La vita come reality
Ruggero Chinaglia Iniziamo annunciando un evento che ci sarà la settimana prossima, per presentare il volume In direzione della cifra. La scienza della parola, l’impresa, la clinica. Interverrà l’autore, Sergio Dalla Val, psicanalista, scienziato, imprenditore, per discutere insieme a noi sul tema L’impresa intellettuale e la soddisfazione. Il dibattito si svolge alla Sala degli Anziani con ingresso libero. Ci saranno anche alcuni interventi. Il libro, già disponibile nelle librerie, racconta l’esperienza di Sergio Dalla Val, in merito alla sua formazione, al suo lavoro, alla sua ricerca, alla sua impresa e vi si trovano tante annotazioni, tanti pretesti per ragionare, per riflettere, per avviare una ricerca differente. Sicuramente è un libro non convenzionale, un libro di valore che vi consiglio.
Proseguendo l’esplorazione della questione che abbiamo in calendario, procediamo a svolgere l’analisi della tentazione in alcune sue riverberazioni. La settimana scorsa abbiamo analizzato la struttura della tentazione di cui parlano la Bibbia e il Vangelo. Nel caso della Bibbia la formula prevede che si possa fare tutto meno una cosa. È questa la tentazione di Eva, che non può mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Nel caso del Vangelo, la formula è invece: “Se sei veramente il figlio di Dio…”. Può essere anche: “Se sei…allora fai questo o quello”, a indicare una sorta di sfida a dimostrare che la possibilità di fare dipende da un’identità.
Nel caso “Se sei il figlio di Dio…”, è una sfida che riguarda l’inscrizione in una genealogia e ogni genealogia comporta come corollario l’idea di origine, cui corrisponde l’idea di fine. Nel caso di Eva c’è qualcosa da mangiare, la mela. La mela diventa ciò che rappresenta la trasgressione alla prescrizione ricevuta: “Puoi fare tutto, meno questo”, tutte le cose sono buone, tutte le cose sono possibili, meno una.
La formula “Tutti meno uno”, “Tutti gli uomini meno uno”, “Tutte le donne meno una”, è anche la formula dell’incesto, così come è proposta, per esempio, nel mito di Mirra. Mirra può innamorarsi di tutti gli uomini, può andare con tutti gli uomini meno uno, il padre. E è proprio di quello che, invece, Mirra s’innamora e è proprio quello con cui Mirra giacerà. Ovidio fa terminare il mito in un modo che assolve Mirra, che non subisce la punizione, né quella che vorrebbe il mito greco per cui il padre la uccide, né quella che vorrebbe il mito latino, per cui Mirra s’impicca o vorrebbe impiccarsi. Ovidio fa intervenire gli dei e Mirra è trasformata in albero. Non c’è il segno della punizione, non c’è il segno del peccato, dell’avvenuto incesto. Non si realizza questa sorta di prescrizione per cui esisterebbe un atto proibito o che sarebbe da negare, perché non casto.
Incesto vuol dire non casto, un atto segnato dal male, dal peccato, dalla negatività. Con l’incesto, qualcosa fonderebbe la serie di ciò che è proibito, di ciò che è peccato, di ciò che è male. La serie della negatività.
Per restare nell’ambito della questione cibo, che abbiamo esplorato l’altra volta, è da analizzare, da interrogare ciascuna volta che interviene, per esempio, una fobia alimentare, un rifiuto per qualche alimento, per qualche cibo, per qualcosa che viene connesso al mangiare. È da indagare se questo qualcosa non si sia scritto come rappresentante di un atto di trasgressione, di ribellione, come rappresentante di un atto che contraddice la legge, quella legge che è ritenuta valida, anche come legge dell’incesto: “Non puoi fare quella cosa”; per cui, quel cibo, quell’alimento, quella cosa, diventa il segno di un atto che non doveva essere compiuto e, ciascuna volta che si presenta, rinnova le caratteristiche di divieto, di negatività.
Questo ci pone dinanzi alla constatazione che la tentazione che imporrebbe o l’identità o la possibilità di fare tutto, meno una certa cosa, situa il possibile campo di azione tra due possibilità bene definite: una possibilità positiva e una possibilità negativa. O bene o male, o positivo o negativo. Non sarebbe data altra possibilità e ognuno si deve rappresentare il suo ambito d’azione in un’oscillazione tra queste due possibilità: o il bene o il male, senza altra eventualità. È proprio la negazione di quest’altra eventualità che costituisce quella gabbia in cui, come diceva Platone, “Ogni soggetto viene scagliato nella gabbia che si chiama mondo”, in cui ognuno è costretto a oscillare tra bene e male, senza altra eventualità; quell’altra eventualità che interviene con la parola.
La parola non è rinchiusa nell’alternativa fra bene e male, ma per ciascuna cosa che si situa nella parola si tratta di trovare il valore. Non già se è bene o se è male, ma il valore.
