Diciannovesimo capitolo del volume La realtà della parola
L’invito
Ruggero Chinaglia È noto il titolo di questa sera?
Barbara Sanavia L’invito.
R.C. Ci sono domande? Nel merito o anche rispetto a altre cose. Non solo nel merito di queste cose, ma anche di altre, perché qualcuno potrebbe credere che togliamo il merito, invece no.
Sia nel merito, sia rispetto a altro, mi pare ci sia una certa ritrosia. Non mi sorprende, trattandosi di un argomento così delicato: l’invito!
Patrizia Ercolani Mi era venuta in mente, leggendo, una cosa, sulla questione del lutto e del lavoro del lutto. E mi domandavo se il lutto consiste in quello che si diceva, cioè che si trattava di una fantasia per cui, per esempio, in un amore rappresentato, si giunge alla risoluzione della rappresentazione d’amore, o dell’origine, o dell’amore per il padre o per la madre o per il figlio; e se ciò è proprio quello che Freud dice del lutto, come distacco dall’investimento d’idee rispetto all’oggetto.
R.C. Anzitutto occorre stabilire se lei si riferisce al lutto originario o alla coscienza del lutto.
P.E. Ecco, la domanda completa era se questo era il lutto o se era qualcos’altro.
R.C. Questa era la domanda completa.
P.E. Sì. Se c’è un lutto rappresentato. Di solito c’è una fantasia o la rappresentazione di questo lutto ma, allora, che ne è del lutto originario e di quello che si dice il lavoro del lutto?
R.C. Che si dice… Chi lo dice?
P.E. Chi l’ha letto.
R.C. Ah, ecco.
P.E. L’ho letto e l’ho capito così.
R.C. L’ha letto lei?
P.E. Sì. L’ho letto io.
R.C. L’ha letto lei. Dove l’ha letto?
P.E. Adesso non mi ricordo.
R.C. Non è che possiamo badare a ogni formulazione.
P.E. Anche solo leggendo Freud in Lutto e malinconia, quanto al lutto, mi pare parli di distacco, di disinvestimento rispetto a rappresentazioni intorno all’oggetto.
R.C. Sì, Freud si esprimeva così. Anche lei si esprime così? Perché Freud si esprimeva così nell’‘800, primi ‘900. Adesso siamo nel terzo millennio, lei si esprime ancora così?
P.E. Evidentemente non sono aggiornata.
R.C. Ecco, non ha fatto gli aggiornamenti, che peraltro sono opportuni.
P.E. Perché capisco che c’è anche un avanzamento, nel senso dell’astrazione.
R.C. Esatto, e soprattutto rispetto a quale contributo dia lei a quanto è tramandato dalla letteratura, da modi di dire o da formule.
P.E. Pensavo, come ipotesi, che il lavoro del lutto sia da intendersi a livello linguistico con la rimozione, con l’impossibile.
R.C. Ecco.
P.E. Non so se sia originario questo: la rimozione, con il suo impossibile, dove non c’è rappresentazione di un oggetto, di una origine, di un posto, di un dove. Mi domandavo se è questo l’impossibile, che non ha il suo rovescio, non è rovesciabile in un contrario, in un possibile.
R.C. La questione è importante. E anche calzante, appropriata a questa sera, perché si tratta di partire proprio da questo, dalla rimozione, dalla parola. Dalla parola, quindi dalla rimozione. In questo senso, Freud non aveva torto. Freud è partito da questo.
Comunemente si crede che Freud sia partito dall’inconscio. Non è così. È partito dalla rimozione, l’inconscio segue. Dato che è constatabile che, parlando, nel dispositivo intellettuale, c’è rimozione, allora ne segue che questa è la prima avvisaglia che c’è la particolarità! E questo fa sì che si possa dire che parlare è secondo l’inconscio, cioè secondo la particolarità. Fa sì che questo parlare, in cui si è instaurata la rimozione e con cui si avvia l’altra lingua, sia l’inconscio. La rimozione fa sì che non ci sia più lingua comune.
Ciascuna cosa esige la qualifica, esige la conversazione che non ha più fine, perché l’intervento della rimozione produce incessantemente un altro senso. Non c’è più parola comune, c’è un altro senso, un controsenso. E questo avvia l’auctoritas, avvia l’aumento. Le cose non sono più le stesse, non sono più tali, entrano in un processo con la rimozione. La rimozione è la leva che scardina il sistema delle cose comuni, il sistema delle cose standard, il sistema. E avvia un’esperienza del tutto speciale che è l’esperienza della parola.
