Articolo pubblicato su “Transfinito. International webzine”
COME LEGGERE LE FIABE
“La fiaba è un modo con cui le cose incominciano il loro viaggio verso la qualifica. È il modo con cui incomincia la storia, la ricerca. La fiaba indica proprio questo: l’esigenza di ricerca, e comincia a dirsi quando questa esigenza non è più contenibile. Con la fiaba le cose si dicono, ossia cominciano il loro viaggio nel transfert, nel dispositivo dell’intendimento.”
La vita si fa di aneddoti, narrazioni, racconti. Ognuno racconta quel che accade, a modo suo. Per lo più ognuno comincia a raccontare con la fiaba. Anche nell’esperienza dell’itinerario intellettuale accade così. È la fiaba con cui ognuno si rappresenta, o rappresenta l’ambiente, l’Altro, la famiglia a fornire il materiale all’analisi. Con il racconto, con l’analisi la fiaba in quanto tale si dissipa, e ciò che viene fornito come paradigma del negativo, del male, dell’ingiustizia, o del fatto va verso il suo statuto logico, linguistico, intellettuale. Va verso la sua ragione, la particolarità. Si dissipa come fatto e diviene materia intellettuale.
La fiaba è un modo con cui le cose incominciano il loro viaggio verso la qualifica. È il modo con cui incomincia la storia, la ricerca. La fiaba indica proprio questo: l’esigenza di ricerca, e comincia a dirsi quando questa esigenza non è più contenibile. Con la fiaba le cose si dicono, ossia cominciano il loro viaggio nel transfert, nel dispositivo dell’intendimento. Nella fiaba, può darsi il caso che le cose non si capiscano; allora comincia il racconto della fiaba, per capire. Pertanto il fiabesco, il materiale della fiaba, è da capire, non è la verità sulle cose.
C’è chi considera la fiaba come ciò che deve confermare la morale vigente, o ritiene che la fiaba contenga e rilasci una morale, un monito, una prescrizione a conferma del corretto modo di comportarsi. È questo il modo di annichilire la fiaba, di evitarne la lettura. Non si può rinchiudere la fiaba nel cerchio della morale, perché ne viene espulso il messaggio. Eppure è ciò che è avvenuto con la morfologia della fiaba, con lo strutturalismo formale della fiaba, che hanno applicato alla fiaba la visione del mondo di appartenenza, per fare della fiaba un manifesto ideologico, un vademecum ideologico, un vademecum terroristico. È quel che è avvenuto con Vladimir Propp, con Claude Levi-Strauss, con Algirdas Julien Greimas, con Noam Chomsky che hanno considerato la fiaba come fenomeno da osservare rispetto a una struttura formale fondamentale, universale. Struttura da applicare in parallelo all’apparato tribale sociale. In questa prospettiva costoro hanno cercato di cogliere le costanti e le variabili della fiaba, per ricavarne la struttura di base, con relativi ruoli e personaggi fondamentali. Per fare un codice possibilmente universale di come dev’essere la vera fiaba, la fiaba modello, che deve riprodurre precisamente la realtà come dev’essere. Sia il formalismo russo, sia lo strutturalismo antropologico, sociologico o psicolinguistico procedono da un’idea di padronanza e la loro impalcatura va in direzione di un apparato prevedibile, calcolabile il cui funzionamento va in direzione dell’universale, del generale.
La fiaba, così intesa, procede da un fantasma di padronanza, che deve gestire e controllare il male, il negativo, il peccato, l’incesto localizzandoli e spazializzandoli; cioè confermandoli per contrastarli con il bene, il positivo, la grazia, la verginità resi sostanziali.
La fantasia della vendetta è l’istituto ispiratore della fiaba. Da cosa procede la vendetta? Dall’idea della colpa e della pena da gestire e somministrare. Il discorso che ritiene di avere la potestà sulla colpa e sulla pena, dunque sulla vendetta, si chiama morale.
Sull’istituto della vendetta e sulla sua regolamentazione sorge il tribale, la tribù; il tribale come società, la società tribale. Sul tribale sorgono le discipline del discorso che diciamo comune.
