Quindicesimo capitolo del libro Luigi Pirandello L’amore e l’odio
La famiglia come traccia e la clinica (Sei personaggi in cerca d’autore Dramma di Luigi Pirandello)
Ruggero Chinaglia Leggiamo l’introduzione di Luigi Pirandello al suo testo I sei personaggi in cerca d’autore. È un testo che consiglio vivamente di leggere, come anche la pièce, che non può essere effettivamente intesa senza la prefazione. Ci sono alcuni spunti di grande interesse. Pirandello scrive:
Senza volerlo, senza saperlo, nella ressa dell’animo esagitato, ciascun d’essi ‒ parla dei sei personaggi ‒ per difendersi dalle accuse dell’altro, esprime come sua viva passione e il suo tormento quelli che per tanti anni sono stati i travagli del mio spirito, l’inganno della comprensione reciproca fondato irrimediabilmente sulla vuota astrazione delle parole, la molteplice personalità di ognuno secondo tutte le possibilità d’essere che si trovano in ciascuno di noi, e infine il tragico conflitto immanente tra la vita, che di continuo si muore e cambia, e la forma che la fissa immutabile. Due soprattutto, fra quei sei personaggi, il padre e la figliastra, parlano di questa atroce inderogabile fissità della loro forma ‒ atroce inderogabile fissità della loro forma ‒ nella quale l’uno e l’altra vedono espresse per sempre, immutabilmente, la loro essenzialità che, per l’uno, significa castigo e, per l’altra, vendetta.
Io ho voluto rappresentare sei personaggi che cercano un autore. Il dramma non riesce a rappresentarsi, appunto perché manca l’autore che essi cercano, e si rappresenta invece la commedia di questo loro tentativo vano, con tutto quello che essa ha di tragico per il fatto che questi sei personaggi sono stati rifiutati
È preciso qui Pirandello. Dice: Il dramma non riesce a rappresentarsi, appunto perché manca l’autore che essi cercano… Non già l’autore, ma l’autore che essi cercano.
Ma si può rappresentare un personaggio rifiutandolo? Evidentemente, per rappresentarlo, bisogna invece accoglierlo nella fantasia e quindi esprimerlo. E io, difatti, ho accolto e realizzato quei sei personaggi; li ho però accolti e realizzati come rifiutati, in cerca d ‘altro autore. Bisogna ora intendere che cosa ho rifiutato di essi: non essi stessi, evidentemente, bensì il loro dramma, che, senza dubbio, interessa loro soprattutto, ma non interessava affatto me per le ragioni già accennate. E che cos’è il proprio dramma per un personaggio? Ogni fantasma, ogni creatura d ‘arte, per essere, deve avere il suo dramma, cioè un dramma di cui esso sia personaggio e per cui è personaggio. Il dramma è la ragion d ‘essere del personaggio; è la sua funzione vitale, necessaria per esistere ‒ per il personaggio ‒. Io, di quei sei, ho accolto dunque l ‘essere rifiutando la ragion d’essere; ho preso l’organismo affidando a esso, invece della funzione sua propria, un’altra funzione più complessa e in cui quella propria entrava appena come dato di fatto. Situazione terribile e disperata specialmente per i due, il padre e la figliastra, che più degli altri tengono a vivere e più degli altri han coscienza di essere personaggi, cioè assolutamente bisognosi di un dramma e, perciò, del proprio, che è il solo che si possano immaginare a se stessi e che intanto vedono rifiutato. Situazione “impossibile”, da cui sentono di dover uscire a qualunque costo per questione di vita o di morte. È ben vero che io di ragion d’essere, di funzione, gliene ho dato un’altra, cioè appunto quella situazione impossibile, il dramma dell’essere in cerca d’autore, rifiutati. Ma che questa sia una ragion d’essere, che sia diventata per essi che avevano già una vita propria, la vera funzione necessaria e sufficiente per esistere, neanche possono sospettare. Se qualcuno glielo dicesse, non lo crederebbero; perché non è possibile credere che l’unica ragione della nostra vita sia tutta in un tormento che ci appare ingiusto e inesplicabile.
