di differente. E cosa fanno questi apostoli? A cosa concludono? Cosa cerca ciascuno degli apostoli?
A.O. Di realizzare.
R.C. Sì, quello lo fanno. Quindi, c’è un percorso che giunge per via narrativa alla dissipazione del guaio. Ciascuno di questi apostoli non è più il personaggio inguaiato, che era o credeva di essere, quando è stato incontrato. Nel corso della vicenda non c’è più il guaio. Il guaio di ciascun apostolo, il guaio per cui questo apostolo era segnalato, non c’è più. Non è più inguaiato. Quindi c’è un’articolazione del guaio per gli apostoli.
Per questi personaggi che giungono a stabilire un dispositivo narrativo con Ea, in questa narrazione, in questo racconto, in questa loro conversazione con Ea dissipano la credenza di essere inguaiati, di avere quel guaio da cui sono partiti. E giungono a un altro statuto: il cleaver non è più cleaver, la ragazza che viveva nell’isolamento non è più isolata, il voyeur non ha più necessità di guardare e vedere quello che temeva potesse uscire dagli occhi e contaminare le murature della casa, il bambino che poi diventa adulto. L’erotomania non c’è più, ma non c’è più non perché è guarito. Perché non c’è più?
Così, Martine non è più Martine, cioè non è più la donna abbandonata, derelitta e quant’altro; c’è la trasformazione dei personaggi lungo il racconto. Ma questa trasformazione non è perché guariscono da qualcosa o perché c’è un intervento divino nel merito: è un frutto, è una conquista lungo la vicenda. La vicenda che è, in particolare, quale vicenda?
B.S. Dell’origine.
R.C. Certo, la dissipazione dell’idea di origine. Proprio così. Da parte di chi?
B.S. Del soggetto, di ciascun soggetto.
R.C. Certo.
B.S. Però questi apostoli erano chiunque.
R.C. Sì, esatto. Erano dei chiunque. Chiaro.
A.O. Mi scusi, rispetto all’origine intende la trasformazione dei personaggi?
R.C. Sì, rispetto all’idea di essere, causata dall’idea di origine. La trasformazione di ciascun personaggio avviene rispetto all’idea di essere in un determinato modo, per via di una certa origine. Questo è il punto: chi si crede personaggio, cioè crede di essere in un certo modo con certi problemi, crede di esserlo per via della sua origine. E questa origine costituisce, in modo fantasmatico quindi, “la giustificazione”, l’alibi per essere così, per sempre. Ognuno si giustifica, “io sono così perché vengo da lì, vengo da là”. Qui c’è la messa in questione invece dell’origine, la messa in questione dell’esistenza: ciascuno dei personaggi, possiamo dire, mentre prima esisteva come personaggio in quanto tale, poi incontra una trasformazione. Non esiste più come tale. Interviene dell’Altro.
M.A.V. Quindi è una fantasia di Ea, questa. Cioè, voglio dire, chi narra? Sembra essere la bambina, e quindi è una sua fantasia che riguarda tutti personaggi per andare diretta rispetto a un’idea del fare e anche a un’idea della madre, perché non a caso poi la chiama mamma e madre, facendo questa sottolineatura come se non combaciassero. Poi in questo senso anche rispetto allo scrivente lei lo riferisce come il papà, sarebbe il papà.
R.C. Come avrebbe dovuto essere. Esatto. Il barbone.
M.A.V. Sono i vari personaggi creati per la dissipazione di questa idea.
R.C. No, questo sarebbe finalizzato “a”. No, senza questo finalismo i personaggi non sono creati “per”. I personaggi sono personaggi di una fiaba. Ogni personaggio che si costituisca come personaggio, cioè con un carattere stabile, è personaggio di una fiaba. E la fiaba è ciò che si rappresenta di sé e della propria vita, in connessione con l’idea di origine e con l’idea di fine. Qui c’è un’articolazione molto interessante proprio di questo: tra l’idea di origine e l’idea di fine.
A.O. Allora, la figura del padre sta a indicare la persona che non cambia, che crede di essere padrone della propria vita, ma è vittima della realtà stessa che non si evolve. Il padre credeva di avere in mano la propria esistenza, poi è l’unico che non cambia. La figura del padre cos’è? L’antagonista nella storia, quello che simboleggia l’antitesi di quello che vuole significare il film?
R.C. Esatto. C’è apparentemente questo, però occorre inserire anche questo dettaglio nella vicenda. Giampietro voleva dire qualcosa?
Giampietro Vezza L’assassino alla fine, quando il film termina, dice qualcosa di simile a: “Tutto è come prima”, o comunque “Non è cambiato niente”. E questo in realtà è in antitesi con il fatto che ciascuno dei protagonisti è cambiato profondamente: il bambino che è diventato bambina continua a essere bambina, gli altri protagonisti continuano a essere all’interno della loro vita, e quindi evidentemente questo cambiamento è parte del racconto di questi personaggi. Qual è la parola che ricorre piuttosto spesso nel film? La parola è “miracolo”, quindi la domanda sarebbe questa: qual è il miracolo? Dove è situato il miracolo all’interno di questo film?
R.C. Perfetto. Ma, miracolo in quale accezione?
G.V. Nell’accezione di qualcosa che non sia spiegabile nei termini della fantasia, della magia o di altro, ma nei termini di qualche cosa che magari si ha timore di affrontare e nel momento in cui invece si affronta si capisce che si può svolgere in un’altra vicenda.
R.C. Un miracolo nei termini non dell’intervento del dio agente, ma un miracolo nei termini dell’andare oltre a ciò che si credeva costituire l’impedimento, il limite e la rappresentazione del proprio personaggio. Chiaro. Quindi questo miracolo che è un frutto. Bene. Ci sarebbe ancora molto.
M.A.V. C’è un’ultima questione.
R.C. Non ultima, non c’è un ultimo, non c’è ultima questione qui. Ci sono molte questioni ancora, però adesso l’ora volge al desio. Giovedì prossimo abbiamo il proseguimento del dibattito, tenendo conto degli elementi che sono emersi adesso, più altri su cui possiamo ragionare, cogliere la vicenda. Si sta delineando differentemente dall’inizio una vicenda, un caso, dove intervengono anche altri casi, nella complessità. Importa cogliere qual è la vicenda del film e come si svolge. Quali indicazioni ci vengono dal film, non come indicazioni che il regista vuole dare come lezioni morali, ma indicazioni dalla narrazione delle cose che stanno nel film, quindi dalla vicenda.
Questo sarà importante capire. chi narra qui? Chi è il narratore? La bambina? Che cosa narra la bambina? E questo lo chiariamo ulteriormente giovedì prossimo, sempre qui, alle 21. Grazie, buonasera e arrivederci.