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Secondo capitolo del libro Luigi Pirandello L’amore e l’odio

L’amore libero (L’esclusa Romanzo di Luigi Pirandello)

Ruggero Chinaglia Giovedì prossimo, nella sala in Via Valeri, presentiamo il sesto numero della collana “La cifrematica”, che s’intitola La follia, la pazzia, la clinica. A presentarlo ci saranno alcuni esponenti del movimento cifrematico che vengono dalla Svizzera, esponenti di un’esperienza che è in corso da anni a Losanna e a Ginevra, con alcuni interventi intorno al tema Esperienza e clinica della psicosi in Svizzera.

È un’occasione sicuramente di grande interesse per considerare vari aspetti sia di ciò che viene chiamata la follia, sia di ciò che viene chiamata la pazzia, sia di ciò che viene chiamata la psicosi nelle sue rappresentazioni varie, e quindi una testimonianza di un modo di affrontare la questione differente da quello convenzionale psichiatrico, cioè senza uso di psicofarmaci. Già questo lo rende interessante. I nostri ospiti saranno François Keller, presidente dell’istituto e altri suoi membri. È il caso di diffondere la notizia per dare modo a tante persone di venire a ascoltare questi nuovi contributi.

Proseguiamo ora il nostro laboratorio tenendo conto delle molte domande che sono sorte nel dibattito di quindici giorni fa. Occorre precisare, tuttavia, che qui si tratta di un’indagine, di una ricerca attorno all’amore, la quale, però, non attinge a quanto di convenzionale è solitamente noto come amore, cioè non parliamo dell’amore come sentimento. Forse questo non abbiamo avuto modo di precisarlo così perentoriamente l’altra volta, quindi

occorre fare uno sforzo di astrazione rispetto a quanto viene pubblicizzato come sentimento, a quanto viene pubblicizzato come “discorso d’amore”.

Vediamo di precisare alcuni dettagli, perché occorre fare uno sforzo intellettuale per distinguere l’amore strutturale, per ciascuno, dalle rappresentazioni dell’amore, da quella sorta di repertorio psicologico che viene chiamato amore. Si tratta di considerare la questione dell’amore in assenza di finalismo, in assenza di reciprocità, in assenza di finalità, cose che renderebbero certamente l’amore padroneggiabile, dominabile, gestibile e, diciamo, anche umano, molto umano. Ma c’è da chiedersi se lo sia, se l’amore possa attribuirsi all’umano.

C’è chi diceva, la settimana scorsa, che nell’amore si tratta di dare o di darsi. Dare o darsi per piacere, non per una forma di convenienza, di calcolo, di utilitarismo, ma per piacere. Però, già questa formula indica il piacere come utilità, come fine, come scopo. Altri proponevano che si tratta di dare qualcosa per amore. Quindi, l’amore diventa il fine o il movente. Sono varianti dell’amore inteso come coscienza dell’amore, come amore conoscibile, conosciuto, come conoscenza dell’amore. Amore di cui sarebbe possibile ispirare un catalogo per indicare le formule proprie, corrette e, accanto, le formule improprie, i disturbi, le aberrazioni, le patologie. Ma questo non sarebbe più l’amore, bensì l’amore visto attraverso la sua patologia, come la sua rappresentazione sintomatica. Sarebbe l’amore come sentimento.

L’amore come sentimento è l’amore considerato per la sua rappresentazione sintomatica, dove per “amore”, si propone il volere bene, volere il bene altrui. E questo sfocia nell’altruismo, quasi a indicare una forma di conoscenza del bene, a indicare un modo attraverso cui c’è chi conosce il bene altrui e lo somministra. Questo è il bene come farmaco, il bene in una accezione morale. Oppure l’amore è proposto come legame sociale, è l’amore che lega, l’amore che dovrebbe portare all’unità, l’amore attraverso cui “fare uno”, l’amore di coppia, l’amore che unisce la coppia, l’amore che unisce la famiglia, l’amore che unisce la società, l’amore come collante, come ciò che unisce. Esploreremo quest’idea di amore che parte da lontano, dall’amore platonico. Dell’idea d’amore come legame sociale, dell’amore come forma della buona coscienza, ci parla Luigi Pirandello nel bellissimo romanzo L’esclusa.

La scena si svolge a casa del signor Pentàgora, che sta cenando e arriva il figlio. Questi annuncia che ha cacciato di casa la moglie. Perché l’ha cacciata? Perché lo tradiva. La moglie lo tradiva e la prova sta in una lettera che aveva in mano e il padre, apprendendo la novità, gli dice: Ricordati, oh! che te lo avevo predetto.