Poi si addentra nella descrizione di due personaggi in particolare, il padre e la madre, che ciascuno può leggere per proprio conto. Quello che m’interessava rilevare, e che Pirandello coglie con molta precisione, è che, in assenza di autore, ognuno si rappresenta personaggio di un dramma, di cui il dramma stesso fornisce la ragione d’essere. E l’autore non è quello che ognuno cerca, cioè che ognuno crede che sia. L’autore che ognuno crede di potere trovare sarebbe quello che conferma la natura e la ragione del dramma. E allora qui c’è una notazione molto interessante:
…li ho però accolti e realizzati come rifiutati, in cerca d’altro autore…
Cioè un accoglimento dell’istanza ma non del personaggio in quanto tale. È accolta l’istanza ma non il dramma. È accolta l’istanza giusto per favorire l’avvio della ricerca dell’autore, l’incontro con l’autore, perché l’autore, funzionando, dà modo di svolgersi alla storia non già al dramma. È rilevabile in queste note, come per altro anche nel testo della pièce, la finezza clinica straordinaria di Pirandello, nel cui testo non c’è traccia di gnosi, non c’è traccia di psicologismo; infatti riceveva dai critici l’accusa di non produrre personaggi umani, quindi di essere uno scrittore un po’ strampalato che produceva personaggi bizzarri, strani, non veri “tipi umani”. E, a proposito di questo, lui nota che il personaggio della madre, qui nella pièce, non è stato affatto inteso dalla critica. Dice:
Questo personaggio mi ha dato una soddisfazione di nuovo genere, che non va taciuta. Quasi tutti i miei critici, invece di definirlo al solito “disumano”, che sembra sia il peculiare e incorreggibile carattere di tutte indistintamente le mie creature, hanno avuto la bontà di notare, «con vero compiacimento», che finalmente dalla mia fantasia era uscita una figura umanissima. La lode me la spiego in questo modo: ché essendo la mia povera madre ‒ la madre della pièce ‒ tutta legata al suo atteggiamento naturale di madre, senza possibilità di liberi movimenti spirituali, cioè quasi un ciocco di carne compiutamente viva in tutta le sue funzioni di procreare, allattare e amare la sua prole, senza appunto bisogno per ciò di far agire il cervello, essa realizzi in sé il vero e perfetto “tipo umano”. Certo, è così, perché nulla pare che sia più superfluo dello spirito in un organismo umano.
Allora, se il tipo umano è contraddistinto dal fatto di potere non usare il cervello, c’è da interrogarsi se sia il caso di diventare umani o di essere umani e sulla portata dell’umano, che è poi la questione dell’essere normali.
Il conflitto immanente tra il movimento vitale e la forma è condizione inesorabile non solo dell’ordine spirituale, ma anche di quello naturale. La vita che s’è fissata per essere nella nostra forma corporale, a poco a poco uccide la sua forma.
Come dire che il personaggio, per essere compiutamente personaggio deve rinunciare a vivere. È semplice!
Chi è il personaggio? Il personaggio è chi ritiene di conoscersi, di dovere conoscersi e essere se stesso. Quello è il personaggio. E il dramma sta in questo essere se stesso che abolisce il movimento vitale, come dice Pirandello:
…nella atroce inderogabile fissità della loro forma in cui vedono espresse per sempre immutabilmente la loro essenzialità, che per l’uno significa castigo, per l’altra vendetta.
