Pubblicato in “La cifrematica”, n. 8, La chance
IL GERUNDIO, LA COMPLESSITÀ, LA LETTURA
Originaria rispetto all’episteme, che tenta di definire l’origine, delle cose, del mondo, della vita, è la scienza della parola, che assieme alla procedura e all’esperienza costituisce la cifrematica. L’episteme è la reazione a questa scienza, di cui si è avvalso il cosiddetto discorso scientistico.
La scienza della parola originaria è il sacro, viaggio dall’oralità alla scrittura, alla cifra, costitutivo dell’atto di parola. Qui si producono il senso e il sapere, effetti della struttura del labirinto e, nell’intervallo, la verità effetto della cifra. Il viaggio è anche attraversato dal tempo, il cui intervento dispensa l’evento, effetto della cura. Così, l’atto di parola è scientifico.
Invece, l’episteme si situa nel paradosso della circolarità: il sapere è una costante, trasmissibile e viene fatto assurgere a causa della scienza, determinando la scienza del sapere. Diventa la base della possibile competenza del professionista: imparare il sapere diventa imparare il mestiere.
Nella scienza della parola, nulla è saputo, si tratta di capire e intendere l’attuale. E nell’atto stanno l’accadimento, il divenire, l’evento.
Nell’episteme importa il caso generale che si ripete, nella scienza della parola importa il caso particolare, unico, irripetibile. Il caso di cifra. Si tratta dell’altra vita e della vita altra, e del loro modo.
Quanto alla vita, non è questione di sostanza o di concetto, ma di modo: e allora si pone la questione come vivere. E non c’è da aderire all’epoca che prescrive di vivere bene, perché è sospendendo l’idea di bene che si attua la vita, in quel che si fa. Vivere è questione intellettuale. La vivenza esige l’intellettualità. E la sua chance è quanto è da fare in direzione della cifra per la formazione intellettuale, per la clinica, per la cifratica, per via di scrittura, di valorizzazione, di messaggio. È chance l’invenzione della didattica nuova, non fondata sulla verità come causa e sul sapere da trasmettere, ma sull’esperienza della parola. Con essa, ciascuno s’instaura come statuto intellettuale. La chance non è una possibilità, è l’occorrenza gerundiva. Inutile invocarla, pensarla, auspicarla nelle forme canoniche. Interviene all’occorrenza.
Didattica e formazione intellettuale esigono il dispositivo e non già la modalità del dialogo platonico. E sorgono mestieri e professioni nuove. Statuti nuovi per l’altro modo, senza il modello del ruolo sociale da mantenere con il suo compromesso fantasmatico che lo determina. Sono statuti che sorgono dall’esperienza scientifica, secondo l’idioma, senza standard. Il professionismo della coscienza non approda alla qualità.
L’annunciazione, il progetto, il programma stanno alla base dell’altro modo.
L’intervento del tempo avvia l’attuazione: il modo del dispositivo senza più sistema. Il cardine dell’idea di sistema è l’idea di genealogia, presunzione dell’origine vincolata a un filo che codifichi e tracci il cammino. Quest’idea sta alla base della sistematica con la sua cappa costituita dall’idea di morte che permea ogni pensiero.
La sistematica è necessaria alla distribuzione della competenza, fino al ruolo sociale.
Impossibile spiegare, significare l’intellettuale. Disponendosi all’intellettualità, l’esigenza non è più chiedersi gnosticamente cosa ogni cosa sia, ma qualificare ciascuna cosa nel viaggio in corso. Così il sacro mai diventa sacrale, mai può diventare metalinguaggio.
L’intervallo rende la parola complessa. E la complessità risiede nella struttura dell’Altro, sorge quando il fare ha la necessità di scriversi: è, quindi, una proprietà della scrittura. L’idea più comune è che “prima” le cose siano complesse, e quindi risulterebbero difficili, e “poi” diventino semplici, diventando, così, facili. Sarebbe un processo di sfrondamento, di decifrazione, di semplificazione da ciò che renderebbe complesso: alla fine resterebbe l’osso, il nocciolo, la “buona sostanza”, la verità ultima.
