Diciassettesimo capitolo del volume La realtà della parola
La realtà dell’esperienza
Ruggero Chinaglia Allora chi questa sera legge qualcosa?
Patrizia Ercolani Io.
R.C. Ercolani. Poi?
Giampietro Vezza Io.
R.C. Vezza.
Fernanda Novaretti Io ho scritto qualcosa.
R.C. Novaretti. Vediamo se poi si aggiunge qualcun altro.
Questa sera il titolo è La realtà dell’esperienza. Sentiamo qualche testimonianza nel merito e poi discutiamo. Allora, Ercolani, prego.
P.E. Nella parola, la realtà risulta intellettuale in quanto mai si tratta di una questione realistica o idealista. Per accorgersene occorre il racconto, la lingua, il fare, che risentono della logica e della struttura linguistica, per cui qualcosa avviene e diviene in direzione della qualità.
Nessun nome o significante può significare un fondamento, poiché la realtà di ciascun termine non coglie mai la cosa nella sua verità o nella sua essenza. Impossibili la conoscenza e il sapere.
C’è sempre uno scarto tra parola e cosa, per cui Altro interviene, alterando una significazione stabilita.
C’è sempre una divisione, un taglio, che fa funzionare equivoci, menzogne, malintesi, per cui la realtà non è una e universale, uguale per tutti, ma particolare a ciascuno. In quel che si dice, tra nomi e significanti, tra sintassi e frase, Altro è da ascoltare e intendere. L’inconscio è quest’altra logica a partire dall’Altro, da cui l’invenzione di qualcosa di nuovo.
Per accogliere e intendere Altro occorre dissolvere la fiaba, ossia la tessitura dei fantasmi che producono un’immaginazione, una credenza intorno alla propria famiglia, al padre, alla madre, al figlio e alla propria origine, la quale, marchiata, segnata nel bene o nel male, non può che finire.
Ciascun film incomincia con una difficoltà o un disagio del protagonista. A partire dalla difficoltà, insorgono fantasie sul padre e sulla madre in cui prevale l’idea di non essere amato. A causa del non amore – per cui si pongono in rilievo mancanze e difetti – ciascuna riuscita sembra preclusa. Per esempio, nel Ragazzo invisibile, Michele dubita di potere approcciare Stella, una ragazza cui è interessato. Michele è figlio di un padre poliziotto morto da eroe, e di una madre anch’essa poliziotta, che pare lo abbia adottato. Non va bene a scuola, gli amici lo vessano, gli rubano i soldi. E Stella, come può interessarsi a lui? A un certo punto Michele fantastica la sua origine da genitori con poteri speciali, in particolare l’invisibilità, che ha ereditato dalla madre. Con questo insolito potere, Michele immagina una serie di peripezie in cui salva Stella, rendendosi invisibile in modo opportuno. Ma ciò che lo porta a rivolgersi e a parlare a Stella è quando intende che il suo fare e la sua impresa non dipendono dal padre reale o immaginario, ma dall’autorizzarsi parlando.
Quando l’impossibile dell’avere e l’impossibile dell’essere funzionano, non c’è più bisogno di immaginare nessuna discendenza e nessuna appartenenza, per fare. Dalla riuscita si constata che, nel pragma, nel fare, ciò che appare, non è reale, bensì fantastico, fiabesco.
Il resto non sono riuscita a scriverlo.
R.C. Ah, c’è un resto! Un resto che è rimasto nella penna.
P.E. Sì, c’erano altri punti che avevo colto rispetto alle questioni che si ponevano nel film.
R.C. Allora, Fernanda Novaretti.
F.N. “Qual è la causa del mio disagio?”¬ si chiede il soggetto ¬ “Qual è il fatto che ha determinato il mio malessere?”. Questa domanda parte da un’idea di origine, da un fantasma di genealogia: la ricerca del fondamento che ha determinato gli eventi successivi.
Diverso è chiedersi quale fantasia interviene nel fare le cose. Le cose si fanno perché c’è una certa idea; un’idea che opera, non è l’intenzione che uno ha. L’idea che opera non è quella di cui si ha coscienza. L’idea operante non mi fu proprio chiara, ma il racconto che mi fu fatto, forse, lo chiarisce. Ecco il racconto.
“Devo recarmi a Montegrotto per una breve visita di lavoro, di circa un’ora, anche meno. Pensavo che il tempo di andata e ritorno da Padova a Montegrotto fosse maggiore di quello richiesto per la visita nell’azienda. Non so perché, ma anche l’idea di ritornare a Montegrotto, dove avevo insegnato come supplente nella scuola media per un anno, mi metteva a disagio. Avevo già rimandato la visita di alcuni giorni.
M’impongo, quel giorno stesso, di assolvere l’impegno. Decido di prendere il treno perché è più veloce rispetto all’autobus. Consulto gli orari, arrivo con largo anticipo alla stazione. Salgo sul treno che dovrebbe fermarsi a Montegrotto ma, con mia angoscia, prosegue: è un Frecciabianca per Roma e riesco a scendere a Ferrara. Acquisto il biglietto per Montegrotto, salgo sul treno. Sicuramente ferma a Terme Euganee. Però non sono sicura che corrisponda alla stazione di Montegrotto. Non so a chi chiedere informazioni e, nel dubbio, proseguo oltre Terme Euganee. Dato che è un locale, scenderò alla prossima stazione. E così mi ritrovo nuovamente a Padova! A questo punto prendo il biglietto dell’autobus, ma è troppo tardi per la visita, e conservo i biglietti per un altro giorno”.
Quali fantasie sono intervenute? Quali sono le ipotesi, oltre a quella accennata prima? “A Ferrara si è svolta, tempo fa, di sera, una conferenza dell’Associazione cifrematica alla quale non ha partecipato, perché sarebbe terminata tardi e il mattino seguente doveva alzarsi molto presto”.