Questo è svolto molto bene nella pièce, che è veramente educativa. Se c’è un testo educativo da leggere, è questo. Da leggere, però, non per seguirlo ma per attraversarlo, non prendendolo come un vademecum. Anche nella funzione dell’insegnante sta la scommessa di avviare la ricerca dell’autore per chi si creda personaggio e, sopra tutto, per chi fa del suo essere personaggio la ragione d’essere del suo dramma, ossia chi fa della sua vita un dramma, togliendo dalla vita la parola. Il dramma è la fissazione dell’origine. È questo a produrre il personaggio: la credenza nell’origine comune, credenza che noi possiamo anche qualificare come fantasma d’incesto. Per chi si trova nella credenza nell’origine comune e, quindi, nel fantasma d’incesto, che è l’altra faccia del fantasma di morte, la vita si configura come dramma, come atroce inderogabile fissità della forma dell’essere. Ma, come dice Pirandello, tutto ciò è da accogliere come materiale per la commedia e, poi, per la storia. Non è uno stato di essere delle cose, perché la questione è quella del fantasma, della fantasmatica, quindi della logica del fantasma che occorre non trascurare, senza per altro coltivarla, perché possa articolarsi e svolgersi. Il dramma sta anche nella credenza che il fantasma sia l’essere. Pirandello sottolinea che è essenziale allo svolgimento della storia, perché il dramma giunga alla commedia e poi a dissiparsi come dramma, il dispositivo di accoglimento, il dispositivo di ascolto. Dice: Questi personaggi li ho accolti, ma rifiutati nella loro ragion d’essere.
Non ho accolto il fantasma. Ho accolto il personaggio con la sua istanza di ricerca dell’autore; ho accolto il personaggio, non la sua ragione d’essere, cioè non ciò che era addotto come la ragione d’essere del dramma. Quello no! Non ci mettiamo a argomentare sulla ragione d’essere del personaggio, se ha torto o ha ragione a essere personaggio, se è vero o non è vero. C’è un dispositivo entro cui occorre che l’istanza della ricerca dell’autore avvenga, si svolga, giunga a compiersi, non argomentando sulla ragione d’essere. È una lezione assolutamente straordinaria, tenendo conto che questo testo è stato scritto all’inizio del ventesimo secolo, intorno al 1920. Come dire che la situazione attuale della psicologia e della psichiatria in Italia è precedente a Pirandello; è il meno che si possa dire. Non c’è traccia di dialogo in Pirandello, ma di dispositivo di parola; c’è traccia della logica e della struttura della parola, non della gnosi. Nessuna sudditanza, nessuna mitologia o ideologia della coscienza, ma l’istanza di qualità, l’istanza di intellettualità che è l’istanza che lui chiama quella di fare agire il cervello. Non di “usare il cervello”, ma di fare agire il cervello: vuole dire istanza di fare agire la parola, di fare agire il dispositivo intellettuale. Questo è il cervello. Non già l’organo che ognuno pensa di avere e di dovere usare in un certo modo, ma il dispositivo artificiale, il cervello come cervello artificiale, come dispositivo artificiale in quanto intellettuale. Anche la base della questione della scuola, la base della questione della formazione di ciascuno sta qui: nel bisogno di fare agire il cervello. E è curioso che questa puntualizzazione intorno all’istanza intellettuale, che sta alla base di questi personaggi, quindi come istanza intellettuale che sta alla base della sua produzione di scrittura ‒ perché si tratta poi di Pirandello, in realtà ‒, è curioso che sia posta come prefazione a questa pièce in cui la questione rappresentata è quella dell’incesto e della prostituzione, cioè della famiglia naturale. Come dire che dove non sia posto in atto, non avvenga questa istanza di fare agire il cervello, quel che accade è la rappresentazione naturalistica dell’incesto e della prostituzione, non come casi particolari, ma come naturale avvenimento dei tipi umani, naturale modo di avvenimento delle relazioni umane. È la questione di questo testo, la lezione che ci indica.
Le così dette relazioni umane sono riproduzioni del fantasma d’incesto e riproduzioni delle modalità di rappresentarlo, la cui forma eminente è la prostituzione. La prostituzione non è solamente rappresentata da quel che avviene per le strade, quella è la punta; è rappresentata dalle relazioni umane, dove cioè, per l’uno, si tratta del castigo, per l’altro, della vendetta. E dove non si tratta ora del castigo e ora della vendetta nelle relazioni umane? Solo nella santità! Ma non è per tutti. Occorre sottolineare l’importanza d’instaurare un dispositivo dove il dramma non riesce a rappresentarsi perché manca l’autore che ognuno si rappresenta, cioè l’agente del castigo e l’agente della vendetta, perché, dove ognuno può rappresentarsi questo agente, è sicuro che non c’è cervello che agisca. Si tratta del dispositivo della parola, dell’Altro irrappresentabile, della causa irrappresentabile, delle cose e dell’Altro irrappresentabili, la condizione dell’itinerario e l’altro tempo.