Ciò esige un processo di analisi e di qualificazione, perché le cose non sono già date, non hanno un segno o un significato stabile, ma entrano in un processo di qualificazione. È questo che la volta scorsa chiamavamo il dispositivo di parola, una struttura in cui le cose non sono già con un senso, un significato, un segno stabilizzato, stabilito, ma entrano nel movimento, cioè avvengono, divengono, accadono, e non “sono”.
La tentazione che abbiamo esplorato “Se sei, allora fai”, pone il primato dell’essere. In “Se sei, allora puoi fare” o, addirittura “Se sei, dimostramelo facendo questa cosa”, interviene una sfida, ma sempre a partire da un primato dell’essere. Questo comporta, per quel che riguarda l’argomento di oggi, qualche contraccolpo, qualche contrappasso, qualche inconveniente.
Per rimanere nell’ambito della questione cibo, l’altra volta non abbiamo fatto in tempo a affrontare la questione della dietetica come prescrizione a non mangiare o a mangiare certe cose, in quanto potrebbero fare bene o fare male, e occorrerebbe privilegiare alcune cose sulle altre, a prescindere da come quel cibo interviene per ciascuno, ma in nome dell’appartenenza a un genere, che sarebbe il genere umano. A questo genere occorre somministrare quel cibo che dev’essere un cibo, per esempio, sano. “Occorre mangiare cibi sani”. Questo è lo slogan, e il cibo sano dovrebbe assicurare la salute, come se la salute fosse uno stato: lo stato di salute.
Che la salute si possa perdere anziché acquisire è una fantasia piuttosto frequente. Ognuno pensa che è sano e deve temere di ammalarsi. Nessuno pensa alla salute come a un’istanza, come qualcosa che si acquisisce in quanto è il frutto di un’istanza di valore, della tensione al valore e che la salute si produce lungo questa istanza come ciò che si conquista, perché s’instaura il dispositivo immunitario.
Non certo nel modo in cui lo elabora il discorso medico, che fa del dispositivo immunitario un dispositivo di protezione contro ciò che sarebbe ostile, contro ciò che sarebbe nemico, contro l’Altro, sconosciuto, che può diventare agente patogeno.
C’è un’altra accezione di dispositivo immunitario, che riguarda l’immunità come assenza di peso, assenza di munus. Munus era il dono di morte. Munus è anche la fortificazione contro ciò che sarebbe ostile. Ma, che cosa è ostile? Che cosa è nemico? Il problema è che non è dato saperlo prima.
Rispetto al cibo, rispetto all’alimentazione, che cosa sarebbe da escludere e perché? Su che base? Tutto ciò esige per ciascuno una indagine. Non è già dato il perché alcune cose possano risultare vuoi indigeste, vuoi fonte di allergie. Adesso va molto di moda l’intolleranza alimentare, le intolleranze. E nessuno si è soffermato su questo termine, intolleranza, come qualcosa che è strettamente connesso all’immunità. Per quale via? Per la via della tolleranza. Intolleranza alimentare, cioè qualcosa non è tollerato. Ma, come? Da chi e perché? Per quale combinatoria? Intolleranza ai pollini, intolleranza alle polveri, intolleranza agli animali, intolleranza ai cristiani, intolleranza agli islamici. Intolleranza, molta intolleranza. Poi, diventa anche intolleranza alimentare, cioè è un principio di selezione che si estende sempre di più.
Un principio di selezione che parte da dove? Dal principio d’identità? Ci sarebbe un’identità che contraddice qualcosa, per cui quella cosa che verrebbe messa in discussione risulta un problema? Per intolleranza? C’è da indagare, perché, se vige il principio dell’alternativa fra positivo e negativo, senz’altra possibilità, l’intolleranza è prescritta: occorre andare verso il bene e non tollerare ciò che è male. Se l’alternativa è fra due, fra il bene e il male non c’è scelta, bisogna scegliere il bene.
Ma che cosa è bene? Bene è qualcosa che risponde a un criterio morale, religioso? E come si qualifica il bene? Come interviene in un processo di qualificazione, questa cosa che viene detta bene? Come giunge al valore? Ciò apre tutta una gamma di sfumature che, dove vige l’alternativa tra una cosa e il suo contrario, è negata.
La gamma infinita delle sfumature è negata, se vige il principio dell’alternativa esclusiva! Quest’ambiente, dove è negata la gamma delle sfumature, è l’ambiente più frequentato al mondo, perché è il mondo! La sola rappresentazione del mondo che si possa fare è quel mondo retto dal principio d’identità, dal principio di non contraddizione e dal principio del terzo escluso. Qui la gamma delle sfumature è esclusa, perché ognuno è posto di fronte all’alternativa fra una cosa e il suo contrario, in quanto tertium non datur.