/…/ Ricordava.

Tant’anni addietro, anche a lui, di ritorno alla casa paterna dopo il tradimento della moglie, la sorella Sidora, bisbetica fin da ragazza, aveva voluto che non si movesse alcun rimprovero. Zitta zitta, lo aveva condotto nell’antica sua camera da scapolo, come se con ciò avesse voluto dimostrargli che si aspettava di vederselo un giorno o l’altro ricomparire davanti, tradito e pentito.

  – Te lo avevo predetto! – ripeté, riscotendosi da quel ricordo lontano, con un sospiro.

 /…/ Noi Pentàgora… – quieto, Fufù con la coda! – noi Pentàgora con le mogli non abbiamo fortuna.

 /…/ Già lo sapevi… Ma tu credesti d’aver trovato l’araba fenice. E io? Tal quale! E mio padre, sant’anima? Tal quale!

Fece con una mano le corna e le agitò in aria.

– Caro mio, vedi queste? Per noi, stemma di famiglia! Non bisogna farsene. 

/…/ – È destino! Ognuno ha la sua croce. La nostra, è qua! Calvario.

E si picchiò sul capo.

– Ma, alla fin fine, sciocchezze! – seguitò. – Croce che non pesa, è vero, Fufù? – Fufù è il cane. Si capisce con il cane – quando abbiamo cacciato via la moglie. Anzi, porta fortuna, dicono. La gente piglia moglie, come si piglia in mano la fisarmonica, che pare chiunque debba saperla suonare. Sì, a stendere e a stringere il màntice, non ci vuol molto; ma a muover le dita di quella maniera per pigiare su i tasti, lì ti voglio!

Sorge così la nozione di coscienza. All’inizio del decimo capitolo, a proposito della coscienza, Pirandello scrive: Oh, mia cara, quando io dico: “la coscienza non me lo permette”, io dico: “Gli altri non me lo permettono, il mondo non me lo permette”. La mia coscienza! Che cosa credi che sia questa coscienza? È la gente in me, mia cara! Essa mi ripete ciò che gli altri le dicono. Orbene, senti: onestissimamente la mia coscienza mi permette di amarti. Tu interroga la tua, e vedrai che gli altri t’hanno ben permesso di amarmi, sì, come tu stessa hai detto, per tutto quello che t’hanno fatto soffrire ingiustamente.

L’amore secondo coscienza. A cosa conduca l’idea dell’amore e come s’instauri, questo romanzo lo illustra in modo interessante. C’è chi lo abbia già letto? Nessuno. È una lettura molto istruttiva, in cui si tratta della vicenda dell’amore a partire dalla credenza nella genealogia, quindi della predestinazione, con tutto ciò che comporta di umano, cioè d’infernale.

Segue la storia di questo figlio, della moglie, la condanna, le peripezie, l’incontro con l’amante. Il frutto del tradimento, mentre il primo frutto muore, il secondo dovrebbe sancire la condanna sociale definitiva. A questo punto, Marta, la moglie, si chiede perché doveva essere una vittima, lei che sola era l’esclusa, lei che non avrebbe ritrovato più il suo posto, checché facesse, lei a cui non sarebbe più ritornata la vita di un tempo. Pirandello mette lì queste cose con nonchalance: l’idea del ritorno, il fantasma di esclusione, il vittimismo come cose normali per persone normali, cioè per chi crede nella genealogia, nella predestinazione, nel vittimismo, nell’amore come legame sociale, nell’amore come reciprocità, nell’amore come modo della coscienza, l’amore secondo coscienza. E cosa dice di fare Marta, l’esclusa, la vittima ripudiata dal marito, ripudiata dal padre, ripudiata dalla società? Decide di uccidersi. Si tratta solo di trovare il modo.

E mentre si arrovella intorno al modo, è chiamata al capezzale della madre del marito, che sta per morire. E allora decide di confessare la colpa, il tradimento. Ma per via della colpa non può accogliere la proposta del marito di ritornare da lui. Ma mentre lei dice: – Vado… Non lo so… Ti raccomando… /…/

– No, Marta! No! No! Non mi lasciar solo! Marta! Marta! Marta mia! /…/

– Rocco, no, è impossibile… Lasciami… È impossibile…

– Perché?… Perché? … /…/ Perché Marta? Perché me l’hai detto?