Mi è capitato un giorno di chiedere a una persona, nel corso di una conversazione nell’esperienza intellettuale, a che punto si trovasse nel suo itinerario. La risposta fu che ero io a doverglielo dire, ero io che dovevo sapere a che punto, dove, come, si trovasse questa persona, nel corso del suo itinerario. Vigeva in quel momento, per quella persona, la credenza di un’esperienza standard, protocollare, in cui il maestro doveva sapere a che punto si trovasse l’allievo. Vigeva l’idea di un’esperienza standard le cui fasi, i cui passi, dovevano entrare in un protocollo e dovevano essere conosciuti dall’analista, che diventava l’erogatore del protocollo. È credenza peraltro ancora comune, quando il caposaldo non è l’acquisizione di ciò che avviene, con la formazione, con la novità che si staglia in quel che si dice, in quel che si fa, per via del tempo, per via della quantità, per via della qualità.
L’attaccamento all’idea di standard, all’idea di protocollo, l’attaccamento alla soggettività costituisce remora, riserva, rimando all’accoglimento di ciò che avviene nell’itinerario, e favorisce la negazione stessa dell’itinerario, la negazione delle acquisizioni, la propugnazione del soggetto stupito e stupido rispetto a ciò che accade. Negazione dell’itinerario vuole dire anche negazione del programma secondo il progetto di vita.
Quante volte si sente negare l’ipotesi stessa del progetto e del programma di vita: “Io non ho un progetto, io non ho un programma, io sono un soggetto”. Soggetto standard, soggetto per fatalismo, nella predestinazione, soggetto che vive alla giornata, sopravvive alla giornata, soggetto che si rappresenta come corpo morto esposto a un’autopsia. La negazione dell’itinerario, la delega a fare il punto, a capire dove si è situati nello svolgimento della domanda, è la credenza stessa di stare assistendo alla propria autopsia, dove chi fa l’autopsia deve dire cosa vede, cosa c’è nel corpo morto.
L’esperienza analitica non è farsi l’autopsia, né fare l’autopsia del mondo, né l’autopsia dell’ambiente per fare l’elenco delle magagne, dei mali, delle negatività, delle idealità che potrebbero essere riscontrate in sé, nell’ambiente o nel mondo. L’esperienza analitica non è la conoscenza di sé o la coscienza di sé, non è il processo d’imbalsamatura di sé. L’esperienza analitica è esperienza di vita, per la vita, non per la rappresentazione di sé come morto, come imbalsamato, come mummia, come contenitore del bene o del male, di vizi o virtù di cui fare l’elenco per lamentarsi o per fregiarsi o per esaltarsi. Sempre per essere! Tutto ciò vale solo per la creazione del mondo, la creazione del sistema. Ogni creazione ha uno scopo unico, la negazione della parola, in cui non c’è creazione, non c’è creatore, non c’è agente, ma c’è la parola secondo la logica particolare, la parola secondo la sua dissidenza in direzione della cifra.
Nessuna ontologia, nessuna presunzione di conoscenza, ma rischio di qualità, rischio di verità, rischio assoluto. Ogni freno al rischio è la negazione della parola, è l’esibizione di remore, riserve, rimandi contro la parola, per vivere in un sistema. E il sistema funziona inglobando ogni cosa, soprattutto gli scarti, quelli che vengono ritenuti gli scarti. Avete presente l’inquinamento del mondo e del sistema? L’attenzione oggi, ieri e domani, è e sarà rivolta, sempre più, verso gli scarti. Dove mettere gli scarti, che sono sempre più numerosi, sempre più inquinanti? Gli scarti, il business degli scarti. E la preoccupazione è notevole: dove mettere tutti questi scarti che occorre inglobare nel sistema, dato che il sistema è finito? Gli scarti soffocheranno il sistema! Il sistema deve inglobare perché è senza il globale, quindi ingloba sommando. Va da sé che, somma oggi, somma domani, si arriverà alla saturazione. Il globale, l’infinito, l’integrità sono proprietà della parola, senza sistema.
La parola è senza sistema, è asistemica. È integra, è intera. Intero indica già che il sistema non è possibile. Il sistema s’istituisce negando l’intero per dare un limite all’intero, per dare un limite all’estremismo dell’intero, per garantire un’uguaglianza, una parità, per contenere l’estremismo. Per questo sorge il sistema sociale: per il compromesso sociale, la parità sociale, per l’uguaglianza sociale, la mediocrità sociale, per l’appartenenza sociale, la burocrazia sociale, per il mantenimento degli apparati sociali, senza parola, senza pulsione, senza domanda, senza dissidenza. Questo è il sistema sociale, dove si tratta del consumo e della sua economia. La difficoltà, in quanto ineconomica, deve essere bandita dal sistema, che dovrà avere, come cervello, un cervello comune.
