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Quarto capitolo del libro L’educazione

L’amore del padre e l’odio della madre

Ruggero Chinaglia Questa sera è con noi il dottor Sergio Dalla Val, psicanalista a Bologna, e sarà lui che introdurrà al tema di oggi: L’amore del padre e l’odio della madre.

Intanto, colgo l’occasione per segnalarvi il corso: La scuola e il progetto di vita, che si terrà presso l’Istituto Selvatico, in Largo Meneghetti a Padova, il 15 e il 16 marzo, sabato pomeriggio, domenica mattina e domenica pomeriggio.

Abbiamo considerato sin qui, in particolare la settimana scorsa, alcune questioni inerenti all’amore e all’innamoramento. Abbiamo accennato anche, proprio un accenno, alla questione del narcisismo. Oggi proseguiamo esplorando alcuni aspetti clinici intorno alla questione dell’amore e dell’odio, di come l’amore interviene nei vari discorsi, della fantasmatica che l’oggetto possa diventare prendibile e che sia l’oggetto a soddisfare la pulsione. Tutto ciò per indicare qual è il solco in cui si situa l’intervento di oggi.

Sergio Dalla Val è psicanalista a Bologna da molti anni, ha fondato e dirige un’associazione culturale, dirige la “Libreria-galleria del secondo rinascimento”, dove sono ospitati, di volta in volta, avvenimenti anche a carattere internazionale, è un esperto di corsi rivolti alla formazione e all’aggiornamento in vari ambiti e in vari settori. Gli cedo volentieri la parola.

Sergio Dalla Val Sono contento di trovarmi qui presso di voi, con voi, perché mi sembra che, oggi, porre alcune questioni agli insegnanti sia un modo essenziale per contribuire non solo all’aspetto della formazione e dell’insegnamento, ma direi alla civiltà stessa, visto che ho sempre scommesso nella mia pratica e nella mia esperienza sulla questione della formazione e dell’insegnamento come questione essenziale per il destino stesso della parola.

Si tratta evidentemente di corsi non accademici, ma di riflessioni e considerazioni che provengono dalla pratica clinica e dalla lettura del testo della psicanalisi, testo che è nato esattamente cento anni fa.

La parola psicanalisi, voi sapete, è stata usata per la prima volta da Freud nel 1896 e, certamente, da allora le cose non sono più come erano precedentemente. Anche molti aspetti della realtà apparentemente ovvi, apparentemente scontati, che si situavano nel filone del pensiero filosofico o pedagogico, hanno dovuto trovare un’altra articolazione, un’altra elaborazione.

Prendiamo per esempio il titolo dell’incontro di oggi: L’amore del padre e l’odio della madre. Può risultare un titolo sorprendente perché, secondo il modo di pensare occidentale o comune, noi diciamo secondo la fantasmatica occidentale, si tratterebbe del contrario. L’odio viene spesso accostato al padre e l’amore risulterebbe una prerogativa materna.

Il discorso occidentale ci propone una relazione con il padre conflittuale, violenta, aggressiva. Fa del padre il portatore di questi “valori” e, invece, ci propone un’idea della relazione con la madre in termini amorosi, affettivi, e vede nella relazione madre-bambino il prototipo della relazione d’amore, della relazione d’oggetto, di cui forse avete parlato le volte precedenti.

Invece, Freud, a partire dalla pratica psicanalitica, ascoltando il discorso isterico, elaborando la ragione occidentale, si trova a constatare che le cose non sono propriamente così. Rileva che è una mitologia quella per cui il bambino si scontrerebbe con il padre o fuggirebbe dal babbo per rifugiarsi tra le braccia della mamma, oppure il fatto che, ahimè, ha spesso molta incidenza nei tribunali, che la madre sarebbe garante dell’amore, della protezione e dell’assistenza, mentre il padre avrebbe altri valori, spesso aggressivi, spesso violenti.

Freud l’ha constatato, prima di tutto, con i suoi studi sull’isteria. Si accorge che nei casi di analisi del discorso isterico, tutta una serie di situazioni che il discorso isterico enuncia, pongono al centro della logica delle relazioni la questione del padre. Cioè, il discorso isterico accentua in modo deciso e assoluto, sia rispetto alla formazione del sintomo, sia rispetto a una teoria della identificazione, una questione concernente il padre.

Articolando alcune fantasmatiche, per esempio della signorina Emmy Von N. oppure di Anna O., oppure di Dora, concernenti il padre, elaborando magari un dettaglio, un ricordo di una scena con il padre, accadeva che il sintomo che si scriveva addirittura sul corpo, che aveva un’incidenza anche in termini di paralisi, di contrattura, di impossibilità di parlare o di nutrirsi, si svolgeva e si articolava. Ciò consentì a Freud proprio una teoria della parola e del linguaggio, da cui sorse la psicanalisi.

È emblematica la situazione in cui un sintomo che da anni affliggeva una ragazza, e cioè una paralisi alla mascella, si sblocca nel momento in cui la ragazza ricorda una situazione in cui le fu rivolto un epiteto in modo deciso, e che lei avvertì, né più né meno, che come uno schiaffo morale, uno schiaffo al volto. Chiaramente, la metafora risultava determinante per questa sorta di iscrizione del sintomo sul corpo. Ecco, dunque, che un’umiliazione, un gesto rude, una situazione che risulta una sorta di schiaffo morale, nel discorso isterico si scrive come sintomo, sottolineando così la portata che ha il sintomo isterico, e cioè una portata linguistica, una portata comunicativa. Sembra, quasi, che qualche cosa che non si è riusciti a dire prima, e cioè: “Non ti sopporto perché il tuo modo di trattarmi è quello di prendermi a pesci in faccia (un’altra metafora) o di darmi degli schiaffi morali”, si dica attraverso il corpo. Per cui, quello che sottolinea l’isteria è quasi una sorta di linguaggio arcaico, un linguaggio in cui il corpo stesso comincia a comunicare. Dico arcaico perché è evidente che noi abbiamo del linguaggio l’idea che evolva passando dall’immediatezza del gesto corporeo, a una simbolizzazione attraverso le parole. L’isteria sembra soffrire di problemi di simbolizzazione, cioè non riesce a formulare linguisticamente una questione, ma solamente gestualmente e corporalmente.

Ecco che Freud scopre che, forse, il sintomo isterico non è costituito da altro, lui dice, che da parole che non giungono a dirsi, che non riescono a formularsi, che però non vengono negate, ma si dicono attraverso il gesto, l’atto e il corpo. E si accorge che non sono parole casuali, che non sono formulazioni qualunque, ma che c’è sempre una questione legata a una fantasmatica, a una situazione che porta e mette in gioco una scena, un ricordo, una fantasmagoria inerente al padre!

Nel discorso isterico il padre è inteso molto spesso come padre mancante, padre deludente, padre carente, per cui per un verso chiaramente rifiutato, criticato, ma per un altro verso, proprio per questo motivo, ancora più amato, ancora più desiderato, come se proprio la carenza del padre fosse vissuta come un qualche cosa che avvia la vicenda dell’amore nei termini di una logica del desiderio. Infatti, è tipico del desiderio il girare attorno a una carenza, a una mancanza. Per cui il padre impossibile diviene ciò che situa l’amore in un’impossibilità, ciò che fa sì che il gesto stesso di negazione venga colto come gesto di rilancio del desiderio.

Per questa via, come forse avete accennato le volte precedenti, ecco che vi è un’oscillazione del discorso isterico tra l’amore e il desiderio, proprio perché sembra che all’amore resti il destino di ruotare attorno a un impossibile. Effettivamente, abbiamo visto che c’è un impossibile nel discorso isterico, cioè l’impossibilità che qualcosa giunga a dirsi, e che questo qualcosa è legato alla figura del padre. È un qualcosa che pone in questione una vicenda di amore e desiderio.

Ma Freud riprende la questione del padre in un altro saggio molto noto, nel quale dice qualcosa dell’amore che si avvicina alla qualificazione di amore della cifrematica, cioè l’amore come custode del parricidio. In questo senso abbiamo dato come titolo L’amore del padre.

Cosa vuole dire custode del parricidio? Freud, nel 1910, scrive un libro che si intitola Totem e tabù. In quegli anni compie un itinerario importante, era giunto a scoprire l’inconscio, la rimozione, l’impossibilità di traduzione delle parole, la rimozione come particolare del discorso isterico, e si accorge che altre situazioni esistono grazie all’esistenza della rimozione. Trova che il sogno funziona anch’esso secondo una modalità di rimozione e che, per esempio, negli atti mancati, nei lapsus, nelle dimenticanze c’è un funzionamento che è molto simile a quello che accade nel discorso isterico. Poi trova che anche nell’arte possiamo trovare la stessa questione e, cioè di qualcosa che non giunge a dirsi direttamente, ma che ha bisogno di una sorta di traduzione, di trasposizione, cioè trova una vicenda metaforica per riuscire a comunicare.

Vediamo l’esempio tipico della poesia. È evidente che io potrei dire benissimo “Ah, questa mattina è bellissima, luminosa, eccetera”, però non avrei poesia. La poesia sorge quando il poeta dice: “Mattino, m’illumino d’immenso”. Voi vedete la portata della metafora e della catacresi nella poesia. Non dicendo che il mattino è bello, che la vita è bella, tutte cose che risulterebbero banali perché dirette, immediate, ma facendo intervenire una metafora, ossia una traduzione che mette in gioco altri termini, ecco che il contenuto che non viene enunciato, e cioè che la giornata è molto bella, viene sommamente evidenziato. Questo è il procedimento della metafora.

Se dico “Giovanni è un coniglio”, voi capite chiaramente che è molto più efficace che dire “Giovanni è una persona paurosa”. Curiosamente, dicendo coniglio, io non dico che la persona è paurosa, cioè questo termine è cancellato, però, tanto più è cancellato tanto più risulta evidente. Per cui io uso il termine coniglio, ma nessuno pensa a coniglio, pensa a pauroso. Quel che non dico, si dice in modo ancora più forte.

È un po’ la questione del sintomo isterico. L’esigenza di comunicare ciò che è risultata una delusione amorosa, per esempio, non si dice direttamente, ma si dice in modo addirittura più forte, bloccando la mascella. E anche nella questione dell’arte, l’artista riesce a dire delle cose straordinarie, e che ci colpiscono molto, proprio perché non le dice in modo diretto, ma le allude in quel che enuncia.

Ciò spiega anche perché l’arte è molto sostenuta dai regimi di solito, perché il regime ha bisogno non tanto di un ideologo, cioè di qualcuno che dica “Bisogna sostenere la classe al potere, eccetera”, ma ha bisogno di chi lo evidenzi in modo immediato, in modo metaforico, in modo quasi corporeo, icastico. Ecco allora il realismo socialista, per esempio. Oppure pensiamo alla chiesa cattolica, che sapendo che era difficile spiegare il Vangelo ai poveracci del medioevo, esortava gli artisti a dedicarsi alla raffigurazione.

Anche l’immagine, voi sapete, è una sorta di metafora, tant’è che le metafore sono chiamate immagini retoriche. C’è un aspetto metaforico nell’immagine, una sostituzione per cui quello che viene enunciato è lì, ma per enunciare qualcosa che non viene detto, e che si dice proprio per questo in modo ancora più dirompente.

Il funzionamento della rimozione, la funzione di sostituzione, in cui quel che si enuncia è ciò che propriamente sembra non essere detto, che sembra essere negato, Freud lo trova anche nell’arte, nella vita di ciascun giorno, nel motto di spirito, nel lapsus. Notate che l’equivoco ruota spesso attorno a una metafora. Pensate a uno dei motti che cita Freud. Due ebrei si trovano davanti a un bagno pubblico e uno dice: “Hai preso un bagno?”, e l’altro risponde: “Ma perché, ne manca qualcuno?”. Chiaramente, vedete che l’equivoco gioca sul senso metaforico del termine prendere, cioè nel senso di portare via e come metafora del farsi un bagno.

Ecco che, giocando sulla metafora, sorge non solo la poesia, ma anche l’umorismo. È per questo che Freud compie degli studi sull’umorismo, non certo per spiegarci le barzellette. Oppure compie degli studi sull’arte, ma non certo per criminalizzare l’artista, ma per dire che l’inconscio esiste non solo nei casi della nevrosi o della psicosi, ma in moltissimi aspetti della vita e dell’esistenza.

Ma ecco che scrive Totem e tabù, il cui sottotitolo è Alcune concordanze psichiche tra i selvaggi e i nevrotici. È un libro importante. È stato accusato di essere un libro antropologico, non clinico. Sembra servire a spiegare alcune usanze antiche, usanze di popoli ancora presenti ma, appunto, quasi dei relitti storici nella foresta Amazzonica o in Africa, e paragonarle così alla nevrosi, quasi a indicare – è stato letto così, purtroppo – che i popoli primitivi sono popoli incivili, non ancora nevrotici e dunque ancora arcaici, diversamente da noi emancipati.