La prostituzione è un caso molto comune di dispositivo conformista. La famiglia naturale è la base della prostituzione. Basta leggere i Sei personaggi per intendere che la prostituzione nient’altro compie nel suo atto che la vendetta contro l’agente della relazione ritenuta incestuosa, ora il padre, ora la madre, ora il fratello, cioè la vendetta contro il soggetto che riassume in sé l’agente dell’incesto, l’agente dell’origine comune, che è anche l’agente che prescrive, nello stesso tempo, la morte. E è su questo che si fonda l’alternanza della colpa e della pena. L’istituto della vendetta ha come suoi pilastri l’istituto della colpa e l’istituto della pena. L’elaborazione della questione famiglia è assolutamente essenziale per l’avvenire di ciascuno. Qual è la famiglia di ciascuno? Qual è la famiglia in cui ciascuno si trova, quale quella in cui crede di trovarsi? È una famiglia costituita da personaggi, e i personaggi sono sempre personaggi del dramma dell’incesto o è una famiglia in cui sono rappresentati statuti differenti a partire dall’autore, dall’autore irrappresentabile, quindi dal funzionamento delle cose? O è una famiglia non rappresentata dallo stare o dall’essere delle cose, ma dal loro funzionamento, non ammesso il quale, ognuno si trova nel cerchio nella morte, nel cerchio della prescrizione, nel cerchio della soggettività, nel cerchio del suo credersi se stesso, nel cerchio del suo credere di conoscersi o di dovere conoscersi. Questa è la prigionia: credere di conoscersi, oppure credere di dovere conoscersi, dove allora l’Altro non c’è più, non c’è più la vita, ma c’è il personaggio. C’è l’immobile, inderogabile, atroce fissità del personaggio. Nessuno può sopportare di vivere come personaggio, questa è la questione intellettuale, per ciascuno.
Maria Antonietta Biotta Può essere un esempio di questo il fatto che nelle famiglie, a volte, ci sono dei cliché, tipo la pecora nera? Questo può essere un esempio della fissità del personaggio che ogni famiglia crea all’interno di se stessa?
R.C. Esatto! Brava, questo è preciso. La “pecora nera”, “l’ultima ruota del carro” sono formulazioni che indicherebbero la gerarchia rispetto all’origine. Ogni gerarchia è rispetto a una linea. Di questa linea esistono poi tante rappresentazioni. Non solo per l’aspetto negativo, anche per l’aspetto positivo; tanto la prescrizione a essere il primo, tanto quella a essere l’ultimo, la logica è la stessa, sono due facce della stessa questione. Poi, tutto questo ha come elemento di riferimento l’animale, un animale fantastico: può essere la pecora, che può essere nera, può essere altre cose. “Ho una memoria da elefante”, “sano come un pesce”, “intelligente come un’aquila”, “furbo come una volpe”. Tutti questi animali, animali fantastici, formano una sorta di araldica, per ognuno, che rimanda a una genealogia: chi ce l’ha nello stemma di famiglia, chi ce l’ha nella testa. Magari chi ce l’ha nello stemma di famiglia non ne tiene neanche conto; chi ce l’ha nella testa si adegua a questo animale fantastico che ritiene di essere o di dovere essere. Questo animale fantastico si caratterizza per l’anfibologia, cioè per la sua duplicità, nella sua versione buona e versione cattiva, versione positiva e versione negativa e, in ciascun caso, può accadere tanto l’una quanto l’altra. È un grosso impiccio, sopra tutto se il destino è vincolato all’immagine di sé. Allora, se uno si sente uno straccio, una pecora nera, un verme — “oggi mi sento…” —, quello che farà, come potrà riuscire? Non potrà riuscire. Il destino delle cose che si fanno è vincolato a questa anfibologia, a questa zoologia fantastica, a questa immagine di sé che ognuno ritiene di dovere avere e che comunque ha al di fuori del dispositivo in cui si tratta di fare agire il cervello. Perché il cervello non ha bisogno di questa zoologia fantastica. Questa zoologia fantastica prende il posto del cervello, questa è la questione, purtroppo! Dove c’è questa zoologia fantastica, non c’è più il cervello, c’è l’animale fantastico, c’è la paura dettata da questo animale fantastico, dalla sua anfibologia. “Vedi di conoscerti!”, “Bisogna conoscersi, conoscere se stessi, tutto l’animale. Vedi di scoprire l’animale che è in te!”. Bene! Cosa fanno gli animali? Procreano, al massimo. È dato qualcosa che resti della vita dell’animale? È dato che l’animale giunga alla qualità? No. Non è nelle istanze dell’animale, questo. Nelle istanze dell’animale sta giusto vivere per morire, procreare per garantire la continuità della specie e basta. Questo è il dramma. Dove non c’è l’istanza della qualità, l’istanza pragmatica, l’istanza di vita.
