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Articolo pubblicato su “LA CITTÀ DEL SECONDO RINASCIMENTO”, N.62

LA FORZA DEL PROGETTO E DELL’INGEGNO

Nella mia attività analitica e clinica, constato che non c’è sostanza con cui soddisfare l’istanza che procede con la domanda. Tuttavia, è diffusa la credenza che qualche sostanza possa farlo, rendendo facile la soddisfazione e consentendo di eludere la difficoltà e i problemi che s’incontrano lungo il cammino.
Connessi all’uso crescente di sostanze psicoattive ci sono interessi di mercato, malcelati dall’utilizzo di formule e messaggi che favoriscono e giustificano la mentalità del ricorso alle sostanze, fornite non solo dal mercato illegale della droga, ma anche da quello legale degli psicofarmaci o di particolari cibi e integratori alimentari. Questa mentalità propone un modo drogologico di concepire la vita e la felicità, nel nome del benessere.
L’idea del benessere è alla base dell’uso e dell’abuso di sostanza. L’idea del benessere diventa mentalità e ideologia che impongono il ricorso alla sostanza, anziché alla forza del progetto e dell’ingegno, alla forza che occorre a ciascuno per giungere alla soddisfazione. È in atto un fraintendimento, dovuto a un vuoto culturale, per cui la salute viene scambiata con il benessere, la riuscita con il successo, la soddisfazione e il piacere con l’euforia e il divertimento. Non è casuale.
Tutto ciò, in particolare nei giovani, crea sconcerto e un progressivo stordimento dinanzi all’accadere della vita. È qualcosa che accade e che occorre analizzare, per intervenire con efficacia, per dare indicazioni rispetto al disorientamento che l’abuso crescente di sostanza indica. Paradigmatico è l’abuso di alcol.
Si tratta di analizzare i messaggi, le proposte che provengono dalle varie forme di pubblicità, dalle ideologie, dalle discipline e anche dalle istituzioni, per esempio la scuola e la sanità, dove la superstizione che ogni anomalia sia patologia non trova elaborazione.
Così, “altruisticamente”, molte sostanze vengono impiegate a fini psichiatrici, fin dall’età scolare, senza indicare la durata della cura e non viene mai risposto al quesito: “Per quanto tempo devo fare questa cura? E perché, anche dopo tanto tempo, non trovo la risposta a ciò per cui devo assumere queste sostanze?”. Infatti, l’uso della sostanza non risponde alle domande che ciascuno si pone. Allora, anziché favorire l’assunzione e la somministrazione di psicofarmaci e droghe, occorre provocare la domanda di ciascuno sullo stile di vita, su ciò che sta facendo, sul modo in cui lo fa, se il tipo di vita in corso risponde all’istanza di soddisfazione e qualità, oppure la contrasta.
Germana La Mantia ci ha fornito una panoramica molto interessante e quasi sorprendente, da cui emerge che ciò che una volta era proprietà dei lavori usuranti oggi viene considerata una proprietà del lavoro in generale: c’è l’idea diffusa che ogni lavoro sia usurante, anche quello del professionista, del bancario, dell’insegnante o dell’imprenditore, perché si tratterebbe di una prestazione da dover erogare e rispetto alla quale essere all’altezza. Chi lavora si sente usurato non dal lavoro, ma dall’idea di prestazione che deve fornire per stare sopra il livello sufficiente di rendimento. Questa idea di usura viene veicolata comunemente dal termine “stress”, per cui il lavoro sarebbe stressante. Ma come può il lavoro non essere stressante? La parola inglese stress vuol dire “forza”. Quale lavoro non esige la forza? Forza intellettuale, forza fisica, forza del ragionamento: è imprescindibile la forza. Quindi, quale lavoro non esige lo stress?
Perché lo stress corrisponde a una concezione negativa secondo cui lo sforzo ucciderebbe? C’è un’idea energetistica, in questo, che occorre indagare e affrontare, perché l’idea di uomo e di lavoratore che viene così diffusa è un’idea di robot termodinamico, che man mano si esaurisce e muore.

La formula “esaurimento nervoso”, che è stata dilagante per tanti anni e che purtroppo qua e là è ancora in voga, indica questa mitologia termodinamica, come se il cervello, la forza, l’ingegno potessero esaurirsi. Coltivando la mitologia dell’esaurimento, a ogni passo c’è il pericolo di cedere e allora ognuno deve alimentarsi con il “carburante” chimico, anziché compiere l’elaborazione che consenta di integrare ciò che accade, anche le difficoltà, nella vita.
Ed è da analizzare anche una certa idea della fine del tempo: quando non si vede l’ora che il lavoro sia finito, per poter fare un’altra cosa, c’è un’idea del lavoro come sacrificio, come sofferenza, che dovrebbe finalmente sfociare in un premio, non si sa come, non si sa quando, a fine vita. E intanto, allora, che vita è? Sorge così la mitologia del week-end come liberazione.
Le cose non hanno da finire perché ci sia vita, intendendo per vita non quella astratta o mitologica, ma come ciò che giorno per giorno accade e occorre attraversare, incominciando e proseguendo. In breve, l’incominciamento e il proseguimento non avvengono una volta per tutte. Ciascun atto incomincia e prosegue. Ciascun atto, cioè, esige questo processo e questa procedura, non all’insegna del benessere, ma in direzione delle cose che occorre fare, per la salute.
Affrontare l’esigenza e l’urgenza del programma di vita esige generosità e audacia che non si sostengono su ciò che si sa, ma su ciò che è da capire e da intendere. Ciò che si sa non è mai abbastanza né opportuno, in quanto riguarda il passato, non l’attuale e l’avvenire. E molto spesso quello che si sa è un pregiudizio, che comporta la paralisi e l’immobilismo.
È spesso esclusa nella ricerca del modo di vivere l’humanitas, che esige non già il riferimento all’uomo, entità astratta e ideale, ma all’intellettualità della parola, al suo humus. La questione intellettuale che si gioca nella parola è la non accettazione del discorso comune, del discorso che propugna il fantasma di padronanza. La non accettazione delle proposte di condivisione dell’origine e del destino, che precludono la salute.


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