Non era questo l’intento di Freud ma, forse, quello di constatare come spesso nella nevrosi e nella vita di ciascun giorno siano constatabili arcaismi, situazioni che, più che degne di una civiltà, sono degne del totemismo, sono degne di una mitologia tabuica, sono degne delle credenze magiche, animistiche, ipnotiche.

È constatabile come ciascuno che non si attenga alla logica della parola rischi di mettere in atto situazioni che non sono altro che superstizioni e arcaismi. In questo senso è essenziale leggere questo libro, anche per analizzare alcuni aspetti della società. Ma non è per questo che noi ne parliamo quest’oggi, ma perché tratta del mito del padre e, in particolare, del mito del padre primitivo. Per giungere a capire la connessione tra l’amore e il padre dobbiamo riprendere il mito del padre primitivo.

Questo mito dice che in tempi antichissimi, nella preistoria, la vita si svolgeva nell’orda, nella così detta orda primitiva, cioè vi era un padre geloso, violento, possessivo, che teneva presso di sé le donne, sia la madre, la sua compagna e sia le figlie e scacciava i maschi man mano che questi crescevano. Freud non dice il perché. A un certo punto narra che i maschi cacciati si coalizzano e uno di costoro, o più di uno nella coalizione, divenuto più forte del padre, lo uccide e ne prende il posto. Ma cosa accade a questo punto? Freud dice i figli che compiono il parricidio, l’uccisione del padre, per il momento non distinguiamo tra i due termini, si trovano a dovere amministrare a loro volta il branco. Finalmente sono felici, non c’è più il tiranno, possono prendersi le donne, ma subito comincia l’inghippo.

Una delle funzione del padre era di organizzare, di dirigere, di comandare le relazioni tra i membri del clan e, in effetti, morto lui, il rischio è che i fratelli si accapiglino tra loro, comincino a uccidersi tra loro, comincino a spartirsi le donne, ma uno vuole questa e magari vuole anche quella. Ecco, allora, che comincia il conflitto e si instaura la situazione che Hobbes chiamerebbe homo homini lupus, per cui i fratelli si scontrano tra di loro.

C’è poi la questione della madre che, chiaramente, è oggetto ben più mitizzato, ben più cercato delle sorelle, e se in qualche modo le sorelle possono essere spartite, di madre, come dice il detto, ce n’è una sola, per cui la lotta per la madre diventa la logica stessa del fratricidio. E allora che fare? Dice Freud: “Evidentemente, sorge così il contratto sociale”!

Vi ricordate del contratto sociale di Hobbes, Jung e altri? In fondo Freud è un contrattualista, cioè pone all’origine della civiltà, come noi la conosciamo, un contratto sociale, un patto. Questi uomini, per non uccidersi tra di loro e per regolamentare la società, fanno un patto, dice, un patto tra fratelli in cui si proibiscono a vicenda, grazie alle leggi, alle norme e alle regole, quello che prima il padre proibiva loro e, in particolare, si interdicono la madre, che deve essere assolutamente intoccabile per ciascuno dei fratelli, e si dividono equamente, a ciascuno la sua, le donne.

Con questo Freud spiega il sorgere delle regole, delle leggi, ma non solo. Egli dice che altre due vicende vanno a fortificare il patto. Abbiamo delle prove, scrive, delle supposizioni, delle congetture che i fratelli non solo uccisero il padre, ma anche lo divorarono. Perché? Perché, evidentemente, questo era un modo per appropriarsene, per farlo proprio. Lo divorarono, attenzione, spartendoselo proprio bene. A ciascuno spetta il suo bottino, potremmo dire noi. C’è un corpo ucciso da mangiare e se lo dividono, questo non solo perché a ciascuno vada la sua parte di bottino, ma perché in qualche modo ciascuno si senta partecipe dell’atto che ha compiuto.

Ammettiamo pure che siano stati due o tre quelli che l’hanno ucciso, e che uno solo abbia vibrato il colpo mortale, ma ciò che conta è che, poi, ciascuno deve mangiare di questo corpo, quasi per distribuirsi la responsabilità. Come dire: “Ma io non ho vibrato il colpo”, “Sì, però anche tu eri lì e ti sei preso la tua parte di premio” e, evidentemente, anche la parte di responsabilità e di colpa.

L’implicazione di questo gesto, di questa scena, è che in qualche modo ciascuno diventa quello che mangia secondo il principio tipico dei selvaggi, dice Freud, ma anche di alcune superstizioni nevrotiche. Per ciò, ciascuno mangiando un pezzo di padre avrebbe la possibilità di essere lui un padre, avendone preso la reliquia, il frammento, il pezzo, e può dire: “Beh, anch’io posso essere padre nella misura in cui ho partecipato al banchetto di coloro che si sono spartiti la sostanza-padre”. Ciò può sembrare molto strano, ma nemmeno tanto visto che, ancora oggi, si ritiene che quello che mangiamo diventa parte di noi.

Non più tardi di quindici giorni fa parlavo con il più grande geriatra vivente, Antonini, fondatore della geriatria italiana, il quale diceva che, per evitare l’ossidazione procurata nei processi metabolici dai radicali liberi, occorre prendere antiossidanti e faceva l’esempio della buccia delle mele. La buccia delle mele è una pellicola protettiva che protegge le mele, tolta la quale si ossidano immediatamente. Raccomandava di mangiare le mele con la buccia, perché la buccia delle mele, come protegge le mele così protegge noi.

Ora, io ho qualche dubbio che ciò che vale per le mele valga per noi! Si tratta dell’idea che mangiare voglia dire diventare in qualche modo quello che mangiamo, essere quello che mangiamo e che ciò che mangiamo divenga parte di noi.

Ruggero Chinaglia Il principio cannibalico, da cui procede tutta una mitologia cannibalica dell’inintellettualità, è ciò per cui si dice “Questo testo non l’hai digerito bene, non hai assimilato bene ciò che hai letto, non hai studiato al punto da assimilare”. La mitologia del cannibalismo funziona anche per ciò che riguarda lo studio, l’apprendimento, la lettura, dove viene in qualche modo scambiata la quantità per la qualità.

Perché il cannibale si ciba del corpo del nemico? Più che per una questione di nutrizione, per carpirne le qualità! Se il nemico era coraggioso, mangia il nemico e diventa coraggioso più del nemico, perché al suo coraggio aggiunge quello del nemico.

C’è una modalità del divenire per cannibalismo, cioè per assimilazione, per assunzione della qualità che starebbe nella sostanza. E questa è una credenza che ancora oggi, pur senza cibarsi delle carni dei propri simili, funziona attraverso altri modi, sempre credendo che si tratti di assimilare qualcosa, di carpire una qualità che sta nella sostanza anziché giungere alla qualità per quel processo di qualificazione, per quello sforzo intellettuale che sta nella ricerca.

Ciò è solo un accenno evocatomi dal riferimento che faceva Dalla Val, però è qualcosa che è tuttora molto in vigore nei modi di dire che trovano propagazione anche nella scuola, che poi però si scrivono come modi di fare, come modi di pensare. Noi possiamo dire che nella nostra società è assolutamente in vigore un cannibalismo bianco che è, appunto, la credenza di potere assumere le cose anziché acquisirle. C’è questa differenza, su cui vi invito a riflettere, tra l’acquisizione e l’assunzione, su cui magari torneremo.

È chiaro che l’educazione avviene per acquisizione, non per assimilazione. Non si darà mai il caso che qualcosa venga assimilato. È per un processo di acquisizione che l’educazione si scrive e giunge a compiersi, mentre, occorre dire, è riscontrabile una modalità d’impartire l’educazione che fa riferimento alla modalità cannibalica, cioè per introiezione, per assimilazione. C’è tutta una certa gergalità, anche della psicologia, per cui ci sarebbe l’introiezione, l’assimilazione, che sono figure del cannibalismo, modalità che fanno capo a quell’arcaismo di cui vi diceva prima Dalla Val, che è il caso, più che di prendere a pacchetto, di indagare per svolgere.

S.D.V. Giustamente, il dottor Chinaglia ha sottolineato questo aspetto portando un esempio dell’attualità di questo testo, ma potrebbero essere veramente tantissimi. Freud, se letto con attenzione, non tratta certo dei selvaggi, ma proprio di alcuni nostri arcaismi.

Dicevo che l’assimilazione passa attraverso la comunanza di sostanza. E la comunità è proprio come una sorta di assimilarsi dei membri tra loro, divenire simili e assimilarsi, assimilando una comune sostanza. Ora, non vogliamo aprire troppe parentesi, ma voi capite che tutto il discorso della droga e della comunità potrebbe situarsi a questo livello perché, non a caso, se voi ricordate, la droga entrò proprio negli anni Sessanta come rituale collettivo, come rituale di comunità. Oggi, magari, ci si reca nelle comunità credendo o cercando di sdrogarsi. Negli anni Sessanta ci si recava per drogarsi. Cioè, c’è l’aspetto del cibo comune, dell’assimilare la stessa sostanza per assimilarci a colui che mangiamo, nonché di assimilarci tra noi avendo mangiato la stessa cosa. Non è un gioco di parole, ma ciò è proprio strutturale!

Ecco perché Freud dice: “Affinché la società stesse in piedi – la società secondo il modello occidentale, secondo le mitologie occidentali – dobbiamo presupporre non solo che il padre fosse stato ucciso, ma che ci fosse anche questa forma di cannibalismo, questa assimilazione”. Ma emerge anche un’altra conseguenza, che cosa accade? Accade che occorre che ciascuno si ricordi che non può più pretendere di essere lui il padre, non può più pretendere di avere una funzione di autorità. Occorre che tutto sia distribuito, e occorre mantenerne il ricordo ripetendo una volta all’anno, simbolicamente, questo gesto di assassinio e di banchetto totemico. Per cui, dice Freud, avviene che presso i popoli primitivi, o anche presso i selvaggi contemporanei, l’animale che viene proibito, che è tabù per tutto l’anno, una volta all’anno venga preso, ucciso e divorato. Si sottolinea con ciò che nessuno deve più commettere parricidio, salvo una volta all’anno in cui si fa una grande festa, e in cui si ripete la scena del parricidio proprio per inscriverla in un ordine sociale. È la festa consentita, diciamo, dal momento in cui, per tutto il resto dell’anno, nel periodo feriale, questo rito non deve ripetersi. Il padre è stato ucciso, nessuno deve più essere ucciso, i fratelli non devono più uccidersi. Si può parlare di uccisione solo nel momento della festa. E Freud dice che ciò spiega perché molte feste si risolvono in banchetti.

Voi direte, ma cosa c’entra tutto questo con l’amore? Questa sembra piuttosto una storia di aggressività, di conflitti, di assassinio, di messa a morte. Cosa c’entra con l’amore? Ebbene, se andiamo a guardare, c’entra.

Freud chiama “obbedienza postuma” il fatto che i fratelli, a un certo punto, si proibiscono da soli quello che il padre prima proibiva loro, per cui a un certo punto dicono: “Qui, benissimo, non abbiamo più di mezzo il padre, ma come facciamo? Dobbiamo attenerci alla sua legge, perché, in effetti, tutto sommato, consente l’andamento della comunità. La sua legge diceva di non toccare la madre e, se noi non ci proibiamo la madre, qui succede il massacro. Il padre dava degli elementi di una legge, e noi prendiamo la sua legge come legge per tutti, non più la sua persona ma la sua legge”.

Freud si trova a enunciare la formulazione: “Per via di obbedienza postuma e per via di senso di colpa, il padre morto divenne più forte che da vivo”. Come dire che, guarda caso, l’elemento che viene eliminato, l’elemento che viene fatto fuori, pensando così di non averlo più tra i piedi e di potere fare ciò che si vuole, è poi l’elemento che in termini di senso di colpa, in termini di problema sociale, in termini di necessità di rifarsi alla sua legge è quello che più determina il nostro modo di vivere.

Allora, si può dire che c’è quanto meno un’analogia tra quello che dico adesso e quello che dicevo rispetto al funzionamento della rimozione, e cioè che nella rimozione l’elemento tolto di mezzo viene evidenziato. Nella metafora, addirittura, succede che l’elemento tolto di mezzo, e cioè la parola fifone che viene sostituita dalla parola coniglio, alla fine risulta evidenziato dalla parola coniglio, non eliminato, per cui se io dico coniglio voi intendete ancora di più fifone. È lo stesso procedimento che Freud trova alla base del padre primitivo. È constatabile, dice Freud, che il padre tolto di mezzo, il tiranno messo a morte, alla fine comanda più da morto che da vivo. Potremmo dire che l’elemento rimosso diventa più presente di prima.