Consideriamo ora qualche brano dell’opera Sei personaggi in cerca d’autore. Voi sapete un po’ la trama? È un’opera che pone l’accento sulla questione della famiglia, sullo statuto della famiglia, sul fantasma materno; in particolare, su come il fantasma materno giunga a impedire l’instaurazione della famiglia. Si tratta qui di sei personaggi. C’è una rappresentazione teatrale in atto, Il gioco delle parti e, mentre si stanno allestendo le prove, arrivano sul palcoscenico sei personaggi in cerca d’autore. E questi sei personaggi, allora, interrompono le prove della commedia che si stava programmando e cominciano a raccontare la loro vicenda, per trovare l’autore che possa scriverne il testo, per potere rappresentare l’opera, perché loro sono personaggi e per questo non possono anche fare gli attori, perché l’attore attua una trasformazione, una differenza, un’alterazione del personaggio; il personaggio, invece, è inalterabile nella sua realtà.
Questi personaggi sono il padre, la madre, la figliastra, il figlio, il ragazzo, la bambina. La figliastra, che è figlia della madre e il cui padre è morto; il figlio, che è figlio del padre e della madre; poi ci sono la bambina e il ragazzo: anche la bambina è figlia del padre e della madre, mentre il ragazzo è fratellastro. Quindi, ci sono due fratelli e due fratellastri: due sono fratelli fra loro e due sono fratellastri, la madre e il padre, che è padre a due. Ma che cos’è per gli altri? Allora leggiamo alcuni passi.
Il padre: Ma se è tutto qui il male, nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose, ciascuno un suo mondo di cose. E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole che io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me, mentre chi le ascolta, inevitabilmente, le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo come egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci, non ci intendiamo mai. Guardi la mia pietà: tutta la mia pietà per questa donna è stata assunta da lei come la più feroce delle crudeltà.
Tutta la mia pietà è stata assunta da questa donna come la più feroce delle crudeltà.
Ma se m’hai scacciata? dice la madre; e il padre: Ecco, la sente? Scacciata. Le è parso che io l ‘abbia scacciata?
E la madre: Tu sai parlare, io non so; ma creda, signore, che l’ha fatto, dopo avermi sposata, chissà perché. Ero una povera, umile donna.
Il padre: Ma appunto per questo, per la tua umiltà ti sposai, che amai in te credendo… No. Vede? Dice di no. Spaventevole, signore, creda, spaventevole la sua sordità, sordità mentale. Cuore, sì, per i figli, ma sorda; sorda di cervello, sorda, signore, fino alla disperazione. Se si potesse prevedere tutto il male che può nascere dal bene che crediamo di fare. Veniamo al fatto, veniamo al fatto, signori miei. Queste son discussioni. Ecco, sissignore, ma un fatto è come un sacco: vuoto non si regge. Perché si regga, bisogna prima farci entrare dentro la ragione e i sentimenti che lo han determinato.
