Settimo capitolo del libro Luigi Pirandello L’amore e l’odio
Il figlio, la memoria, il dolore (La vita che ti diedi Dramma di Luigi Pirandello)
Ruggero Chinaglia Iniziamo con la segnalazione del bellissimo libro Iran. Gnomi e giganti. Paradossi e malintesi, di Ebrahim Nabavi e Reza Abedin, due scrittori iraniani. Vi leggo un paio di aforismi per capire qual è l’ironia con cui è scritto il libro. Poi, ciascuno può valutare se vale il caso di leggere anche altre parti.
Ci sono 12 sedie. L’ottava sedia dice: “Per inaugurare il Parlamento hanno trovato duecento sedie su cui si sarebbero seduti i nemici del popolo”. La nona sedia recita: “Le dittature nascono in un paese quando c’è una sola poltrona e gli altri sono costretti a sedersi per terra. In questa situazione c’è un rapporto diretto tra l’altezza della poltrona e la severità della dittatura. Più sono alte le gambe della sedia, maggiori sono le paure del dittatore di cadere”. La decima sedia: “Lo sviluppo politico significa aumento del numero di sedie su cui si può stare seduti a decidere. Ora, per estendere la democrazia è necessario incrementare la produzione di sedie”.
Bellissimo libro. Degli stessi autori e di altri esponenti della libertà intellettuale di vari paesi, della Cina, dell’Iran, dell’Iraq, dell’Egitto e quant’altri, potete trovare dei saggi nel volume che s’intitola La libertà, che contiene gli atti del Festival della modernità che si è svolto qualche mese fa, a Milano. Terzo volume che è propedeutico alla lettura del prossimo libro in uscita di Armando Verdiglione, Scrittori e artisti, e di quello di Augusto Ponzio, La dissidenza cifrematica, che è una lettura di alcuni dei testi e degli eventi che hanno caratterizzato l’esperienza cifrematica sin qui. Ecco, queste sono delle letture per la prossima settimana reperibili in libreria.
Questa sera, invece, riprendiamo La vita che ti diedi. Per l’occasione, chi ha letto l’opera? Ci sono domande rispetto a quello che abbiamo letto la settimana scorsa, a questa prima parte della lettura?
Pubblico Io faccio una domanda, però non credo ammetta risposta, questo non è importante. Ripensando al dialogo tra Donna Anna, la sorella e il prete, e pensando a questi bei principi della cifrematica, mi chiedo chi è che più si comporta in accordo con i principi della cifrematica, tra Donna Anna e gli altri due? La cosa mi pare molto problematica, non so se sembra la stessa cosa anche a lei, perché mi pare che ci sia un verso in cui sembra che Donna Anna sia molto aperta al nuovo. Non capisco il suo nuovo modo di porsi di fronte alla vita, il suo nuovo modo di poter far vivere i morti non solo nel ricordo ma nel presente; e per un altro verso però mi sembra che lei sia attaccata al passato, perché il suo modo di far rivivere il figlio è cristallizzarlo nel passato. Lei rifiuta di credere che quello che è ritornato sia ancora suo figlio, perché non lo riconosce più. E, pensando a quello, mi viene in mente ciò che lei diceva a proposito di ciò che si deve evitare, cioè di vedere qualcosa come definitivamente acquisito nel passato. A me sembra che proprio lì Donna Anna dimostri che per lei il figlio è quello del passato, quello che lei ha conosciuto prima ancora che partisse, prima che partisse per quei sette anni. Dopo, quello che è tornato, basta, non era più suo figlio. Quindi mi sembra di vedere proprio questa forma di chiusura, non accettare che le situazioni cambino, vadano in modo diverso e anche direi che questo chiudersi poi in se stessa, che è un’altra delle cose che vengono biasimate dalla cifrematica. Come invece il prete, che sembra essere quello più immerso nello standard, ma poi si accorge che questa Donna Anna è chiusa in sé, non ha la possibilità di dialogare con gli altri. Infatti dice: “Non posso più parlare né sentire parlare gli altri”, e è costretta a rinunciare anche alla possibilità di comunicare agli altri il suo dolore e di avere quindi consolazione.
R.C. Molto interessante. Nel corso della sera vediamo di cogliere vari aspetti. Certamente, c’è una sorta di dicotomia tra passato e avvenire, tra presente e passato, avvenire e passato c’è una sorta di cesura, di cristallizzazione. Però, questo è da leggere se sia propriamente una caratteristica di Donna Anna o anche di altri o come intervenga nel racconto. Bene. Ci sono altre questioni? Altre domande?
Elisa Ruggiero Io ho cominciato a studiare i vari brani che lei ha indicato per gli incontri e ho trovato, leggendo Pirandello, una notazione che rinviava a un racconto, in sostanza avevo trovato una connessione con un racconto, sempre di Pirandello, Camera in attesa, e si collega molto bene con l’intervento precedente in relazione a questo aspetto dicotomico. Tra le altre cose mi sono annotata un brano e se vuole glielo leggo, perché si collega molto bene a questa questione del figlio, del ritorno, della partenza, di come viene visto. Il racconto parla dell’attesa. In sostanza parla di un ragazzo…
R.C. Senza sostanza. Questo racconto è senza sostanza.
E.R. C’è questo ragazzo che parte per la guerra di Libia…
R.C. No, non parte. È già partito e non è ancora tornato.