Così Freud legge la questione della struttura della rimozione a livello della società: la legge procede dalla metafora, dalla rimozione, dalla sostituzione. Cioè, miticamente, prima c’è un padre, postuliamo che prima ci fosse qualche cosa, poi c’è un’uccisione e l’uccisione, però, non toglie di mezzo il qualcosa che c’era prima, ma è la base perché questo qualche cosa si riproponga.

È il meccanismo stesso dell’autorità, diremmo oggi. Qual è la differenza tra l’autorità del genitore e il senso di autorità che ciascuno può pensare di avere? Se, per esempio, voi vedete una persona che non passa con il rosso perché davanti al semaforo c’è un vigile, pensate: “Beh, non è che costui abbia un senso di rispetto per l’autorità, semplicemente ha paura della punizione, tant’è che se non ci fosse il vigile, magari, passerebbe con il rosso”. Voi capite che questa persona è come il selvaggio davanti al padre, cioè dice: “Io non faccio questo perché altrimenti il babbo mi ammazza”.

La vera autorità sorge quando tu, a un certo punto, ti poni una legge, segui una regola, una norma, uno statuto anche se non c’è il padre vivo che ti dà il colpo in testa, ma perché, per dir così, l’hai introiettata, direbbero gli psicologi! Ma, giustamente, il dottor Chinaglia poneva in discussione l’uso del termine introiezione, anziché del termine identificazione.

Infatti, parlare di assimilazione o di introiezione dell’autorità sarebbe come dire che l’autorità, la legge, la capacità di attenersi alle regole che, per esempio, dovrebbe sviluppare il bambino a scuola, dipendono dal cannibalismo, dovrebbero dipendere dalla capacità di assimilazione, come dire che, tanto più ti comporti da padre responsabile, tanto più hai assimilato il padre morto. Tanto più l’hai ucciso, tanto più sarai responsabile.

Invece, cosa ci dice la psicanalisi? La distinzione importante da capire, che mi rendo conto essere difficile, è tra messa a morte del padre e parricidio. Quando dicevo che l’amore è custode del parricidio, mi riferivo a questa differenza. Mentre comunemente si dice che la società si fonda sulla messa a morte del padre, cioè sull’aggressività, sul conflitto e sul suo superamento e, cioè, su forme di rappresentazione e inscenazione dell’odio, noi diciamo che la società procede, per dir così, dall’amore in quanto custode del parricidio.

Ma l’amore da dove sorge? Sorge dalla rimozione, cioè sorge dal fatto che qualcosa non giunge a formularsi, qualcosa resta impossibile, qualcosa è preso in una struttura di uccisione, ma non nel senso che io uccido il padre, ma nel senso che il padre, non più presente nella sua persona, mi rilascia una legge.

Vi faccio un esempio molto semplice. Il grande drammaturgo Arrabal, in una conferenza disse una cosa molto bella. Gli chiesero: “Ma lei com’è che è un uomo così battagliero?”. Voi sapete che Arrabal è spagnolo di origine, e quando imperava in Spagna il generalissimo Franco, gli scrisse una lettera aperta in cui denunciava tutti gli orrori di quel regime, che allora era abbastanza tollerato dalle nazioni civili, creando uno scandalo e naturalmente facendosi moltissimi nemici. Ancora negli anni in cui Cuba era vista come un mito del socialismo reale, cioè fino a poco tempo fa si può dire, è stato il primo a scrivere una lettera a Fidel Castro in cui denunciava la persecuzione degli omosessuali, delle donne, la fame, la persecuzione del dissenso che c’è a Cuba e che è innegabile che ci sia, al di là di essere filocastristi o filoamericani, non è questo il problema. Cioè, ha sempre preso delle posizioni decise, audaci, generose, pagando di persona, tanto che è stato accusato ora di essere troppo di sinistra dalla destra, ora di essere fascista dalla sinistra. Per cui le sue opere sono state spesso bandite dai teatri. In Italia non sono state mai rappresentate. Nel periodo in cui rappresentavano soprattutto Brecht, in quanto c’era tutta una serie di mitologie dell’arte per il popolo, per il socialismo, lui è stato totalmente boicottato.

R.C. Come Ionesco.

S.D.V. Come Ionesco, come altri. E allora disse: “Ma io da sempre mi trovo in una battaglia e sono spinto da una ragione molto semplice. Mio padre, un giorno, stava tornando a casa dal lavoro e mi hanno raccontato che, svoltando un angolo della strada, è stato catturato e portato via dalla polizia segreta. Però, io non l’ho visto morto, io non ho visto il suo cadavere. Io non so se veramente è morto. Io penso che, chissà, da qualche parte del mondo potrebbe essere ancora vivo. Potrebbe essere ancora vivo e un giorno io, che giro per questo motivo in tutto il pianeta – se voi chiamate Arrabal, oggi è a Padova, domani è a New York, dopodomani è a Parigi, poi inaugura una cosa a Mosca, quindi è a un congresso a Palermo, è veramente uno che ha fatto del pianeta e delle questioni di ciascun popolo la sua questione – mi aspetto in ciascun posto dove vado, un giorno, svoltato l’angolo, di trovare mio padre lì”.

Attenzione, dice: “Io trovo mio padre lì e lui mi dice: Sai, io sono stato via, io ho fatto la battaglia, io ho combattuto, mi hanno preso ma non ho ceduto, non ho tradito i miei amici – il padre di Arrabal infatti non ha parlato. Suo padre aveva delle posizioni molto importanti, però a seguito del suo arresto, probabilmente fatto per farlo parlare, non ci sono stati altri arresti o tradimenti – io non ho tradito, volevano uccidermi e sono scappato. E tu che cosa hai fatto?”.

Arrabal dice che, incessantemente, a partire da questa domanda che suo padre vivo potrebbe porgli, trova che qualunque cosa faccia gli sembra poca cosa e ha deciso che deve sempre combattere ciascun giorno contro il tiranno, contro il nemico, contro l’ignoranza, contro la stupidità, contro la malvagità, per potere dire a suo padre: “Ecco, vedi, io ho fatto questo”. Poi conclude dicendo: “In fondo, mio padre, non essendo più stato con me, mi ha fatto il regalo migliore che potesse farmi”.

Voi capite che in questo caso non è Arrabal che l’ha ucciso, non c’è stata una messa a morte, però il padre non c’è più fisicamente. E tanto meno c’è la sua presenza fisica, però, tanto più per Arrabal ha funzionato una presenza intellettuale, ha funzionato una presenza come provocazione, come messa in questione. Leggiamolo secondo i termini che dicevo prima. Potremmo dire che il padre non è stato rimosso da Arrabal, non è che lui l’abbia cacciato “Padre t’ammazzo, padre ti elimino, ti affronto e ti uccido”.

Leggevo un altro dettaglio, non si sa se inventato, e anche un po’ più orripilante, che dice, invece, di una messa a morte del padre. Qui siamo tra signore, per cui possiamo raccontarlo senza pudore. Leggevo di Dalì che aveva spessissimo questionato con il padre al punto che non lo volle più vedere. A un certo punto, a vent’anni, lo dovette incontrare. Suo padre lo fece chiamare e lui lo affrontò. Appena lo vide, si slacciò i pantaloni e si masturbò, prese il prodotto nelle mani e lo lanciò in faccia a suo padre dicendogli: “Tu mi hai dato questo e io ti rendo questo”.

Tutt’altro atteggiamento nei confronti del padre rispetto a Arrabal. Qui c’è un padre vivo, un padre che intralcia, ma non perché, poverino, lui sia vivo e debba farsi fuori. Evidentemente è un padre troppo vivo nel fantasma del figlio, che non lo sopporta, che non lo ammette e che lo vuole morto in un affrontamento, in una aggressività.

Ma questo non è il padre nell’accezione che si pone nella psicanalisi. Il padre che si pone nella psicanalisi è il padre come funzione, non come presenza. È rispetto alla presenza che il figlio può costituirsi come ribelle in un affrontamento. È dinanzi al padre come soggetto che il figlio si fa soggetto-figlio e dice “Io soggetto-figlio devo uccidere il soggetto-padre”.

L’esempio di Arrabal è utile per intendere qualcosa della funzione di padre, cioè per intendere come il padre, per dir così, morto, nel senso che non è lì presente, diventi più forte che da vivo. Il padre, se fosse stato presente, avrebbe potuto conculcare al figlio dei valori, però magari per questo motivo il figlio l’avrebbe odiato, e a questo si pensa parlando di odio nei confronti del padre. Invece, il padre di Arrabal ha instaurato dei valori, per dir così, proprio nella sua assenza.

Cosa ci insegna dunque il padre? Ci insegna che la funzione di assenza, quella che i matematici chiamano funzione di zero, non è una funzione inesistente, ma è una funzione ancora più importante, certe volte, della presenza fisica, del corporeo, dell’attaccamento corporeo, dell’attaccamento sostanziale. La funzione di zero è la rimozione!

Perché Freud indaga la rimozione? Perché dice: “Benissimo, a me interessano le cose che sono qui presenti, mi interessa che tu dica questa cosa, ma mi interessa anche quello che si omette in quello che tu dici. Perché mi va bene che tu mi dica che Giovanni è un coniglio, ma devo avere presente che tu, dicendomi che è un coniglio, mi dici anche quello che non mi dici in modo manifesto, cioè che Giovanni è pavido”.

Infatti, se io non avverto la metafora, cioè se non mi interrogo su quel che si dice in quel che mi dici, non capisco assolutamente nulla e ti vengo a dire: “Ma non è mica vero che Giovanni è un coniglio: ha due gambe e due braccia come noi”! Ecco la funzione dello zero. Per questo se vi capiterà di leggere un libro di cifrematica troverete sottolineato che la funzione di padre è la funzione dello zero, è la funzione della rimozione. È questa funzione che vale a indicare la portata di come ciò che si metaforizza, per dir così, entra in una assenza. E ciò conta moltissimo.

Ma, cosa c’entra questo con l’amore? Il “problema” è che l’amore è questa cosa qui! Se voi togliete dall’amore il sentimentalismo, il vogliamoci bene, il rispetto, l’amorevolezza, che cosa resta dell’amore? Quello che ci insegnano i poeti!

L’amore è una interrogazione attorno al non, attorno allo zero, attorno a quello che ci manca! Quando uno ama, non ha mai abbastanza. L’amore non è mai indice di una presenza, l’amore è la marca di un’assenza!

Leggiamo gli enunciati del discorso d’amore: “Tu mi manchi!”, “Non mi basti mai!”, “Io sono nulla per te!”. Non è un qualcosa che dica “Oh, come ti godo!”, “Oh, come mi sei presente!”, “Oh, tu…!”. No! Viene sempre indicato che c’è una funzione di zero.

Finché c’è la funzione di zero, quella che la psicanalisi chiama funzione di rimozione, l’amore sta in piedi e ve ne rendete conto anche nelle vostre famiglie, nelle vostre relazioni. Quand’è che dura e sta in piedi la faccenda dell’amore? Sta in piedi, sia il matrimonio, sia la relazione, sia il fidanzamento, sia la così detta coppia, finché voi dite “C’è ancora qualcosa da dire, finché non abbiamo detto tutto, finché c’è ancora parola, finché non c’è la pienezza”. Quando, invece, sembra che tutto sia presente, tutto sia conosciuto, cioè non ci sia più rimozione come noi diciamo, quando sembra che tutto sia completo, è evidente che l’amore sembra venire meno.

L’amore ruota attorno a un non dell’avere. Chi ha tutto non ama! Si dice spesso così. Tant’è che si dice “Ho perso il gusto per la vita, non amo più nulla”, “Ma, se hai tutto?”, “Proprio perché ho tutto!”. L’amore ruota attorno a un non dell’avere, ruota attorno alla rimozione. Ma questo non dell’avere è il non avere il padre, per dir così. Questo non sottolinea che il padre non ce l’hai mai abbastanza. Chiaramente, l’amore rifugge la pienezza, rifugge il “ho tutto”, rifugge il “non ho bisogno di niente”.

E ciò giustifica che l’isteria dica che l’amore ha a che vedere con il desiderio. È proprio perché, dinanzi a questo “non ho”, l’isteria aggiunge “Però desidero”. Ecco, questo è il giro in più che toglie di mezzo il godimento, perché questo “non ho”, proprio perché è dell’ordine dello zero, non è il “non ho niente”, perché dire che ci sono zero cose, non vuole dire che c’è niente. Lo zero è importante.