E qui la figliastra comincia a raccontare qual è la questione, “il dramma che si porta dentro”, e cioè di avere incontrato il padre nella casa di madama Pace. Casa equivoca, casa di appuntamenti, dove andava per portare le cose che la madre cuciva e che madama Pace, anziché accogliere benevolmente, criticava e diceva: “Ma sono fatte malissimo”, per cui lei doveva pagare il fatto che la madre faceva male queste cose. E come pagava? Con alcune prestazioni, incontrando alcuni clienti di madama Pace.
Là, lei, un giorno, incontrò lui, “vecchio cliente”.
“Sissignore”, dice la figliastra indicando il padre.
Il padre dice: Vedrà che scena da rappresentare. Superba. Lei si immagini la situazione mia e la sua, una di fronte all’altro: ella così come la vede, io che non posso più alzarle gli occhi in faccia.
La figliastra: Buffissimo! Ma possibile, signore, pretendere da me, dopo, che me ne stessi come una signorinetta modesta, ben allevata e virtuosa, d’accordo con le sue maledette aspirazioni a una solida sanità morale?
E il padre: Il dramma per me è tutto qui, signore, nella coscienza che ho che ciascuno di noi, veda, si crede uno. Ma non è vero. È tanti, signore; tanti, secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi, uno con questo, uno con quello. Diversissimi, e con l’illusione intanto d’esser sempre uno per tutti. È sempre quest‘uno che ci crediamo in ogni nostro atto. Non è vero, non è vero, ce ne accorgiamo bene, quando in qualcuno dei nostri atti, per un caso sciaguratissimo, restiamo all’improvviso come agganciati e sospesi. Ci accorgiamo, voglio dire, di non essere tutti in quell’atto e che, dunque, una atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenersi agganciati e sospesi alla gogna per un’intera esistenza, come se questa fosse assommata tutta in quell’atto. Ora, lei intende la perfidia di questa ragazza? M’ha sorpreso in un luogo, in un atto, dove e come non doveva conoscermi, come io non potevo essere per lei, e mi vuole dare una realtà quale io non potevo mai aspettarmi che dovessi assumere per lei, in un momento fugace, vergognoso della mia vita. Questo, questo, signori, io sento soprattutto. E vedrà che da questo il dramma acquisirà un grandissimo valore.
Ma c’è poi la situazione degli altri. Qui, parla la figliastra: Forte, già, che forte. Non son mica cose che si possono dir forte. Le ho potute dir forte io per la sua vergogna ‒ indicando il padre ‒ che è la mia vendetta.
Prima, il capo comico dice: Bisogna che lei si contenga, signorina, e, creda, nel suo stesso interesse, perché può anche fare una cattiva impressione, glielo avverto. Tutta codesta furia dilaniatrice, codesto disgusto esasperato quando lei stessa, mi scusi, ha confessato di essere stata con altri, prima che con lui da madama Pace, più di una volta.
La figliastra, abbassando il capo, con profonda voce, dopo una pausa di raccoglimento: È vero, ma pensi che quegli altri sono egualmente lui, per me.
Il capocomico: Come gli altri? Che vuol dire?
La figliastra: Per chi cade nella colpa, signore, il responsabile di tutte le colpe che seguono non è sempre chi per primo determinò la caduta? E, per me è lui, anche da prima che io nascessi. Lo guardi, e veda se non è vero.
E, per me, è lui, ancor prima che io nascessi; è lui il responsabile, è lui il soggetto agente della colpa. Dunque, prima, cosa avviene? La madre si lamenta che la figlia si è perduta e che lei, quindi, vive in uno strazio perenne.
Dice il padre: Il momento eterno, come io le ho detto, signore. Lei è qui per cogliermi, fissarmi, tenermi agganciato e sospeso in eterno alla gogna, in quel solo momento fuggevole e vergognoso della mia vita. Non può rinunziarvi e lei, signore, non può veramente risparmiarmelo.
La figliastra: Non importa. Quanto più danno per noi, tanto più rimorso per lui.