– Lasciami… No… lasciami… Non mi hai voluta…

– Marta, dimentico tutto! e tu pure, dimentica! Sei mia! Sei mia! Non mi vuoi più bene?

– Non è questo, no!  /…/ Ma non è più possibile, credimi, non è più possibile!

– Perché? Lo ami ancora? – gridò Rocco fieramente, sciogliendola dall’abbraccio.

– No, Rocco, no! Non l’ho mai amato, ti giuro! Mai! Mai!

E ruppe in singhiozzi irrefrenabili; sentì mancarsi; s’abbandonò tra le braccia di lui, che istintivamente si tesero di nuovo a sorreggerla. –

E nella stanza accanto la madre sta morendo, la madre di Rocco.

– Fiaccato dal cordoglio, a quel peso, egli fu quasi per cadere con lei: la sostenne con uno sforzo quasi rabbioso, nella tremenda esasperazione: strinse i denti, contrasse tutto il volto e scosse il capo disperatamente. In quest’atto, gli occhi gli andarono sul volto scoperto della madre sul letto funebre, tra i quattro ceri. Come se la morte si fosse affacciata a guardare.

Vincendo il ribrezzo che il corpo della moglie pur tanto desiderata gl’incuteva, egli se la strinse forte al petto di nuovo e, con gli occhi fissi sul cadavere, balbettò, preso di paura:

– Guarda… guarda mia madre… Perdono, perdono… Rimani qui. Vegliamola insieme…

E qui termina il romanzo, che è straordinario perché, contrariamente a quanto può sembrare, indica che la madre non muore, indica che, se il mito della madre è in atto, la madre non è morta, non è denigrabile, è senza colpa, è immacolata, per cui la vicenda non può andare a finire male. Cioè, mentre questa scena sembrerebbe sancire la colpa e il perdono in nome della madre morta, invece indica proprio il contrario, la dissipazione della fantasia genealogica per cui la madre sarebbe Eva, madre non vergine, mentre qui, in conclusione, troviamo Maria, madre, vergine, senza colpa, senza peccato. Si dissipa quella genealogia negativa con cui il romanzo si apre, cioè con il fantasma materno della negatività, di una genealogia cui appartenere, ma che lungo lo svolgimento del romanzo si articola e si dissipa.

Naturalmente, occorre leggerlo senza aderire al convenzionalismo, alla morale. Occorre leggerlo clinicamente, con la clinica della parola. Occorre leggerlo in assenza di coscienza morale e sociale come peraltro si tratta di leggere ciascuna opera, ma Pirandello in particolare si presta a ciò. Abbiamo fatto, anni fa, la lettura dei Sei personaggi in cerca d’autore e altre cose ancora. E la questione è che l’amore non può risentire della fantasmatica del materno, cioè della fantasmatica soggettiva per cui le cose finiscono, il tempo finisce. Elaborando la fantasia che ognuno sia agente dell’amore si reperisce un’altra nozione d’amore differente da quella esaltata dal discorso amoroso.

Prendiamo, per esempio, il caso di don Giovanni. Don Giovanni dice di amare le donne, ma di amarle tutte e di fare la contabilità di questo amore. Dove si situa don Giovanni? Don Giovanni è amante o don Giovanni è amato? Si situa nell’idea di amare o nell’idea di essere amato? Ama le donne o chiede di essere amato dalle donne? Che cosa muove don Giovanni a fare la contabilità dei suoi atti amorosi? Insegue l’amore o gli amori? Insegue le donne da amare o da cui essere amato? E perché deve amarle tutte? Potrebbe perdere qualcosa? Perderne qualcuna? Certamente, don Giovanni è estraneo all’amore. Come è estraneo chi ritiene di perseguire l’amore eterno o di presumere che l’amore possa finire. Per don Giovanni è già finito, per questo ripete. Ciascuna volta è costretto alla ripetitività per rinnovare l’amore che finisce. È questa l’idea della circolarità, della ripetitività. È anche l’idea del ritorno, della possibilità del ritorno che è l’idea stessa di potere tornare all’unità, tornare a quell’unione che era presunta all’origine e che poi sarebbe andata perduta. Il ritorno all’origine come modo di pensare alla fine, come modo di pensare alla morte. Questa è la prescrizione dell’amore umano, l’amore che unisce, che riunisce, l’amore come ritorno all’unità. Per don Giovanni l’amore si consuma nell’atto che lo inaugura, finisce. È un amore che si consuma, un amore che finisce.