È la questione del non. Voi sapete che la logica di questo secolo ha esplorato la questione del non. Pensate, per esempio, alla negazione. Come faccio io a negare qualcosa? Non va da sé, dice Frege. Analizziamo l’enunciato “La chimera non esiste”. Innanzitutto, per dire che non esiste, dobbiamo pur pensare che in qualche modo esista, perché io posso dire: “Ma tu cosa intendi dirmi dicendomi che la chimera non esiste? Che cos’è la chimera?”, “Beh, sai, la chimera è quell’animale fatto con la testa di leone, poi c’è una testa di…”, “Ma come? Tu la descrivi così bene! Ma allora c’è!”, “No, non c’è!”, “Ma come fai a dirlo?”. Per cui, per un verso non c’è, per cui dico che la chimera non esiste, che nessuno ha la chimera, che nessuno è la chimera. C’è un non. Chimera uguale non chimere esistenti, uguale zero. Per cui zero chimere ci sono!

Però noi, per dire zero chimere, dobbiamo avere ben precisa l’esistenza della chimera, parliamo della chimera, possiamo addirittura baruffare se la chimera è fatta così o cosà. Come dire che non esiste solo perché non ce n’è un’unità e per di più visibile?

Per cui, dire che non esiste il padre solo perché mi dicono che è morto, mi dicono che non lo vedo più, non ne vedo la sua unità o la sua persona, non è ammissibile. Dice Arrabal: “Mio padre mi rilascia la sua funzione anche con la sua assenza”. La chimera, per me, funziona come mito anche se io non ce l’ho mai presente e visibile.

Voi capite l’importanza di ciò. Quando Freud parla dell’inconscio non dice altro che questo: che non sono solo le cose visibili che contano perché, con la rimozione, moltissime cose non sono più visibili, ma esistono. Questo, credo che abbia delle implicazioni anche nella scuola, nell’insegnamento. Per esempio, capita di frequente di sentire questo luogo comune: “Purtroppo qui i genitori non sono mai presenti. Il padre è sempre via e il ragazzo ha dei problemi perché il padre non lo segue”. Così il padre intanto si colpevolizza. Poi si mette a fare un po’ la mamma che segue il figlio maternamente. Magari fanno mezza giornata per ciascuno, perché qualcuno sia sempre presente, perché non è giusto che il padre sia assente e la madre presente.

Ecco, attenzione! Il padre c’è proprio in quanto funzione! Cioè, importa non il padre in quanto presenza ma in quanto funzione. E voi sapete che anche nell’etimo, oltre che nella matematica, funzione ha in sé l’idea di uccisione, tant’è che si dice “funge da”. Se questo funge da qualcos’altro è perché questo qualcos’altro non è qui.

Il simbolo funge da qualcos’altro, ma in questo modo ne evidenzia l’assenza, tant’è che Lacan dice che il simbolo uccide la cosa, tant’è che si dice che l’intelligenza dell’uomo, la cultura dell’uomo, sta nel fatto di riuscire a simbolizzare le cose, per cui a un certo punto, anziché ucciderti fisicamente, ti dico che ti vorrei morto. Si dice “Ha simbolizzato nelle parole”.

Chiaramente, è un fenomeno di astrazione, ma è anche un fenomeno per cui il simbolo fa sì che non occorra che ci sia la presenza della cosa. Voi capite che quando si dice che uno muore per la bandiera, non muore per quel pezzo di stoffa, muore perché la bandiera è simbolo della patria e sa che se perde la bandiera è persa anche la terra. E a sua volta, forse, la patria è simbolo di qualcos’altro, di ciò che nella patria magari non c’è, per esempio il figlio, o gli avi che magari sono morti, per cui non ci sono neanche più, però, dice, io combatto per la mia terra. È simbolo di tutte queste cose.

Allora capite che il padre è una figura simbolica, non tanto una presenza fisica. Questo dobbiamo sottolineare, e è importantissimo anche per divenire padre, per dir così, per avere una funzione di padre nella famiglia. Non basta essere il babbo per situarsi nella funzione di padre. E non occorre neanche!

Si dice “Eh poverino, in quella famiglia i genitori sono separati”. Un altro problema che ogni tanto mi pongono gli insegnanti. Sì, mi dicono, lei parla del padre e della madre, però molti ragazzi hanno una famiglia distrutta. Ma com’è possibile se questo tipo di famiglia oramai in Emilia-Romagna non esiste più? Il 70% dei bambini nelle classi sono figli di famiglie miste, vivono con la madre o con il padre e poi, dopo, il padre o la madre si risposano e hanno altri figli. Insomma, è tutto un guazzabuglio di genitori.

L’altro giorno arriva un ragazzo da me, sta finendo il liceo e deve scegliere la facoltà universitaria e io gli dico: “Con i genitori come va?”. Risponde: “Ah, benissimo, ne ho quattro!”. Chiaramente, si potrebbe obiettare sull’importanza di un papà e di una mamma biologici. Invece, è proprio per questo che la psicanalisi può essere utile, perché se la psicanalisi ci dicesse che ciascuno deve avere un papà e una mamma, allora con tutto questo guazzabuglio ciò non sarebbe più possibile.

Ma, appunto, la psicanalisi indica che, anche se ci sono quattro genitori o se ce n’è uno, occorre che comunque qualcosa della funzione del padre e del mito della madre, che adesso vedremo, si instauri.

E la funzione del padre è il simbolico, è la funzione dello zero, è il fatto che le cose sono importanti non per la loro presenza ma per il loro funzionare in una sostituzione. È il venire meno del realismo, perché appunto, se io sono realista, dico: “Ma cosa me ne frega della bandiera, me la calpestino pure! A me interessa la mia terra”. Ma, non capisci che perdere la bandiera è già avere perso la terra? Tant’è che Lacan, a proposito del detto o la borsa o la vita, afferma che il pavido può dire: “Va beh, chi se ne frega, io perdo la borsa e mi tengo la vita”, però, che vita è se ti hanno tolto la borsa? Perché è evidente che la borsa è anche un simbolo della tua vita, va al di là della borsa in quanto tale. È l’uomo senza qualità che pensa così.

Poi, c’è chi addirittura ne fa uno status symbol! E questo è un problema. Quando il simbolo passa a status symbol è come se avesse perso il rimando alla funzione che sottende, e valesse solo per il riconoscimento sociale. Lo status symbol è un simbolo che vale non in quanto ti rimanda al padre, ma in quanto ti fa bello nei confronti dei fratelli! Né più né meno.

Se Arrabal facesse quanto fa per essere lodato dai fratelli, la sua battaglia sarebbe uno status symbol. Invece, la sua battaglia, noi diciamo, è per valori simbolici e fa gesti altamente simbolici, cioè fa gesti che sono non realistici ma che rilasciano un messaggio di valore, sono metafore di qualità. E l’amore, dicevo, sta proprio qui. Se volete, c’è dell’amore nel gesto di Arrabal, ma non di amore caritatevole.

Noi potremmo dire che è un gesto d’amore quello della madre, ma che è un gesto d’amore anche quello del missionario, e certamente è così. Ma, attenzione, che il vantaggio, per dir così, di questa accezione di amore, di amore come custode del parricidio, e adesso forse avete qualche suggestione per intendere questa frase, è che si tratta di un amore non sentimentale e, soprattutto, è un amore non oblativo.

Certamente la madre, per lo meno come ce la immaginiamo, è un simbolo dell’amore più del padre, ma è il simbolo dell’amore come amore oblativo, come amore che ti nutre, che ti protegge. Il padre non sta lì a darti un amore che ti nutre e ti protegge, anzi, il padre di Arrabal lo ha lasciato da solo per la sua battaglia politica. Una persona potrebbe anche dire “Beh, quello per farsi la sua battaglia politica non ha pensato alla famiglia, per cui, alla faccia dell’amore! Era un insensibile, una persona cinica che, pur di difendere e di non tradire i suoi amici, ha mollato la famiglia”.

Io ho in analisi una persona, una ragazza, che ha sempre odiato suo padre. È venuta in analisi con un odio feroce per il padre, che tra l’altro è una persona in gamba, colta, laureatasi ancora quando le lauree non erano così frequenti come oggi, ma che si è trovato in una situazione problematica, una truffa in qualche modo, e praticamente non ha voluto confessare chi erano i complici, per cui, praticamente, si è assunto la maggior parte della responsabilità – e per inciso, ecco la funzione del padre, la responsabilità, quella che invece i fratelli si spartiscono, si condividono – è così, alla fine, lo hanno condannato a pene pesantissime e la figlia non l’ha mai visto. Si è fatto venti-venticinque anni di galera. Lui non voleva vedere la figlia in quella condizione e la figlia ne aveva ricavato un odio, appunto l’odio del padre, apparentemente: “Mio padre mi ha lasciato in queste condizioni. Non glielo perdonerò mai!”. Le ho detto: “Ma guardi che…”, e chiaramente sta capendo con molto dolore, che il disprezzo che lei ha tributato a suo padre, credendo che suo padre l’avesse disprezzata, questo odio, questo conflitto che era nato tra i due, era magari, perché no, sobillato dalla madre, che a un certo punto si è vista abbandonata in quella situazione e che dice “Tuo padre è un delinquente”!

Sì, dico io, ma un momento a dire delinquente. È stato condannato, ma andiamo a vedere perché, per come, cioè, errare humanum est, oppure ha fatto un errore di calcolo, oppure è stato un gesto di responsabilità? Chiaramente, è molto facile dare l’accusa e la croce al padre per quello che è accaduto. Questa ragazza sta cominciando a elaborare che, forse, non è che il padre sarebbe stato più padre se avesse rinnegato i suoi principi, la sua etica e la sua istanza simbolica per dire: “Beh, io penso alla mia famiglia e così mando in galera gli altri e me ne sto a casa io”.

Questa è un po’ la vigliaccheria corrente. Siamo in una società in cui non esiste la funzione di assassinio, cioè la funzione del padre, ma una società che ha messo a morte il padre, in una società della irresponsabilità. E ecco che, guarda caso, fiorisce il pentitismo. Non è un caso che più di uno che aveva responsabilità rispetto a un atto, faccia come i fratelli col padre primitivo e dica: “Io non c’entro, anzi c’era anche lui, e tira dentro gli altri. Anche lui ha mangiato della mafia”.

E quindi, dicendo che quello ha mangiato della mafia, io prendo 500 milioni e l’altro va in galera! Siamo addirittura correi. Vediamo che oggi, purtroppo, il mito di Totem e tabù e andato addirittura più degradando con fenomeni di tipo mafioso, perché, almeno nel mito, tra i selvaggi tutti si prendono una parte di responsabilità. Qui, c’è oggi chi se la toglie grazie ai meccanismi del pentitismo.

Questo per dire che la questione dell’amore non è solo la questione di essere amorevole, e sicuramente non è in questa accezione che abbiamo messo nel titolo L’amore del padre, cioè di essere tenero, sentimentale, dolce, tutti valori che vengono considerati valori dell’amore. No! Propriamente, se andiamo a radicalizzare, rispetto alla psicanalisi troviamo che l’amore è la funzione del non dell’avere, ma non nel senso dell’egoismo.

Il proverbio dell’amore, come dicono gli antichi, è proprio questo: chi più ne dà, più ne ha. Non è che prima bisogna avere per poi dare, ma di solito è proprio chi non ha che dà, e chi più ne dà, dice il proverbio, più ne ha. Quindi, non bisogna avere per dare. Tant’è che uno che dà quello che ha in sovrappiù fa la carità. Non è propriamente un gesto d’amore, così sono buoni tutti. La vera difficoltà è mettersi in gioco quando non si ha. E che l’amore abbia a che vedere con il non avere, si trova anche in Platone nel Simposio dove, non a caso, dice che Amore è figlio di Penia e di Poros. Penia che sarebbe la povertà e Poros che è l’espediente. Certamente la psicanalisi è andata oltre. Non è che io dica che il non dell’avere, la funzione di zero, la funzione della rimozione sia la povertà. Tutt’altro! Dico che il soggetto povero, chi si considera povero, è spesso chi crede di potere rappresentare il soggetto della rimozione, colui che dice “Io sono colui che non ha niente, come colui che è privo, che si trova nell’impossibile, che si trova nella castrazione, che si trova nell’amore, che ha bisogno dell’amore degli altri. Io mi trovo bisognoso”. Non si tratta di ciò in questo caso.

R.C. Forse è un non avere che non comporta la miseria o la povertà, quanto il non possesso. La questione della possessione diabolica è da esplorare anche in questa direzione.