Occorre, invece, che s’instauri proprio questo tertium, l’altra cosa che avvia la serie delle combinazioni. Questa è la questione della parola. Questo è ciò cui introduce l’analisi, che non si svolge tra una cosa e il suo contrario, ma consente di qualificare quello che s’incontra, di valorizzarlo, fino a divenire realtà della vita. La questione di qual è la realtà della vita, che non è la realtà dell’essere. È la realtà della parola, la realtà in cui le cose si dicono, si fanno, si scrivono, si compiono, giungono a conclusione e divengono valore. Per divenire valore c’è bisogno di questa processualità, perché le cose non sono uguali per tutti. Ciascuna cosa interviene in modo differente e vario, nel caso in cui ciascuno si trova. Qual è questo caso? Come si articola? È la scommessa in cui si trova ciascuno, che comporta la vita come altro scenario rispetto a chi la pensa come il processo di avvicinamento alla morte. Pensarla così è un modo di svalutarla, di privarla di valore. Ciascun istante della vita è come se non avesse importanza. Se la vita diventa l’avvicinamento alla morte, viverla in un modo o viverla in un altro è la stessa cosa.
Ma non è così e vivere non è vivere con l’incubo della fine. Questo diventerebbe un problema e è ciò che si tratta di analizzare e elaborare: l’idea di una fine incombente, che procede con il fantasma di origine, con il fantasma di genealogia, che trae con sé il fantasma di fine. Cosa che non è rara, non è affatto rara, anzi, è assai frequente. Solo che non è esplicito questo fantasma di fine.
Quando, per esempio, una persona che sta per cominciare una ricerca, un viaggio, si chiede “Ma quanto durerà, quanto dura questa cosa?”, si trova già dinanzi al suo fantasma di morte. Interrogarsi sulla durata delle cose è già un modo di partire dalla fine delle cose, anziché lasciare che la cosa segua il suo corso. Quanto dura? Vi è mai capitato di sentire qualcuno che dice: “Andiamo, facciamo, sì, ma quanto dura il viaggio, quanto dura la ricerca, quanto dura l’esperienza?”. Quanto dura? Quanto dura la vita? Non si sa, non dura affatto. Perché se dura, vuole dire che è trascinata in una costante e affannosa idea che possa finire da un momento all’altro.
L’idea della durata del tempo è un’idea di fine. Il tempo non dura e c’è modo di accorgersene quando intraprendiamo qualcosa in cui c’è soddisfazione. Facendo quella cosa noi non stiamo lì a guardare l’orologio, a pensare a quando finisce e a chiederci “Ma quanto dura?”. In questo caso c’è la soddisfazione che interviene facendo.
Il modo gerundivo di fare sospende l’idea di fine, indica che si è instaurato un altro tempo, che è il tempo della parola e che non ha nessuna durata. La parola dura? Quanto dura parlare? Non dura. Qualcosa si dice, poi le cose procedono e ci sono effetti di senso, effetti di sapere, effetti di scrittura, ma non c’è l’assillo della durata.
Se, invece, interviene questo assillo, già ciò indica una fantasmatica che riguarda la fine che grava sulle cose e impedisce l’instaurazione del dispositivo immunitario.
Quando qualcosa sembra destinata a finire, allora comincia a pesare e si fa fatica.
Non che sia faticosa la cosa in sé, è l’idea di fine che la rende faticosa perché toglie la spinta, e le cose, senza la spinta, pesano. È una cosa semplice, ma esige una procedura particolare, non è automatico che questo avvenga. Come dicevamo la settimana scorsa, esige la dissipazione dell’idea di sistema finito e ogni sistema s’ispira, per lo più, alla termodinamica, dove vige la legge della degradazione dell’energia. A cosa tendono le cose in un sistema finito? Al valore? Alla riuscita? Alla qualità? No, tendono all’equilibrio, cioè tendono a stabilizzarsi e, una volta che il sistema è in equilibrio, per definizione è morto. Sembra paradossale, ma è così. Se ci s’ispira all’idea di ambiente, di vita, di dispositivo, l’incubo della fine è sempre sopra di noi, e allora c’è il pericolo di fine.
Facendo l’esperienza della parola, invece, ci troviamo in un altro ambiente, dove le cose tendono al valore, non all’equilibrio. Vengono dall’equilibrio, caso mai, e tendono al valore, alla riuscita. Allora, è tutta un’altra cosa. C’è un’altra spinta, ma non automaticamente, per via di procedura, per via del modo che s’instaura. E adesso vediamo di capire come.
Innanzi tutto perché ci troviamo in un contesto, in un ambiente e in un dispositivo in cui le cose non sono, ma accadono, avvengono, divengono in un processo che non è indipendente dal progetto e dal programma di vita. Non è un fatto di buona volontà. La realtà della vita segue il progetto e il programma, non è una realtà standard, comune per tutti. Esige quanto meno l’oralità, ossia il processo narrativo, la scrittura, la lettura, la memoria, l’analisi di ciò che accade, l’elaborazione del fantasma di origine che ha il suo pendant nel fantasma di fine. E questo non procede dall’identità prefigurata.
Oggi è in voga, è ricorrente la formula “Sii te stesso”, oppure, “Conosciti, devi sapere cosa sei”, come se questo fosse possibile. Per sapere quello che si è, la medicina ha inventato l’autopsia, con il corpo morto, obiettivamente esaminabile, obiettivamente riconoscibile, per dire “Ecco, è questo”. Allora possiamo conoscere una cosa in quanto è immobile, morta. Questo è conoscibile: l’immobile, ciò che, senza tempo, è così.