E poi sorge una questione tra gli attori e i personaggi su chi abbia titolo per rappresentare questo dramma, e il padre dice:
Il personaggio, signore, può sempre domandare a un uomo chi è, perché un personaggio ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre qualcuno. Mentre un uomo, non dico lei adesso, un uomo così, in genere, può non essere nessuno. Soltanto per sapere, signore, se veramente lei, come adesso si vede, come vede per esempio a distanza di tempo quel che lei era una volta, con tutte le illusioni che allora si faceva, con tutte le cose dentro, intorno a lei, come allora le parevano. Ed erano, erano realmente per lei. Ebbene, signore, ripensando a quelle illusioni che adesso lei non si fa più, a tutte quelle cose che ora non le sembrano più come per lei erano un tempo, non si sente mancare? Non dico queste tavole di palcoscenico, ma il terreno, il terreno sotto i piedi, argomentando che ugualmente questo, come lei ora si sente, tutta la sua realtà d’oggi così com’è, è destinata a parerle illusione domani.
Ebbene ‒ dice il capocomico ‒ che vuol concludere con questo?
Oh, niente, signore ‒ dice il padre ‒, farle vedere che se noi ‒ indicando di nuovo sé e gli altri personaggi ‒ oltre l’illusione, non abbiamo altra realtà, è bene che anche lei diffidi della realtà sua, di questa che lei oggi respira e tocca in sé, perché, come quella di ieri, è destinata a scoprirlesi illusione domani.
Quindi, dice, per voi, per voi uomini, per voi attori, ciò che è realtà adesso, un domani sembrerà illusione, cioè incontra un’alterazione, incontra un percorso, un itinerario: questa realtà si svolge.
Il padre continua: Ma la nostra, no, signore. Vede, la differenza è questa: non cangia, non può cangiare. Per noi personaggi la realtà non cangia. Non può cangiare, né essere altra, mai. Perché già fissata. Così questa, per sempre, è terribile, signore, realtà immutabile, che dovrebbe dar loro un brivido nell’accostarsi a noi.
Qui c’è la questione della predestinazione, della genealogia che sancisce il personaggio; non già l’attore, non già il divenire, ma il personaggio, la cui realtà e immutabile. Una volta che si è inscritto nella genealogia, per chi si crede personaggio, quella è la prescrizione. E dunque il personaggio cerca l’autore per incontrare lo svolgimento della storia, per sfuggire a questa fissità della storia, a questa condanna all’immutabilità, è l’autore che introduce nella storia la vicenda, un altro modo.
Il padre: Quando un personaggio è nato, acquista subito una tale indipendenza anche dal suo stesso autore, che può essere da tutti immaginato in altre situazioni in cui l’autore non pensò di metterlo, e acquistare anche a volte un significato che l’autore non si sognò mai di dargli.
Quindi, se c’è autore, non c’è personaggio stabile. In assenza di autore, c’è la predestinazione.
Il padre rivolto al figlio: Per Dio, obbedisci, obbedisci! Non senti come ti parlo? Non hai viscere di figlio? Devi obbedire, devi obbedire!
Il figlio, colluttando con lui e alla fine buttandolo a terra presso la scaletta, fra l’orrore di tutti:
No, no. E finiscila una buona volta. Ma cos’è codesta frenesia che ti ha preso? Non hai ritegno di portare davanti a tutti la tua vergogna e la nostra? Io non mi presto, non mi presto, e interpreto così la volontà di chi non volle portarci sulla scena.
Il figlio non si presta a essere riconosciuto “figlio di”, figlio di mamma; interpretando così la volontà dell’autore, ossia, ammettendo l’autore, il figlio non è figlio di mamma, non è inscritto nella genealogia, non obbedisce al dettato della vergogna. Quale vergogna? La vergogna del padre che ha incontrato nel postribolo la figliastra, ossia la figlia, commettendo l’incesto con la figlia. Questa è la questione: “avvenuto” l’incesto tra il padre e la figlia, che cosa accade? La degradazione della realtà: la bambina annega, il bambino si suicida, la figliastra impazzisce. È la rovina, la rovina globale.