La questione del funzionamento della parola, del funzionamento della rimozione, l’amore che riguarda la tensione verso l’avere, ma che incontra sempre il non strutturale dell’avere, è dato dal funzionamento. Il funzionamento della rimozione comporta che è impossibile possedere la parola, è impossibile averla nel senso del possesso, della presa, perché la funzione di rimozione in atto comporta il differire, comporta la differenza, comporta che il nome, funzionando, non è identico a sé.

Il nome è il significante rimosso che funziona adiacente a un altro significante. Quindi, il funzionamento comporta sempre uno scarto. Questo scarto è il non, che comporta l’impossessione, l’impossesso, il non avere, il non avere delle cose, il non avere della parola.

Il non dell’avere non comporta la privazione, la miseria, la povertà. Queste sono le rappresentazioni soggettive del funzionamento. Il non dell’avere comporta esattamente che il non è strutturale, è una condizione a cui non si può porre rimedio, diciamo così, anche se la mitologia, la fantasmatica tenta di colmare, di sanare questo non, di giungere alla completezza, per cui abbiamo le varie fantasmagorie dei vari discorsi e delle varie nevrosi.

Ecco, ho fatto un inciso perché mi sembrava importante, perché è ciò su cui gioca il fantasma materno, la nevrosi, la miseria e la povertà, cioè proprio partendo dall’idea di dovere avere o di dovere disporre di qualcosa. Fantasia nevrotica che accentua l’impossibile, che prende atto dell’impossibile, perché ogni fantasia nevrotica procede da una constatazione strutturale. È una presa d’atto, solo che gioca poi il misconoscimento. Su ciò che pure viene constatato, gioca. Come dire “Sì, però, comunque… Sì, è così, però ti dimostro che si può fare in un altro modo”.

È strutturale che non si possa partire dall’avere, perché è strutturale il non dell’avere, e la fantasia nevrotica dice che solo avendo posso, solo se io avessi potrei fare, per dire che non può, per dire che è impossibile partire dall’avere, così come è impossibile partire dall’essere sul versante della resistenza.

S.D.V. A questo proposito mi viene in mente una notazione del grande psicanalista Jaques Lacan. Diceva che l’amore cortese è proprio un espediente furbo nel quale, se un uomo non può avere una donna, può pensare che sia perché è lui che non la vuole. È questa la questione.

Invece, l’amore ruota attorno al non avere. Per esempio, al non potere mai “avere” il partner. Quando uno pensa che oramai il partner ce l’ha già, e dice “Beh, oramai con mia moglie è tutto fatto”, ecco la noia mortale, viene meno l’amore.

R.C. C’è il macabro detto che il matrimonio sarebbe la tomba dell’amore, dove per matrimonio viene appunto inteso il possesso. È chiaro che l’idea di possedere la donna, il partner, quella sì è la tomba dell’amore, perché una volta presunto il possesso, quello che si ha non conta più. Importa quello che non si ha, cioè il non della rimozione lungo cui procede la “tensione verso”. Allora c’è la pulsione. Se il non viene tolto, la tensione non c’è più.

Allora, l’amore è la tensione verso il conseguimento, verso la qualità, in definitiva verso il tentativo di avere quel che è impossibile avere. In questo senso l’amore è eterno, perché il non della rimozione è impossibile toglierlo. Ma, se noi fantasmaticamente presumiamo sia tolto, ecco che effettivamente non c’è più la pulsione, non c’è più l’amore, non c’è più questa custodia del parricidio, perché qualcosa non funziona più nel momento in cui si presume di possederla, che il possesso sia instaurato.

È chiaramente una fantasia che, come tale, è impossibile che si realizzi, però può in qualche modo funzionare qua e là. Tutte le varie storie in cui qualcosa finisce sono basate sul non che viene tolto. Qualcosa non funziona più, cioè si instaura l’idea di possesso che è l’idea stessa della fine.

S.D.V. A me pare che abbiamo detto qualcosa a proposito del padre, poi, se ci sono delle domande riprendiamo.

Adesso abbiamo la seconda parte da affrontare: l’odio della madre. E qui, se l’amore del padre viene in qualche modo concesso, a parlare di odio della madre si rischia il linciaggio!

R.C. Per capire bene il risvolto verso cui stiamo andando, occorre insistere su questo: l’amore esige che qualcosa funzioni, esige il funzionamento, esige il padre che funziona. Il padre esiste in quanto funziona come nome, diceva Dalla Val. L’amore c’è come custode del funzionamento, della funzione di padre, della funzione di zero, funzione di nome. L’amore esige il funzionamento. Ma la madre…

S.D.V. La madre non funziona! E questa è l’altra cosa sconcertante, perché se c’è una cosa di cui tutti sono certi è la funzione materna. Si dice che la madre ha una funzione insostituibile, che la funzione materna è di fare questo e di fare quello. Poi, ancora, la madre sembra assolutamente certa: mater certa, pater numquam. Notate che ruota proprio attorno al pater numquam ciò di cui abbiamo parlato prima. Pater numquam, il padre non.

Ma, appunto, la funzione materna sarebbe la funzione procreativa, la funzione distributiva, sarebbe la funzione di dare la vita.

R.C. Tanto entra, tanto esce. Quel gesto di Dalì è rivolto alla madre più che al padre. È questa la questione. Il gesto di Dalì si può leggere e intendere solamente cogliendo la fantasmatica della madre che funziona, che distribuisce ciò che riceve, per cui: “Hai ricevuto questo e questo ti prendi, cioè questa sei”. E il gesto che Dalì apparentemente fa verso il padre, lo fa verso la madre in realtà. Cioè, lo fa verso un padre materno, verso una madre che è presunta funzionare.

S.D.V. E la madre è presunta funzionare perché è presunta avere la funzione per eccellenza, quella che dicevo prima, e cioè la funzione di morte!

La funzione per eccellenza è la funzione di morte. Vi ricordate quando ho detto che il simbolo uccide la cosa, e che anche nell’etimo della parola funzione c’è la parola uccisione? Ebbene, checché se ne possa dire, checché l’uccisione nella mitologia sia una questione di uccisione tra padre e figlio, il problema è che l’uccisione, la più terribile, la più temuta, il funzionamento economico della morte è deciso, è attribuito dal discorso occidentale, alla madre!

E qui capite subito come nasce il discorso occidentale, nasce con Socrate, il quale dice: “Io sono figlio della levatrice, colei che può fare nascere, che sa come fare nascere, ma che sa anche come uccidere i bambini”!

Il problema della madre è tutta la retorica della madre che ama, che si sacrifica, che fa nascere, certamente, ma è una retorica che nasconde qualcosa, nasconde l’incubo del discorso occidentale, cioè che la madre uccide! La madre può decidere della vita e della morte. E ciò è qualcosa che viene fuori a ogni passo se andiamo a vedere i miti. Pensiamo alle Parche che sono una figura della madre: c’è la Parca che dà la vita e la Parca che taglia il filo. Pensiamo a un detto frequente in Emilia, non so qui, un detto che spesso la madre, arrabbiatissima nei confronti del figlio, pronuncia: “Piantala, guarda che io ti ho fatto e io ti disfo”!

Chiaramente, è come dire che qui c’è veramente il potere sulla funzione. La funzione materna sarebbe la funzione di potere sulla funzione. Per cui sarebbe l’odio come odio transitivo, l’odio come l’eliminazione dell’Altro, l’odio come qualcosa che taglia con le cose, che dà il taglio, che tronca il filo. E potete constatare anche da questa frase come alla base dell’odio c’è la vendetta. Anche nel mito greco non c’è il vendicatore ma ci sono le vendicatrici, le Erinni, le Arpie, tutte figure della severità materna. Chi presiedeva l’Areopago? Atena, cioè colei che può decidere della vita o della morte.

Dunque, la funzione di madre così idealizzata dal discorso occidentale ha come copertura il fatto che il discorso occidentale pensa, e in modo molto drammatico –sta qui la drammaturgia del discorso occidentale – che la madre possa detenere la funzione, cioè possa detenere l’uccisione. Mentre la faccia positiva della funzione di madre, intesa nel senso della bontà della madre, sarebbe l’Euménide.

Le Euménidi sarebbero la faccia buona, quelle che portano bene a Oreste rispetto alle Erinni, che costituirebbero la faccia cattiva. Anche nel mito, prima erano le Erinni e poi divengono le Euménidi. Sembra un po’ che la mamma ti porta bene, ti alleva, però l’altra sua faccia sarebbe che ti può portare male. E c’è sempre il sospetto che tanto più ti potrebbe portare male, tanto più devi ringraziarla per il fatto che ti vuole bene! Questo si chiama debito materno, cioè tu devi volere bene a tua madre, perché è colei che ti ha dato la vita. Voi capite che il debito materno, per questa via, sfiora tout court il ricatto.

Se io, a un certo punto, mi faccio dare dei soldi da mio padre, posso dire: “Te li restituisco”, tant’è che uno dice: “Mi dà un fracco di botte, ma quando sarò un po’ più grande gliene darò anch’io”! Oppure, pensate al diritto paterno. Il diritto sorge quando, a un certo punto, uno commette un crimine. Benissimo, viene punito, viene condannato e c’è il risarcimento. Ma pensiamo invece al diritto materno, rappresentato dalle persecutrici, dalle vendicatrici che dovrebbero colpire Oreste perché ha compiuto matricidio. Chiaramente, sono forze della natura, per cui siamo al crimine ecologico!

Una società conflittuale “normale” è una società in cui chi rompe paga, ma se il crimine diventa un crimine ecologico, non è più un crimine contro qualcuno, ma diventa un crimine contro la madre terra, per cui si pagano delle cifre pazzesche per l’inquinamento.

Nella società paterna, maschile, l’uomo uccide l’orso e paga la multa per averlo ucciso. Ma nella società ecologica ci sono delle istanze rispetto alle quali tra l’orso e l’uomo è meglio uccidere l’uomo, perché di uomini ce ne sono sei miliardi, di orsi pochi. Cioè, il crimine contro la natura è un crimine materno, un crimine contro la madre, e un crimine contro la natura non ha prezzo, è un crimine contro la vita. E proprio il crimine contro la vita diventa un peso incolmabile.

Così, se tu mandi a quel paese tuo padre mandi a quel paese un tizio che poi non sai neanche bene che cosa ci sta a fare. E l’altro può dire: “Accidenti, mio figlio non mi vuole bene e, in effetti, cosa ho fatto io per lui?”. Però, d’altra parte, sa anche che, come padre, non poteva mica fare granché. È inquietante questa posizione, vale a dire: “Va beh, gli darò da mangiare. No, gliene dà mia moglie. Allora cosa faccio? Mi metto a fare la mamma anch’io, gli do anch’io un po’ da mangiare”! Ma un padre capisce che non è questo ciò che si vuole da lui. Ci vuole, appunto, la responsabilità, l’autorità, la presenza simbolica.

La questione, invece, del debito materno è che la violazione del patto con la madre diviene una violazione delle leggi della vita, delle leggi della natura. Abbiamo un bellissimo libro che si intitola Il mito di Ajasè e la famiglia giapponese, in cui si mette a confronto il mito dell’occidente, che è il mito del padre, con il mito dell’oriente che è il mito della madre. In occidente c’è il mito di Edipo, che incontra il padre al crocicchio e lo uccide. Si tratta del mito del parricidio, del mito dello scontro.

R.C. Ne abbiamo parlato nel corso precedente.

S.D.V. In oriente c’è il mito della madre, il mito di Ajasè. E lì non succede mica niente tra figlio e madre. Non è che lui ammazzi lei, no! È tutto un gioco.

R.C. È il mito del perdono.

S.D.V. È il mito dell’accusa, del ricatto, del riscatto e del perdono. È un mito giocato in dimensioni assolutamente di odio, ma di odio che non entra mai nell’atto. Il mito di Edipo è un mito dell’atto. Il mito di Ajasè è un mito della gestione del rapporto, e questo ci porta all’accezione nuova che la psicanalisi dà all’odio e al mito della madre dicendo, attenzione, occorre che non ci sia la funzione materna!

C’è un libro che si intitola, invece, proprio così: La funzione materna. Così, mentre tutti si interrogano su come funziona la madre, noi diciamo che non esiste la funzione materna. E allora cosa esiste? Se abbiamo detto che il padre esiste come funzione, mentre la madre non esiste come funzione e non ha da esistere come funzione, come ha da esistere la madre?

La madre ha da esistere come indice. La madre non è funzione, ma è indice. Indica, indice. Indice di che cosa? Indice del tempo!

Voi vi chiederete cosa vuole dire indice del tempo. Potremo arrivarci già attraverso le mitologie perché, in effetti, la prima cosa che si pensa è il fatto che il primo atto di una mamma è aspettare. La donna, a un certo punto, comincia a aspettare un bambino. Ecco che da quel momento questa donna è mamma, almeno potenziale, perché adesso non ci addentriamo a capire se il feto è o non è, non entriamo nella polemica.