Se qualcosa invece si muove, accade, avviene, diviene, allora si trasforma. Come si fa a dire: “La conosco. È così. Io sono così”? Dire: “Io sono fatto così” è una condanna, è la morte civile.
Che vi sia l’ambiguità non è qualcosa di negativo, è proprio ciò da cui prende avvio l’indagine. L’ambiguità è necessaria, ma non siamo noi che rendiamo le cose ambigue. Le cose procedono dall’ambiguità, che è ciò da cui si avvia la domanda, la ricerca, l’indagine. L’indagine si avvia perché qualcosa è ambiguo. Ambiguo in che senso? Nel senso che sfugge, va in più direzioni. Cosa vuol dire ambiguo? Ambigere, andare in due direzioni. Non alternativamente di qua oppure alternativamente di là. No, di qua e di là, simultaneamente, allora qualcosa è ambiguo. Ambiguità si può dire in un altro modo, si può dire anche disagio, dis-agein, dis-agere, andare in due direzioni.
Ma è l’accezione nobile, perché oggi disagio è usato impropriamente come sinonimo di malattia mentale e si sente dire: “Poveretto, soffre di disagio mentale”. Negli ultimi anni, anche tecnicamente, cioè psichiatricamente. Non si dice più che uno è malato mentale, si dice che è disagiato. Questa sarebbe la tecnologia linguistica.
Il disagio originario è una virtù della parola, non è qualcosa di negativo, non è qualcuno che ha disagio. Occorre astrazione. La parola procede dal disagio, cioè dall’ambiguità, per cui esige il chiarimento, esige di fare chiarezza. La chiarezza non si fa accendendo la luce, come voleva l’illuminismo: accendi la lampadina della scienza e tutto è chiaro. No, quella è la scienza dell’autopsia! Esige l’indagine linguistica, logica, per capire quali sono gli elementi che intervengono e che non sappiamo già quali sono. Ci vuole molta umiltà per capire. Presumere di essere o di dovere essere è veramente una condanna che nega la ricerca, nega il viaggio, nega tante cose, anche la soddisfazione di trovare.
Quando Archimede trovò, disse: “Eureka!”. Disse “Ho trovato” con un atto giubilatorio, di soddisfazione, perché non sapeva e, indagando, giunge a capire qualcosa. E questo vivendo nel gerundio.
Applicando il discorso comune, si appartiene al modello standard, e allora si soffre molto. Non si può prescrivere a nessuno l’appartenenza o il fantasma di origine. A nessuno si può negare la gioia, la felicità, il piacere; ma non come promessa di uno stato di cose. La felicità è un effetto che si produce cammin facendo. Talvolta ricorre la formula: “Il mio obiettivo è la felicità, vivo per essere felice”. Quando? Come? In che modo? È impossibile pensare la felicità, così come il piacere, la gioia, la soddisfazione. La felicità è un effetto imprevisto, giunge per una combinatoria non calcolabile e è istantanea.
Qual è la realtà della vita? A quale realtà possiamo appellarci e fare riferimento? C’è una realtà che possiamo prefigurare, configurare, rappresentare, per riprodurla? La realtà risponde al criterio del probabile o del possibile? Talvolta accade che, rivolgendosi a professionisti o esperti per una previsione di fattibilità di un progetto – accade vi si faccia ricorso o appello per accertarsi se vi siano forti probabilità che qualcosa si possa fare – la risposta possa essere: “No, perché non c’è una statistica in merito, oppure c’è una statistica negativa in merito”. Ma la statistica di che? Di chi? La fattibilità di che cosa? Secondo quale criterio? Un criterio standard per cui le cose si farebbero per tutti nello stesso modo e, in un sistema chiuso, hanno una certa probabilità di fattibilità. Non è superstizione questa? Il calcolo probabilistico è una superstizione.
Nell’infinito non c’è probabilità calcolabile e noi viviamo nell’infinito! Questa è la chance, altrimenti tutto si riduce a prevedere la fine. Infatti, questo vogliono sapere gli umani: quanto durerà la loro vita! Quante probabilità hanno di vivere a lungo, di più o di meno, che è come vivere nell’incubo.
La questione è che la realtà non è né galileiana, né copernicana, né aristotelica. La realtà è contingente, e è contingente perché è realtà intellettuale. Questa è la novità che la parola introduce: la realtà è intellettuale e si avvale dell’arte, della cultura, dell’invenzione. Non della cultura come storia della cultura, ma cultura come ciò che nel percorso viene trovato. La cultura come trovata e l’arte come variazione e, dalla combinatoria, mano a mano, sorge il modo di fare.
Cosa devo fare? Come devo fare? Come se tutto fosse già stabilito, previsto!