E prosegue: “Da molto tempo non utilizzo il treno come mezzo di trasporto; la diversa organizzazione (la consultazione online degli orari, per la quale ho una forte riluttanza e diffidenza, la diversa denominazione dei treni, introdotta ormai da tempo, a dire il vero), ha comportato uno scarto rispetto al già conosciuto, sono intervenuti ricordi. Nel passato, i brevi e i lunghi spostamenti giornalieri avvenivano abitualmente in treno. E solo una volta, tanto tempo fa e in circostanze diverse, mi era successo di sbagliare treno e di andare nella direzione opposta”.
E qui termina il racconto della fiaba, che può rimanere tale in assenza di analisi. Occorre venga indagata.
La logica particolare della parola, o logica della nominazione, differisce dalla formulazione “Ognuno ha la propria logica” o “Avere la propria logica”, perché quest’ultima affermazione, questo “avere” riguarda l’alibi del soggetto, la supposta padronanza per evitare questioni, mettere in discussione l’idea di sé, il principio di unità, il personaggio stabile, la credenza nella realtà delle cose e della loro circolarità.
Esiste la realtà delle cose? Per la protagonista è stata una mattina inconcludente? Per chi crede nella realtà oggettiva o soggettiva sì, perché crede nella realtà convenzionale, comune, fondata sulla certezza di ciò che è avvenuto, senza lettura clinica, senza interrogarsi attorno alle combinatorie che intervengono nel racconto, senza astrazione.
La realtà non è, ma entra in ciò che si dice, nelle sfumature del racconto. Più che una serie di guai di cui lamentarsi, per la protagonista risulta un’occasione per dissipare, con l’analisi, le fantasie intervenute.
R.C. Bene, grazie. Lei, Resoli, ha scritto qualcosa, legge qualcosa?
Sabrina Resoli Sì, ho scritto qualcosa.
R.C. Allora, Sabrina Resoli.
S.R. Ciascun testo è attraversato dalla parola, si situa nella parola e si offre alla lettura. Questa, tuttavia, richiede strumenti particolari e specifici.
Questa serie di incontri ha costituito una palestra per la clinica, perché accade, ascoltando altri parlare e leggendo, guardando un film, di trovarsi nella partecipazione, in quella che, nel discorso comune, è detta empatia, ossia l’invischiamento nel fantasma proprio e altrui. Le idee di comprensione e di condivisione si regolano su questo invischiamento, che impedisce l’ascolto e l’intendimento, nega la realtà intellettuale, a favore del realismo.
Con la modalità del realismo, troviamo i personaggi inscritti in una genealogia e la logica è negata a favore della prescrizione all’animalità. Il funzionamento è tolto a favore dell’azione. Soggetto agente, soggetto agito, o schiavo o padrone, o vittima o carnefice, nell’alternativa. Così, nel realismo, quel che si dice resta inascoltato, trova la sordità prescritta dalla dicotomia. La realtà intellettuale è il contesto in cui le cose che si dicono entrano nel racconto, gli elementi della parola si dispongono e, funzionando, si combinano.
Ciò su cui si è appuntata la mia attenzione, nel corso di questi incontri, è la questione dell’abuso linguistico e di come questo sia essenziale alla lettura e all’intendimento.
Ab usum, ciò che è via dall’uso, ciò che si allontana dall’uso, è lo specifico della lingua. Nessuna lingua comune, nessun senso comune per via di abuso. È per abuso che si dissipa il realismo e si avvia il racconto. Trovo che la lettura proceda da questo: dalla dissipazione dell’idea morale di abuso che, finché vige, prescrive l’ontologia, quindi la sordità.
R.C. Bene. Vezza.
G.V. “A chi sto affidando il cervello di questa bambina?”. Questa la domanda, che qualche tempo fa, nell’imminenza dell’inizio della scuola cosiddetta dell’obbligo, mi sono posto. “Come fare in modo che l’insegnamento non renda quel cervello un omogeneizzato pronto al consumo?”. “Come avere il controllo della situazione, come padroneggiarla?”.
Ecco, subito un fantasma e la partita sembrava persa in partenza. Serviva una soluzione. E poi, che pretesa: non sono all’altezza per gestire questa situazione! Cosa fare? Difficile cercare relazioni con altri genitori, difficile condividere le modalità della nuova esperienza. Un corso di pedagogia? O, meglio ancora, di psicologia? O un corso d’inglese?
Ma ecco un manifesto, un titolo che incuriosisce, La natura del tempo, la proposta di un dibattito, il nome, la memoria, la presentazione di un libro. Tempo prima. Quanto tempo? Quanto tempo? Tempo perso?
Ecco l’occasione per l’incominciamento, settembre 2013, nel mio calendario, 50 anni fa. Nella fiaba stavo per dire: “Io c’ero una volta”, anziché “Ero”. E è una volta che è sempre stata. L’incominciamento che procede dal disagio, lascia la questione aperta. La disposizione all’ascolto, essenziale per l’instaurazione di dispositivi di ricerca, conferenze, dibattiti, lettura, l’analisi e quanti altri sono ancora da inventare. Un possibile modo, per rispondere alla domanda iniziale, l’integrazione.
Il cervello, da encefalo, da contenitore di neuroni più o meno attivi, a luogo dell’integrazione tra corpo e parola, dove la credenza si dissipa, perché non si tratta del gioco del puzzle, le parole non sono le tessere che si combinano ogni volta nello stesso posto per dare lo stesso risultato. Piuttosto, come nel gioco del nove, dove una casella rimane sempre libera, lascia lo spazio alla tessera successiva, e da qui il rilancio, infinito e senza soluzione.
Accadeva si parlasse di amore e di odio nel contesto di quei primi dibattiti, partecipando ai quali avrei voluto dire la mia idea, senza sapere come precisare quello che intendevo: amore e odio non esistono se non nella transitività, nel rapporto tra soggetti. Prova di amore e prova di odio, come dirigerle, come evitarle, come addomesticarle, come farle appartenere ora alla natura ora alla cultura, per arrivare alla pace dell’amore materno, o a combattere per amore attribuendosi l’odio? Questa è la gestione erotica dell’amore e dell’odio che sancisce l’idea di morte, inseguendo non meglio precisati equilibri sociali, da mantenere a favore di una presunta idealità. Ma amore e odio non compongono una coppia oppositiva, né si lasciano addomesticare da amanti o belligeranti. Quale amore, quale odio ritrovandosi a non potere strutturalmente dire “Ti amo, ti voglio bene”, oppure “Ti odio, ti voglio male”?