La complessità sarebbe quindi un orpello, un impedimento, quel che si frapporrebbe all’unità fra la coscienza e la realtà, fra la coscienza e l’intelligenza di ciò che avviene e diviene. Ma, la verità non sta sotto le cose, non è il frutto di un’operazione archeologica: la verità è un effetto temporale della scrittura della clinica. Occorre, quindi, che la clinica, quale compimento del pragma si sia instaurata.
Per questa via, la complessità allude già alla semplicità, di cui il pragmatico necessita. La complessità della parola allude alla semplicità, all’esigenza di semplicità cui la parola tende. La piega trae al semplice e il semplice è proprietà della clinica. La piega è una proprietà dell’Altro, e l’itinerario della parola nel processo di qualificazione va dal molteplice al semplice, senza abolire l’Altro, senza togliere il molteplice. La complessità s’instaura a un certo punto dell’itinerario.
La complessità esige l’ipotesi di luce, come ipotesi dell’avvenire, prelude all’instaurazione del dispositivo, in cui trova la via della semplicità. Così la clinica si scrive e l’unicum conclude alla cifra. La complessità della parola è in ciascun atto che concluda alla cifra, per la scrittura della clinica, la cui chance è il gerundio.
Occorre indagare, e il modo è quello analitico. Per la complessità, ciascuna cosa esige la scrittura per qualificarsi.
Con la formalizzazione si scrive il testo del viaggio. È un indice che la questione intellettuale si scrive; dall’apertura ciascuna cosa si dirige verso la cifra, nel dispositivo pulsionale.
Nella parola non vige il principio d’inerzia, né l’ontologia. Dal dettaglio si avvia l’indagine, per singolarità, unicità, fino alla proprietà, il cifrema.
Capire, ascoltare, intendere è parte della procedura del viaggio. Impossibile partire dal sapere per fare.
Ma, il discorso accademico disciplinare non può asserire di non sapere senza incorrere nella fantasia di carenza, deficienza, incapacità, debolezza, perché attribuisce il sapere all’essere. Ognuno crede di sapere, vuole sapere, pensa di potere sapere, di dovere sapere, per essere. E al colmo del fantasma materno, il sapere diventa la forma della verità.
Il soggetto della sufficienza si pavoneggia, si gonfia, è tronfio di quel che crede di sapere, quindi non cerca più: perché la ricerca diventerebbe segno di debolezza: il motto di questa assenza di domanda, di questa arroganza è: “Se cerchi è segno che non hai, se cerchi vuol dire che non sai”. Ognuno allora si accontenta di quel che sa, per essere almeno sufficiente a se stesso. All’idea di se stesso.
La psichiatria conferma questa ideologia del sapere, tant’è che poggia sulla concezione ippocratica della salute e insegue ancora, come allora, il male dell’Altro da classificare e da debellare. Non importa capire, ma classificare, togliere, debellare quel male presunto di cui l’Altro sarebbe portatore. La psichiatria consacrando il male dell’Altro, è inquisitoria, in nome di una presunta purezza sociale e mentale; in nome dell’ecologia della mente e dell’ambiente volto in territorio. Essa punta all’ideale della mente pura, senza strane idee, senza pensieri da capire, senza bisogno di sforzarsi di capire. E stabilisce la dicotomia del mentale per esercitare il suo intervento salvifico: ci sarebbero idee sane e idee malate; bisogna purgare le idee malate per restare con le idee sane. E questa sarebbe l’igiene mentale: il monocorde, con la sua cura, l’ablazione del male, la malectomia, fino alla lobotomia. Se fosse possibile, fino alla cerebrotomia. La psichiatria ritiene sia meglio stare senza cervello che con un “cervello malato”. Questa è la mitologia psichiatrica, una delle tante mitologie della liberazione, il cui metodo è tanto sbrigativo quanto inefficace.
Il DSM, il prontuario planetario dei “disturbi mentali”, oggi arrivato alla IV versione e già proiettato verso la quinta, si arricchisce ogni anno di nuove voci: la sua edizione più recente classifica un numero di “disturbi mentali” tre volte più ampio della prima edizione. Perché questa ricerca minuziosa della classificazione dei disturbi? La tassonomia puntigliosa del “disturbo” è l’indice del tentativo di semplificare la questione, di non interrogarsi sulla logica delle cose, ma di accontentarsi dell’aspetto visibile del problema. È l’indice della strategia di abolire la parte narrativa del “disturbo” a favore di un assetto nominalistico, di una lingua universale, che non necessiti di chiarimenti per la cura, ma compenetri l’occhio clinico, la sua osservazione, nella diagnosi: quel che importa è la diagnosi, tanto non c’è cura, ma un auspicato ritorno allo stato precedente il disturbo: la restitutio in pristinum: altro nome del ritorno all’origine, della riunificazione, della sintesi.