La difficoltà nel sistema è un pericolo ineconomico, perché la base del sistema è la condivisione dello standard. E la condivisione avviene attraverso la remora, la riserva, il rimando, che sono remora mentale, riserva mentale, rimando mentale verso tutto ciò che è intellettuale, ossia sessuale, temporale, non ontologico, ossia non inscritto nella mediocrità del sistema, nella burocrazia del sistema, negli apparati del sistema che si fregiano dell’economia della pulsione, del contenimento della pulsione negli apparati della burocrazia come principio regolatore dei loro funzionari, i quali spiccano per negare la parola, anche quando sembrano accoglierla, inglobarla. Appunto, inglobarla! Il sistema non espelle niente. Ingloba anche ciò che apparentemente è antisistema per la completezza del sistema, e ingloba volentieri anche la parola; per contenerla!
La questione intellettuale è sospesa dal sistema con mille alibi, con mille giustificazioni soggettivamente validissime. Ognuno ha la sua giustificazione per sospendere, procrastinare, abolire la questione intellettuale. È troppo difficile, comporta sforzi eccessivi, sforzi vani che non cambieranno il sistema. Le sue modalità, i suoi apparati, i suoi funzionari, i suoi professionisti, non cambieranno gli altri, pertanto, posso anch’io sospendere la questione intellettuale. “E che?! Vogliamo fare gli eroi?”.
Questa sospensione attraverso remore, riserve, rimandi istituisce il rapporto sociale, la rete sociale, un rapporto di equilibrismo tra il bene e il male. Un equilibrismo governato dal pettegolezzo, dal luogo comune, dal consenso, dal buon senso, dal giudizio universale. Il rapporto sociale è governato dal giudizio universale e ognuno è conoscitore, vero conoscitore del giudizio universale perché, chi meglio del soggetto conosce i suoi strumenti, la colpa e la pena, cioè gli strumenti della governance soggettiva?
Il rapporto sociale è l’altra faccia del fantasma di origine, che diventa origine sociale, classe sociale, classe di appartenenza, razzismo sociale per cui il sistema deve pareggiare, e quindi introduce la parità sessuale.
Ognuno può fare quello che vuole sospendendo la questione intellettuale, in nome della libertà di divertirsi. E il divertimento diventa il passepartout di una presunta libertà sociale che s’ispira alla moralizzazione tra il bene e il male, la quale deve venire somministrata con gli strumenti soggettivi della colpa e della pena.
Va da sé che, una volta sospesa la questione intellettuale, l’esperienza intellettuale, l’esperienza della parola, di cosa parlano i soggetti dediti all’autopsia? Parlano dei propri acciacchi! Parlano di quel che non va, dei fastidi, dei mali dell’Altro, del lavoro, della vita: i mali del mondo. Parlano dei mali. Il soggetto è autentico, profondo conoscitore dei mali: sociali, di sé, dell’Altro. Quindi, si rivolgono al divertimento e a una presunta idea del piacere conosciuto, da avere tutto e subito, perché l’avvenire è negato. Perciò è impossibile costruire il programma secondo il progetto, perché il soggetto non ha progetti, non ha programmi, non ha tempo. Il soggetto non ha e non è. Il soggetto ha queste caratteristiche: non ha, per cui è soggetto della miseria, e il soggetto non è, per cui è soggetto della povertà.
Questi sono i soggetti senza la rimozione. Il soggetto può lamentarsi di quello che non ha, e che sarebbe invece necessario. Quello che non ha è proprio quello che sarebbe necessario per conseguire quella cosa. E poi, è esperto di quello che non è, altrettanto essenziale per giustificare quello che non può fare e non può conseguire. Soggetto che non ha, soggetto che non è.
Va quasi da sé che l’avvenire è fuori discussione. Il tempo è sempre lì lì per finire, per cui non si può nulla:“Adesso è troppo tardi, che fare? Impossibile”. “Non ho, non sono”. Remora, riserva, rimando mentali, cervello comune, complicità comune, consenso comune, luogo comune, mentalità comune: la mente comune.