La novità è l’amore nell’incominciamento, nel debutto, dove le cose mantengono la virtù della solitudine, con la salvaguardia della relazione non umana, senza la degradazione a rapporto. L’amore per una cosa nuova, ciascun giorno nuovo, per un dispositivo di ricerca, per il progetto e programma di vita e con il rischio d’impresa, senza economia del tempo. Ovvero, rischio di riuscita, rischio che il disagio possa diventare un’opportunità.
E con l’odio interviene il dispositivo di battaglia e di comunicazione, interviene il fare senza complicità e senza conflitto, interviene il tempo che, in quanto indisponibile, non è sottomesso all’idea di bene. Senza l’odio, c’è il rispetto della differenza senza ammetterla, c’è l’economia della differenza dell’Altro, senza la tolleranza, c’è l’economia della tollerabilità e della sopportabilità.
L’ascolto di queste conferenze lasciava sempre uno spazio al dubbio: “Manca sempre qualcosa”, un’altra precisazione, un motivo di ricerca, di lettura e tanto spazio al soggetto: “Sarò in grado di capire quel che viene detto, sarò in grado di continuare questo itinerario? È tempo perso? Sono sempre le stesse cose?”.
Un’urgenza si manifesta. Come portare, diciamo così, “in famiglia” questa esperienza, in modo che non rimanga autoreferenziale?
Un altro incominciamento, il più difficile, anzi no. Si tratta di trovare il modo opportuno se la famiglia è questione di eredità senza genealogia, se non diviene luogo di dogmi e di conflitti, se non ci sono sudditi e tiranni, se non c’è gerarchia. Se non c’è l’accettazione di ciò che si rappresenta come famiglia – marito e moglie, mamma, papà e figlia, maschio e femmina – allora è possibile cominciare. E le cose non sono più come uno se le era immaginate.
Accade, a esempio, che il papà possa rispondere, quando viene chiamata la mamma, che il figlio venga dichiarato adottato. “Oddio papà, anch’io come la mia compagna di classe?”, e che mamma e papà non si sentano, poi, più così tanto naturali.
La natura, come rappresentazione del mondo, impedisce il distacco. Il cordone ombelicale, benché rescisso, non è tagliato se non interviene il tempo. E la famiglia si adagia nel mammismo, nella genealogia, nel ruolo procreativo, assistenziale e educativo, la cosiddetta genitorialità, che istituisce l’allevamento.
Accogliere la domanda secondo l’inconscio, la logica particolare della parola, significa che ciascun atto è originario e non c’è predestinazione o ereditarietà. Significa disporsi alla sessualità senza riproduzione, senza idea di procreazione. Ecco la famiglia come traccia, senza finalismo, senza più personaggi precostituiti, ma indici del nome, del tempo, del malinteso. Senza più appartenenza di genere, tanto meno umano.
Ma, nella cosiddetta società? Nel luogo di lavoro, nei luoghi dove la realtà è ciò che è ritenuto esistere al di là di ogni ragionevole dubbio? Come divenire dispositivo intellettuale nei luoghi dove la realtà è convenzionale e sono richiesti i requisiti come prova di adeguamento al canone? Qui sta una nuova scommessa. Questa la battaglia quotidiana: non cedere all’ideologia, ideologia sorretta dalla credenza di non avere più bisogno del cervello come dispositivo di direzione.
La necessità dell’elaborazione diventa intoglibile, quasi una difesa-attacco simultanea, come risposta al velo inquisitorio istituito dalla ragione sufficiente, quando si tenta il ragionamento, quando, anche solo un filo di logica comporta l’inciampo. Ma nulla c’è sotto il velo, nessuna vittima predestinata, nessuna pena o colpa da espiare.
Non c’è nulla sotto e nulla sopra. Oltre il realismo un’immensità, la superficie come apertura. Questa la realtà intellettuale, come l’ho intesa io a un certo punto: la dissipazione dei tre principi della logica aristotelica, del discorso occidentale, discorso della festa; la ricerca dell’oggetto come identificazione non partecipativa, senza più sostanzialismo o mentalismo o comportamentismo, senza rappresentazione di sé o dell’Altro.
Sembra tutto facile! E, invece, quella stessa scuola che oggi insegna che 1+1 = 2, anzi, che il due è il risultato di uno più uno, domani insegnerà che il terzo è da escludere, l’uomo è mortale, a una causa corrisponde un effetto, le verità sono sempre due, è meglio non contraddire ciò che è scientificamente provato e che rientra nella statistica, e che è sufficiente imparare, accumulare nozioni e tecnicismi, ignorando lo stile e la qualificazione. Non possiamo farci niente, sinapsi e neuroni sono i veri agenti della vita e noi possiamo solo stare a guardare, in attesa dei loro movimenti e dello loro alchimie; più precisamente, in attesa della morte. Oppure controllarli, o meglio, delegare il controllo a un altro agente.
Neuroscienze, parola nuova. Ma più che una novità, a un primo tentativo di capire, le neuroscienze sembrano il compimento, cosiddetto scientifico, della predestinazione e il compimento, cosiddetto politico, di un inquadramento sociale; ossia il cervello inteso come un organo a disposizione dei salvatori del mondo di turno, per controllare e arginare gli ultimi irredenti, mentre, per i già redenti, gli assolti dalle fatiche del funzionamento, la scoperta è epocale: c’è una localizzazione encefalica dei sentimenti, delle emozioni, del bene e del male e di altre dicotomie, per cui l’ipotesi del nuovo, della contraddizione è negata. Assenza di dubbio.
L’uomo, agente del cervello inteso come organo, come encefalo, con i controllori delle centraline governati dallo psicofarmaco istituzionalizzato, è una operazione chirurgica a cui gli umani sembrano volentieri sottoporsi. E la promessa della felicità, qui, sembra essere l’appagamento del desiderio di anticipare i fatti, la standardizzazione della previsione degli accadimenti. E non solo su base statistica, ma proprio scientifica.