Nessuna sintesi è possibile, dato che non c’è sistema e quindi nemmeno competenza sul sistema, che sancirebbe l’avvenuta riunificazione della dicotomia. La sintesi è una proprietà dell’arroganza; trarre le somme, fare la sintesi sono modi dell’algebra per abolire la logica, il tempo, la domanda, la ricerca, l’impresa, lo sforzo.
L’analisi, il processo di qualificazione, i dispositivi intellettuali, traggono al modo intellettuale, senza idea di ritorno, quindi senza conservazione dei pregiudizi intorno all’idea di sé, dell’Altro, all’idea di avere e di essere. L’analisi è dissipazione del pregiudizio: chi ritiene di dovere conservarsi per conservare le proprie idee è il discorso psicotico, quel discorso che tenta di abolire la materia della parola.
Chi è l’autore di quel che si dice, di quel che si scrive? Il nome, innominabile e anonimo, è autore. Anche per via di questo autore la parola originaria è impadroneggiabile.
Il soggetto è la creatura fantastica che è stata inventata come reazione alla parola originaria da chi ha ritenuto inaccettabile non riuscire a padroneggiarla. Così è sorto il discorso di padronanza, come reazione alla logica della nominazione, all’atto della nominazione che è l’atto originario, non inscrivibile in un’economia del senso, del sapere, della verità; non inscrivibile nel finalismo cui è rivolta ogni coscienza “ben funzionante”.
Ma, ciascun atto è originario, non si doppia né si fonda su un altro atto, per quella virtù del principio che è la libertà. Non c’è da affrancare la parola originaria da nulla, nemmeno dal discorso, che è un fantasma di padronanza. L’affrancamento è un’idealità servile.
La lettura restituisce il testo; compie la restituzione con un atto di generosità. Non dice la verità sul testo, non fa un’interpretazione del testo per renderlo funzionale alla visione corrente o alla gestione corrente del mondo contemporaneo, né per espellerlo in quanto non funzionale alla gestione; la restituzione in qualità è in direzione della cifra dell’esperienza di chi fa la lettura. Comporta la candidatura alla qualità, la candidatura allo statuto intellettuale. La candidatura è l’occorrenza costante. La verifica è cifrale quanto la candidatura: il candidato è testimone e il tempo cifra. La cifratura del tempo assicura lo statuto intellettuale: mai il racconto può concludere al fatto, tanto meno al misfatto.
Quel che si dice esige l’ascolto.
Armando Verdiglione, anni fa, riprese a suo modo la questione omerica, in un suo libro, chiedendo chi fosse l’autore dei drammi di Shakespeare, quesito che inquietava Cantor. Impossibile leggere senza che l’autore funzioni nel testo. La questione diventa, con la tripartizione del segno e con la tripartizione dell’esperienza, non solo chi è l’autore ma come il racconto di ogni fiaba si situi nel dispositivo clinico e cifrale e come, con la lettura il caso divenga clinico e di cifra.
Sembra che la questione non fosse estranea nemmeno a Luigi Pirandello, che s’interrogava intorno alla dissipazione del personaggio, di quella “creatura chiusa nella sua realtà ideale, fuori dalle transitorie contingenze del tempo….” come lo qualifica nei Colloqui con i personaggi.
Il personaggio rappresenta la soggettività e descrive presunti fatti e esige, per capirne la vicenda, l’analisi, l’annunciazione, la clinica, la cifratura. Senza più i fatti e il loro realismo.
E Pirandello insiste spesso, a questo proposito, proprio sull’amore e sull’odio.
A cosa si rivolge l’amore? A custodire il parricidio e il figlicidio, ossia il funzionamento della parola. L’amore è anche l’indice della ricerca.
Se, invece, l’amore è inteso come sentimento umano transitivo, può accadere di prendere realisticamente quel che è descritto nell’opera L’innesto di Luigi Pirandello.
Tra amore transitivo e fantasma di violenza la coscienza del personaggio si appunta sull’offesa patita. Il personaggio, senza autore, senza padre, perché negato, avverte repulsione all’idea di un bambino che sta per nascere.