E.R. …e in casa rimangono le tre sorelle e la madre che lo attendono, e in questa attesa, nonostante il fatto che ricevano una missiva che spiega loro che è disperso…
R.C. No. Non “nonostante”, proprio per quello. Altrimenti non aspetterebbero.
E.R. No, perché poi, in realtà, dice che l’agente le aveva rassicurate che siccome c’era il termine “disperso”, non era probabilmente morto, ma era disperso.
R.C. Appunto, non “nonostante”, proprio per quello.
E.R. Cioè, non c’era la sicurezza della morte. Quindi loro continuano a fare i rituali casalinghi che facevano quando il ragazzo, che si chiama Cesarino, viveva ancora in questa casa. E poi, continuando, c’è questo intervento in cui dice: “La verità è che voi non riconoscete nel vostro figliuolo o nella vostra figliuola, ritornati dopo un anno, quella stessa realtà che davate loro prima che partissero. Non c’è più, è morta quella realtà. Eppure voi non vi vestite di nero per questa morte e non piangete… ovvero sì, ne piangete, se vi fa dolore quest’altro che vi è ritornato invece del vostro figliuolo, quest’altro che voi non potete, non sapete più riconoscere.
Il vostro figliuolo, quello che voi conoscevate prima che partisse, è morto, credetelo, è morto. Solo l’esserci d’un corpo (e pur esso tanto cambiato!) vi fa dire di no. Ma lo avvertite bene, voi, ch’era un altro, quello partito un anno fa, che non è più ritornato.
Ebbene, precisamente come non ritorna più alla sua mamma e alle sue tre sorelle questo Cesarino Mochi partito da due anni per la Tripolitania e colà distaccato nel Fezzan.
Voi lo sapete bene, ora, che la realtà non dipende dall’esserci o dal non esserci d’un corpo. Può esserci il corpo, ed esser morto per la realtà che voi gli davate. Quel che fa la vita, dunque, è la realtà che voi le date. E dunque realmente può bastare alla mamma e alle tre sorelle di Cesarino Mochi la vita ch’egli seguita ad avere per esse, qua nella realtà degli atti che compiono per lui, in questa camera che lo attende in ordine, pronta ad accoglierlo tal quale egli era prima che partisse.
Come se si ponesse in un certo senso la possibilità di un ritorno di un tempo che si è fermato in una famiglia, di un ritorno in un ambiente dove il tempo si è fermato.
R.C. Però, Pirandello nota che l’orologio non si ferma e il tempo non si ferma. Il tempo non passa, non scorre, non finisce. Certo, altra cosa il fantasma della fine del tempo. Chiaro, e questa è la questione, qui.
E.R. Infatti poi gioca molto anche sul significato di bugia, dove bugia dovrebbe essere “candelabro”, o bugia come ipocrisia anche dell’ipocrisia della fantasia di un ritorno…
R.C. Adesso non dobbiamo fantasticare, cioè non c’è da metterci del proprio. C’è da leggere, perché il testo fornisce ampiamente il materiale di cui si tratta. Solamente mettendoci del proprio il materiale viene coperto e risulta illeggibile. Occorre invece leggere. Quindi, importa la lettura del testo e, con la lettura, la restituzione del testo. Per ciò il testo non è da studiare, perché lo studium comporta una sorta d’imbrigliamento, propriamente l’assenza di tempo dal testo.
Invece, la lettura non priva il testo del tempo e restituisce il testo nella lingua che è propria al testo e propria alla lettura. Quindi c’è l’incontro della lingua nella lettura: l’altra lingua e la lingua altra. Nella lettura si tratta di cogliere che non c’è uniformità della lingua e del testo, né c’è identità linguistica. Dunque né identità né uniformità, ma più lingue. Qual è la lingua del testo? Qual è la lingua della lettura? In che lingua è scritto il testo? In che lingua lo leggiamo? Qual è la lingua con cui avviene la restituzione del testo? Ecco, ciò esclude lo studium, ossia che il testo sia studiabile. Il testo è da leggere.
La nostra riflessione di lettori occorre che giunga alla lettura. La lettura passa anche per la riflessione. La riflessione è sulla via. La lettura s’avvale della suggestione e della persuasione come dicevamo la settimana scorsa. La riflessione è in questo processo che, però, va oltre la riflessione perché la questione è linguistica e il testo non è unitario, non è un tutto. Occorre avvalersi dei dettagli che il testo offre, tenere conto della varietà linguistica. Il testo non ha un senso, ma il senso è ciò che si produce lungo la lettura dei nomi, mentre il sapere si produce lungo la lettura dei significanti. Ma nomi e significanti non sono distinguibili prima; solamente a posteriori, per effetto del senso e del sapere che si produce, leggendo, possiamo accorgerci di esserci imbattuti in nomi e significanti. Non c’è modo, prima, di cogliere quale sia il nome e quale il significante in cui noi ci imbattiamo leggendo, perché la lettura non è un processo volontario, è un processo intellettuale, cioè secondo la logica particolare della parola. Questo è il passo dallo studium alla lettura: l’intervento della logica particolare, del modo particolare della varietà linguistica, che va oltre quella che viene chiamata la lingua propria, la lingua che uno crede di parlare.
La lettura mette in questione la padronanza sulla lingua, la padronanza sulla parola, sulla materia linguistica, sulla materia intellettuale e questa constatazione giova a qualificare la psicanalisi in quanto esperienza della parola originaria, esperienza della lettura della parola.