La fiaba enuncia una fantasia, apparentemente senza sbocco, senza avvenire, che ha la sua premessa nella rappresentazione di sé, della genealogia o dell’Altro che questa fantasia istituisce. È per lo più una fantasia di fine, di male, di morte, di negatività. Su queste fantasie si struttura un discorso, un discorso di padronanza, cioè un discorso che tenta di gestire queste negatività e che istituisce un cerchio per giustificarle. Questo discorso è ciò che occorre analizzare, nella circolarità che propone, per capire dove si appuntano queste fantasie e perché, dato che, in fin dei conti, queste compromettono il cammino di chi le assume opponendosi alla riuscita.
La questione è quindi l’analisi e la clinica, con cui il materiale della fiaba si rivolge al chiarimento e alla qualità.
Quel che è interessante dalla lettura della fiaba, è che il suo materiale non conferma la fiaba, ma la travolge, rivolgendola verso la clinica, da qui, verso la cifra. Clinica e lettura: esi-gono la sezione, la piega, nel viaggio di qualificazione di ciò in cui ciascuno s’imbatte.
Delle cose, ognuno ha un’idea. Quest’idea è secondo l’originario, secondo la logica particolare e si rivolge allo specifico? O, piuttosto, risponde a una mitologia? A una supersti-zione? A un’ideologia? A una modalità, cioè a un pregiudizio? Spesso, molto spesso, con l’idea che ha di qualcosa, ognuno si giustifica per ciò che fa, pensa, dice, per ciò che gli capita; spesso, molto spesso attribuendo a altri la causa, il motivo, la ragione di ciò che avviene. È il modo facile di reagire a ciò che accade, facendosi vittima e creando l’agente “patogeno”. Rappresentando quindi la causa nell’Altro.
La lettura, come modo di accogliere l’Altro, esige la dissoluzione del soggettivismo.
Cos’è il soggettivismo? È l’idea di essere, cui segue, per lo più l’idea di avere ragione, di avere le proprie ragioni. È l’attribuzione a sè dell’avere e dell’essere, senza ironia e senza le prove che vengono dal funzionamento, prova di realtà e prova di verità. Bisogna tenere conto che, caso per caso, le cose differiscono e variano, pertanto sono senza ontologia, non sono mai tali. Non sono. Non stanno. Dunque, non sono mai come sembrano stare.
Per questo, la coscienza inganna; e affidarsi alla coscienza, decidere, scegliere secondo coscienza è il colmo del soggettivismo. Non tiene conto della materia intellettuale di ciascuna cosa, né del caso specifico.
Analisi, clinica, cifra: sono questi i modi dell’esperienza intellettuale: analisi, il cui modo è l’assoluzione; clinica, il cui modo è l’aritmetica del tempo, la cifra, il cui modo è la lettura/scrittura. Sono questi i termini della formazione intellettuale, della formazione alla vita originaria.
Solo così ognuno può non soccombere alle fantasmatiche di fine, di rovina, di male, di malattia, di morte, di povertà, di miseria, e quant’altro. Se queste fantasmatiche vengono introdotte nella vita di ognuno, nell’esperienza soggettiva di ognuno, se vengono accolte e non attraversate, abbiamo l’infernale, la palude. Cioè, la vita viene a essere una successione di alti e di bassi, di positività e di negatività, di successi e di sconfitte: è una continua oscillazione polare, un’altalena, un saliscendi, un’alternativa senza qualità. Non a caso, una delle presunte malattie maggiormente attribuite agli umani, in assenza di itinerario intellettuale, è cosiddetto “disturbo o sindrome bipolare”, più comunemente e tristemente nota come “depressione maniaco depressiva”. In realtà, non si tratta di una malattia, ma dell’applicazione che ognuno fa alla vita dell’alternativa fra bene e male, fra l’alto e il basso, fra il grasso e il magro, fra il bello e il brutto. Addirittura, impedendo che le cose entrino nel funzionamento e ritenendole, così, tali.
Il dispositivo del racconto, istituito dalla cifrematica, con le sue conversazioni, con i suoi appuntamenti, con i suoi incontri, con i suoi dispositivi pragmatici, va nella direzione intellettuale di dissolvere il fantasma materno, di indicare la direzione verso la qualità. Di assicurare quindi la serenità e la tranquillità che sono conquiste come pure la chiarezza, la precisione, la qualità della vita. È ciò che Armando Verdiglione nella sua conferenza del 22 maggio 2003 a Padova, al teatro Verdi, chiamava la sovranità. Ciascuno allora conquista la sovranità con il dispositivo intellettuale.