Ma, dunque, il libertinaggio sarebbe una forma di libertà? O è il ripiegamento a cui costringe l’idea che l’amore finisca? È libertinaggio la libertà di amare? È libertinaggio l’amore libero? Potrebbe sembrare che questo non c’entri niente con la predestinazione, ma quante volte accade di sentire dire che tizio, tizia, caio, caia è in attesa dell’anima gemella? Ci sarà pure un’anima gemella! C’è anche chi si prodiga a far sì che tizio, caio e sempronio incontrino l’anima gemella. E l’anima gemella che cos’è se non il resto fantasmatico dell’idea dell’uno che si è diviso in due e che all’uno deve ritornare? Quell’idea gnostica che formula la predestinazione come ritorno all’unità attraverso l’anima gemella? E senza andare a trovare l’anima gemella, ogni formula che propone l’unità della coppia, l’unità della famiglia, l’unità sociale pone la questione gnostica dell’uno che si è diviso in due e che deve ritornare a costituire l’unità. Si tratta di un mito antichissimo, il mito dell’androgino.

C’era una volta l’androgino che bastava a stesso. Poi è stato separato, diviso in due: una metà è andata in giro errabonda a cercare l’altra metà per ricostituirsi, per riformare l’unità perduta. Questo mito antichissimo, dimenticato, è la forma più eminente di superstizione che istituisce la base del discorso amoroso, di ciò che viene proposto come amore, facendo di ogni erba un fascio e assimilando l’amore alla sessualità, all’erotismo e a quant’altro.

Occorre distinguere, invece, amore, sessualità, erotismo e quant’altro. Se, come dicevamo l’altra volta, già gli antichi per qualificare l’amore avevano bisogno di ricorrere a almeno tre termini distinguendo l’eros dall’agape, dalla filía, perché adesso tutto dovrebbe confluire nell’amore inteso come reciprocità, come sentimento, come idea di unità, di ritorno all’uno? Come se fosse una cosa naturale, addirittura una cosa bestiale, come se non si trattasse di cosa intellettuale. E, quindi, occorre indagare quale sia lo statuto dell’amore con la clinica, indagando quelle formule che possono sembrare scontate, consuete, usuali, ovvie e che sfociano invece nella fantasmagoria della rivalità, del ricatto, del tradimento, del vittimismo, dell’idea di fine, idea che trae a una reazione rispetto allo statuto originario dell’amore che ognuno cerca di padroneggiare a modo suo, per gestirlo, amministrarlo e somministrarlo anche agli altri.

Occorre indagare quanto a questo nei testi dei poeti, degli scrittori, dei filosofi, degli sceneggiatori per cogliere la struttura per via della clinica. Non è un caso che il romanzo L’esclusa si apre e si conclude in questo modo. C’è un filo logico e clinico che percorre il romanzo e gli dà la sua tenuta. Tutto ciò che accade nel romanzo occorre analiticamente intenderlo non come realisticamente accaduto, ma come una fantasia di Marta, la protagonista del romanzo, a partire dall’arbitrio della sua idea; intendere qual è stata la fantasia di Rocco, un altro protagonista del romanzo, a partire dall’arbitrio della sua idea, in questo caso l’idea che la madre sia assente, assente in quanto ripudiata, per cui colpevole di qualcosa. A partire da quest’idea, allora la negatività su ogni gesto, su ogni atto della vita quotidiana.

C’è un film che attualmente circola nelle sale, Gli amici del bar Margherita. È da vedere e da ascoltare. Però, occorre vederlo dall’inizio per capire qual è la fantasmatica lungo cui il film si snoda e poi si conclude.

Non va da sé capire e intendere che in ciò che sembra costituire il fondamento del negativo si tratta in realtà di un’idea. Non va affatto da sé. Solamente nell’atto analitico è possibile cogliere la natura fantasmatica del negativo. Al di fuori del procedimento analitico, il negativo è reale: ognuno crede al negativo, alla possibilità del negativo, che le cose vadano a finire male o che comunque possano andare a finire male, come possibilità. Questa è la superstizione, e questa superstizione è il discorso occidentale, ciò su cui si regge la civiltà occidentale con i suoi modi, le sue credenze, le sue convinzioni, con le sue prescrizioni. Ogni forma di classificazione altro non è che una conferma di questo: la classificazione conferma la credenza nel negativo come substrato.