La psicanalisi non è uno strumento di padronanza, non è un codice da applicare alle cose e non è nemmeno uno strumento di conoscenza. La formula “la psicanalisi dice che” è un tentativo di circoscrivere la psicanalisi a strumento di padronanza, cosa che non è, non può e non vuole avere, perché la psicanalisi è esperienza. Non è un apparato disciplinare, non è un corpus. Allora, per un verso la psicanalisi non è un viatico per la salvezza dell’anima o del corpo, né è strumento di padronanza, anzi, è il modo con cui ciascuno che ne intraprende l’esperienza constata che la padronanza è una mera idealità e che l’idea di padronanza, l’idea platonica non regge nella pratica, nell’esperienza.
La psicanalisi non promette la salvezza, non promette nulla. Non è una religione, né la variante laica della religione: è esperienza della parola originaria, è qualcosa che si svolge, e nel suo svolgimento produce acquisizione nella varietà, nella differenza, nella molteplicità specifica di ciascun caso, di ciascun viaggio, di ciascuna esperienza; non dell’esperienza intesa come unica, come universale.
Questo è importante perché la psicanalisi non è né ideologia, né religione, né promessa di salvazione. Ciò può indurre qualcuno a chiedersi, allora, a che serva la psicanalisi. Ecco, non serve! Infatti, non serve a nessun precetto, a nessuna ideologia, a nessuna verità data come causa. Non serve. Allora, qualcuno direbbe che è inutile! Diciamo che è superflua. La psicanalisi si attiene al superfluo, cioè alla proprietà del tempo che non passa, non scorre, non finisce e proprio per questo produce effetti di senso, di sapere, di verità.
Pubblico Come la filosofia, sembrerebbe almeno da queste caratteristiche. Allora, in cosa differisce? Perché la filosofia è quella cosa senza la quale si rimane nel “tale e quale”.
R.C. E proprio qui sta la differenza. Non si rimane certamente “tale”, proprio perché si tratta del quale.
E.R. E rispetto all’errore come si pone la questione?
R.C. Avremo modo di parlare profusamente. L’errore è strutturale, è costitutivo.
E.R. Ma si può ancora parlare di errore? Cioè, un errore che generalmente, nel luogo comune viene considerato tale…
R.C. No, no, ma figuriamoci. Ma bisogna che lei si ascolti mentre parla. Mica che sbrodoli tutto… Luca distingueva, non mi stancherò mai di ripeterlo, tra parlare e blaterare. Esigeva, Luca, che ci fosse parola, non lallazione. Allora, perché ci sia parola occorre che ci sia il silenzio, l’ascolto, la pausazione, cioè la modulazione. Non si può sbrodolarsi addosso senza ascoltare ciò che si produce parlando. E se lo diceva Luca occorre tenerne conto. Perché parlare comporta la logica particolare, il tempo, l’ascolto, la qualifica. Dunque, qualificando, nessuna cosa è tale, perché si qualifica e, qualificandosi, differisce, varia, entra nel processo intellettuale. La sfumatura è un aspetto di questo processo di qualificazione, ma per accogliere la sfumatura occorre lasciare che le cose si dicano. Nessuno dice le cose, ma le cose si dicono. Questo è uno degli aspetti, perché la parola è senza sostanza, per questo si attiene al tempo, per questo il superfluo è una sua proprietà, e come notava un cifratore, precisamente Gianfranco Dalle Fratte qualche giorno fa, la sostanza limita l’ingegno. L’intervento della sostanza limita l’ingegno. E ciò è particolarmente coglibile per i medici, i quali, abituati a rispondere con la sostanza, non colgono la questione, la domanda che ciascun caso propone, ma immediatamente puntano a somministrare il rimedio, la sostanza, che già i greci indicavano nella sua anfibologia di rimedio e veleno.
Ecco allora l’erotismo della posologia: poco fa bene, molto fa male, troppo guasta. Ma, quanto è il troppo o il troppo poco, da cui tutta una farmacia, una posologia, un erotismo della dose? La dose è il modo eminente della somministrazione della sostanza legale. A ognuno la sua dose, questa è la prescrizione della sostanza.
La parola invece ha un altro motto: a ciascuno la sua logica. Non la sua dose. Dunque, la questione esige l’astrazione, il tenere conto che si tratta della materia intellettuale e non della sostanza, della materia del dire, del parlare e di come interviene la materia; di quale materia si tratta in ciascun dettaglio; questo giova alla lettura.
Senza la natura intellettuale delle cose, della materia, la lettura risulta impossibile. Allora interviene la sordità, l’assordamento, il convenzionalismo, l’accomodamento sull’abitudine, sul luogo comune, sulle proprie credenze. È questo che occorre capisca anche il medico: l’attestarsi su una credenza posta come sostanza è altrettanto nociva di una sostanza, è sostanza, interviene come farmaco nella sua anfibologia. Qui siamo nella materia della lettura, che è materia intellettuale.
Possiamo proseguire la lettura. Certo, non dal punto dove l’avevamo lasciata, ma da un altro punto, dal punto in cui proseguiamo. Noi abbiamo incontrato sin qui la questione del figlio, che ancora non è chiaro se sia morto o se non sia morto, se sia tornato o se non sia tornato, se sia partito o se non sia partito o perché sia partito. Quindi, c’è un figlio che non è identico a sé, è un figlio che se è ritornato non è quello che è partito, se è partito non è quello che è tornato, se è morto non è nessuno dei due precedenti, cioè è un figlio che sfugge alla presa. È un figlio senza sostanza, senza una rappresentazione possibile della sua identità, un figlio che differisce. È un figlio che, a suo modo, propone un’adiacenza, un’allusione al mito di Cristo, che è il mito del figlio, è un figlio, questo a cui allude Donna Anna, che non è situato nella genealogia, che non si può dire sia “suo” figlio; è “il” figlio.