La questione della seconda tentazione di Cristo è proprio la tentazione di una vita protetta dall’imprevisto. Cosa dice la seconda tentazione? “Se sei veramente figlio di Dio, gettati giù, buttati, poiché sta scritto: ai suoi angeli darà ordini al tuo riguardo, e essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede”. La tentazione sarebbe questa: essendo tu in una genealogia positiva, privilegiata, il tuo piede non deve urtare contro nessun sasso, non devi avere nessuna difficoltà, nessun impedimento, nessun incaglio, hai diritto alla vita facile, quindi sfida pure la sorte e metti alla prova la tua genealogia. C’è l’idea di privilegio, di buona sorte con il suo immediato pendant, la cattiva sorte. Essendo figlio di Dio, hai diritto a un occhio di riguardo? Nell’alternativa fra la possibile volontà di bene e di male, il buon occhio diventa malocchio, e sorge l’invischiamento fra la buona sorte e la cattiva sorte, fra la fortuna e la sfortuna.
Allora ognuno attende istruzioni. Cosa devo fare? Quanto ci vuole per fare questa cosa? Tra gli studenti, per esempio, è assolutamente in vigore la mitologia dello standard, con le relative superstizioni che sfociano nelle diffuse consultazioni. Quanto ci vuole per preparare questo o quell’esame? E gli esperti di turno si pronunciano: questo è un esame facile, questo è difficile, questo richiede tot tempo, quest’altro, invece, un altro tot. Il riferimento della superstizione è allo standard: lo standard della preparazione, delle capacità, dello studio.
È questa la realtà della vita? No, questa sarebbe la vita come reality, la vita dove c’è un copione e tutto è già scritto, obbedendo al criterio di prestanza, di probabilità, di sufficienza. Nella vita come reality, ognuno elegge gli idoli che si tratterebbe di onorare per avere in cambio la buona sorte, la fortuna, la riuscita. Ecco l’idea della scorciatoia, del patto con il diavolo, della sostanza che dovrebbe aiutare a vincere la difficoltà. E ognuno ritiene di avere bisogno dell’aiutino: chi si fa un caffè, chi si fa lo spinello, chi si fa una fumata, chi assume farmaci di un certo tipo o di un altro, pensando che da sé non ce la fa, da sé non ce la potrebbe fare. Perché da sé non potrebbe farcela? Perché ognuno ha di sé un’idea negativa, un’idea di sé degradata.
Occorre esplorare questo: qual è l’idea che ognuno ha di sé? Qual è l’idea che ognuno ha dell’Altro? In che modo l’idea risponde a superstizioni positive o negative? A preconcetti, a mitologie o ideologie? Perché non si avvale della spinta che viene dalla parola in atto, dalla ricerca in atto? Occorre instaurare la parola, così s’instaura l’ambiente come infinito e non già quell’ambiente che possa degradarsi, dove le risorse possano finire, dove tutto possa finire, in cui ognuno sia sovrastato dal pericolo di fine.
In quale realtà vivere? In quale realtà ognuno vive? In quale dispositivo? Nel dispositivo di tolleranza e d’immunità o nell’alternativa dove si tratta sempre di dovere scegliere fra bene e male, e quindi con l’idea di scelta, di scelta obbligata?
La questione di questa sera è qual è per ognuno l’idea di realtà e la stessa idea di vita che talvolta viene impartita con sufficienza.
Questi sono alcuni elementi e ora possiamo chiarire degli aspetti, se non sono stati abbastanza chiari, oppure considerarne altri. Prego.
Pubblico Il concetto di fine incombente. C’è un poeta latino dell’età augustea che dice: Nascentes morimur, moriamo già nascendo. Finis ab originem impendet, la fine è già inclusa nell’origine. Allora, è stata la morale cattolica a non farci elaborare più laicamente questo concetto, secondo lei?
R.C. Per un latino è quasi d’obbligo pensarla così, perché i latini numeravano dall’uno e c’è l’idea d’inizio e il suo corrispettivo è l’idea di fine. Ma, con l’introduzione dello zero, non c’è più questa prescrizione. Lo zero, zephiros, indica che non c’è più l’origine. Le cose incominciano, ma non dall’origine. Incominciano per via dello zero; qualcosa incomincia, quindi prosegue. Come incomincia? Quando e dove incomincia? Con lo zero, tutto ciò non è più rispondente al criterio geometrico o algebrico, ma entra nella combinatoria, entra nella nominazione.
Entra nella combinatoria che è anzitutto linguistica e incomincia l’esigenza dell’ascolto, l’esigenza di capire che cosa stiamo dicendo quando parliamo. Perché, parlando, sembra che le cose abbiano già un senso, ma non è così. Parlando noi diciamo cose che occorre capire.
Pubblico Questo è il concetto di polisemia.
R.C. Se vogliamo attenerci al concetto, possiamo cogliere quest’aspetto. C’è una libertà di combinatoria che interviene e apre. È proprio l’apertura che con la parola si produce. La logica aristotelica o alcune formule latine sembrano proprio escludere l’apertura, sembra che le cose abbiano solo quella direzione, quel fine. Bisogna capire che la logica aristotelica non è una logica originaria. Essa è sorta a un certo punto come reazione, per esempio ai presocratici, Eraclito, Parmenide.