Nell’atto analitico non c’è nessuna classificazione; ciascuna cosa è da qualificare nella circostanza specifica in cui occorre. È inclassificabile; non fa parte di una cronologia né di un sistema. Il discorso occidentale è il discorso del sistema, della classificazione, è l’esaltazione della classificazione anziché dell’analisi con cui cogliere la particolarità di quel caso, che è inaccostabile a ogni altro e non si presta all’incasellamento. Il discorso occidentale è un procedimento per analogia, per somiglianza, per possibilità, per memorizzazione, per semplificazione, per velocizzazione e in nome della velocità, della facilità, della finalità di bene ognuno partecipa alla sistematizzazione. Ma ciò è impossibile, perché l’infinito non è sistematizzabile, questa è la questione. Dunque, nemmeno l’amore può partecipare di un sistema, di un discorso che lo sistematizzi e che ne possa codificare i modi.

Solo avendo precisato questa serie di elementi noi possiamo accostarci alla questione effettiva dell’amore, che comporta la domanda, l’amore che sta nella domanda. Non l’amore che presupponga di sapere qual è il suo oggetto, qual è il suo destinatario, qual è la sua causa, qual è la sua fine, ma l’amore che sta nella domanda.

La questione è come, in che modo e per quale combinazione l’amore si combina con la domanda. Non c’è chi abbia già la combinazione, non c’è chi possa dire di saperlo già, e ciò esige la ricerca, esige di trovare il modo, esige di non partecipare all’idea di agire, di essere l’agente, di essere il rappresentante dell’amore, o dell’amorosità, o dell’amabilità, perché questa idea di amore transitivo, di amore che si volge al suo oggetto, altro non è se non l’esatta definizione di quella che Freud chiamava “nevrosi”. Nevrosi è l’idea di potere amare l’oggetto, che l’oggetto sia prendibile e che costituisca il destinatario dell’amore. Questa è la cosiddetta nevrosi, questo è il fantasma materno, è un’idea fasulla di amore.

Direi che per il momento possiamo fermarci qui e verificare se ci sono cose da chiarire prima di procedere ulteriormente. Ci sono domande, notazioni, echi, fantasie, obiezioni, dissidenze, dissensi, consensi o quant’altro?

Gianfranco Dalle Fratte Vorrei fare una domanda: lei ha detto che l’amore come sentimento è una rappresentazione sintomatica dell’amore. Poi ha detto che l’amore sta nella domanda. Io le chiedo: il sintomo procede dalla domanda? E se può dire qualcosa del sintomo, perché sicuramente non dovrebbe essere il sintomo dell’amore ma, mi verrebbe da dire, amore come sintomo. E come si combina il sintomo con la domanda.

R.C. Come distingue il sintomo dell’amore dall’amore come sintomo?

G.D.F. L’amore come sintomo è irrappresentabile, nessuna idea dell’amore e il sintomo dell’amore è l’idealizzazione dell’amore, un ideale. Sintomo e domanda: chi è nella domanda allora niente sintomo? Chi è nel sintomo, se non come rappresentazione, è senza domanda?

R.C. Lei ha toccato una questione complessa, affrontando la quale si dissipa l’idea di amore come relazione. Ciò che volevo sottolineare questa sera è proprio che l’amore non è la relazione, che l’amore non è il modo della relazione, non è una relazione, accanto e versus a quanto constatava Erich Fromm già molti anni fa, che l’amore non è soltanto una relazione con una particolare persona; ma già qui c’è l’ammiccamento a che possa esserci una relazione. Invece no, non lo è proprio. E neppure è una facoltà. Lui dice: “Eppure la maggior parte della gente crede che l’amore sia costituito dall’oggetto, non dalla facoltà d’amare”. Bene, non è né l’oggetto, né la facoltà di amare. L’amore non è una facoltà, non è la facoltà di amare.

“La maggior parte della gente”. Come si fa a esprimersi così? “La gente crede”. È del tutto inessenziale cosa crede la gente. Cosa può credere la gente non lo sappiamo. Cosa importa cosa crede la gente? È una formula attraverso cui si nasconde Fromm: “La gente crede che… Io credo che…”.

Cecilia Maurantonio Lei ha detto in apertura che l’amore non è un sentimento. Nel termine sentimento c’è il sentire e ha anche detto che non si sa quale sia la combinazione. C’entra una logica in questa combinazione anche se non è nota? Implica la logica, le logiche? E nel sentire ci si accorge dell’amore? Qualcosa si sente? Si tratta di sensazioni, di effetti? Magari non si sa sull’amore, ma ci si accorge?