Su una cosa i soggetti sono costantemente d’accordo: sul lamento. Lamento comune su ciò che non hanno e su ciò che non sono. Lamento su che cosa? Sui frutti che non ci sono. “Purtroppo c’è la carestia, ci si aspettava anni di opulenza, di raccolto copioso e invece niente, siccità e carestia”! Se lo sforzo è contenuto, se la parola è negata, se l’itinerario è negato, se l’esperienza di parola è negata a favore del mantenimento delle remore, delle riserve, dei rimandi soggettivi e mentali, perché, lamentarsi dei frutti che non arrivano? I frutti sono come i talenti. Nessuno li può avere. Nessuno li ha. Sono da usare.
I talenti all’occorrenza entrano in gioco, intervengono. Non perché uno li ha nello zainetto, ma perché l’occorrenza lo esige. E, allora, nel dispositivo interviene anche il talento. E i frutti sono della stessa natura: all’occorrenza intervengono. Ma se l’occorrenza è evitata, rimandata, economizzata, espulsa addirittura per un contenimento dell’urgenza, della domanda, come pretendere che, abolendo l’occorrenza, tuttavia, talenti e frutti ci siano lo stesso? Non sarebbero più frutti, sarebbero ontologia, dotazioni standard. Non sarebbero né talenti né frutti, ma dotazioni dell’apparato.
Si tratta dell’apparato allora, non più della parola, non più dell’itinerario, non più della questione intellettuale, si tratta di un’altra cosa. Si tratta della soggettività umana, della vita umana, della vita sotto il segno della mortalità, sotto l’idea della mortalità, cioè della vita che nega l’infinito, nega la domanda all’insegna del possibilismo, dato che il soggetto si assegna i suoi limiti per motivi che giustifica ampiamente.
Posta l’idea di origine, che deve ricalcare o che si specchia nell’idea di destino, il soggetto ha i suoi limiti. Questa è la mentalità della ragione sufficiente, la mentalità del sistema. Questa è la mentalità dell’apparato, con i suoi funzionari burocratici, ossia senza pulsione, senza domanda e senza forza che fanno quello che possono. Ognuno fa quello che può!
Fare quello che si può, come dice il proverbio, sono capaci tutti. Così, sono capaci tutti! Fare quel che si può è un quantificatore universale: tutti fanno quello che possono accumunandosi nella sopravvivenza. C’è bisogno di scomodare l’inconscio per fare quello che si può? C’è bisogno di scomodare la parola? C’è bisogno di dispositivi intellettuali per fare quello che si può? Basta il domestico, lo zoo, il sistema. Basta il mondo. Nel mondo ognuno fa quello che può! E poi, quando arriva la propria ora… Ognuno attende la propria ora facendo quello che può, perché, di più, non può. Questa è la burocrazia!
La burocrazia non può fare di più perché è scaduto il tempo, l’orario, non c’è la possibilità; la pratica è da un’altra parte, nel cassetto, sopra, è fuori mano, fuori portata. Non si può fare perché il lavoro è tanto, e facciamo quello che possiamo: l’apparato sociale sistemico si autogiustifica.
Badate, non alludo alla pubblica amministrazione, no. Ognuno nel suo piccolo, come diceva Abatantuono nel film Gli amici del bar Margherita, ognuno, nel suo piccolo, vive nell’apparato sociale sistemico e fa quello che può, nel suo piccolo, senza pulsione, domanda, spinta, senza tempo. Subendo quel minimo male necessario che è indispensabile per tutti, perché “Vorremmo fare di più, ma purtroppo abbiamo i nostri limiti”, i limiti della sufficienza, senza domanda.
La ragione sufficiente è senza domanda, spinta, forza. È nello standard, quindi senza ipotesi di valore. Questa ragione sufficiente è senza ipotesi di valore. È nella media, sta nella media. E nella media non c’è valore. Il valore è ciò che va oltre la media, cioè in direzione della qualità, senza la media. Non c’è il valore medio, è un controsenso: o c’è la media o c’è il valore! Senza ipotesi di qualità la parola è bandita e ci sono tutti i mali, le negatività, le impossibilità, le remore, le riserve, i rimandi.
Tolta l’ipotesi di valore, sono privilegiati remore, riserve e rimandi con tutte le rappresentazioni che da questo procedono, con tutte le angosce, le coscienze morali, le idee di sé, dell’Altro, le idee di diventare questo o quello, le idee di essere. Idee che occupano ogni pensiero, annichilendo la domanda. Non instaurano dispositivi queste idee di annichilimento, queste idee di soggetti della miseria e della povertà, di soggetti dell’avere e del non avere, di soggetti dell’essere e del non essere. Tutti molto impegnati a attribuire il proprio naufragio alle manchevolezze altrui, della sorte, del destino, dell’Altro, alla negativa del tempo, che è sempre lì per finire o che è già finito o che finirà.