Questo testo è assolutamente straordinario, perché pone la questione dello statuto delle cose, della non “talità” di ciascuna cosa, ma della qualità, dello statuto, del funzionamento, del modo delle cose. Postulato che questo modo non c’è, che lo statuto non c’è, che l’autore non c’è, abbiamo i personaggi nella loro eternità, nella loro immutabilità, nella loro rovina assegnata, quindi nella predestinazione. Qui, l’assenza di autore comporta l’origine localizzata, l’origine fissata e, quindi, la relazione intesa familiare o sociale comporta l’incesto e, come suo corollario, la prostituzione.
La prostituzione diventa il sigillo, il marchio, il segno della genealogia e dell’incesto che ne consegue. Allora, dalla parte della donna che si prostituisce, abbiamo la fantasia di fare da mamma al padre; da parte dell’uomo che va dalla prostituta c’è il fantasma di farsi svelare il segreto di mamma, il segreto della sessualità, il segreto della morte, il segreto dell’origine. L’uomo che va dalla prostituta va a chiedere che gli sia svelato il segreto della sua origine, quindi va a verificare l’incesto. Presa nel fantasma dell’incesto, ogni decisione risulta impossibile, perché risulta finalizzata o a prevenire o a preservare dall’incesto o a confermarlo, in entrambi i casi a confermarlo.
Sia che sia per evitarlo, sia per sancirlo, è una consacrazione dell’incesto, viene confermata la credenza nell’incesto, la credenza in questa origine e nella immutabilità della realtà che da questa origine è assegnata, cioè una realtà senza itinerario, senza svolgimento, senza racconto, senza mito, senza nemmeno la fiaba, perché la fiaba avvia il racconto. Introducendo gli elementi della fiaba, il racconto avvia il mito. Già ammettere il racconto, lasciare che le cose entrino nel racconto, è un modo di mettere in questione la credenza nell’incesto, è un modo di non aderire, perché quel che entra nel racconto trova l’autore, non è senza autore. Quel che non entra nel racconto è impossibile trovi l’autore. Non entrando nel racconto non entra nella fiaba, non entra nemmeno nella saga, cioè non trova gli elementi della storia nella loro alterazione, li lascia nella credenza immutabile; li lascia personaggi senza autore. E lo schifo si enuncia come sentinella del fantasma d’incesto. Quante volte sentiamo dire: “Questo mi fa schifo, quello mi fa schifo, questo mi dà fastidio, quello…”. Questo fastidio, questo schifo non elaborato, che non entra nel racconto ma resta a significare qualcosa, è la traccia nella credenza nell’incesto. Se è accolto come traccia e, quindi, diventa la base per l’analisi, ha l’eventualità di incontrare un altro statuto, di incontrare l’autore, di dissipare l’incesto come fantasia. Se non è accolto come traccia, ma come cosa in sé, allora conferma il personaggio. Il fantasma d’incesto si doppia così sulla prostituzione, e la prostituzione diventa il dispositivo conformista per dimostrare che la relazione non c’è se non come riproduzione dell’incesto. La relazione allora è solamente relazione incestuosa, relazione simbolica, non già originaria, non già modo dell’apertura, non già corpo e scena, ma “relazione con”, relazione con l’amico, con l’amica, con il padre, con la madre, con il figlio, con la figlia. Relazione come modo di riproduzione dell’origine, cioè dell’incesto, cosicché la prostituzione, ogni volta, compie, nell’atto ritenuto di prostituzione, in quell’atto che sarebbe il segno della prostituzione, la vendetta contro l’agente: ora padre, ora figlio, ora madre, ora dio, cioè contro il soggetto che riassume in sé l’agente. L’istituto della vendetta ha come riferimento la morte, come accade per la colpa e per la pena. Nella rappresentazione della vendetta c’è già l’anticipazione della pena.
Allora, come intendere la famiglia? È quella dei Sei personaggi in cerca d’autore o è quella che procede dall’autore? Qual è la famiglia di ciascuno? Qual è la famiglia in cui ciascuno si trova? È quella così detta di origine, in cui ciascuno presume di essere nato e quindi di dovere portarne il segno senza autore, o è quella che s’instaura a partire dall’analisi della traccia di questa famiglia presunta originaria, quindi dove il padre, la madre e il figlio sono statuti e non personaggi?