R.C. Lei chiede come ci si accorge?

C.M. Più che come ci si accorge, m’interessava l’aspetto delle sensazioni o del sentire, perché non sarà così fortuito che l’amore sia una questione che riveste un’importanza di grande rilievo, assoluta. Infatti, in nome dell’amore, in virtù dell’amore si fanno battaglie, crociate, ecc. Effettivamente, noi non sappiamo che cos’è, ma qualcosa è, di qualcosa si tratta e pure di una grande portata. Cioè, è connesso al sentire, perché è così assoluto, in un certo modo? O magari dico io che è assoluto.

R.C. Stiamo indagando. Diciamo che non abbiamo ancora le risposte, dobbiamo indagare. È tempo d’ipotesi, di questionamenti, di domande. Intanto, si tratta di dissipare l’idea facile sull’amore, l’idea concorde, il luogo comune.

Pubblico La domanda è se l’idea del negativo viene a partire da una coscienza individuale o da una coscienza collettiva.

R.C. Quella individuale è più che sufficiente e, d’altronde, è l’unica. Cosa sarebbe la coscienza collettiva?

Pubblico È l’idea dell’amore, ossia di ciò che dice della tendenza a classificare, della tendenza a certe condizioni, a certe credenze, a certe cose che sono influenzate da una coscienza collettiva, per la formazione di una coscienza individuale.

R.C. La coscienza collettiva. E quindi occorre riprendere Pirandello.

Pubblico Sì, riprendere Pirandello e la predestinazione.

R.C. La coscienza è l’idea che ognuno ha di sé e degli altri inseriti in una ontologia, ossia in un’idea dell’essere anziché del divenire. Questa è la coscienza: che le cose siano. Allora è chiaro che è paradossale. Già l’idea che le cose siano è paradossale.

In ciascun atto, ciascuno si rende conto che le cose non sono mai tali, non sono mai come se le aspetta, non sono mai come crede siano. Non sono. E quindi già quest’idea è paradossale. Pensare poi, addirittura, che esista una coscienza comune, una coscienza collettiva, una coscienza popolare, una coscienza delle masse, ciò non è più paradossale, è comico. Non assurdo, perché l’assurdo è qualcosa di molto impegnativo. Questo è comico. Una coscienza collettiva vorrebbe dire che ci sarebbe una comunanza di conoscenza, di comunicazione, d’intendimento, d’intesa. Provate a mettere d’accordo, non dico due gruppi, ma due persone: è impossibile!

La coscienza è una reazione alla particolarità, è qualcosa che è stato proposto a un certo punto come reazione alla particolarità. Per fondare una comunità occorreva una coscienza, cioè un sapere comune, una comunanza. Allora è stata proposta la coscienza, un qualcosa in comune. Ma l’esigenza di parola indica che la comunanza è irraggiungibile, è impossibile, è una frottola. E non c’è da temere, perché le cose non avvengono né si dicono secondo coscienza, ma secondo la loro particolarità, secondo la logica particolare, che va indagata con il procedimento analitico. Analitico, non sintetico. La sintesi vorrebbe riproporre la riunificazione. Sintesi è questo, vuole dire riunificazione. Ognuno che propone la sintesi propone la riunificazione, cioè che c’era una volta l’unità, poi è intervenuta la spaccatura e bisogna ritornare all’unità. Questo è il fantasma di morte! Si tratta di un’idea terribile. E contro quest’idea lotta chi ci crede, perché la riunificazione, la sintesi, propone la fine. La riunificazione, la sintesi, coincide con la fine, è il ritorno all’origine, è la fine. Questo è il fantasma di morte contro cui lotta chi ci crede, ma non basta lottare, credendoci; occorre sospendere la credenza, occorre dissipare la credenza, occorre cioè assolvere la credenza. Non è questione di convincimento o di argomentazione, ma è questione di dissipazione, di assoluzione. È ciò a cui tende il procedimento analitico.

Analisi, ossia assoluzione. L’analisi è assoluzione e qualificazione. Proprio in quanto ciascuna cosa è assolta rispetto a una credenza, rispetto a una ontologia, questa cosa si può qualificare, può rivolgersi al suo statuto intellettuale, può rivolgersi allo statuto attuale. Finché rimane un’idea di retaggio, un’ontologia, una presa del passato di qualcosa su qualcos’altro, ognuno è sotto scacco, in ostaggio. Ognuno è ostaggio di questa credenza.