Quelli che comunemente vengono chiamati “disturbi dell’alimentazione”, per esempio, non hanno granché a vedere con l’alimentazione, ma con una presunta immagine del corpo che deve soddisfare l’alternativa fra alto o basso, grasso o magro, bello o brutto.
Nel caso di Barbablù, è molto evidente l’alternativa fra alto e basso. Uno dei tanti modi di attuare l’erotismo del corpo.
Questa alternativa struttura un discorso di padronanza, di controllo, che ha come mira la morte. È un discorso che istituisce la caccia all’imperfezione ora del corpo ora della scena, in un’alternativa fra loro, così come fra sé e l’Altro, fra una cosa e l’altra. Molto spesso questa alternativa è giocata fra marito e moglie, fra padre e madre, fra padre e figlio, in una forma di ricatto/riscatto da cui dovrebbe sortire l’affrancamento dall’origine.
La fiaba di Barbablù pone il caso della moglie di Barbablù: Barbablù è il fantasma di un discorso di padronanza che spazializza il tempo geometrizzandolo, facendo significare l’alto e il basso come alternativi. Allora il taglio uccide: ecco le mogli sgozzate, le altre donne sgozzate, il pericolo di venire sgozzata, l’uccisione di Barbablù trafitto da due spade.
La figlia minore, è più bella della sorella? È più buona? A chi vuole più bene la mamma? Tolto il padre, il fantasma di abbandono diventa transitivo e la figlia minore si sente abbandonata. Il marito/padre, il marito/Altro vuole ucciderla. Lo stanzino in basso è il luogo della degradazione, il luogo del male, che contiene il segno del misfatto dell’Altro. L’Altro uccide, l’Altro è la morte. Lo stanzino è il luogo del segreto: quale segreto? Il segreto di mamma, il segreto della sessualità, il segreto della vita, il segreto della sostanza. Segreto, svelato il quale, le cose diventano facili. È il segreto del patto con il diavolo. È il segreto che toglierebbe le cose dalla procedura originaria, dalla pulsione, dalla domanda: tutto sarebbe allora facile, facile, noto, conosciuto. Finalmente non vi sarebbe più la differenza. Tutto sarebbe chiaro, uniforme, senza tempo. Soggettivo.
Ma, dissipate la fantasia di morte, di assassinio, di persecuzione non c’è più Barbablù, nel senso che il marito è quel che era sempre stato, ossia, come dice il testo della fiaba, “un galantuomo che le fece dimenticare i brutti giorni trascorsi con Barbablù”. Uno psichiatra zelante direbbe: “Finalmente, uscita dalla depressione, potè ritornare in famiglia.”. La questione non è l’uscita dalla depressione o la restitutio in pristino come forma della guarigione, ma la teorematica con cui si dissipa il fantasma materno e ciascuna cosa sta nello statuto originario.
Anche la lettura delle Mille e una notte contribuisce all’itinerario dalla fiaba al caso clinico. Questa apparente “raccolta” di fiabe si può leggere come lo svolgimento del viaggio intellettuale di Shahrazad, una donna, che per giungere a accogliere il matrimonio quale dispositivo sessuale, dispositivo della sessualità in atto, deve attraversare e dissolvere una serie di fantasmatiche intorno all’erotismo. Le mille e una notte, narrano il viaggio dall’erotismo alla sessualità; dall’idea di una sessualità erotica, dall’idea di una sessualità mortifera alla sessualità in atto, alla sessualità come strategia dell’avvenire.
Essenziale il racconto, essenziale il viaggio che si fa del racconto. Per ciascuno, si tratta di attuare quella navigazione intellettuale che dissipi le fantasie di chiusura, di erotismo, di fine delle cose, di morte per giungere al caso di cifra.
Come leggere questa fiaba? Quali ne sono i personaggi?