San Tommaso dice che il filius non è generato ma procede. Non è figlio del padre ma procede dal padre. E sant’Agostino aveva a sua volta affermato che il padre non è il padre del figlio ma è padre al figlio, dunque, padre e figlio senza genealogia. Per sant’Agostino genitus indica la processione del figlio dal padre, per cui siamo in presenza di un elemento linguistico che si coglie molto bene se noi leggiamo il De Magistro di sant’Agostino, che è sopra tutto un trattato di linguistica. Ma, più che un trattato è una testimonianza, potremmo dire, una testimonianza della linguistica freudiana, paradossalmente.
Sant’Agostino coglie propriamente la questione della parola e della sua tripartizione in segno, tripartizione in nome, significante, Altro. Certo, sant’Agostino non si esprime così, ma se leggete il De Magistro troverete gli elementi di questa tripartizione, di questa analisi linguistica. Allora, il figlio, il filius è il modo con cui funziona il significante che procede dal nome. Nome, significante, Altro. Tre aspetti della parola in quanto segno. Cogliere che esiste questa tripartizione del segno ci avvia verso la lettura, come cogliere che la parola non è un monolite ma è costituita dalla logica del tre. Parlare, differentemente da altre forme così dette “verbali”, esige il tre, la logica del due e la logica del tre, non solamente quella che si è attestata con la filosofia come logica binaria. Questa è la differenza che interviene con la parola. E allora leggiamo, avvalendoci di questi aspetti, di queste constatazioni, di queste acquisizioni, e riprendiamo la lettura da pagina 17.
DONN’ANNA: “Mio figlio, voi credete che mi sia morto ora? Non mi è morto ora, ma quando mi vidi ritornare un altro che non aveva nulla, più nulla di mio figlio – il figlio che ritorna, ritorna altro. Impossibile incontrare lo stesso figlio. E questo anche Leonardo lo asseriva, come anche Eraclito, quando diceva che è impossibile bagnarsi due volte nello stesso fiume. Leonardo in altra formula indicava che l’acqua che scorre è impossibile che possa bagnare due volte. L’acqua che scorre è la prima di quella che passa e l’ultima di quella che è andata. Insomma, non c’è possibilità di fermare il tempo –. Ma deve ammettere che io lo so mio figlio com’era. Una madre guarda il figlio e lo sa com’è. Dio mio, l’ha fatto lei. Ebbene, la vita può agire così crudelmente verso una madre. Le strappa il figlio e glielo cambia. Un altro. E io non lo sapevo. Morto. E io seguitavo a farlo vivere in me.
DON GIORGIO (che si sente quindi chiamato in causa) Ma per lei, dunque, signora, per come era per lei. Non come era per sé, se egli fino a poco fa viveva.
DONN’ANNA La sua vita, sì, ah, la sua vita è quella che egli dava a noi, a me. Ma capisce che cosa orribile mi è toccato patire? Mio figlio, quello che è per me, nella mia memoria, vivo, era rimasto là, presso quella donna, e qua per me era tornato questo che non potei sapere più nemmeno come mi vedesse, con quegli occhi cambiati. E che posso saperne io della sua vita com’era, adesso, per lui, delle cose com’egli le vedeva, come le sentiva… Ecco, vede? È così. Quello che ci manca, ora, è solo quello che non sappiamo, che non possiamo sapere – quello che ci manca è quello che non sappiamo –. La vita com’egli la dava a sé e a noi.
Qui viene introdotta una questione non da poco: la questione della mancanza, non come nell’accezione comune come deficit, carenza, ma come ciò che produce sapere. La mancanza è ciò che noi non sappiamo. Impossibile sapere la mancanza ma, proprio a partire dalla mancanza, dalla mancanza a sé del significante, si produce l’effetto di sapere: dalla mancanza, ossia, dalla differenza da sé, questa mancanza che comporta l’inidentità strutturale, questa mancanza che esige dunque la produzione di sapere. Noi non sappiamo, la questione è questa. Contrariamente alla prosopopea di chi, accoglie gli spettatori, i proseliti e quant’altro, dicendo: “Noi sappiamo che…”, e pontifica, noi invece, strutturalmente, non sappiamo. “Sapremo”, per così dire, dopo aver parlato. Parlando, acquisiamo. Parlare comporta questa processione. È lì che si produce il sapere, è lì che c’è una trasformazione, è lì che interviene la qualifica. Le cose non sono già qualificate. Dicendosi si espongono a questa processualità, in cui interviene il sapere come effetto.
Pubblico Ma quello che non sappiamo, noi non lo sapremo mai. Quello che abbiamo perso è qualcosa che sapevamo ma…
R.C. Ma qui non è persa “La vita che lui dava a noi e che noi diamo a lui”. C’è questo scambio. La questione è che c’è questo scambio, e questo scambio è propriamente oltre la coscienza. Nessuno sa ciò che dà e ciò che da questo scambio ne ha. E questa è già l’annunciazione della questione dell’amore. Proprio lì, dove sembra trattarsi della morte, della perdita, della mancanza, si enuncia la questione dell’amore nei termini di questo scambio di qualcosa che si dà e che si ha. Paradosso. Solitamente c’è chi ritiene che per dare bisogna avere. Bene, l’amore dà quel che non ha, e qui comincia a annunciarsi questa questione.