Neuroscienze. Il plurale già indica l’assenza di specificità rispetto alle altre materie pur istituzionalizzate, indica la generica ricaduta nel siamo tutti uguali, uguali diritti, uguali doveri e uguali comportamenti, anziché la terzietà, che indica che siamo simili, quindi diversi, ciascuno nella sua specificità. Se togliamo il terzo, rimane la reazione all’impulso. E questo sembra essere il terreno della manutenzione della salute sociale e mentale per le neuroscienze, la mappatura della centralina e l’istituzione dei figli prediletti.
Altra cosa il cervello come segno di civiltà, che il corpo-organismo sia uno strumento di pensiero. Che la parola dimori, quasi in esilio, nel corpo e esiga per forza il manifestarsi nella sua qualificazione. Cervello come dispositivo di direzione intellettuale, per cui altro modo d’intendere la realtà convenzionale, ossia come rinascita intellettuale nella parola, che può avvenire, a un certo punto, per ciascuno. È la resurrezione in atto, senza bisogno di dovere morire. A nessuno è preclusa la tentazione intellettuale, ma occorre il cervello, senza averne paura.
Qualcosa si muove in questa esperienza: non c’è più la barca all’àncora di salvezza nello stagno del mondo, nel suo tragitto circolatorio, nella calma piatta della routine quotidiana (dio-patria-famiglia); non ci sono più le macerie intellettuali accumulate (delimitanti l’argine di sicurezza della navigazione tra malesseri e benesseri, più o meno naturali), nella sottovivenza del possibilismo (l’altra faccia della sopravvivenza), che il luogocomunismo intende come negativa della normalità.
Qualcosa si muove. Il sasso, gettato nello stagno, genera l’onda che diviene anomala. A un certo punto, il corpo sembra cancellarsi e rimane un punto. Non c’è più avere o essere, si diventa leggeri, si cammina sull’acqua, si vola. Non c’è più attesa, liberazione, credenza, salvezza, garanzia, ringraziamento, convenienza.
È un’esperienza tutt’altro che consolatoria. Potere cogliere un effetto di verità nell’esperienza, questo il privilegio.
Non c’è. Con la cifrematica, non c’è più suicidio. E, con spostamento d’accento e variazione di tono, l’àncora si trasforma in ancòra. Per cinquant’anni ancora la scommessa è vivere.
R.C. Bene. Le testimonianze di questa sera mi sembrano particolarmente rilevanti e indicative della scommessa in atto e in corso. Sono indicative anche di un percorso di cifratura in atto. È proprio la restituzione in cifra che qualifica l’esperienza, per cui può dirsi cifrematica. Senza la restituzione e senza la testimonianza non c’è cifrematica. La cifrematica risulterebbe un’idealità, un’idealità di una possibile applicazione di uno schema, di un metodo, di una disciplina, ma, in realtà, senza la restituzione, senza la prova della cifratura e della cifralità non può dirsi cifrematica in atto.
La cifrematica, in quanto scienza, procedura e esperienza della parola che diviene cifra, è esperienza in atto, è procedura in atto, è scienza in atto. Non è un ricordo di qualcosa che è stato fatto, detto e che appartiene al passato. Non c’è cifrematica del passato, non c’è cifrematica nel passato.
La cifrematica è itinerario in atto per ciascuno. Dove ciascuno è lo statuto intellettuale, non è qualcuno che per vezzo possa definirsi ciascuno. Il vezzo sarebbe che ciascuno diventerebbe l’Altro nome dei tutti. Invece no, la cifrematica indica, se c’è, lo statuto del ciascuno, se questo statuto si enuncia, si indica, si prova. Perché questo statuto esige le sue prove: prova di verità, prova di realtà, la testimonianza, la restituzione. La restituzione di quello che si è ricevuto in logica, che si è prodotto in esperienza. Perché è nella restituzione che si tratta della realtà intellettuale, della realtà dell’esperienza. Realtà dell’esperienza, non realtà delle cose.
La realtà delle cose è il canone della realtà, il canone filosofico, ontologico, psicologico, per indicare che le cose sono, sono tali, sono sempre quelle, sono sempre le stesse. E invece no! Le cose non sono mai le stesse quando entrano nella parola, quando entrano nel processo di qualificazione. È possibile, tuttavia, opporsi a che le cose entrino nel processo di qualificazione, propugnando la soggettività, l’ontologia delle cose, per rivendicare l’ontologia di sé, l’ontologia soggettiva.
Qual è l’esigenza di quella forma di rivendicazione che dovrebbe confermare le cose nella loro ontologia, per dire che nulla può variare e mai può intervenire la differenza, ma che tutto si collega in maniera informe, tale da giustificare la predestinazione, l’ontologia, la genealogia? È il fantasma di padronanza.
Questo è ciò che determina la forma di rivendicazione in base a cui, ognuno, in quanto appartenente alla schiera, al genere, asserisce di appartenere alla realtà delle cose. E, per appartenere alla realtà delle cose, ognuno deve essere.
L’ontologia è la base di questa esigenza di potere iscriversi nella realtà della cose. Per cui la questione non è più la valorizzazione di quel che si incontra, ma l’adeguamento di ogni cosa alla realtà generale, pensata, presunta, ipotizzata ma, per ciò stesso, data per tale. Non si tratta più, in questi termini, della realtà dell’esperienza, bensì della dimostrazione che ognuno ha in corso l’esperienza della realtà, la realtà così come deve essere, come è pensata, come è idealizzata. La realtà normale, ossia senza anomalia, senza la parola.
E questo non è difficile: basta togliere la memoria e attuare, anziché la memoria, la rimemorazione. Allora ognuno ricorda, è il segno del suo ricordo. È l’essere del suo ricordo, l’essere della prescrizione a vivere secondo il suo ricordo.
È una modalità piuttosto seguita. È la modalità di chi vive nel presente. Che vuol dire vivere nel passato, perché vivere nel presente è un modo di negare l’attuale e d’instaurare la rimemorazione, anziché la parola. E negare l’attuale, pur nell’apparente facilità, è un modo dell’autolesionismo.