Le mille e una notte sono il racconto del viaggio di Shahrazad. Shahrazad, è una fanciulla che pensa che il padre muoia e che anch’essa deve morire. Perché deve morire? Per il principio della transitività genealogica che prescrive che tutti gli uomini sono mortali. In quanto appartenente alla genealogia paterna, anche Shahrazad deve morire; Questo è il suo pensiero dominante. Ma, questa prescrizione mortifera procede dall’idea di matricidio: dov’è la madre, in questa fiaba? La madre, apparentemente, non c’è, non è nominata. I personaggi femminili che intervengono nel testo sono le mogli adultere. La madre è messa a morte, è pensata assente per avere peccato di erotismo, per essersi macchiata della colpa di erotismo: tutto ciò che viene attribuito alle donne (infedeltà, malizia) è una fantasia intorno alla madre. Che cosa capita alle donne? Vengono uccise dal marito tradito, tranne una. È una fantasia negativa che introduce l’anfibologia della madre, ossia la possibilità che la madre sia positiva o negativa, sia buona o malavagia, entri in un’alternativa fra il positivo e il negativo.
Ogni alternativa applicata alla vita, ai casi della vita, alle prove della vita, applicata a sé (non so se ce la farò, se sono all’altezza, se mi andrà bene o male), applicata all’Altro o agli altri, procede dall’applicazione alla madre dell’idea di positivo o di negativo. Questa doppia possibilità si rappresenta come fantasia di potere vivere e di potere anche morire prematuramente. È chiaro che ogni fantasia di morte è una fantasia di morte prematura. E questo indica come il mito della madre sia un mito temporale, l’idea della madre è l’idea del tempo che ognuno ha. L’idea di mortalità possibile, imminente, incombente è il seguito alla mancata istaurazione del mito della madre.
La fantasia di erotismo si doppia per Shahrazad sulla fantasia d’incesto. Lo sposo è il padre. E, in quanto padre, è buono, in quanto sposo è malvagio, vendicativo: applica la gestione della colpa e della pena. Shahrazad, dunque, immagina di potere sposare il padre, amandolo e/o essendone amata. Si tratta del padre amante e del padre amato. È quindi una fantasia antica, di cui abbiamo traccia anche nel mito di Mirra.
E chi sono Shahriyàr e Shahzamàn, i due fratelli? E di chi sono le fantasie che vengono loro attribuite?
Shahriyàr e Shahzmàn sono personaggi che rappresentano il padre come sposo, sono rappresentazioni del padre amante. Il gran visir è il padre buono, il padre che ama, il quale però, proprio in quanto ama è un padre debole. Il padre che ama è il padre debole, che si commuove, che piange, che ha paura, che alza la voce, che fa la voce grossa: è il padre senza autorità. C’è quindi, per Shahrazad, questa oscillazione fra il padre debole e il padre amante che uccide le amanti. E le uccide in quanto non vergini. La questione della verginità è evidente, come istanza, nella fiaba, sin dall’inizio; ma per la via del negativo, ossia è denegata: il re, lo sposo, uccide la sposa non vergine, la sposa che si macchia della colpa. L’idea erotica è questa: che vi sia un atto che comporta la perdita della verginità. La sposa, dopo il matrimonio, non sarebbe più vergine, quindi sarebbe degradata, con i vari segni della degradazione. Per via di degradazione arriva la fine. La caratteristica dell’erotismo è questa: che le cose finiscano; che finiscano male o che finiscano bene, importa che finiscano. L’idea è che abbiano una fine, ma anche un fine; che siano finalizzate a qualcosa. Il finalismo è l’erotismo per eccellenza. È pensare che qualcosa sia finalizzata al bene, al male, al piacere, all’utile; e che pertanto debba finire una volta conseguito il fine. Il fine è, in realtà, l’idea della fine.
E chi è Dunyazàd? Dunyazàd è l’altra faccia della madre, è la madre buona, la madre salvifica. La madre che consente a Sharhazad di compiere il suo viaggio e il suo progetto.
Il mito di Maria nella prima parte della fiaba non si è instaurato. Maria che è madre, e vergine. Il mito di Maria è essenziale perché introduce la verginità come statuto intellettuale, ossia come teorema che dice: “Non c’è più incesto”.
Questa di Sherazade è la fiaba che pone l’istanza del matrimonio, come sessualità in atto, come sessualità senza erotismo. Ciascun capitolo delle Mille e una notte è una tappa del viaggio intellettuale lungo cui Sharahazad elabora le fantasie e i timori inerenti l’origine, la famiglia, l’erotismo, la morte, e può quindi accogliere il matrimonio quale dispositivo della sessualità. Senza più erotismo. Senza più paura.