Con il procedimento analitico, non c’è più l’ostaggio del passato, non c’è più l’ipoteca del passato, non c’è più la predestinazione. Non può esservi amore in presenza di questo retaggio, dell’idea di appartenenza a un passato, di un imbrigliamento ontologico. Sarebbe l’amore inteso come imbrigliamento, come ricatto, come comunione, come unione, ma l’amore come unione non è amore, è unione. Cioè, c’è una sorta di riporto all’origine. Occorre che s’instauri, invece, l’amore nel suo statuto, e ciò è qualcosa che non ha nessun paragone possibile con l’animalità, con l’umanizzazione, con la socializzazione, con l’unificazione. Se si riesce a svincolare l’amore dalla sua metafora spirituale, religiosa, sociale, allora può comparire qualcosa dell’amore originario, dello statuto dell’amore. Fino a che l’amore resta abbarbicato a questo riporto, a questo paragone, a questo richiamo, non si tratta dell’amore, si tratta della gnosi.

Maria Antonietta Viero C’è una formulazione, credo nella Peste o in Dio, in cui Verdiglione scrive che l’amore è custode del parricidio o una formulazione abbastanza vicina a questa. Però, mi sembra questa sera a proposito dell’amore, che l’idea di amore come ricongiunzione all’unità, e quindi basata sul principio di unità, non sia di ritrovare lo statuto dell’amore, ma che si tratti del debutto nel parricidio per indagarne la struttura e trovare i termini. Cioè, togliere il parricidio è il toglimento dello zero. Con il parricidio, quindi con l’introduzione dello zero, c’è il debutto dell’amore funzionale anziché l’amore basato sul principio dell’uno come unità e del suo mito dell’androgino. Perché, anche i vari miti che riguardano l’amore così superficialmente, partono sempre dall’amore del padre, e anche il reperimento di un uomo da parte di una figlia, sia anche un re sia qualcos’altro, parte sempre dall’amore del padre per potere trovare un uomo. Allora, mi sembra che si ponga la questione del parricidio proprio per lo statuto dell’amore, intendendo come parricidio l’introduzione dello zero, quindi la funzione di nome e non il nome del padre che diventerebbe realistico, il nome del nome.

Mi viene in mente una frase che ho letto in questi giorni, penso sia di Goethe, che dice che si ama ciò che si conosce, ma siamo sempre sul principio dell’uno. Sarebbe l’elezione dell’unità perché la conoscenza sarebbe il rigetto dell’amore.

R.C. Ma qui diamo per acquisito cos’è l’amore, diamo per acquisito che Goethe sapesse di cosa stesse parlando. Non diamo per acquisito nemmeno che Goethe sapesse cosa stesse dicendo. Nessuno sa cosa sta dicendo se non avviene un processo di indagine, un processo intellettuale.

G.D.F. Adesso mi viene in mente una cosa. Lei parlava della presa. Allora m’interrogo sulla presa della cosa, dell’oggetto, perché prendere la cosa sarebbe prendere l’oggetto. Per esempio, se l’amore sta nella cosa, nella parola e se la presa è ricordo di un atto che conduce a governare la cosa, a governare l’oggetto, in questo caso l’amore, appunto…

R.C. Ora, lei a questo punto introduce la cosa. Di che si tratta nella cosa? “La cosa”, ciò che questiona.

G.D.F. Qualcosa di cui non so.

R.C. Perché la cosa? Questa cosa? C’è una cosa, di che si tratta? Vi vedo pensierosi. Non è il momento di pensare, questo.

Pubblico Io, in combinazione con il laboratorio L’amore e la crisi, sto preparando un esame dove c’è una combinazione […] il diavolo…

R.C. Diavolo come stemma.

Pubblico È ovviamente parte fondante della religione cristiana il diavolo, che rappresenterebbe la parte negativa, l’angelo che ha guardato Dio e, comunque, dovrebbe essere un racconto intorno al diavolo. Tuttavia, non è questa la questione. In combinazione con queste conferenze che trattano dell’amore, come sto sentendo, in cui aleggia questo diavolo, sto preparando un esame che parla del giornalismo di guerra e ho trovato un’indicazione bibliografica che consigliava un libro per la guerra. In questo libro ho trovato l’ossimoro odio-amore, guerra-pace e ci sono parti dove…

R.C. Cosa le fa pensare che odio e amore siano ossimoro?