Notava Vezza, precisamente, che con la cifrematica non c’è più suicidio. Esatto, con la cifrematica, con la parola in atto, con l’instaurazione dell’attuale non c’è più suicidio. Cosa che, invece, è il fantasma a cui tende la rimemorazione, con la sua idea di fine, con la sua idea di padronanza.
Il suicidio non necessariamente deve avvenire in forma istantanea, decisiva, come riporta la casistica della cronaca. La cronaca nera indica chi si spara, chi si taglia la gola, chi si butta dalla finestra. Ma non è l’unico modo. C’è anche la negazione dell’attuale, per cui la pulsione, anziché scriversi, subisce la contrapposizione con contropiedi e contrappassi, che non sono così evidenti come nell’omicidio e nel suicidio cruento, ma altrettanto efficaci.
La negazione dell’attuale è un fantasma di padronanza, è il tentativo di realizzare il fantasma di padronanza, cioè di gestire il tempo, la parola, in nome di un’idea di fine. Solo preordinando un’idea di fine è possibile gestire la padronanza sulla parola, la quale sarebbe padronanza sull’oggetto, sull’Altro, sulle cose, sull’operatore, per cui ognuno diventerebbe agente creativo, teologico, agente della creazione.
Ognuno si costruisce il suo tran-tran, il suo modulo, il suo modo. Ognuno avrebbe, per questa via, la sua logica, sarebbe il rappresentante, il portatore più o meno sano, della sua logica. Ma, l’inconscio non è questa logica personale che ognuno avrebbe. L’inconscio è la logica della parola, secondo cui ciascuna cosa accade, avviene e diviene. Avviene e diviene! Questo avvenire e divenire sfugge sia alla padronanza sia al controllo. Sta lì, la realtà intellettuale, nell’avvenire e divenire di ciascuna cosa, quando è presa nella scienza della parola, quando è presa nel processo di valutazione. Presa non soggettiva, bensì scientifica.
Nessuno può prendere la parola, a condizione di espellerla, di negarla. La realtà è la realtà della parola. La realtà intellettuale è la realtà della parola. La realtà dell’esperienza è la realtà della struttura, è la realtà della memoria in atto, è la realtà che si scrive. Non la realtà già scritta, già fatta, non è la realtà del detto e del fatto. Chi si appella al detto e al fatto nega la realtà intellettuale, si ontologizza, si concretizza, si soggettivizza. Propone l’esperienza della realtà, ma non la realtà esperienza.
L’esperienza della realtà è normativa. Propone una realtà normale, da descrivere, cui attenersi, per l’idealità, per la normalità. La realtà come realtà dell’esperienza, la realtà che si tratta di ricavare da ciascuna testimonianza, non è né oggettiva né soggettiva. È attuale! È secondo l’anomalia, secondo la particolarità. È la realtà del racconto, è la realtà secondo la questione aperta. Non secondo la rappresentazione sociale, ma secondo la questione aperta. È la realtà che procede dal due e dal suo modo. Per questa via, si può intendere che la realtà non è tributaria della coscienza. Nessuna coscienza della realtà. Nessuna percezione.
Ma, percezione, esperienza, ontologia della realtà sono capisaldi disciplinari per discriminare tra una corretta valutazione della realtà e una valutazione abnorme e, eventualmente, anche patologica. L’idea di una patologia intorno alla realtà e alla sua restituzione, alla sua valutazione e al racconto che punta a descriverla, è l’acme del fantasma di padronanza. Tutta la psicopatologia è un fantasma di padronanza che vieta la differenza e la varietà. Nega la costruzione, nega che vi sia fiaba, novella, saga, per una corretta descrizione di ciò che è. Ma, intellettualmente, nulla è e nulla esiste! Quel che è definito esistente è una fantasia, è ciò che viene rappresentato.
L’esistenza di Dio? È una rappresentazione di Dio. È già antropomorfismo. L’esistenza di qualcosa è rappresentazione di quella cosa, è sostanzialismo. Qual è la combinatoria? Qual è il valore di quella cosa? Come quella cosa si combina con altre? Questa è già un’altra faccenda, perché la cosa non è più la stessa cosa. È già un’altra cosa, non è fissa, non è sostanziale.
Come ciascuna cosa entra nell’esperienza qualificata cifrematica? In assenza di denigrazione, di degradazione, di attribuzione del male all’Altro, del bene all’Altro. In assenza di significazione, sia preventiva sia, per così dire, postuma. Nessuna cosa è segno di un’altra cosa. E non c’è nemmeno chi possa essere definito segnato da qualcosa. Dunque, non c’è soggetto mentitore e soggetto che dica la verità. Rappresentazione della padronanza, rappresentazioni che servono solamente a giustificare il proprio rapporto con la paura. E, quando dico il proprio rapporto con la paura, dico rapporto di sé a sé e di sé all’Altro. Il rapporto da soggetto a soggetto. Chi vive rapportandosi alla paura, o con la paura, vive soggettivamente, vive senza la parola. Vive nella padronanza di presumere di sapere già cosa seguirà a un atto. È il colmo della negazione della parola, è il colmo della padronanza. È l’adesione totale all’ideale psicopatologico, che si può formulare, anche, nel modo della cosiddetta anoressia mentale.
L’anoressia, così detta mentale, è un fantasma di padronanza dove interviene l’idea di un automatismo tra potere pensare, dire, fare, seguito dall’essere della cosa: “Penso, dunque sono”, diceva qualcuno. Questa è già anoressia mentale: io penso, io sono! È negata la parola! C’è solo la soggettività dell’essere, del pensare, del fare, con tutte le sfumature. Io penso, dunque posso, voglio, devo, so. Chi si regge su questa ideologia della padronanza “sa cosa vuole”, cosa può, cosa deve… Pensare di potere fare se si può, se si vuole, se si deve è adesività, è fantasma di padronanza sulla pulsione, è evitamento del rischio di parola, di verità, di riuscita.