E, dunque, cosa fa la donna in quel momento, cosa può fare? Comincia a aspettare. Comincia a contare i giorni, i mesi, terzo mese, quarto mese, eccetera. Di che cosa si tratta? Della gravidanza. La gravidanza non è un atto, è un periodo, un tempo in cui accadono certe cose. Ancora più radicalmente, c’è un enunciato molto bello che ha fatto un giorno una ragazza, diceva: “Ma vede, per me è come se l’atto sessuale non finisse lì, con la scopata, ma è come se finisse con l’arrivo della mestruazione”.

Questa è una cosa che forse qualcuna di voi ha provato, è abbastanza particolare, interessante, perché per un uomo può capitare che vada con una ragazza e il giorno dopo per lui sia un atto completamente dimenticato. L’atto sembra essere, per dir così, sincronico, sembra essere un atto che può finire lì, così, senza resti, anzi, magari spera che non lasci resti. E, chiaramente, poi ne fa un altro e un altro ancora. È un po’ come nell’uccisione del padre: Edipo incontra uno a un crocicchio e lo uccide. Ebbene, questo è ucciso, andiamo avanti! Ne troviamo un altro, tac, uccidiamo anche quest’altro. I film delle mitologie maschili sono fatti così.

La mitologia femminile, non oso ancora chiamarla mito, la chiamo mitologia, è quella che intanto c’è l’atto, ma non finisce mica lì, perché poi: “Arriverà, non arriverà?”. E comincia a aspettare. Prima ho parlato dell’aspettare un bambino, della gravidanza come “aspettare un bambino”. Ma qui, addirittura, aspettiamo se arriva o se non arriva la gravidanza, aspettiamo il giorno delle mestruazioni. È evidente che parlare di bambini, parlare di mamma, è parlare di elementi temporali.

R.C. Questo per dire che tra un bambino e una bambina non è una questione di sesso fine a se stesso. È questione di tutta un’altra logica quanto al tempo o all’oggetto, quanto all’atto e al tempo. E ciò comporta modalità educative assolutamente rilevanti e differenti, proprio tenendo conto del mito in cui si pone.

S.D.V. E dunque cosa fa la madre? Il padre a un certo punto dice “Tu figlio, benissimo…”. Non è che il padre si preoccupa di che cosa succede al figlio durante la vita. Sì, certo, ha le sue ambizioni, i suoi ideali, però, a un certo punto non lo segue secondo dopo secondo, non si preoccupa. Sappiamo tutti che in qualche modo la custode, per dir così, della vita, in ciascun momento per quanto riguarda il nutrimento, il preparare, è la mamma.

Allora, vediamo che mentre all’uomo interessa la vita nell’atto, l’attività della mamma, per non parlare della madre, è proprio un’attività che mantiene l’esigenza della vita nel tempo.

Queste sono distinzioni che poi possiamo rielaborare in modo più interessante. Sono fantasmagorie, non è la struttura effettiva, però dicono della struttura.

Il mito nell’uomo è il mito della vita in ciascun atto. Il mito nella donna è il mito della vita come procedura, come dispositivo, come qualcosa che non termina, come qualcosa che va verso, che non finisce mai, tant’è che una mamma è una mamma che non finisce mai. Il padre, a un certo punto, se ne frega del figlio, mentre la mamma, col figlio di 40 anni, ancora gli dice “Mettiti la maglietta”. Per dire che lei non cessa mai. È un indice, un mito d’infinito; per questo vi dico che il mito della madre è il mito del tempo. Ecco cos’è la madre! Mentre il mito del padre è il mito della responsabilità, della funzione, del parricidio, qui abbiamo il mito del tempo.

Perché è anche l’indice del tempo? Voi sapete che l’etimo della parola tempo è temno, taglio, per cui dire tempo e dire taglio è dire un po’ la stessa cosa, tant’è che noi siamo abituati a considerare il tempo come taglio. Quando scandiamo il tempo, addirittura facciamo così [e muove la mano come nel movimento del solfeggio], oppure quando in analogia allo scorrere del sole facciamo dell’orologio un cerchio tagliato come una torta, un quarto d’ora, una mezz’ora. C’è un taglio. Questo è un taglio algebrico, mentre il tempo è taglio come divisione.

Anche nell’orologio la giornata è divisa in 24 ore, cioè, potremo dire tagliata in 24 porzioni di un’ora, o tagliata in tot secondi. Per cui il tempo, anche quello cronologico è taglio, ma, soprattutto, il taglio è divisione. Voi vedete che questo si ritrova anche nei miti, perché, guarda caso, io ho detto che una delle funzioni delle Parche era di tagliare.

Pensiamo poi all’atto principe attorno a cui si snoda il tema della madre. Anche lì c’è un taglio, il taglio del cordone ombelicale, un’esperienza di taglio. Un’altra fantasmatica che riguarda il taglio alla nascita può essere il taglio cesareo. La questione tempo, taglio, divisione, emerge nella mitologia rispetto alla madre. E ciò è importante perché, in effetti, vedete che andiamo verso l’odio.

L’odio è divisione, per cui dire tempo e dire odio è dire la stessa cosa. Noi non conosciamo l’etimo della parola odio, però, se c’è un modo con cui ci rappresentiamo l’odio è la divisione. Per quello dicevo che l’odio non è l’aggressività. Noi non ci raffiguriamo l’aggressività come divisione, ma come conflitto, scontro; anzi, come unione! Tant’è che noi capiamo, e certe volte lo vediamo anche fisicamente, che l’aggressione è quasi una forma di amore, di amore cannibalico. C’era un film che rappresentava questo: a un certo punto lo scontro tra due uomini diveniva un rapporto sessuale tra di loro. Oppure pensiamo a quanto partecipa l’amore nel conflitto, anche nel rapporto sessuale, nell’atto sessuale. Per cui l’aggressività è da considerare piuttosto una forma di amore, proprio perché partecipa della logica dell’amore che è quella dell’unione.

R.C. Diciamo dell’incontro.

S.D.V. Beh, sì, dicevo unione nel senso del principio dell’eros, del principio mitologico dell’eros che, dice Platone, è unione, è principio di unione ma, che, giustamente, noi possiamo considerare meglio come principio dell’incontro. Possiamo considerarlo meglio ancora rifacendoci al principio della condensazione, perché non dimentichiamo che la metafora è una condensazione. Il simbolo è una condensazione perché io condenso nella bandiera sia il valore della bandiera in sé, sia il valore della patria in sé, per cui la bandiera ha due valori in uno e per ciò è una condensazione. E l’amore, per dir così, abbiamo visto che è un processo che ruota attorno alla condensazione e a quello che Freud chiamava eros, il principio dell’eros che tende a unire. Noi diciamo a fare incontrare.

L’odio, invece, sembra avere a che vedere con l’altro principio, thanatos, principio di morte, principio della divisione e, guarda caso, parlando di madre, siamo subito incappati nella questione di vita o di morte, nella questione che la madre potrebbe dare la vita ma potrebbe dare anche la morte, per cui il taglio può essere un taglio di vita o un taglio di morte.

Così, il tempo potrebbe essere il tempo delle cose infinite o potrebbe essere il tempo che finisce: ecco, per esempio, l’interruzione della gravidanza. Potrebbe essere la logica dell’aborto, che non è il fatto che una donna, a un certo punto, non riesce più a proseguire una gravidanza. Se fosse tutto qui l’aborto, sarebbe poca cosa. La logica abortistica è una logica immanente nel discorso occidentale, è la logica di chi non prosegue ciascuna cosa che incomincia, la logica di chi pensa che le cose possono finire domani, di chi abbandona i progetti, di chi non scommette su un dispositivo. Per la psicanalisi non è abortista solo chi, a un certo punto, si rivolge al medico piuttosto che alla signora compiacente. La logica abortistica può presiedere che una persona non mandi più il figlio a scuola, perché dice: “È meglio che vada a lavorare, perché sono meglio i soldi subito”.

In Emilia, purtroppo, noto questa cosa, tirano più ai soldi che a fare studiare i figli. Questo, a mio parere, rientra nell’aborto, addirittura è una forma di infanticidio. Lo dico a voi perché siete insegnanti. Spero che voi facciate la battaglia per lo studio perché, veramente, il sostanzialismo imperante spesso fa sì che un genitore, appena la figlia o il figlio finiscono la scuola dell’obbligo – non essendoci in Emilia molti valori trascendenti che forse ci sono ancora in Veneto, più per via della questione cattolica – dica: “L’importante è guadagnare, poi, chi se ne frega!”. Allora, il sostanzialismo è una forma di infanticidio o, per lo meno, comporta un aspetto infanticida.

Invece, occorre che il tempo non sia il tempo delle cose che finiscono, ma il tempo delle cose infinite, come nel conflitto così truce, così severo, che è il conflitto di Ajasè con sua madre, che però è una metafora dell’infinito delle cose, perché alla conclusione nessuno dei due muore e nessuno dei due vince, ma c’è un gioco che si porta avanti per via dell’instaurazione di un dispositivo.

Per ciò occorre considerare il mito della madre come qualcosa che comporta il tempo infinito, un indice del tempo e un indice dell’altro tempo, un indice del fatto che il tempo non finisce, che non c’è un tempo che può essere accettato e un altro che può essere rifiutato, perché uno potrebbe dire: “Beh, questo figlio mi va bene in questo tempo, ma non mi va bene nell’altro tempo”. Allora c’è il tempo di un tipo e il tempo di un altro tipo, il tempo obiettivato. Questo tempo è già avere fatto del tempo un oggetto.

Ma il tempo è importante perché non può essere obiettivato, tant’è che Sant’Agostino diceva: “Voi mi chiedete che cos’è il tempo; se non me lo chiedete io penso di saperlo, se me lo chiedete, io non vi so dire che cos’è”. E questo perché il tempo non è una cosa, il tempo non è un oggetto. Il tempo possiamo solo elaborarlo come taglio, come divisione, come scissura. Il tempo è ciò che ci divide, è ciò che fa sì che noi ci qualifichiamo rispetto a ciò che facciamo e non a ciò che siamo! Il tempo è ciò che ci introduce al divenire, all’avvenire, non all’essere! È l’oggetto che si crede di potere essere o di potere avere.

Il tempo, invece, allude a un divenire, allude a un taglio, a una piega che prendono le cose nella loro trasformazione. Non a caso, il vostro corregionale Severino vuole abolire il tempo, ma abolendo il tempo abolisce il divenire.

R.C. Non è di Brescia?

S.D.V. Sapevo che insegnava a Venezia, per cui credevo. Comunque, è la scuola veneziana che, purtroppo, porta avanti questa tesi a mio parere neognostica alla fine, rispetto a cui il tempo diventa un oggetto, per cui può essere tolto di mezzo pena il divenire. E il tempo diviene facitore dei grandi misfatti.

Certamente il tempo è problematico, porta dei problemi perché il tempo può portare non solo l’idea della vita, ma anche l’idea della morte. Morte che, però, può essere intesa in tutt’altro modo che come indice della fine delle cose, bensì come indice della differenza invalicabile. La morte ci dice che non da tutto si può tornare indietro. La morte ci dice che c’è un qualcosa su cui noi non possiamo decidere, che c’è un qualcosa che uno non può gestire, manipolare. La morte ci dice che c’è un qualcosa di invalicabile, che c’è trasformazione.

E tutto ciò ha a che vedere con il mito della madre, con l’odio. La morte ci dice che non possiamo cincischiare tutta la vita. Ci dice che innanzi alle situazioni si tratta di prendere o lasciare. E è proprio nel prendere o lasciare che c’è il mito dell’odio e c’è il mito della madre. La madre non può dire sono quasi incinta, sono un po’ incinta. Sappiamo bene che l’indecisione, il rimando, tutti i modi con cui gli uomini cercano di evitare il tempo, di addomesticarlo, di gestirlo, con il mito della madre vengono meno.

In questo senso dico odio della madre, non nel senso che la madre odia, che la madre è severa, è vendicativa come, ahimè, è nella mitologia occidentale e come, ahimè, certe volte ci è sembrato o abbiamo pensato della nostra mamma.

Le ragazze, sia le ragazze che avete a scuola, sia voi stesse come ragazze in qualche modo, si trovano spessissimo in un rapporto difficilissimo che è la relazione con la madre che, certamente, è fatta di slanci amorosi, per cui si ascolta: “Io mi confido solo con mia madre, a mia madre tengo tantissimo”, eccetera, che però, è fatta anche di sorde ribellioni, di rivendicazioni, di vendette che nemmeno giungono a dirsi. In fondo, una ragazzina può benissimo dire: “Io con mio padre non parlo, per me è un estraneo”, ma, poi, sotto sotto, c’è un filo sottile che li lega, un amore che è in gioco.