Ma allora, Dio mio, si dovrebbe anche intendere che la vera ragione per cui si piange, anche davanti alla morte, è un’altra da quella che si crede – il dolore e il sapere. Qual è la connessione? – Si piange perché si sa quale sia il dolore?
Qui Pirandello dice di no
DON GIORGIO – pieno di buon senso dice – Si piange quello che ci viene a mancare.
Ma Donna Anna non è d’accordo. Dice:
DONN’ANNA La nostra vita è in chi muore. Quello che non sappiamo. Questo si piange.
Allora il dolore non lo sappiamo. Il dolore non è la coscienza del dolore. Il dolore estremo è inconscio, quello che non si sa. Don Giorgio protesta:
DON GIORGIO “Ma no, signora”,
DONN’ANNA “Sì, sì, per noi piangiamo, perché chi muore non può più dare nessuna vita a noi. E chi vuole ch’io pianga, se non per me?”.
Non viene pianto o compianto il morto, ma qualcosa che riguarda lo scambio e che non si sa.
DONN’ANNA Come debbo dire, io, ora? Debbo dire che io – io – non sono più viva per lui perché lui non mi può più pensare.
Però qui siamo già nel fantasmatico. Quello che importa è che questo scambio, questo dare, questo avere, non sono quantificabili, non sono rappresentabili in un quantum, in una sostanza. È eventualmente formalizzabile in un racconto, in una testimonianza. Dunque con la memoria, non con il ricordo di ciò che è stato, ma con la memoria in atto di ciò che accade ora. Questa è la memoria, la memoria in atto. E infatti Donna Anna si ribella all’idea del ricordo, qualcosa che chiude nel passato e dunque sancisce che qualcosa sia finito.
DONN’ANNA Mi sono accorta bene che la vita non dipende da un corpo che ci sia o non ci sia davanti agli occhi. Può esserci un corpo, starci davanti agli occhi ed esser morto per quella vita che noi gli davamo.
Se non interviene nello scambio. Qui c’è un’accezione di vita che è molto complessa. Da cogliere, da analizzare, da esplorare. Nulla di comune, nulla di biologico.
Vuol dire che io ora non debbo più permettere che s’allontani da me, dov’ha la sua vita; e che altra vita si frapponga tra lui e me: questo sì! – Avrà la mia qua, nei miei occhi che lo vedono, sulle mie labbra che gli parlano; e posso anche fargliela vivere là, dove lui la vuole: non m’importa! senza darne più niente, più niente a me, se non me ne vuol dare: tutta, tutta per lui là, la mia vita: se la vivrà lui, e io starò qua ancora ad aspettarne il ritorno, se mai riuscirà a distaccarsi da quella sua disperata passione.
Qui abbiamo l’indizio per il caso clinico. C’è la passione. C’è la passione che si frappone a qualcosa. E questo, per il momento, lo accantoniamo, lo lasciamo lì. Passione disperata. Perché emerge poi dalla storia che questo figlio stava in Francia con una signora, e sarebbe questa per Donna Anna la sua disperata passione. Intanto la storia procede, e Don Giorgio, la sorella, tutti, tentano di consolare Donna Anna. E Donna Fiorina dice: “Bisogna pure consolarsi in qualche modo”. Donna Anna dice “Eh sì”, dicendo “faceva questo, faceva quello”, ricordando. Il ricordo, come una sorta di passato che deve essere riattivato
“Come tutti hanno sempre fatto” dice la sorella, anch’essa dotata di molto buon senso, e Donna Anna dice: “Ecco, insomma, farlo morire”; il ricordo: il modo per farlo morire. Tolto il tempo, il ricordo sancisce la morte.
DONN’ANNA Insomma, ecco, farlo morire, farlo morire anche in noi; non così d’un tratto com’è morto lui là, ma a poco a poco; dimenticandolo; negandogli quella vita che prima gli davamo, perché egli non può più darne nessuna a noi – quindi un altro modo di dare la morte. La negazione dello scambio –. Si fa così? – Tanto e tanto – tanto a te e tanto a me –. Più niente tu a me; più niente io a te. – O al più, considerando che se non me ne dai più è perché proprio non me ne puoi più dare, non avendone più neanche un poco, neanche una briciola per te; ecco, di quella che potrà avanzarne a me, di tanto in tanto, io te ne darò ancora un pochino, ricordandoti – così, da lontano. Ah, da lontano lontano, badiamo! per modo che non ti possa più avvenire di ritornare. Dio sa, altrimenti, che spavento! – Questa è la perfetta morte – ossia, il ricordo nega lo scambio, nega il tempo e dunque sancisce la perfetta morte. È un altro modo di considerare la questione.
E intanto la cosa va avanti, e viene annunciata l’ipotesi che questa donna, questa “disperata passione” arrivi lì, nella casa. E tutti la sconsigliano di accondiscendere a questa ipotesi, sapra tutto perché Donna Anna vuole favorire che questa Lucia Mobel arrivi dalla Francia. E perché Donna Anna insiste per favorire questo arrivo? Perché, dice:
DONN’ANNA Volete ch’io glielo uccida in questo momento, uccidendo anche lei?
DONNA FIORINA Ma scriverai alla madre nello stesso tempo?
DONN’ANNA Scriverò anche alla madre per scongiurarla che glielo lasci vivo!