Il rischio di parola è rischio di riuscita. Ognuno, invece, ci mette l’idea di pericolo. Il pericolo cos’è? È la conseguenza dell’idea di male posta dinanzi. Ma, quest’idea di male, chi ce la mette? Di chi è? Di chi è l’idea di male che condiziona la vita di chi ci crede? Chi mette il male davanti alle proprie presunte azioni, o alle azioni che altri potranno fare? Chi lo mette? Ognuno lo mette! E metterlo è fantasma di padronanza. Sembra paradossale, ma, pensare di potere gestire il bene e il male, è fantasma di padronanza. E per potere gestirlo bisogna prevederlo, ipotizzarlo. Bisogna attribuirlo a qualcuno! Questo è fantasma di padronanza.
La psicopatologia li chiama in tanti modi: sindrome di qua, sindrome di là, di qui, di lì, disturbo di su, disturbo di giù. Si tratta di modi geometrici e modi algebrici, indicanti l’economia di qualcosa, l’ipotesi di potere gestire, evitare. Ognuno si prefigge di evitare il male, per esempio. E, per evitare, si limita: “Questo non lo faccio, quello lo rimando, questo lo farò domani”. Ma, quest’idea della gestione delle cose e del tempo, come si scrive? Se la psicopatologia è fantasma di padronanza, come situare la patologia? C’è patologia che non sia psicopatologia?
È padronanza anche presumere che, rispetto a una difficoltà, a un sintomo, a un disturbo ci debba essere un rimedio immediato, per alleviare o togliere disturbo e sintomo, per evitare che si scriva. Ma, l’evitamento della scrittura è senza conseguenze? L’evitamento presunto del male è senza conseguenze? E l’evitamento del bene? Evitamento. L’azione di evitamento!
C’è già, così, un soggetto agente. Chi può compiere l’evitamento se non un soggetto agente, un soggetto che è già nell’anoressia mentale? È un soggetto che agisce – avendo tolto l’anoressia intellettuale dalla parola – per introdurre l’evitamento, per introdurre un controllo, un dosaggio, una posologia, una padronanza, un principio d’autorità, un principio di conoscenza. “Io mi conosco, so ciò di cui ho bisogno. Perbacco, so ben io di cosa necessito”. Principio di ragione sufficiente. E poi lamentazioni. Però, il soggetto sa cosa gli serve, cosa deve fare per non perdere tempo, per soddisfare la domanda. Sa. Perbacco, sa benissimo quando e come fare o non fare. E già questa alternativa indica che non c’è più la relazione originaria, ma il principio dell’alternativa, la soggettività. C’è già rottura, contrapposizione. C’è già sostanzialismo, rappresentazione, antropomorfismo. E la caratteristica principale dell’antropomorfismo è la fine rappresentata, l’idea di fine.
Cosa faceva Dio prima della creazione del mondo? S’annoiava, dicevano alcuni. Ha creato il mondo, per non annoiarsi. Cosa faceva, prima? E cosa farà, dopo? Dio vuole? Vuole il bene? Vuole il male? Cosa vuole Dio, per l’uomo? Dio vuole? Dio pensa? È un dio anoressico mentale: talvolta vuole e talvolta non vuole, sa cosa vuole e vuole quello che sa.
Questo è l’anoressia mentale: pasto d’amore e pasto d’odio. Rivendicazione permanente. Rappresentazione permanente di una realtà che esiste appunto in quanto rappresentata, ma che non è intellettuale, che nulla ha a che vedere con la valorizzazione, con la pulsione, con la vita. Una realtà senza parola e senza interlocuzione, senza analisi. Senza analisi come teorematica e senza analisi come esperienza. Esperienza analitica e di analisi, esperienza del modo in cui interviene la teorematica a qualificare ciascun atto, senza cui non ci sono gli atti ma, ognuno si rappresenta le azioni sue e degli altri, da fare o da subire, come agente o come vittima. Non c’è scampo.
Una volta attuata la dicotomia dell’apertura, la realtà è rappresentata così: cose da subire o cose da agire. Ma sempre nella padronanza, sempre nell’accettazione di un minimo male necessario, nella negazione di un male che potrebbe risultare eccessivo, e contro cui intraprendere tutta una serie di azioni e di reazioni. Tutto ciò va senza la realtà intellettuale e la realtà dell’esperienza, ma in nome di una realtà rappresentata, cioè ontologica, data per tale.
Se alla realtà togliamo il principio di realtà, ossia il contingente, resta l’ontologia. A qualificare la realtà è il principio di realtà, il contingente. Se alla realtà togliamo il contingente, la prova di realtà, che ne è della parola? Nessuna interlocuzione, nessuno statuto intellettuale. Solamente dialogo. E che cosa porta il dialogo? I dialoganti. Dove giungono i dialoganti? O all’accordo, perché la pensano allo stesso modo e quindi giungono allo stesso punto da cui sono partiti, o al disaccordo, perché la pensano in modo diverso.
Il dialogo è la rappresentazione della possibilità della mediazione o del duello, sempre in nome del principio di padronanza. Perché il dialogo va gestito, diretto, evitando le contrapposizioni più marcate; oppure accentuandole per giungere alla rottura, una volta deciso di rompere. Rompere, cioè che cosa? Abolire il tempo. È sempre in nome della padronanza che giunge la rottura. La rottura di che cosa? Che cosa può rompersi nella parola?
La rottura è una rappresentazione dell’abolizione del tempo, con l’ effettualità imprevedibile che il tempo instaura. Il soggetto autonomo, il soggetto sufficiente, il soggetto gestore dice no, meglio la rottura. E allora c’è chi rompe, chi si è rotto, chi vuole rompere, chi dice di essere stato rotto, chi vuole rompere la relazione, chi vuole rompere le scatole. C’è sempre una rottura. Rottura di che? Anche la stessa rottura di scatole, a cosa corrisponde? Queste scatole cosa sono, dove sono, quali sono, dove stanno? La rottura. Mi hai rotto! Adesso mi hai proprio rotto! La pazienza è finita. Mi hai rotto. L’idea di fine. Fine di che cosa? Di fine del tempo! È sempre questione del tempo. In vari modi, in varie rappresentazioni, si tratta del tempo!