L’esigenza di dovere vietare la contraddizione riguarda la governance, non la parola per come interviene e si produce. Per potere padroneggiare la città, è necessario che la città sia chiusa, altrimenti qualcosa sfugge e la governabilità ne risente.
Occorre distinguere i criteri, i motivi. Ma, la parola pone proprio la questione della ingovernabilità, dell’assenza di teleologia: la parola non ha un fine buono da conseguire, perché non risponde a una morale. La parola è libera.
Pubblico All’inizio fu il verbo.
R.C. In principio era la parola, esatto. En archè en o logos. Non logos come il discorso, ma come parola libera, e questo vale per ciascun atto.
L’esigenza di capire e di ascoltare è vitale, perché per ciascuno c’è l’esigenza della qualità e non di accontentarsi, e ciò esige un percorso. Non è che basta solo allungare una mano.
È il bello della cosa. Però, c’è chi dice: “Allora ci vuole tempo, ci vuole sforzo”. Sì, e con questo? Invece c’è chi vuole tagliare corto e si avvale del discorso standard, del criterio standard, del principio di sufficienza. Così la vita diventa un reality, come se fosse già vissuta. Non è più nel gerundio. Diventa canone, prescrizione, perché interviene la tentazione sostanzialista che nega l’infinito: “Devi accettare che questo cibo sia il segno della tua trasgressione, della tua colpa”.
A quale realtà ci riferiamo? Alla realtà dove ognuno è segno della colpa o dove la realtà è contingente e riguarda come ciascuna cosa accade, avviene, diviene e si rivolge verso la qualità?
Pubblico Scusi, ma il disagio di cui lei prima parlava può essere fonte di angoscia di vivere e, quindi, è più facile riferirsi a teorie statiche che danno sicurezza di vita.
R.C. Apparentemente, perché angoscia è già la sensazione di una strettoia, è angustia.
Pubblico Ma il disagio la dà?
R.C. No, è la reazione al disagio a darla: ritenere di dovere seguire una certa prescrizione, contro un’istanza che prorompe. È lì che si produce l’angoscia, perché c’è il contrasto, la contraddizione che è negata. Dove vige il principio di non contraddizione è avvertita l’angoscia. Può sembrare il contrario, ma è così che l’angoscia si produce. Quando il principio di non contraddizione toglie l’apertura, è tolto anche l’avvenire.
È chiaro che la realtà, proprio perché la vita non è un reality, non è quella che il discorso comune ci rappresenta. La chance è che la realtà non è comune, né è condivisibile. Questo è il bello della faccenda. Invece c’è una certa pubblicità che sembrerebbe indicare il contrario e poi sfocia in una serie di etichette patologizzanti, da analizzare.
Ci sono altre domande?
Fabrizio Moda Si può dire che il reality sia il realismo, l’adesione codificata della realtà?
R.C. L’ha detto, quindi si può dire.
F.M. Vorrei capire se corrisponde al realismo, a una realtà non modificabile, già data, dove non può intervenire la variazione, né l’invenzione.
R.C. Certo.
F.M. Quindi il realismo è già una cosa vecchia.
R.C. È un ricordo.
F.M. Però, per me il termine è nuovo; per esempio, l’arte – il realismo sovietico e cose del genere – era un modo diverso d’intendere la stessa cosa, un qualcosa che sarebbe così: “La realtà è questa”.
R.C. Certo, la prescrizione a essere conforme a qualcosa. Questo poggia su una base di realismo che diventa realismo ontologico, nega l’avvenire, nega l’accadimento, nega l’evento a favore di un obbligo a essere, sia del soggetto, sia delle cose, di ogni cosa. È paradossale dire ogni cosa. Dobbiamo considerare ciascuna cosa, non ogni cosa. Ogni cosa vorrebbe dire tutto? È un paradosso dire ogni cosa, presupporrebbe che ci fosse un tutto e il tutto nega l’intero. Se possiamo invocare la tolleranza è perché le cose procedono dall’intero non dal tutto.
F.M. È facile capire che il tutto nega l’infinito, però la questione dell’intero…
R.C. Perché il tutto nega il pleonasmo e, nell’intero, il pleonasmo ci segnala ciascuna cosa e avvia la necessità della ricognizione, dell’indagine. Nel tutto il pleonasmo è abolito. Il tutto è rigido, è tolto il tempo. Questo forse richiederebbe qualche passaggio ulteriore ma, così, giusto per capirci, abbozziamo qualche cosa di nuovo.
Pubblico La ricerca dell’attività in ciò che non è strutturato secondo il principio di non contraddizione, mi pare di capire sia un po’ la proposta di fondo di questa critica del principio di non contraddizione, secondo cui è strutturata la realtà che poi diventa reality. Ma, se si ricerca questo pleonasmo nelle cose, questa loro ambiguità, non si rischia di sfociare in percorsi puramente personali difficilmente condivisibili? Anche perché la realtà strutturata secondo il principio di non contraddizione è strutturata così per essere comunicabile, condivisibile. Non si rischia, al di fuori del principio di non contraddizione, di entrare in una esistenza sì autentica, basata sulla ricerca dell’autenticità, dell’ambiguità delle cose, però rischiosa? Quali sono gli strumenti per mantenere la condivisione?