Rispetto alla madre, certe volte sembra ci sia tanto amore, ma quanta tensione invece, rivendicazione, vendetta, mortifericità, non saprei come dire. Quanto di mortifero c’è in questa relazione che passa attraverso il corpo, attraverso il cibo, attraverso il respiro addirittura.

Noi ascoltiamo nella clinica psicanalitica e voi lo potreste vedere rispetto alle ragazzine che avete a scuola, quanto la bulimia o l’anoressia devono a questo “simbolico carnale”, per usare una parola impossibile, ma è chiaro che non c’è il simbolico carnale, o è simbolico o è carnale, che si instaura tra madre e figlia. Quanto dell’erotismo o della negazione della sessualità può avviarsi a partire da malintesi che accadono nella comunicazione tra madre e figlia, al punto che noi diciamo radicalmente che la madre, oltre che indice del tempo, è indice del malinteso, perché, certamente, resta comunque un grandissimo enigma, proprio perché se ci fosse la funzione noi potremo, anche matematicamente o logicamente, capire qual è il contenuto di una funzione, qual è la variabile.

Invece, dicendo che non c’è la funzione materna, siamo qui a interrogarci attorno agli indici della madre. La madre è indice del tempo, di cui non possiamo dire gran che. È l’indice della differenza, che però non possiamo mai rappresentare una volta per tutte, pena fissare il razzismo che è proprio la localizzazione della differenza. Ancora, è indice del malinteso e del malinteso radicale, che è il malinteso attorno alla sessualità, che non è mai decifrato una volta per tutte.

Ciò spiega perché il mito della madre si è prestato nella storia a raffigurare gli enigmi. Non a caso l’enigma era portato dalla sfinge. Certamente, noi non pensiamo che sia un uomo che ti pone un enigma. L’enigma, la figura enigmatica, anche nella sua mortiferità perché dava anche lì la vita o la morte, era appunto la Sfinge. E quanti di noi vivono, fantasticano o credono che la madre sia una sfinge, sfinge che ti guarda come una pietra o ti pietrifica, oscillando tra la Sfinge e Medusa?

Chiaramente, è una questione da elaborare. Sono fantasmatiche di cui voi dovete tenere conto proprio perché le ragazze, i ragazzi, si trovano portatori di queste fantasmatiche, per cui magari vi raccontano che c’è il tal casino in famiglia, o il tal problema con il padre o con la madre.

Spesso, occorre andare al di là di come vengono raccontate le situazioni per capire che cosa si dice rispetto ai casi e alle vicende che i ragazzi si trovano a denunciare rispetto ai genitori. Per non parlare dei casi che i genitori si trovano a denunciare rispetto ai figli, in cui mettono in gioco la severità o la complicità materna, oppure l’assenza di autorità. “Ah, ma come, io in fondo sono stato sempre così buono, così gentile nei confronti dei miei figli”. Magari, però, è mancata proprio la responsabilità, hai temuto, diciamo così, la questione del parricidio, ti sei ritirato rispetto al fatto che tu dovevi riuscire a porre le cose nei termini di un simbolo e di un’identificazione, e non nei termini di dare semplicemente i soldini o di limitarti a nutrirlo e pensare alle esigenze materiali.

Evidentemente, da un padre si richiede, come non mai, un qualche cosa di intellettuale, non di materiale, proprio perché il suo compito è un compito eminentemente intellettuale, dicevamo prima. È un compito di funzione, è un compito di simbolizzazione delle cose. Tant’è che c’è chi ritiene che il passaggio dal diritto naturale materno, al diritto paterno sia stato il passaggio dal mondo della natura al mondo della cultura. Per l’antropologia è così.

Abbiamo visto che i riferimenti naturali portano la madre in un ginepraio di vendetta e di perdono. Il riferimento intellettuale, invece, porta la madre a porsi come indice del fare e del tempo, indice della vita, del divenire e della tolleranza, indice dell’Altro che non finisce, indice che le cose non finiscono mai ma c’è sempre Altro, c’è sempre l’altro tempo per cui la tragedia non riesce mai e l’idea di male si dissipa e, appunto, le cose eminentemente non finiscono.

Questo occorre che la madre sia: indice che le cose non finiscono! Ma, direi, mi fermo qui.

R.C. Così c’è modo per qualche domanda. Mi pare sia stato molto interessante e si raccorda con qualcosa che dicevo la settimana scorsa in relazione al dispositivo, che esige l’appuntamento e l’incontro. Non si tratta della presenza perenne, della continuità, ma l’importanza è su ciò che accade nell’istante, un appuntamento, un incontro; è lì che si scrive qualcosa. È quel che si scrive che conta, non il visibile, la presenza. Questo conta quanto ai modi dell’educazione e ai modi dell’organizzazione, nella famiglia o nella scuola, per far sì che sorga un dispositivo dove queste cose esistano e si pongano per una elaborazione.

Mi sembra essenziale valutare le cose nei termini della logica strutturale con cui esistono, nei termini del loro funzionamento e non già lungo fantasmatiche o mitologie che riguardano credenze inerenti a come si pensa che le cose siano o debbano essere.

Ecco, se ci sono domande o precisazioni, notazioni, è il momento per farle.

Vallì Pilotto Mi chiedevo come fare rientrare la funzione paterna, che garantisce in qualche modo l’amore, con questa minaccia. Mi sembra che l’elaborazione di Freud sia stata successiva.

R.C. Il mito di Cronos viene prima, come mitologia.

V.P. Sì, ma dicevo, rispetto a Totem e tabù, è dopo.

R.C. Certo. Bene. Poi? Altri? Magari ne raccogliamo due o tre.

Barbara Valerio Volevo chiedere se la madre può assumere la funzione di padre, e viceversa.

R.C. Lei dice la madre o la mamma?

B.V. La mamma.

R.C. Esatto. Perché occorre distinguere tra papà e padre, e tra mamma e madre. Ciò che diceva Dalla Val, oggi, non è riferito alla mamma, ma alla madre. Non è riferito al papà, ma al padre, a ciò che si scrive di una funzione o di un indice, a ciò che esiste come funzione e come indice nel mito. Non sono il papà o la mamma come genitori. È qualcosa che travalica il personaggio rappresentato da papà e mamma.

Però, giustamente, lei dice, esistono di fatto un papà e una mamma che sono implicati nella gestione della famiglia e nell’educazione.

B.V. Volevo sapere più precisamente, nel caso in cui il papà venga meno alla sua funzione, se è male che la mamma, avendone la possibilità o la capacità, se la assume.

Federica Bietolini Mi pareva di avere capito che, se il papà non c’è, in qualche modo la funzione di padre va avanti, non so se ho capito bene. Se la madre non c’è, l’indice c’è ugualmente o no? In assenza della madre fisica.

R.C. In assenza della mamma!

F.B. Della mamma, sì. Non volevo dire madre. È stato un lapsus, chissà perché. In assenza della mamma, l’indice in qualche modo s’instaura? L’assenza di una madre è più grave dell’assenza di un papà?

R.C. Esatto. È meglio la borsa o la vita?

F.B. Proprio così. Se tutti e due è peggio!

R.C. Lacan direbbe che è una scelta impossibile.

F.B. Io pensavo al fatto pratico, le mamme ci sono sempre state e il papà no. Adesso, come un tempo, i bambini spesso non hanno il papà e spesso non c’è neanche la mamma

R.C. Le signore diranno che è meglio perdere il papà!

F.B. Lo sa che io, invece, come mamma speravo che la mamma potesse essere sollevata un po’ da questa necessità di una presenza continua.

R.C. Bene. Mi sembra che le domande siano molto interessanti. Vuole cominciare a rispondere?

S.D.V. Ha fatto molto bene la signora Pilotto a sottolineare la questione della minaccia. In effetti, la minaccia è un qualcosa che la pedagogia dice di evitare. Dice di evitare, perché, chiaramente, si tratta di non spaventare, di non fare pensare che il papà sia cattivo, ma, curiosamente, più la pedagogia dice di evitare la minaccia e più sembra che la storia sia quella che racconta Freud, e cioè che a un certo punto la mamma vede il ragazzino che si tocca e dice: “Non toccarti, che altrimenti lo dico a papà e questa sera quando arriva ti picchia”.

R.C. “Te lo taglia”.

S.D.V. Esatto. “Te lo taglia e ti picchia”. Non è mai la mamma che dice “Te lo taglio”. Tende a dire “Te lo taglia papà”. La mamma dice “Io ti ho fatto e io ti disfo”. Invece, sulla castrazione c’è un qualche cosa di una minaccia che chiama in causa il padre. Allora voi direte: “Sì, ma adesso non si fa più, perché abbiamo imparato a lasciare che si tocchino”. Invece, la questione che noi possiamo constatare, oggi non più sul fatto che si tocchino, è che a un certo punto ricorre giustamente il chiamare in causa il padre: “Guarda che arriva il padre”!

E questo è un fatto importante, è un fatto strutturale. Che ci sia la fantasia che dal padre possa venire la castrazione è una fantasia essenziale, perché dice della funzione di zero che il padre può avere, della funzione di autorità che il padre può avere, perché quello che chiamavo atto culturale, cioè di passare dalla natura alla cultura, è proprio che a un certo punto la pianti di toccarti la tua natura, e tieni conto che devi acculturarti. A un certo punto il padre ha la funzione di dire: “Guarda che le mani non servono per toccarti il pisellino, ma per costruire qualcosa di bello”. Come dire: “Occorre che tu metaforizzi la cosa”. Metaforizzo, cioè metaféro, porto su, trasporto, traduco. Prima parlavo di traduzione, ma dire tradurre è lo stesso che dire metaforizzare. Metaforizzare è greco, tradurre è latino.

La minaccia è spesso criminalizzata e penalizzata, eppure anche lo psicanalista può fare una minaccia. Per esempio, Freud lancia la minaccia e dice: “Guardi, o lei fa dei passi nell’analisi oppure io interrompo il trattamento”. Si tratta del famoso Caso dell’uomo dei lupi. Un magistrato cosa avrebbe detto? “Ah, questa è sopraffazione, questa è circonvenzione d’incapace”! Ma bisogna distinguere tra la minaccia e il ricatto, perché la minaccia ha l’importante funzione di instaurare la rimozione, cioè è un modo con cui si può lanciare qualcosa dell’ordine della castrazione come modo della rimozione.

Noi definiamo la castrazione non nel senso della castrazione fisica, anche se, al limite, anche quando pensiamo alla castrazione fisica pensiamo alla rimozione dei genitali, ma come funzione di rimozione nel linguaggio, proprio perché è una rimozione prima di tutto. Per cui importa considerare che Freud, quando parla di castrazione, non intende la castrazione fisica. Infatti, non usa il termine Entmannung, ma adopera il neologismo Kastration, che non esiste in tedesco, e che lui riprende dal latino, quasi per sottolineare che, a proposito di questa minaccia, lui si riferisce a un altro tipo di castrazione. La madre sa benissimo che il padre non glieli taglierà fisicamente, così anche il figlio, ma comunque c’è questo gesto di autorità.

R.C. Minaccia della perdita.

S.D.V. Con la minaccia viene chiamato in causa qualcosa dell’autorità.

R.C. Si tratta della minaccia della perdita, che è la stessa perdita strutturale che ciascuno incontra parlando, dato che il nome è impronunciabile per via della rimozione, della differenza, per cui non c’è il possesso, dicevamo prima, delle parole, delle cose che si dicono. Questa è la castrazione.

Pubblico Forse è necessaria per arrivare al simbolico. È solo l’accesso al simbolico, quindi è necessaria.

R.C. Esatto. Quindi, l’effetto di perdita non è che può esserci o non esserci, ma è qualcosa di strutturale alla parola! Ciò che Freud chiamava senso di colpa, con un’espressione, occorre dire, non molto felice, che ha dato luogo a varie fantasmagorie, altro non era che la questione della sensazione della perdita e della sensazione della mancanza che si incontra parlando, che ciascuno incontra parlando. Questo è il senso di colpa: la sensazione della perdita e della mancanza! Sensazione della perdita strutturale alla rimozione, quindi della castrazione, e sensazione della Versagung, della disdicenza strutturale alla resistenza.

S.D.V. Il problema del discorso occidentale, e qui nasce il discorso della colpa, è che quando c’è una mancanza, una castrazione o una perdita, va subito in cerca del colpevole.