L’innesto è una commedia in tre atti che Luigi Pirandello scrisse verso la fine del 1917. E fornisce lo spunto, per indagare intorno al fantasma amoroso e elaborarlo.
La storia racconta che Laura Banti, sposata da circa sette anni a Giorgio, esce da alcune mattine molto presto per dipingere. Quel giorno tarda a rientrare a casa. Nell’attesa la mamma conversa con un’amica e l’altra figlia. Improvvisamente Laura compare lacera e ferita: è stata aggredita e stuprata nel parco dove si era recata per dipingere. All’annuncio, il marito si dispera, non già per quanto accaduto alla moglie, ma per l’offesa che ritiene di avere ricevuta e dichiara che il suo amore è finito. È impossibile ogni compassione per la moglie, dato che l’offesa è rivolta soprattutto a lui, che è il marito. E si rammarica che la moglie sia ancora viva.
Il secondo atto si apre con una conversazione fra Laura, nella villa di campagna, e il giardiniere che sta facendo l’innesto a una pianta. La conversazione di Laura prosegue poi con una contadina del villaggio, la Zena, attorno a cui in passato c’erano state dicerie per una probabile relazione con il marito di Laura, sospettato addirittura di essere il padre del suo bambino. Dicerie sempre smentite dalla Zena, che attribuiva invece decisamente la paternità a suo marito. Laura insiste nel chiedere la conferma della paternità. Poco dopo arriva Giorgio, il marito di Laura, e Laura accusa un malore. È chiamato il medico. Laura risulta incinta e teme che il marito voglia farla abortire, per cancellare il figlio dello stupro.
Giorgio, infatti ha il dubbio sulla paternità e è propenso all’aborto. E il medico accorso, si dichiara disponibile a praticarlo. Laura si oppone, “per amore”: dichiara di volere lasciare Giorgio e di volere tornare alla casa materna. “Per amore”, allora, Giorgio acconsente a accogliere il figlio. Cala il sipario sulla fiaba.
Questa è la rappresentazione teatrale. Qual è il caso clinico? Come intendere la fantasmatica, l’operazione per cui si narra questa rappresentazione?
Il materiale fiabesco sembra vertere attorno a Laura che prima è stuprata, poi incinta, con la minaccia di dovere abortire: presa realisticamente, si presterebbe alla commiserazione della donna, ancora una volta oggetto di violenza e sopruso.
La lettura clinica e l’ascolto di ciò che il testo dice, consentono di reperire la materia del caso, senza violenza e senza realismo: si tratta di una fantasia, per così dire maschile, intorno alla paternità.
Giorgio, il marito di Laura, dopo qualche anno di matrimonio riceve l’annuncio dalla moglie della sua maternità. Dubita, però, di sé e, quindi, dubita di essere il padre. Ipotizza che Laura lo tradisca con un altro, che sarebbe il vero padre. Da qui la fantasia di stupro, come fantasia di tradimento. Giorgio pensa che possa essere accaduto alla moglie ciò che gli è accaduto in gioventù: aveva una relazione con una contadinella, già fidanzata, che ebbe poi un figlio e si sposò con il fidanzato. Di chi era quel bambino? Di chi è il bambino che ora sta per nascere?
Mater secura, pater numquam.
Laura enuncia che il figlio è suo, ma soprattutto è il figlio dell’amore.
Per via di amore, di parricidio, Giorgio ammette il figlio, avviene quindi il riconoscimento del padre.
La questione verte intorno alla funzione padre e alla funzione figlio. L’amore risulta qui custode del parricidio e del figlicidio.
Si tratta quindi del caso della dissipazione del fantasma di genealogia, nella forma del fantasma amoroso. Nel fantasma di genealogia, il figlio sarebbe il segno dello stupro, il segno della violenza compiuta. Il ricordo di una violenza che non c’è mai stata, ma che è creduta tale. È il ricordo della credenza nell’incesto che si volge nella rappresentazione della violenza subita o compiuta: per il discorso isterico è violenza subita, per il discorso ossessivo è compiuta. E il discorso ossessivo trovandosi dinanzi a una rappresentazione della violenza compiuta deve immediatamente rimediare con una rappresentazione del danno, per cancellare la prima ipotesi.