Cioè, se venisse annunciato a Lucia che il figlio è morto, verrebbe ucciso il figlio e verrebbe uccisa anche Lucia. Questa è l’idea di Anna. E qui si chiude il primo atto. E il secondo ricomincia con l’arrivo di Lucia, la quale arriva perché incinta. Donna Anna avrebbe potuto impedire a Lucia di arrivare scrivendo una lettera, ma dice di non aver potuto.
DONN’ANNA Non ho potuto! Mi ci son provata, tre giorni, e non ho potuto; per la paura che ancora ho.
DONNA FIORINA Di che?
DONN’ANNA Che possa non essere per lei com’è per me! che «sapendolo», il suo amore debba finire!
Proprio per l’impossibilità dello scambio. Come se Lucia abbia bisogno ancora di mantenere lo scambio, cosa che invece Donna Anna ha superato. Questo mi pare il succo.
Donna Anna in qualche modo annuncia uno scambio senza coscienza, in cui non è rappresentato ciò che viene scambiato, e teme che invece per Lucia non sia così, e che quindi, per Lucia, una volta annunciato che è finito, allora possa finire per lei. Cioè, che Lucia possa credere nella fine. Altro dettaglio che ci serve per il caso clinico. Dunque l’amore non sa ciò che dà, ci dice il testo e, sapendo, finisce. L’amore procede in questa condizione di assenza di coscienza, di assenza di rappresentazione di ciò che viene scambiato. Nel momento in cui interviene la coscienza dell’amore, l’amore non c’è più. Nel momento in cui interviene la coscienza di ciò che viene scambiato, non è più amore. Interessantissimo. E dunque siamo sul versante materiale, sul versante di ciò che è senza visione, senza rappresentazione, senza presenza e senza presentificazione. E qui si apre un altro dettaglio interessante.
DONN’ANNA Io non ho bisogno di credere alle ombre. So che vive per me. Non sono pazza.
DONNA FIORINA Lo so! E intanto fai, come se fossi!
DONN’ANNA Che ne sai tu come faccio? delle ore che passo? Quando, su, abbandono la testa sui guanciali, e lo sento, lo sento anch’io il silenzio e il vuoto di queste stanze, e non mi basta più nessun ricordo per animarlo e riempirlo, perché sono stanca. «So» anch’io, allora! «so» anch’io! e mi invade un raccapriccio spaventoso! ‒ la coscienza. È coscienza, è conoscenza, e questo sapere del finito fa sì che ci sia un raccapriccio spaventoso. È interessantissimo. La coscienza è coscienza della fine, del finito, di ciò che è stato, in assenza di avvenire, perché è coscienza del ricordo. È senza il tempo che verrà. “e mi invade un raccapriccio spaventoso”. Lo spavento è lo spavento della fine del tempo ‒ L’unico rifugio, l’ultimo conforto allora è in lei, in questa che viene e che ancora non «sa». – Chiaro che questa è una rappresentazione. Questa lei che arriva e ancora non sa è lo spiraglio, lo squarcio rispetto alla coscienza. È l’irruzione di ciò che non si sa ‒. Tu vuoi farmi pensare prima del tempo a ciò che avverrà – ecco la rappresentazione, la presentificazione, cioè l’impossibile coscienza di ciò che verrà. Ossia la rappresentazione finita – Sei crudele –. La negazione dell’avvenire è precisamente la rappresentazione di ciò che verrà.
DONNA FIORINA Ma perché considero che con questo viaggio lei rischia di compromettersi; ― eh, viene a trovare l’amante. Rischia di compromettersi ― ora che tutto è finito ― ora che tutto è finito. Per Fiorina le cose finiscono sempre. Il fantasma è quello della fine del tempo. Rischia di compromettersi. Ha una concezione benpensante. Le cose finiscono, e quindi rischiamo di comprometterci. Senso comune. Perché Lucia arriva lì approfittando di un’assenza del marito, che è andato da Nizza a Parigi per affari. Sarebbe questo ciò che consente a Lucia di andare a trovare il figlio di Anna. Dunque c’è il marito che si è assentato. Il marito assente. Sempre un guaio per il marito, essere assente – E se il marito ritornasse all’improvviso e non la trovasse?
Molto terra – terra Donna Fiorina, avvocato del diavolo. Lei è per le convenzioni sociali. E qui si apre un intermezzo. Arrivano i figli di Donna Fiorina, che sono due. Sono “i signorini”. Lida e Flavio – Sono arrivati i suoi figli, signora – questi irrompono, e Donna Fiorina comincia un po’ a vacillare. “Arrivano oggi? Non dovevano arrivare domani?”. Arrivano inaspettatamente. E come li vede i suoi figli? Innanzi tutto, prima di vederli, li sente. Dice:
DONNA FIORINA Sì… sì, – ma Dio mio… – io non so… – come parlate?
Nota che parlano in modo differente da quando sono partiti, e ritengono che questo appunto sia dovuto al fatto che è un momento triste e loro hanno fatto irruzione sulla scena in maniera entusiastica senza tener conto che lì, per altri, è un momento di dolore. Ma Donna Anna dice:
DONN’ANNA. No, Flavio; no, Lida. Non è per me; è per voi.
LIDA (non comprendendo) Che cosa, per noi?
DONN’ANNA. Niente, cari! Ben tornati. (S’accosterà alla sorella e le dirà piano con un sorriso per confortarla): Pensa che almeno, ora, sono più belli.