R.C. Lei ha già risposto. Nel senso che dice: “È condivisibile ciò che è convenzionale, mentre qualcosa che procede dall’autentico è unico, giunge all’unico, tende all’unicità”.
È l’istanza autentica, e ciò non impedisce la comunicazione. Anzi la comunicazione sorge proprio perché c’è qualcosa che esige di precisarsi, mentre la condivisione tende a negare la comunicazione, in quanto si riferisce a qualcosa di conforme, di standard che sarebbe già lì. Poi accade che nessuno si accontenta di ciò e la condivisione resta, in gran parte, un modo di dire, perché – proprio come lei notava con precisione – c’è l’istanza di autenticità che è importante e questa spinge. È con l’istanza che occorre fare i conti e è importante che abbia modo di avvenire, che non sia contenuta, perché il contenimento ha contropiedi e contrappassi, cioè ha conseguenze proprio in merito alla salute.
F.M. L’idea maestra di psicologi, psichiatri, psicopedagoghi, assistenti sociali è contenere.
R.C. Ecco, io non sono esperto di questo, ma se lei dice così… In effetti basta esplorare la storia della follia, che è la storia dei contenimenti di ciò che non risultava conforme: dai luoghi, l’asylum, al modo, dalla camicia di forza fisica a quella chimica.
F.M. Abbiamo il ghetto qui.
R.C. E quella è un’altra cosa ancora, che si riferisce sempre all’espulsione della differenza.
C’è Francesca qui? Questa sera non ha domande?
Francesca Ho ascoltato con interesse la sua risposta. Poi, personalmente, un grazie per la risposta perché, effettivamente, è una nuova apertura e non ho da ribattere.
R.C. Ma non era proprio una risposta.
- Un nuovo modo di vedere.
R.C. Qualcosa non per chiudere il discorso.
- Sì, per metterlo in questione. Ho notato.
R.C. Non ha proposte per la prossima volta?
- Oddio, mi chiede un po’ troppo. Cosa devo dire?
R.C. Qualcosa che l’ha colpita.
- Quello che lei ha detto è intuibile, perché quando ci si trova all’interno del sistema si cerca, di solito, l’alternativa al sistema. Il problema, poi, è applicare questa nuova alternativa. Non tanto coglierla, perché coglierla avviene già nel momento in cui si nota il collasso del sistema, dello schema. Il problema è poi applicarlo. Diciamo che la sicurezza o, meglio, quella che si crede essere la sicurezza che propongono gli schemi, attira di più, almeno personalmente, rispetto all’insicurezza che danno l’originalità e l’inaspettato. È una scelta personale, il modo di vivere varia da persona a persona.
R.C. Lei dice che dobbiamo affrontare la questione degli schemi.
- Riaffrontare? Non è che con un’ora e mezza il pensiero si possa modificare così, facilmente. C’è bisogno di pratica.
R.C. Lei sa che ogni goccia è un contributo all’oceano.
- E per quello volevo ringraziarla, pian pianino…
R.C. Abbiamo la chance di accogliere ciascun contributo possa giungere. Se c’è l’accoglimento qualcosa può sorgere, senza il pregiudizio.
- È un po’ difficile da sradicare, ma ce la si può fare insomma.
R.C. Esatto. Anche il pregiudizio più radicato, se trova la ragione dell’Altro, non la ragione di un altro, per cui uno avrebbe ragione e un altro avrebbe torto, ma la ragione dell’Altro, irrappresentabile, non situabile, da cui giunge la differenza, allora qualcosa d’altro si aggiunge.
- Ci arricchiscono di più gli altri che noi stessi. Noi siamo una fonte piena di risorse, però le risorse che provengono dall’altro sono molto più immediate, più evidenti. Accettarle penso sia la cosa migliore per arricchire anche se stessi.
R.C. Sa qual è l’argomento della volta prossima?
- Farsi vittima, me l’ha appena detto la signora.
R.C. Che ne dice?
- Che è un atteggiamento tipico di parecchie persone. Penso possa risalire all’insoddisfazione personale. Dipende dal paragonarsi agli altri, dall’assumere come criterio, come modello, non se stessi, ma qualcun altro.
R.C. Quindi lei la sa lunga.
- Analizzandoci, analizzandosi, analizzando gli altri diciamo che queste cose… Non che io mi faccia vittima, però delle volte mi è capitato. Poi penso di avere capito perché lo facevo e non è più capitato.
R.C. Per la prossima volta abbiamo molte chance. C’è un’altra domanda?
Pubblico Purtroppo sono arrivato in ritardo, ma mi piaceva riflettere sul titolo che ha scelto, Farsi vittima. Già la vittima indica la passività, ma non è che uno sceglie di essere vittima. Farsi vittima è un po’…
Pubblico Manca il punto interrogativo.
R.C. Non manca niente, non è stato dimenticato.
Pubblico Non so se sono stato chiaro.
R.C. Ho inteso.
Pubblico Mi faceva riflettere l’espressione che lei ha utilizzato: farsi vittima.