E allora, qual è la sede dell’invito? Può darsi l’invito in questo contesto mondano, senza parola, senza domanda, senza pulsione? Abbiamo più volte indagato l’invito, la sua natura, intorno al perché, per alcuni, costituisse impedimento, per altri, nonostante la profusione, venisse respinto, e per altri risultasse impossibile formularlo, e dovesse rientrare nell’omertà.
Abbiamo indagato, analizzato, e ancora analizziamo, com’è opportuno che sia, dato che è proprio della questione intellettuale l’invito, il quale è sessuale, trae alla vita, alla vita altra, trae alla vivenza. L’invito, dove si tratta del transfert, dell’annunciazione, della memoria e della sua scrittura. Invito che non è mai erotico. Solo il soggetto della riserva mentale può credere che l’invito sia erotico, che possa trattarsi dell’invito a visitare la propria collezione di farfalle o a mostrare l’orlo delle mutandine. No, l’invito è alla vivenza, al dispositivo pragmatico. L’invito è invito alla parola, non è finalizzato a qualcosa che finisce, com’è nel caso dell’erotismo. L’invito è rivolto a qualcosa che non finisce. Non è l’invito a una cosa, a quella cosa, a quella volta. È l’invito all’altra vita, è l’invito alla parola nella sua esperienza, senza remore, riserve, rimandi. O non è. Non è invito.
Nell’invito si tratta dell’amore e dell’odio non transitivi, non coniugabili. Non è l’invito a quella cosa di cui ognuno ha vergogna o pudore, perché se la rappresenta come cosa finita, come cosa erotica. Alcuni chiamano invito anche questo, ma non è invito. É la rappresentazione delle proprie riserve verso qualcosa o verso qualcuno. L’invito sta nella forza, nella forzatura. Non si rivolge al consenso, a chi è d’accordo. (D’accordo su che?). L’invito è pulsionale. Non è questione di volontà, di desiderio, di volere, di piacere. L’invito sta nella forza della domanda. Senza la forza, senza la domanda, senza la forzatura non c’è invito. C’è complicità, una complicità di sistema, un rapporto sociale che nega la domanda, una cosa comune.
L’invito di cui si tratta, non è l’invito di trovarsi al bar a ubriacarsi, quello è una prescrizione comune, un destino comune. É nell’epoca. L’invito è contro l’epoca, senza l’epoca, oltre l’epoca. È per fare qualcosa di straordinario, non per assistere a qualcosa e poi finirla lì. Quello è un invito del cavolo. Un invito erotico non è un invito.
L’invito è pragmatico, per fare, per instaurare dispositivi. Esige la pulsione e la sua causa, la voce. L’invito non è tanto per dire o tanto per fare, è invito al viaggio. Non può ispirarsi al criterio geometrico o algebrico con l’idea di fine, di atto unico, di atto finito, come impone ogni approccio erotico.
L’approccio erotico è ben rappresentato dal rapporto con la prostituta. Non c’è nessun invito nel rapporto con la prostituta, che è ispirato al concetto di sopravvivenza sociale, al rapporto sociale, al sistema sociale.
Invito senza forza? Invito senza domanda e senza sessualità? È la prostituzione! Rapporto sociale: negazione dell’invito. Si tratta d’invitare qualcuno a vedere qualcosa, quella volta? No! Si tratta di un invito al viaggio, a un’altra cosa, a una cosa mai vista, mai stata prima. È invito intellettuale, provocazione intellettuale. Si è mai constatata una domanda senza provocazione, una domanda senza sembiante, una domanda senza causa? E può darsi invito senza sembiante, senza la causa, senza la parola? Vuol dire prendersi in giro credere una cosa del genere, fare la parodia del soggetto stupido. Il soggetto è solo stupido e vive nello stupore. Aborrisce la forza della domanda perché la allucina come stupro. E vive stupito, nello stupore, stupendosi. La vita del soggetto è nella stupidità.
È così attraente?
L’invito è al dispositivo pragmatico, al dispositivo cifrematico, senza mezzi termini, senza riserve, remore, rimandi, senza idiozia, stupidità, credenza nella malattia mentale, che è sempre la propria; giustificando ogni mentalità con la ragione sufficiente, perché giustifica il soggetto debole, malato, incapace, il soggetto che non regge, che non è in grado di reggere o di fare. Non è in grado! L’invito esige l’ipotesi di valore, di cifra, la scommessa.