Quindi sono più belli, ma… Elisabetta, la governante, dice, guardando Lida “Sembra un’altra”. E Donna Fiorina “No, no, sono gli stessi”. Quindi si riprende il tema del figlio che non può tornare, e se tornasse sarebbe Altro. Irriconoscibile. E qui i ragazzi raccontano quello che hanno fatto, e più raccontano, più parlano, più Donna Fiorina è a disagio. Al punto che Flavio se ne accorge., dice. “Sei davvero strana mammina”. La mamma è strana, i figli sono diversi, sono altri. Elisabetta dice: “Qui, ormai è come se la casa fosse proprietà di lui che se ne è andato. “Come se dovesse sempre arrivare?”, chiede Flavio. E Elisabetta:
ELISABETTA. No: come se non se ne fosse andato mai, e fosse qua ancora, com’era prima che partisse. Ci penserà lei, dice, a non farlo partire. Perché i figli che partono, muojono per la madre. Non sono più quelli!
I figli che partono si potrebbe anche dire che sono i figli che nascono. Nessun legame tra la madre e il figlio. Allora, questo è un elemento fantasmatico o è un elemento strutturale? È un elemento fantasmatico di Elisabetta, che asserisce che il figlio che parte muore, o è qualcosa di strutturale? Non c’è nessun legame, nessuna saldatura tra madre e figlio. Nessuna genealogia materna come pure nessuna genealogia paterna. Il figlio procede dal padre, quindi non genealogia ma processione e nessun legame tra madre e figlio. Nessuna funzione materna, nessuna genealogia, nessuna possibilità di incontrare la madre, per il figlio, e di incontrare il figlio, per la madre. Il figlio che parte non ritorna. Il figlio che nasce non ritorna. Sono elementi su cui occorre ragionare. E intanto le cose vanno avanti, e Lucia è arrivata, e chiede dov’è lui. “Eh, lui non c’è. Partito” Dov’è andato? – Partito – Ma come, io arrivo e lui… – eh sì – c’è almeno un motivo valido? Dice Donn’Anna: “Certo, c’è un motivo valido”.
DONN’ANNA Ecco: te la dirò – ma prima questo: che non intese offenderti, affidandoti a me –
LUCIA – no! ah, mi comprenda! – io… – io so che –
DONN’ANNA – che lui mi confidò sempre tutto – come vi siete amati
LUCIA Tutto?
DONN’ANNA Poteva confidarmelo, perché –
E qui Lucia ha una specie di brivido, come se Donn’Anna sottintendesse che era un amore platonico, no? E Lucia dice: “No”. Come?
LUCIA (prorompendo). Mi perdoni! mi perdoni! Sia madre anche per me! – Io sono qua per questo!
DONN’ANNA Ma allora, egli –
LUCIA – partì di là per questo
DONN’ANNA Ma lo forzasti tu a partire?
LUCIA Io, sì! Dopo! dopo! – All’ultimo, a tradimento, quest’amore, durato puro tant’anni, ci vinse!
All’ultimo. Alla fine. C’è l’ultimo momento. A tradimento questo amore ci vinse. Quindi interviene qualcosa di impuro. Interviene l’incesto. L’atto non casto. “Dopo tanti anni di amore puro…”. Quindi interviene una fantasia di fine e di incesto. Interviene un amore che non è più puro, non è più casto.
LUCIA Sconvolta, atterrita, lo spinsi a partire. – Non avrei più potuto guardare i miei bambini. – Ma fu inutile, inutile. – Non potei più guardarli. Mi son sentita morire. …
(La guarderà con occhi atroci.) Comprende perché? – Ne ho un altro!
Dunque questo amore non puro ha prodotto un altro bambino. In quanto amore non puro, che ci vinse all’ultimo.
DONN’ANNA Suo? Di mio figlio? Del morto? Di chi?
LUCIA Sono qua per questo.
DONN’ANNA Suo? Suo?
LUCIA Egli ancora non lo sa! Bisogna che lo sappia! – Mi dica dov’è!
DONN’ANNA Oh figlia mia! figlia mia! – Egli vive allora in te veramente? – Partendo, lasciò in te una vita – sua?
LUCIA Sì, sì – bisogna che lo sappia subito. Dov’è? Me lo dica! Dov’è?
E Donna Anna, ancora circospetta, ancora non rivela i dettagli di questa partenza. Dice: “è andato lontano, ma tornerà.”. “Tornerà? Le scriverà?”
DONN’ANNA Sì sì, certo – calmati – siedi, siedi qua accanto a me – e lasciati chiamare figlia –
LUCIA – Sì, sì –
DONN’ANNA – Lucia –
LUCIA – Sì –
DONN’ANNA Figlia mia! –
LUCIA – Sì, mamma! mamma! –
Un quadretto idilliaco. Madre e figlia si sono trovate.
DONN’ANNA Ah, egli doveva – ma fin da prima, fin da prima doveva farti sua! Questa gioja me la doveva dare, d’avere in te un’altra mia figlia, così! – così! –
Dunque la gioia di Donna Anna è trovare un’altra figlia. E Lucia precisa:
LUCIA – Senza tutto il male – oh Dio, il male che abbiamo fatto!
Dunque, hanno fatto del male. C’è chi ha fatto del male perché, se c’è l’incesto, c’è anche il male. Se c’è l’idea che il tempo finisca, c’è il male, c’è il peccato, ogni negatività viene posta dinanzi. Se il tempo finisce il negativo passa dinanzi, e ognuno ha ogni rappresentazione della fine del peccato del male della morte.