R.C. Non entra nella categoria del mobbing che adesso va molto di moda.
Pubblico Anche lo stalking.
R.C. Esatto, sono modi. Ma perché ve lo devo dire oggi, quando abbiamo appuntamento la settimana prossima?
Pubblico Posso dire una cosa sola?
R.C. Assolutamente sì.
Pubblico Prima ha fatto riferimento alla questione dell’ambiguità. Io non ho un livello di preparazione, perché sono una semplice mamma e non ho altro…
R.C. Una semplice mamma?
Pubblico Una semplice mamma, però nel momento in cui non perseguo due strade, o il bene o il male, o mi sposto in due ambiti diversi, che non sto a definire, come riesco a mantenere l’equilibrio? Non l’equilibrio di morte, ma la stabilità nella realtà che il domani mi può già stravolgere, per mantenere comunque la stabilità. Non so se è un termine corretto, però la stabilità…
R.C. Ecco, già le viene il dubbio.
Pubblico Infatti, non mi piace questa cosa, perché se dev’essere una dinamica non ha più senso la stabilità. Però la parola equilibrio, come diceva lei, è associata a uno stato di morte, perché s’intende che non c’è più la possibilità di evoluzione, e questa cosa non mi piace, diciamo l’evoluzione quotidiana…
R.C. Evoluzione?
Pubblico Evoluzione, in quanto comunque la ricerca comporta evoluzione, perché, come diceva anche Francesca, l’idea di avere una versione, una visuale diversa della vita o del concetto, di quello che ti viene sottoposto, cioè la ricerca di questa ricchezza…
R.C. Ecco, però lei ha messo il dito su una questione importante, che è quella dell’evoluzione.
Pubblico La ricerca secondo me consente di evolvere, non necessariamente in qualcosa di fantasmagorico. Secondo me l’idea di conoscere cose nuove è uno stimolo continuo.
R.C. Ma perché l’ipotesi di novità, di qualcosa d’altro di nuovo, per lei corrisponde all’evoluzione?
Pubblico Perché quello che abbiamo acquisito, dettatoci dal nostro passato, nel tempo, non soddisfa. Non è chiaro?
R.C. Perché, per esempio, lei non dice trasformazione, ma evoluzione?
Pubblico Perché – adesso rischio di cadere nell’errore di cui parlava la volta scorsa – ho capito che non mi va, che non mi piace, che non va bene…
R.C. Cosa?
Pubblico Questo che ho acquisito, che ho affrontato, che ho valutato; e qui cado nella presunzione…
R.C. Apparentemente si tratta solo di un termine, ma questo termine trae con sé un’idea. Qui noi non facciamo questioni nominalistiche, nel senso che c’è una parola che va meglio di un’altra. L’uso di determinati termini non è irrilevante per la serie di rappresentazioni, di pregiudizi, di preconcetti e ideologie che questi termini recano con sé. Un termine o un altro non sono casuali, perché indicano anche la traversata.
Giusto per abbozzare la cosa e poi la riprendiamo la settimana prossima, perché mi sembra importante. L’idea di evoluzione è un’idea di origine, magari anche comune, da cui ci sarebbe evoluzione. Ex-volvere: ci sarebbe un punto di origine comune, e da questo parte il cammino che sarebbe il segno di un’evoluzione, di un miglioramento. Sarebbe ancora l’idea di andare verso il bene, ma partendo dall’origine. Questo configura alcuni scenari. Non a caso era un termine caro a Darwin. Ma, a parte il trait d’union dalla scimmia all’uomo – questa sorta di bestialità diffusa di cui ognuno dovrebbe essere latore – c’è un altro panorama che va al seguito di ciò, rispetto all’idea di bene, di origine, di fine. È una questione importante che solo una semplice mamma poteva indicare!
Pubblico Perché ci sono persone così preparate qui, che io abbozzo, perché comunque mi stimolava l’idea…
R.C. Lei pone la questione dell’equilibrio/stabilità, ciò che ne segue e cosa da questo può giungere. È molto interessante e me lo sono annotato.
L’ultima domanda, sì.
Daniela Sturaro Vorrei capire perché i genitori di oggi non smettono mai di fare i genitori che accudiscono i figli, quasi a impedire che ci sia la mancanza; e questo impedire che ci sia la mancanza permette, invece, che ci sia l’insoddisfazione. E d’altra parte i figli non smettono mai di essere figli.
R.C. La questione della famiglia.
D.S. E non solo. La vita.
R.C. Lei dice che questo ha a che fare con i genitori di oggi.
D.S. Oggi, sì. Attuale.
R.C. Lei dice che ha a che fare con l’epoca. Sarebbe un frutto dell’epoca questo maternage a oltranza.
D.S. Sì, non s’è mai visto prima.
R.C. Certo non gravava su Alessandro il Grande.
D.S. Ma neanche su tutti gli altri.
R.C. Su qualcuno magari sì.
Bene, abbiamo alcune traiettorie per mercoledì prossimo.
Seconda conferenza della serie La tentazione