La fiaba del Gatto con gli stivali è la fiaba dell’intraprendenza che esige la fede assoluta. La fede s’instaura procedendo dal principio della parola e dalle sue virtù: la libertà, la leggerezza, l’aria, la tentazione intellettuale.
Dalla constatazione che non c’è padronanza sulla parola né predestinazione e quindi la parola è libera di divenire cifra, valore assoluto, la tentazione intellettuale segue la questione aperta da cui procede la domanda; domanda che non rientra nella logica binaria dell’alternativa esclusiva e che quindi non ha da risolversi nel sì o nel no, nell’alternativa fra il positivo e il negativo, fra il bene e il male, fra la vita e la morte. Con la tentazione intellettuale la domanda si rivolge alla qualifica delle cose; è domanda innanzitutto di analisi. Analisi è assoluzione; è il teorema che dice che non c’è più sostanza, non c’è più sostanzialità, non c’è più talità (le cose non sono più tali e, quindi non sono più sapute), non c’è più conoscenza, non c’è più coscienza del bene e del male come fondamento, dunque non c’è più genealogia, come fondamento. Non c’è più la linea lungo cui fare l’economia della differenza per potere rientrare nei casi previsti dal probabile, su cui fondare un’appartenenza: non c’è più omologia, non c’è più omosessualità. La tentazione intellettuale è la virtù con cui incomincia il viaggio in direzione della qualità. Con la tentazione intellettuale esordisce la fiaba, che mette in questione il pregiudizio sostanzialista. C’è fiaba perché non c’è credenza nella sostanza, perché questa credenza è messa in questione. Con la fiaba, la genealogia come fantasma e il suo corollario, il fantasma di appartenenza entrano nel processo intellettuale. Vanno verso la dissoluzione.
Fantasma di genealogia o di origine, o di discendenza: sono varianti dell’idea di fine. Ma, ogni fine deve avere un inizio: questo è il criterio della durata. Il fantasma di origine tenta di localizzare e di spazializzare il dove delle cose, il va e vieni della vita.
Perché gli umani sono dediti a questa spazializzazione? Perché seguono l’impostazione platonica secondo la quale ognuno sarebbe portato verso ciò che non contraddirebbe la sua origine. E allora ognuno cerca di capire per che cosa sarebbe portato e di cosa sarebbe portatore. È una teoria della predestinazione, cui ognuno è legato, perché soddisfa anche l’idea di appartenenza. Ognuno è portatore di genealogia, ognuno è portatore sano di morte. Questa linea che congiungerebbe ascendenti e discendenti, questa linea genealogica consentirebbe di conoscere le cose, di prevedere l’avvenire, di fare il gioco del probabile e dell’improbabile. Senza tenere conto che probabile è quel che non è attuale. In realtà è un gioco di società: come allestire le classi sociali. Ciò che viene negato da questa credenza è l’infinito attuale. Nell’infinito attuale ciascuna cosa è libera di divenire qualità perché è senza legame con il passato, con l’origine, con l’avvenire. Per questo può divenire evento, cioè effetto del tempo.
La fiaba del Gatto con gli stivali indica proprio l’assenza di naturalismo e di predestinazione in ciò che si fa, e nella scrittura di ciò che si fa. La fiaba comincia con il fantasma di genealogia e indica qual è il destino di chi si avvolge in questa fantasmatica: è la morte quale realizzazione dell’origine. Il fantasma di genealogia si avvale spesso di quello di alternativa esclusiva, come indica il mito di Caino e Abele. Fantasma che si formula comunissimamente: “A chi vorrà più bene mio padre? (o mia madre?)”, “Chi sarà il preferito?”. Sorge allora la rivalità, che è l’applicazione dell’algebra alla relazione, intesa come legame tra A e B. Invece tra A e B non c’è nessun legame e nessuna relazione.
La relazione originaria è legame/slegame, è contraddizione da cui anche A e B procedono, senza vincoli. Quella che è chiamata relazione tra A e B è la relazione sociale, cioè il com-promesso verso la morte che socialmente lega A a B e viceversa. Un mero compromesso istituito perché la società si regga sull’ordine della morte.