Oppure si tratta della relazione. Dove la relazione è sottoposta al tempo, la relazione è tagliata. Ecco la dicotomia, l’alternativa, la contrapposizione: “Impossibile ogni interlocuzione”. Eh! se è abolito il tempo! “Nominatomi soggetto della relazione, sancisco la rottura della relazione”.
E la parola dove sta? In tutto ciò, la parola dov’è? È stata tolta, abolita. In nome di che cosa? Questo è da capire. In nome di che cosa? È sempre in nome di qualcosa che avviene questa abolizione: in nome di Dio, della religione, del buon senso, della ragione sociale, in nome… In nome e per conto di! In nome del nome! In nome della sostanza. In nome di qualcosa dato come sostanza. È questo che fa sì che la parola sia tolta: nel nome di Dio, di Allah, del cristianesimo, della politica, della socialità, della normalità, nel mio nome, del tuo nome, nel suo nome… In nome di! In nome della decenza, della purezza. In nome di!
Quando interviene il nome del nome, la parola è già tolta. Non è che c’è ancora e si può stare lì a discutere. Perché, se si sta lì a discutere, si tratta dei dialoganti, dei duellanti. Non c’è più interlocuzione.
L’interlocuzione non ha soggetti agenti, interloquenti. L’interlocuzione è senza soggetti nel dispositivo di parola. Avviene nel cervello come dispositivo. Dispositivo programmatico, pragmatico. Dispositivo che si rivolge a un compimento, costruttivamente. Nel dispositivo, l’interlocuzione è necessaria, ma non ha agenti e non ha rappresentanti. Procede dall’apertura e si rivolge al programma. Non ha la ragione dell’uno contrapposta al torto dell’altro. È costruttiva in direzione del programma. Ecco, allora, la questione: qual è il programma?
Perché il programma si compia l’interlocuzione è necessaria, non è contro. E perché il programma si concluda, occorre il programma senza personalizzazione, senza soggettività, senza pregiudizio, senza principio di autorità.
Ipse dixit. “Ha detto così, ha fatto così, allora vuol dire che bisogna sia così”. No, non vuole dire niente, non significa niente. Quel che si dice non significa niente! Certo, se c’è chi si appella a quel che si è detto, allora è in atto un principio di significazione del detto, del fatto. La realtà immaginifica è pervasiva. Tuttavia, quel che si dice non significa niente. Tra l’altro, occorre capire quel che si dice, perché quel che si dice non è mai detto, non giunge mai a essere detto. La realtà è in atto! E chi si presumesse l’interlocutore, si troverebbe a fare la caricatura dell’interlocutore, che è irrappresentabile.
L’interlocutore esige l’anoressia intellettuale, ossia l’oralità senza agente presunto. Ogni agente è presunto e si situa nella credenza, nella fantasmatica che va analizzata; altrimenti è consacrata e ognuno vive nell’iterazione di quella fantasia. Poi, forse se ne accorge! Dopo cinquant’anni, si accorge che ha vissuto iterando una fantasia d’origine! Non era meglio analizzarla prima?
Le fantasie agiscono se non sono analizzate. Se non è inteso, l’operatore diventa agente. Il fantasma materno è un fantasma agente. È un’idea di fine che condiziona quella che viene creduta la realtà, ossia la cerchia soggettiva dove qualcuno pensa di esistere. Il soggetto si rappresenta in una realtà virtuale, non nella realtà intellettuale, che è senza ontologia, senza rappresentazione, senza rivendicazione, senza paura, senza rimando e senza sufficienza. E ciò è una bella cosa, perché, in questo modo c’è la chance, ciascuna volta, della scommessa intellettuale.
Ci sono altre domande?
P.E. Intorno alla percezione. Se ho capito, nella realtà intellettuale non c’è nessuna percezione. Allora la percezione è legata all’essere, all’ontologia?
R.C. Alla distinzione tra percipiens e perceptum. La percezione è una proprietà della coscienza. Qui si tratta della realtà senza coscienza. Senza coscienza! La realtà è secondo la logica particolare e nella restituzione. Nel racconto di restituzione. Cioè, è una combinatoria, è un dispositivo che entra in atto; non è una proprietà encefalica.
C’era chi, a suo tempo, diceva che la realtà esigeva quantomeno il tatto. Per potere dire di essere descritta, raccontata, occorreva almeno il senso del tatto, ossia la percezione. Era un altro modo di fare entrare l’organicismo per via filosofica, cosa che è stata fatta da sempre, a parte rare eccezione.
P.E. Allora, di che si tratta quando si parla della logica delle sensazioni?
R.C. Un conto è il dolore come sensazione, il dolore inconscio, il dolore come proprietà della differenza da sé del significante, non il dolore di chi dice “mi sono fatto la bua, ho bua qui, ho male qui, ho male lì. Che male, ho tanto male alla pancia, ho tanto male alla testa. Questo non posso farlo perché ho tanto male alla testa”. Questo non è dolore. È coscienza del dolore, ossia è un modo della soggettività per evitare qualcosa, una giustificazione. Ogni appello al dolore è in qualche modo soggettività. Cioè, il dolore estremo è irrappresentabile, e come tale non porta all’evitamento ma, in quanto estremo, giunge alla proposta. Giunge al contributo programmatico in quanto estremo.
P.E. Estremo significa senza rappresentazione?
R.C. Esattamente! Estremo significa senza rappresentazione, senza localizzazione e senza giustificazione del negativo. Questo vuol dire estremo.
P.E. Ho comunque capito che un dolore rappresentato è sempre un modo di creare il soggetto, la padronanza su qualcosa che è estrema.
R.C. Non automaticamente. La parola è estrema ma, se è negata, non lo è più. C’è un estremismo della parola che non è automatico. Occorre che l’estremismo giunga a rilasciare il suo frutto. Non è che la parola è estrema così, automaticamente. No. L’estremo frutto è la cifra, ma occorre coglierla.
P.E. Sì, e è coglibile se non c’è la padronanza.