Pubblico Innanzi tutto perché sono l’estrinsecazione di due contrari, di due opposti come bene-male, come amico-nemico e, come altre volte lei ha spiegato, questi contrari, questi opposti, consentono delle ideologie, delle mentalità, un certo modo di affrontare la vita o una certa visione del mondo. Questi ossimori sono frutto, da come sono riuscita a capire…

R.C. Io non ho mai detto che odio e amore costituiscono un ossimoro.

Pubblico Di odio e amore no, ma di amico e nemico sì.

R.C. È un’altra cosa.

Pubblico Il nemico è ciò che viene visto in guerra, e lì c’è un dispiegamento d’odio come ciò che consente la belligeranza e l’amore come conseguenza della guerra.

R.C. Un momento. Che l’autore dica che l’odio è un sentimento, come per altro l’amore, e che tutto debba essere un sentimento perché altrimenti crolla tutto, non è che per questo lei ci debba venire a dire le stesse cose, e cioè che l’odio è un sentimento.

Pubblico Volevo, però, porre la questione.

R.C. È quello che dicevo prima. Occorre andare oltre l’economia del senso e l’economia delle sensazioni. Occorre andare oltre la coscienza. Il sentimentale, come il sentimentalismo e la sentimentalità, è funzionale alla mentalità, alla coscienza e alla sistemistica. Occorre fare uno sforzo analitico, oltre la concezione avviluppante, antianalitica e anticlinica di giustificare le cose con la mentalità e la sentimentalità. Cioè, dire che qualcosa è un sentimento è un modo di dire comune, costituirebbe la sentimentalità comune, e non c’è ciascuno nella sentimentalità. Il sentire è libero, il sentimento no.

Ha fatto un lungo giro in questa cosa. È importante la messa in questione, cioè è essenziale procedere dalla questione aperta. Nessuna questione può essere ritenuta chiusa, già risolta, già codificata. La questione, la cosa, è imprevedibile.

Lucio Panizzo Mi chiedevo se c’è una connessione tra il significante amore e la solitudine. L’esempio che lei prima ha fatto della metà che è in ricerca dell’altra metà, cioè la questione dell’androgino, e la fantasia che l’amore possa essere un modo per incontrare qualcuno per non essere più soli, per me, in questo c’è la questione della solitudine, che è imprescindibile. Quindi, che relazione ha l’amore con la questione della solitudine? Perché indagando l’aspetto dell’oggetto, cioè del sembiante, ciò ha a che fare con la solitudine e con l’amore. Ritengo che nell’indagine intorno al significante amore, la solitudine può dare un apporto molto interessante, chiaramente distinguendo la solitudine dall’isolamento e da altre faccende apparentemente collegate.

R.C. Bene. È una bella domanda.

Manuela Macario Mi chiedevo: se l’amore non ha fine e non è una facoltà, se non è l’amore che tiene insieme le persone e lo stare insieme non è il fine dell’amore, pur tuttavia ci riescono in molti, senza amore, a stare insieme! Quindi, basta il sentimento? Sembrerebbe così. Volevo arrivare al fatto che, se l’amore non ha fine, non serve a qualcosa, però c’è, se c’è… O fa parte del percorso di ciascuno? Cioè, l’amore c’entra qualcosa con lo stare con una persona o no?

R.C. Ecco, lei ha posto l’accento proprio per negarlo. Ma ciò può consentire di capire bene la premessa. L’amore non è interpersonale. Nulla di personale e nulla di interpersonale, per cui non serve né per tenere insieme, né per stare insieme. Però, giustamente, come lei rileva, c’è questa idea e si tratta di chiedersi da dove viene.

M.A.V. C’è un’ultimissima cosa che prima mi ero annotata. Forse, la coppia, “l’insieme io e te” dissolve il “noi facciamo coppia” instaurando Nessuno. Cioè, se c’è Nessuno si dissolve la coppia e s’introduce l’insieme che non è “fare coppia”. Forse, la questione è che con Nessuno si dissolve la coppia instaurando l’insieme.

R.C. Ma chi dice questo?

M.A.V. C’è una formulazione che dice “Tra me e te Nessuno c’è”. Sarebbe da indagare il tra, la divisione. È interessante, perché questa frase, a analizzarla, tra me, te e Nessuno c’è il terzo che s’introduce. E poi c’è l’insieme che non fa coppia.

R.C. Quindi, va analizzata la frase, non citata. Occorre analizzarla. Questa è la questione, innanzi tutto l’analisi.


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