L’invito non è “tanto per dire”, nel possibilismo, “se va, va”. Quello è l’invito di cortesia che non si può negare a nessuno. Rivolto, perché sia rifiutato, da un soggetto all’altro, da un funzionario all’altro. L’invito di apparato, che si scusa di arrecare eventuali turbative all’immobilità del soggetto in questione.
Tolto l’invito, quale sessualità? Ognuno sopravvive nel suo recinto, nell’isolamento. Perché ci sia dispositivo, perché ci sia insieme, impresa, ricerca, è impossibile stare nel recinto. Essenziale la formulazione dell’invito.
Mi pare che di materia ce n’è. Verifichiamo. Forse c’è qualche domanda.
Sabrina Resoli Diceva che l’invito sta nella forza e nella forzatura. E lo sforzo intellettuale in questo ambito, come si pone al riguardo? Perché, appunto, c’è anche lo sforzo.
R.C. Lei dove lo mette, dato che c’è?
S.R. Io lo metto accanto alla forza.
R.C. In un angolino, lì, riposto.
S.R. Oltre alla forza, anche lo sforzo. La forzatura poi, non l’avevo mai sentito come termine messo accanto.
R.C. Ecco, perché “Dio me ne guardi”, no? Dio mi guardi dalla forzatura! Che magari il soggetto si stanca, si sfinisce, si esaurisce! Il soggetto è passibile di esaurimento, no? L’epoca dell’esaurimento ancora non è finita, in effetti. Nonostante la parola, nonostante noi, l’epoca dell’esaurimento ancora non è finita. Come mai questo accade, nonostante noi? Lei, se l’è chiesto questo? Se lo chiederà domani?
S.R. Me lo chiedo anche adesso.
R.C. Se lo chiede anche adesso. Secondo lei, come mai, nonostante noi, l’epoca dell’esaurimento è ancora in auge? Esaurimento, magari, è una parola un po’ delicata, ma possiamo anche dire l’epoca della burocrazia. Cambia poco. Secondo lei, perché quest’epoca è ancora in auge?
S.R. Azzardo un’ipotesi. Perché la via facile, del discorso comune, sembra essere più a portata di mano, rispetto allo sforzo, alla forzatura, a tenere conto della pulsione, della domanda. Apparentemente più facile, per comodità, lasciarsi andare, adagiarsi e credere che il soggetto sia effettivamente presente, efficace, limitantesi, accogliendo la burocrazia e credendo che la burocrazia sia quello che gli spetta, la possibilità.
Perché, un’altra questione, è proprio quella non dell’impossibile, ma del possibile. Quando lei diceva, o almeno a me viene in mente di dire “Faccio il possibile, più di questo non posso fare, mi limito al possibile”, e l’impossibile dov’è? Non c’è, sembra non porsi, perché se dico: “Faccio il possibile, più di così non posso, non riesco, non sono in grado”, ma l’impossibile dov’è?
R.C. È già lì l’impossibile. La questione non è tra possibile e impossibile; non è una partita tra possibilità e impossibilità, ma tra l’occorrenza e il suo modo. Già mettersi a pensare se è possibile o no, è una remora.
S.R. Nega il mettersi in gioco.
R.C. L’occorrenza è pragmatica, e lì si tratta del fare, senza la possibilità o il possibilismo. Si tratta del modo. Quello è da trovare. Trovare il modo! L’occorrenza esige questo, non di stabilire prima se è fattibile o non è fattibile, se è possibile o se non è possibile, se sono in grado o se non sono in grado. Tutto ciò è autoerotismo. Esiste anche quello, che indicava adesso come stare a pensare. È il rapporto di sé a sé, ciccì e coccò. Io ciccì o io coccò?
S.R. Faccio o non faccio?
R.C. È il caso o non è il caso? È bello non è bello, è buono non è buono?
S.R. Ce la farò o non ce la farò?
R.C. Tutto ciò è autoerotismo. È per contenere lo sforzo. Se c’è sforzo, quindi forza, domanda, pulsione, spinta, tensione, rivolta al compimento alla conclusione, alla clinica, alla cifratura, allora non c’è questo apparato di contenimento.
Altri? Sicuramente Sofia ha una domanda da fare.
Sofia Taglioni Stavolta no.
R.C. Come no?