R.C. Questo certamente, perché la padronanza è il freno. Quella che sembra essere la massima virtù è il freno. Freno rispetto al capire, all’intendere, al fare. È il freno. La padronanza è il freno.
P.E. Di qualcosa che è già in funzione, cioè, prima della padronanza, prima di questa creazione, sottolineature…
R.C. Prima, dopo… Dire prima è dire già padronanza. Prima-dopo è già padronanza. Prima di che? Prima e dopo e è già abolito il tempo. Nel tempo, quale prima e quale dopo? Siamo già nella circolarità, nella successione. L’idea di prima e l’idea di dopo è già la successione. E nella successione il tempo è già abolito. Se c’è successione c’è fantasma di fine. È semplice. La cosa è semplicissima. Nel momento in cui interviene la fantasia di padronanza, c’è chi dice: “prima, dopo, prima e dopo, questo ora non la faccio, questo lo faccio dopo, questo qui valuterò, ciccì, coccò…”.
P.E. Se non c’è, non se lo pone. Fa e basta, arriva questo estremismo e procede.
R.C. Allora interviene l’occorrenza, secondo il programma. Perché si è istituito il gerundio. Il gerundio è senza padronanza. È chiaro?
Tolto il gerundio ognuno ci mette il suo controllo, la sua sufficienza, la rappresentazione di sé, dell’Altro, i propri pregiudizi, la misura di sé, dell’Altro, la propria idea di questo e di quello: E allora: “Questo proprio non posso, vorrei ma proprio non posso, vorrei, vorrei tanto ma non posso, farei tardi, o farei troppo presto, sarebbe un’anticipazione, no, meglio aspettare, rimandare”.
Tutti questi casi, frequentissimi, normalissimi, sono i casi della padronanza. Ovviamente, hanno una certa incidenza su come vivere, come fare. Hanno una certa incidenza! Hanno una certa incidenza anche sulla salute, che è istanza di qualità.
Si potrebbe tenere conto di questo. Ogni forma di economicismo è un’economia della salute.
Come dice Novaretti? Lei lo sapeva già?
F.N. Sì.
R.C. Ah,dica!
F.N. L’ha detto in modo…
R.C. In modo chiaro no? Lei però non è convinta di questo?
F.N. No, sono convintissima.
R.C. È convintissima! E come mai pratica varie economie? Come quella sua amica che voleva andare a Ferrara e invece si è trovata a Montegrotto?
Giorgio Fornasier Non si è trovata a Montegrotto. Doveva andare a Montegrotto.
R.C. Ah, mi sono sbagliato?!? Ho capito male!!
Maria Antonietta Viero Però è sempre un biglietto.
F.N. No, no.
R.C. Allora? Stava dicendo qualcosa, mi pare. Mi sono sbagliato. Un’altra volta! Forse Moda voleva dire qualcosa. Lei aveva da leggere?
F.M. Sì, una cosa.
R.C. Allora leggerà la prossima volta. Però, può dire qualcosa come testimonianza.
F.M. Parlava dell’attuale come opposto al presente. Il presente è un passatismo diciamo.
R.C. Sì.
F.M. Attuale sta per atto, atto di parola chiaramente, qualcosa che si espone a variazione e differenza. Ma, perché il presente avrebbe questa accezione negativa? Perché c’è il soggetto che…
R.C. L’attuale è una proprietà dell’atto che tende a scriversi e a concludersi alla cifra. A compiersi e a concludersi. Non è contrassegnato dall’idea di fine l’atto, capisce? Invece, il passato, il presente e quello che viene chiamato il futuro, sono modi della gestione del tempo per istituire una successione, sempre sottoposta a un’idea di fine. L’attuale – e nell’attuale c’è anche il gerundio – non è sottoposto all’idea di fine, oltre a esigere un dispositivo, dove cioè, si tratta della struttura che si scrive, della memoria. Questa è la questione semplice semplice.
L’atto è senza fatto, senza detto e senza fatto. L’atto di parola è inimmaginabile, non corrisponde al detto e al fatto, che sono proprietà dell’economia soggettiva; e non aggiungo altro perché aprirei un’altra questione che, data l’ora, non è il caso. Novaretti deve andare adesso!
F.N. Certo.
R.C. Forse Sanavia, molto tacitabonda, voleva dire una piccola cosa…
B.S. Ne avrei…
R.C. Certo, il soggetto… ne avrebbe. Il soggetto ne ha, ne avrebbe.
B.S. Non il soggetto. Stavo pensando… non so se l’ha detto stasera. Ma le cose che ha detto mi hanno fatto pensare a quando a volte afferma che nessuno sa quello che vuole e nessuno fa quello che vuole! Però, la pulsione… se uno asseconda la pulsione, non fa quello che vuole? E non lo fa, se la trattiene per paura?
R.C. Vede, già qui siamo nell’idea di padronanza, in pieno.
B.S. Ma se asseconda la pulsione…
R.C. Eh, “asseconda la pulsione”… l’asseconda, la guida, la domina. La pulsione è senza controllo. Non è che sia già detta, fatta e scritta la pulsione. È da capire.
B.S. Magari si trattiene.
R.C. Sì, se non viene contenuta…
B.S. Ma, allora, se non la si contiene, non si fa quel che si vuole?
R.C. No. La pulsione nulla ha a che vedere con il volere, che è una modalità soggettiva, né con il volere fare, il potere, il dovere, il sapere fare.
B.S. È un’esigenza?
R.C. Sì, è istanza, esigenza, certo. Freud, parlando della pulsione, diceva: “Le pulsioni e le loro vicissitudini”, cioè, non è una traiettoria rettilinea quella della pulsione, non è la via dritta che si segue e si arriva. No, vicissitudine! Occorre capire, intendere. Occorre l’ascolto, il dispositivo. Occorre il cervello, non l’encefalo, il cervello come dispositivo della realtà intellettuale, della realtà dell’esperienza.
È chiaro che le questioni aperte sono molte, c’è da fare, da lavorare. Adesso c’è da andare. Ci vediamo la settimana prossima.
Grazie e arrivederci.