R.C. Esatto. C’è una moralizzazione. Di questi che sono aspetti assolutamente logici e strutturali della parola è stata fatta una moralizzazione, attribuendone una causa a una colpa. Poi, il senso di colpa è stato tradotto come coscienza di colpa, con tutto ciò che la cosa ha generato a livello di luoghi comuni.

S.D.V. Direi che c’è una connessione, effettivamente, con le questioni poste da Valerio e da Bietolini. Valerio chiedeva come fare quando il papà viene meno alla funzione di padre. Spesso le donne pongono questa questione e dicono: “Ah, mio marito non ha nulla del padre, non fa il padre, non si attiene a una funzione di padre”. Il problema è che la chance della funzione di padre, e forse questo l’aveva intravisto Bietolini, è che, diciamo così, meno la fai, più per certi versi riesci. E ciò perché non è richiesta la presenza assillante del padre, anche se apparentemente il figlio può dire: “Ah, io non ho avuto padre, perché il padre non era presente”, e la moglie può dire: “Ah, questo figlio non ha avuto il padre, perché lui se ne è sempre fregato”. Certe volte, il fatto che il padre non sia lì, perché è a lavorare o a fare delle cose, può giovare all’instaurazione della funzione di padre, anche se la persona in questione non è per nulla paterna in senso diretto.

Chiaramente, dobbiamo tenere conto della portata dell’identificazione che pone la questione del padre, per cui è ovvio che sorgono considerazioni rispetto a che un genitore si comporti in un modo o nell’altro. Per esempio, si dice: “Ah, questo qui è un papà autoritario”. Ebbene, diciamo che, spesso, questo non è un male. Ciò che è più problematico oggi è che certi papà abdichino totalmente alla funzione di autorità.

B.V. Ma io mi riferivo a questi secondi.

R.C. Dice: “Io più che un padre sono un amico, un fratello”. Cioè, io più che un padre non sono un padre!

S.D.V. La cosa importante è che, prima di tutto, spetta alla moglie sottolineare che per fare il babbo non si tratta di fare l’amico o il fratello, anche se spesso alle mogli questo va benissimo. Dice: “Già, mio marito per i miei figli è come un fratello, li fa giocare, li porta di qua, li porta di là, va a pescare”. Il che va benissimo, ma sembra quasi che, in certi momenti, il venire meno della funzione di autorità sia avvallata dalle donne. Nei casi felicissimi, come spero sia il suo, questo non avviene. Ma ci sono casi in cui la moglie avverte chiaramente un grosso problema, una sorta di tabù dell’autorità da parte del padre, e è evidente che spetta prima di tutto alla moglie porre la questione al marito, e non, diciamo così, denigrare per ciò il marito rispetto al figlio. Per cui il padre va sempre difeso, anche se apparentemente non è sempre difendibile.

Poi, lei dice: “In che modo può intervenire una donna?”. Poiché la funzione di padre, dicevo prima, non è quella del babbo, ma è qualificata dall’autorità, dalla responsabilità, dall’astrazione, dalla simbolizzazione, certamente una donna, una mamma può fare molto per alludere a questi valori. Per esempio, una mamma intellettuale, una mamma di studio, una mamma che scrive, una mamma che avvia delle iniziative interessanti, può fare molto. Io ho riscontrato in molte situazioni di donne che facevano l’analisi, che poi si sono formate come psicanaliste, una qualità, un miglioramento considerevole nel profitto scolastico delle figlie o dei figli, molto più che se la mamma fosse rimasta in casa a fare la tutrice, la nutrice soltanto.

In un caso, una madre veniva alle riunioni, alle conferenze a Milano, e la figlia lì per lì piangeva: “Ecco, non stai mai in casa, non ti occupi mai di noi”. Allora la madre, questa dottoressa mi diceva: “Vede, io sono una madre degenere”. Le dico: “Non si preoccupi, vedrà che è la cosa migliore”. E, in effetti, a un certo punto questa mamma è andata a parlare con gli insegnanti, e la professoressa diceva: “Sa, sua figlia dice sempre Mia madre si occupa di psicanalisi, organizza conferenze, va ai dibattiti”!

È assolutamente un valore che viene preso come merito, come differenza. Vedete che qui abbiamo l’astrazione, e ecco la seconda parte, abbiamo la madre che si pone prima di tutto come principio di intellettualità e di simbolizzazione, e anche, diciamo così, come elemento di differenza. Ma non perché si differenzia dalle altre, perché è più bella, meno bella o ha un bel vestito, ma perché è un indice della differenza, un indice del divenire. “Mia madre sta divenendo psicanalista, mia mamma sta facendo certe cose, mia mamma sta facendo l’analisi. Mia madre, mentre le altre donne sembrano che attendano la fine del loro tempo”.

“Ah, dottore, oramai ho quarantacinque, cinquant’anni, cosa vuole che faccia?”. Invece, questa donna a quarantacinque anni, intraprende un’avventura assolutamente intellettuale, cioè vive la cosa del divenire, del non accettare che le cose finiscano, ma non perché lo spiega, ma perché lo vive sulla sua pelle. E tra parentesi faccio notare quanto insista la questione pelle tra figlia a madre, fino agli eczemi, fino ai tumori.

Con il venire meno delle capacità fisiologiche femminili, qualche cosa della vita, del divenire, della crescita non viene meno. Anche qui, non importa tanto l’assenza fisica della mamma, ma è assolutamente importante che non ci sia un’assenza rispetto al divenire, al progetto, al dispositivo.

Vedo il titolo della prossima lezione Sessualità, generosità, riuscita. È chiaro che generosità e sessualità sono due valori che il mito della madre deve assolutamente porre in gioco, e che introduce se c’è effettivamente mito e indice.

R.C. Quanto alla questione se la mamma, che in quanto evoca la madre non dovrebbe portare via il lavoro al padre per dir così, possa avere una funzione di autorità, direi che non è una questione di assegnazione di ruoli. Importa come nel discorso stesso della mamma funziona la legge, funziona l’autorità. Cioè, se io, in quanto mamma faccio un intervento improntato a porre una regola, non lo faccio perché in quel momento mi gira così e il momento dopo mi gira in un altro modo. Lo faccio lungo la funzione di una legge che è citata nel discorso, una regola che poi non è che cambierà il momento dopo. Cioè, importa come la questione dell’autorità, della legge, del padre stesso, esiste anche nella madre e non è negata. Non è la madre che s’impone per fare la legge severa, ma può essere la rappresentante di una regola, di una legge, di qualcosa che non è lei a assumere. Come dire che, poiché adesso accorre fare così per questo e questo motivo, adesso si fa così.

Ciò comporta che vi sia un intervento, un intervento non severo, ma che tuttavia occorre fare e non delegare se in quel momento il papà non c’è, o se il papà non c’è del tutto, nel senso che è da un’altra parte. In questo senso non si tratta di ripartirsi i ruoli, ma di cogliere come la funzione non è patrimonio della persona, non è un ruolo. La funzione non è un ruolo che si può esercitare in un certo momento o non esercitare, è qualcosa che passa nella comunicazione!

Allora concludiamo qui l’incontro questa sera. Ringraziamo il dottor Dalla Val perché mi sembra sia stato un incontro di grande interesse. Vi ricordo che il dottor Dalla Val sarà presente anche al corso che incomincia il 15 marzo, dal titolo La scuola e il progetto di vita e quindi, chi volesse avere l’occasione di risentirlo, può iscriversi a questo corso.

Nel darvi appuntamento alla prossima settimana, vi ricordo che il tema di mercoledì è Sessualità, generosità e riuscita.

Qui, sono disponibili all’acquisto le dispense del corso La qualità dell’ascolto nella comunicazione, e il libro di Octave Mannoni, di cui vi consiglio la lettura L’Amore da transfert.


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Edizione
  • La politica del brainworker
  • Come combattere per la salute
  • Un vaccino per il linfoma follicolare
  • Con la crisi non c'è più sistema
  • Dove cogliere i frutti del tempo
  • Il criterio dell'ascolto
  • La forza del progetto e dell'ingegno
  • La scuola e l’abuso di sostanze
  • L'amore senza fine, l'odio senza rimando
  • La medicina e la cura. Non c'è rivoluzione transumanista
  • Noi, l’infinito e il gerundio della psicanalisi
  • L’istante della clinica
  • Il gerundio, la complessità, la lettura
  • Come ciascuno diviene art ambassador
  • Libertà originaria o libertà possibile?
  • Integrità e annunciazione
  • Come leggere le fiabe
  • L’inconscio trascorre in un film
  • Babadook e la fantasia dell’uomo nero
  • Il delirio e la clinica
  • La famiglia. L’amore, l’odio e il fantasma d’incesto.
  • La famiglia, il diritto, la sessualità
  • L’encefalo senza cervello. Il nuovo psichismo
  • La morsa dello psichismo tra demonologia e organicismo. Ma c’è la parola, che non si può togliere.
  • La madre, il suo mito, la sua rappresentazione
  • Sessualità e mimetismo
  • La famiglia. L’idea di Dio e l’idea del padre
  • Il padre debole e il figlio ribelle
  • L’amore e l’odio. La famiglia, il diritto, la sessualità
  • La famiglia e l’altra famiglia
  • Il mito della famiglia
  • L'amore del padre e il matricidio
  • L'avvenire e l'idea dell'avvenire
  • La realtà dell’esperienza
  • La città della differenza. Dove vivere, come vivere, senza vergogna
  • L’invito
  • L’invito alla battaglia
  • Noi, qui
  • La voglia e la realtà della cifra
  • La lettura delle fiabe
  • La follia e l'arte
  • La tentazione del cibo
  • L'educazione. Amicizia, solidarietà, relazione
  • L'inconscio e la qualità della vita
  • La scuola e l’itinerario intellettuale
  • La scommessa dell’avvenire
  • La forza, l’orgoglio, la missione
  • La scuola, l’intellettualità, il merito
  • La democrazia
  • L’autorità e la disciplina
  • La decisione
  • Chi intende. Quale programma?
  • I dispositivi economici e i dispositivi finanziari
  • L’economia e la finanza. L’educazione al valore della vita
  • La scuola: per tutti o per ciascuno?
  • Generalmente, normalmente, comunemente.
  • La scuola senza etichette
  • La necessità pragmatica
  • La direzione e la bussola
  • Hänsel e Gretel
  • Cappuccetto rosso
  • Rosaspina
  • La sirenetta
  • I cigni selvatici
  • Il gatto con gli stivali
  • Barbablù
  • Il brutto anatroccolo
  • La lingua della parola
  • Il teorema della redenzione
  • La lingua dell’autorità
  • La lingua dell’annunciazione
  • La lingua della notizia
  • La lingua della volontà e il giro della morte
  • La lingua civile
  • La lingua dell’esperienza della parola
  • Il capitalismo nuovo e la sua lingua
  • La lingua della cura
  • Particolarità, proprietà, virtù della parola non sono personali
  • Non c’è più da aspettare
  • I termini della scommessa
  • “Sì, però…”, l’ipotiposi. E non c’è più litigio
  • La lingua della vita
  • Cibo e erotismo
  • La vita come reality
  • Farsi vittima
  • Stress e relax
  • La famiglia di Aladino
  • La lampada dell’erotismo
  • La poesia dell’acqua
  • L’amore
  • I giovani e la conoscenza
  • Aladino, il cibo, il fumo
  • Come il fantasma di morte fonda la nosologia e si dilegua all’orlo della vita
  • Di una lampada che non illumina
  • Cristo, Aladino e l’annunciazione
  • Aladino, la principessa, la sessualità
  • Mamma la paura: il matricidio, l’aborto, l’infanticidio
  • L’incredibile potere dell’uovo di Rukh
  • Patrimonio e matrimonio
  • Il caso clinico della Storia di Aladino e della lampada meravigliosa
  • Il modo dell’amore
  • L’amore libero
  • In materia d’amore
  • L’amore nell’educazione
  • L’amore senza genealogia
  • L’amore più ne ha, più ne dà
  • Il figlio, la memoria, il dolore
  • Come e perché la lettura dissipa i personaggi della fiaba e instaura il caso clinico e il caso di cifra
  • La lettura e l’ascolto
  • Il vittimismo e il fantasma di assassinio
  • Bullismo e vittimismo
  • L’abbandono
  • La famiglia senza più edipismo
  • L’ascolto
  • La famiglia come traccia e la clinica
  • Amicizia, solidarietà, relazione
  • Innamoramento e amore
  • Il narcisismo
  • L’amore del padre e l’odio della madre
  • Sessualità, generosità, riuscita
  • I dispositivi sessuali nella famiglia e nella scuola
  • L’educazione, l’ambiente, la civiltà
  • L’educazione senza ostilità
  • L’efficacia dell’insegnamento
  • Il progetto e il programma di vita
  • I dispositivi di direzione
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