Dissipato questo legame fantasmatico il Marchese di Carabbas comincia a funzionare. Marchese di Carabas è quindi il nome che funziona. Da dove viene questo nome? Dal Gatto, dice il testo della fiaba. Chi è, quindi, o che cos’è, questo gatto? Il Gatto, ce lo dice ancora il testo, è l’eredità. Ma non come sostanza, non come i beni o i mali ereditati dai predecessori, di cui i successori sarebbero i portatori o i detentori. L’eredità, dice Verdiglione, è la famiglia, come traccia dell’interdizione linguistica, dunque come traccia della parola e dei suoi modi. Modo del due, modo del tre, modo del tempo. L’eredità è il modo della parola. Nel momento in cui il fantasma di successione e, quindi di ereditarietà, si dissipa, si dissolve, ecco funzionare il marchese di Carabas, il nome che funziona instaurato dall’eredità, dalla traccia della parola originaria e dai suoi modi. Il Gatto è quindi l’eredità, di cui il marchese si avvale, attraverso i suoi modi: modo della relazione (modo del due), modo della distinzione, della funzione, della dimensione, dell’operazione (modi del tre).
Ciascuno è ereditiere della parola originaria. Senza nessuna predestinazione, ma con la missione di restituire quel che ha ricevuto. Questa restituzione non è in pristino, come afferma il discorso medico a proposito della guarigione, (non c’è più restitutio in pristino perché non c’è reversibilità del tempo), ma è restituzione in cifra. Sta qui il contributo alla civiltà.
Il Gatto è quindi l’eredità e da cui procede il dispositivo della parola originaria. In questo caso, il gatto non è animale fantastico anfibologico, ma ciò da cui s’instaura il dispositivo sintattico, frastico, pragmatico. Dispositivo artificiale, non naturalistico, in direzione della qualità. Questo dispositivo è il cervello della parola. Ciò che la fiaba dice essere fatto dal gatto, è ciò che sta nella parola originaria, che procede dalla parola, senza più la credenza nella morte, senza più la superstizione della possibilità di bene o di male, senza più la superstizione della predestinazione. È l’avvenire e il divenire delle cose prese nel processo di funzionamento, e nelle dimensioni della parola, materia, sembianza, linguaggio, nella logica singolare triale.
Il gatto instaura la funzione paterna, in quanto eredità originaria: senza più genealogia, il padre funziona, non muore, il nome funziona. “Senza più” vuole dire che non c’era mai stata, ce n’era l’idea.
Quel che è interessante è che questa eredità comincia, è a disposizione, con la vita, non esige la morte di nessuno. È il discorso ossessivo che ritiene di dovere aspettare la morte del genitore per uscire dalla condizione filiale, dalla gabbia, dalla prigione filiale, che impedirebbe la riuscita. È proprio il caso del figlio del mugnaio che pensa che se il padre muore allora potrà ereditare, ma, anche, morirà di fame. Questa fiaba fornisce anche l’indicazione che ciò che viene chiamata psicopatologia non è che un elenco delle fantasmagorie intorno alla fine di sé e/o dell’Altro. I fratelli restano nella predestinazione, se fratelli animali.
La fiaba del Gatto con gli stivali o Mastro gatto, è la fiaba che narra come divenire imprenditore. Divenire imprenditore è un altro modo per dire come stabilire il progetto e il programma di vita e come fare perché giungano alla riuscita. Il divenire esige il tempo e l’occorrenza delle cose. Si tratta qui della necessità non ontologica, non dello stato di necessità; della necessità che viene dal vivere secondo il criterio della qualità. Senza la necessità di vivere, il “figlio del mugnaio” ha paura (della morte), perché vive nella rappresentazione della morte; il marchese di Carabas, con la necessità di vivere, non ha paura, segue il programma, segue l’istanza della qualità e instaura i dispositivi opportuni. È questa l’impresa originaria, che esige la fede senza paganesimo. Senza la rappresentazione dell’Altro agente, dell’Altro cui potere assegnare la delega perché intervenga in nostro favore. Dell’Altro quindi preso nell’anfibologia amico-nemico: l’Altro è irrappresentabile. La fede, così, è senza delega, come la fiducia. E senza religiosità.
Con la fede, opera l’idea dell’oggetto, della causa. Proprietà della fede è la testimonianza.