S.T. È difficile oggi.
R.C. Non a caso. Abbiamo toccato un tasto delicato?
Vanni Francescato Forse perché…
R.C. Vanni, prego.
V.F. Forse perché, anche nella società attuale, tutto ha un valore economico. E questo, comunque, ha un limite. Tant’è vero che, proponendo un compenso, il limite si supera. Tante cose, pagate in altro modo, permettono di superare il limite. Anche al lavoro c’è chi dice: “Non si può fare”, perché “Sto troppo tempo e non sono pagato”. L’obiettivo non è svolgere, raggiungere la cifra, il valore di ciò che si fa, ma raggiungere esclusivamente un valore economico, ridurre il tutto al valore economico.
R.C. Non è detto che non debba esserci, anche, un aspetto economico e finanziario.
V.F. Certo, ma alle volte si trascurano altri obiettivi, gratificazioni intellettuali.
R.C. Intellettuale non vuol dire gratuito. Non vorrei che ci fosse questa equazione: intellettuale, allora gratuito.
V.F. Forse ho capito male.
R.C. Il valore va in molte direzioni.
V.F. Quando si fa qualcosa, ne traggo non solo un valore economico, ma anche un valore…
R.C. Certo, il guadagno è intellettuale, di varia natura, c’è questo, c’è quello. Ciascuna cosa non nega l’altra, chiaro.
V.F. Al giorno d’oggi, mi sembra, che il benessere economico sia più importante del benessere di una persona. I soggetti s’individuano, si rilevano mediante lo stato economico di una persona, quindi tutti puntano a vedere cosa sono.
R.C. Esatto. In effetti, un aspetto della conferenza di questa sera riguardava l’abbondanza e la ricchezza, che svolgeremo la prossima volta dato che…
V.F. Non c’è tempo.
R.C. No, no, il tempo c’è, ma abbiamo concluso a questo punto. Ma lei giustamente ha colto che c’è anche questo aspetto, bene. Intanto Sofia ha ragionato e è arrivata a formulare, no?
S.T. Sì, ma non è niente di speciale. Ho pensato che occorre l’invito per una ipotesi di valore, ma la cosa che mi chiedevo: e l’invitato? L’invitato è l’invito? Cioè, invitato e invito sono la stessa cosa?
R.C. Interessante questa cosa.
S.T. Cioè, l’invitato non è colui che ha ricevuto l’invito, ma è colui che lo ha fatto secondo la questione della parola.
R.C. Quindi la questione è: chi è l’invitato? A chi si rivolge l’invito?
S.T. No, ma comunque, se all’invitato è rivolta la domanda, in realtà è come se avesse lui l’invito, come se la domanda fosse verso di lui. È lo stesso esempio che ha fatto all’inizio del suo interlocutore, nel momento in cui lui le ha chiesto qual è il suo viaggio, la sua esperienza. Un po’ la stessa cosa, nel momento in cui lei le ha posto questa domanda, le ha posto l’invito, lui, da invitato, ha risposto, ma di conseguenza se l’è posta a sua volta.
R.C. Sì, chiaro. Non è una questione di coppia invitante-invitato, ma anche l’invito è un dispositivo. Non è una specularizzazione, un rapporto, non è erotismo, in questi termini. Bene, interessantissimo. Chi ancora? Sanavia sta ragionando.
Barbara Sanavia Mi sarei espressa se avevo…
R.C. Si sarebbe espressa, quindi se non si esprime…
B.S. E invece no.
R.C. Però, può esprimersi, anche senza essersi già espressa.
B.S. Forzatamente non mi va.
R.C. Ecco, sarebbe forzatamente, così, per partito preso. Però stava riflettendo su una cosa.
B.S. No.
R.C. No, non vuole.
B.S. Non voglio dovere dire per forza qualcosa. Se ho qualcosa di valido, lo dico.
R.C. Preferisce essere un soggetto libero.
B.S. Libera, semplicemente.
R.C. Libera di volere, se o non se!
B.S. Non è serata.
R.C. Ecco.
B.S. Indipendentemente dal titolo.
R.C. E allora chi?
Giampietro Vezza Mi domandavo…
R.C. Ecco, Giampietro.
G.V. Se quando c’è l’invito, è possibile accettarlo o non accettarlo. Oppure, quando c’è l’invito, in realtà, non c’è più scelta, perché proprio l’invito, come dispositivo, non è una scelta, è qualcosa che s’instaura, interviene.
R.C. Esatto, non è alternativo.