DONN’ANNA. Ora non ci pensare! – Quelli che non ne hanno fatto…
Insomma, chi non ha mai fatto il male scagli la prima pietra, chi ha fatto il male, poi, magari, procura del bene… Insomma, è favorevole a una mediazione. Ma Lucia è precisa:
LUCIA Ho tagliata in due la mia vita – io –
La vita tagliata in due.
DONN’ANNA – Ne hai una in te –
LUCIA – Ma quegli altri, là? – Son dovuta fuggire qua, con questa, che ancora è nulla e che pure subito è diventata tutto – tutto l’amore precipitato d’un tratto così, diventato d’un tratto ciò che non doveva mai diventare!
DONN’ANNA La vita!
LUCIA Ah quello che ho patito, lei non lo sa, non lo potrà mai immaginare! – Il letto, Dio mio, dove si riposa, diventato un orrore! – Certi patti con me stessa… – Sa, sa il bruciore di certi tagli? – Così! Là, a tenermi coi denti finché potevo, per impedirmi che il corpo finisse d’appartenermi e cedesse! E ogni qual volta scattavo da quell’orribile incubo dove per un attimo, cieca, ero stata costretta a mancarmi – ah – liberata –potevo essere di lui, pura, per il martirio subito – senza rimorsi. – Non dovevamo cedere anche noi! Il patto poteva valere soltanto così. – Perché, anche quegli altri là – che crede? (lei è madre, e con lei posso parlare) –
DONN’ANNA. – Sì, parla, parla –
LUCIA. – Quegli altri là (è vero) non erano amore che si fosse fatto carne – erano di quello, carne – ma l’amore che ci avevo messo io, l’amore che avevo dato io anche a quegli altri – io, io così col cuore pieno di lui – li aveva fatti, anche quelli, quasi di lui. …
C’è il rovesciamento. C’è un nesso con L’innesto, ma è il rovesciamento. Il caso dell’innesto è il rovesciamento. Non c’è stupro. C’è fantasia di stupro, nell’Innesto. Il caso dell’innesto non è il caso della moglie, è quello del marito. È il marito che, all’annuncio che la moglie è incinta, sospetta che il figlio non sia suo, e respinge l’ipotesi della paternità. Questo è il caso clinico dell’Innesto. Questo lo cogliamo analizzando la storia. Nel caso clinico dell’Innesto conta la fantasmatica del marito. È il marito che si rappresenta questa storia, per cui è il marito il protagonista del caso. È il marito che si rappresenta la moglie come vittima di uno stupro, cioè la moglie è fedifraga, in certo qual modo. La moglie è andata con un altro – volontariamente o involontariamente –. È una fantasia maschile. Il caso dell’Innesto è una fantasia maschile. Posto dinanzi alla questione pater incertus, dice: “Eh, non sono mica stato io… Allora c’è stato uno stupro, oppure è andata con un altro.”. Questa è la questione che si svolge con L’innesto. Qui invece è un’altra cosa. Qui, in quest’opera, a parte il giardiniere, non c’è nessun uomo. Non c’è il padre del morto, non c’è il padre di Lucia, non c’è il marito di Anna, non c’è il marito di Fiorina, non c’è né il padre né il marito. Occorre tenerne conto. Non c’è nessun personaggio maschile, non a caso. Questo è un altro elemento che clinicamente è rilevante.
Pubblico: Ma il figlio però ha un suo ruolo…
R.C. Certo, fantasmatico. È un ruolo fantasmatico, è un ruolo attribuito. È un elemento che non è estraneo alla logica degli avvenimenti e non è estraneo alla lettura. Cioè, leggendo tra le righe questa storia, noi rileviamo anche questo come un elemento preciso, non casuale. Terminiamo su questa enunciazione di Lucia, che dunque gli altri due figli erano carne “di quello”, però l’amore ce l’aveva messo lei “così col cuore pieno di lui”. Cioè, tramite l’amore per lui, lei aveva potuto accogliere i figli del marito “perché l’amore è uno” però…
LUCIA … ora questo non è più possibile! – Di due io non posso essere. Piuttosto m’uccido…
Cioè, se lui è morto e non c’è più l’amore, io non posso nemmeno più accogliere gli altri due figli.
DONN’ANNA. Non solo per te, ma anche per non dare a quell’altro «questo» che è tuo solamente e di lui – non puoi –. A questo punto Donna Anna diventa un elemento di chiusura. Questo amore che viene da lui non lo devi dare a quell’altro. Donna Anna distingue tra il marito e il figlio, e tra i due amori, quando invece Lucia aveva detto invece che l’amore è uno.
LUCIA La violenza che ho fatto a me stessa per tanti anni – quei due bambini che mi sono nati ad onta di questa violenza –
DONN’ANNA Che vuoi dire?
LUCIA Nulla, nulla contro di loro! Ah, ma contro quell’uomo – è un così intimo e oscuro sentimento d’odio, che non lo so dire. – Sento che io sono stata madre due volte così, senza la mia minima partecipazione, per opera d’un estraneo a me – e badi, nella mia carne viva e con tutto lo strazio dell’anima – mentre lui – oh, lui non lo saprebbe nemmeno!
E allora terminiamo qui, perché poi si apre un altro capitolo che è decisivo, perché giunge all’epilogo, alla conclusione della storia e alla conclusione del caso clinico. E molti elementi sono già comparsi, per indicare chi sia il protagonista del caso. Perché il protagonista della storia chi è? Ci sono vari personaggi: Donna Anna, Lucia… ma chi è il protagonista che – recatosi dallo psicanalista – racconta questa sua fantasia?