G.V. Non c’è un’alternativa. E possiamo dire che, tra i dispositivi, l’invito è il preambolo all’incominciamento. Per quello che ha precisato lei prima, è qualcosa che riguarda l’amore, che ha a che fare con l’invito.
R.C. Chiaro. E con l’odio. Perché solo con l’amore, potrebbe anche essere suscettibile di rimando. Ma, certamente, esige l’amore e l’odio.
Bene, quindi lei ha colto questo.
G.V. Lo avevo colto nel piccolo intervallo del last minute dell’invito della mail che è arrivata; intervallo piuttosto breve.
R.C. Avendo colto questo, occorre non indugiare più.
G.V. Ci sono tante cose questa sera per le quali non c’è necessità, ma occorre riflettere.
R.C. Occorre fare. Esatto. Sì, Patrizia.
P.E. Sì, se precisava intorno all’intero, all’integrità della parola, di cui diceva prima. Non so se ho capito bene, perché c’è l’integrità del sembiante che si dice intero. Qualcosa che il sistema ingloba, porta dentro e ne fa qualcosa di statico. Ciò mi fa pensare all’adiacenza di qualche altra cosa, non credo che faccia somma.
R.C. Chiaro.
P.E. Allora la inglobalizzazione farebbe la somma delle cose che vanno o non vanno, da scartare, da tenere, da buttare dentro o buttare fuori. L’adiacenza cosa fa? Aggiunge, ma senza…
R.C. Sommare, senza sommare. L’integrazione è l’adiacenza senza sommazione.
P.E. Senza sommazione, non riesco a capire; allora sarebbe l’eccedenza, il di più?
R.C. È il pleonasmo.
P.E. E è l’adiacenza? Cioè, il pleonasmo è una cosa di più, da dove viene questo di più?
R.C. Viene dall’intero.
P.E. È questa l’adiacenza? Per capire.
R.C. Perfetto. Molto bene. Giorgio Fornasier, c’è qualche notazione? Sabrina Resoli.
S.R. Due termini ho appuntato questa sera: uno è lo scarto, l’altro è la forzatura. Mi chiedevo se l’idea di scarto è nel sistema, perché nella parola non c’è lo scarto. C’è il resto forse; insomma era intorno a questo scarto, che, appunto, l’adiacenza rende impossibile. Non c’è scarto, non c’è nulla da scartare nella parola, perché non c’è niente da purificare. Ciascuna cosa è senza scarto.
R.C. Bene. Maria Luisa Biancotto?
Maria Luisa Biancotto Manca il punto.
R.C. Manca il punto? A cosa manca il punto?
M.L.B. Nel senso che mi sembra, questa sera, un discorso sospeso. Così come l’invito non ha chi inviti, non ha chi ha invitato, che è la questione di fondo dell’itinerario di ciascuno e quindi, come si diceva, con chi il percorso, per cui il fare. Si è parlato di questa cosa e la sento come discorso sospeso.
R.C. In effetti sì.
M.L.B. Ecco manca il punto, nel senso della concretezza. Da dove parto, in questo senso? Tutto bene, ma qui, che cosa?
R.C. Quindi è in sospeso, in attesa di ripresa.
M.L.B. No, è in atto. In qualche modo è in atto.
R.C. È da capire in quale modo. Bene. E dulcis in fundo allora, niente po’ po’ di meno che Fernanda Novaretti. Sì?… Come? Non ho sentito bene.
Fernanda Novaretti Eh lo so, quella cosa dell’invito […].
R.C. Sì, e tutto il resto.
F.N. Dell’occorrenza, mi sembrava.
R.C. Quella cosa non eludibile. Esatto, talenti e frutti. E itinerario! Perché sarebbe pretenzioso esigere frutti senza l’itinerario in corso, nel suo corso; in atto. Nel suo svolgimento e nella sua domanda. Domanda che non è una volta per tutte, ma è domanda in corso.
Bene, ho annotato altre cose e le possiamo riprendere e proseguire la volta prossima. La volta prossima è il 14 che, nonostante un certo invito a prendere la Bastiglia, siamo riusciti a barcamenarci e essere qui. Il 14, mi pare, ci sarà anche un intervento di Moda, giusto? Allora ci vediamo il 14, subito dopo la presa della Bastiglia. Perché è stata presa prima delle 21, quindi prima prendiamo la Bastiglia e poi veniamo qui.
Pubblico È l’anniversario.
R.C. C’è l’invito a prendere la Bastiglia! Bene. Grazie e arrivederci.