Sedicesimo capitolo del volume La realtà della parola
L’avvenire e l’idea dell’avvenire
Ruggero Chinaglia Il titolo di questa sera è noto. È noto? Per quale via è noto? Via telematica? Ho capito.
Barbara Sanavia E verbale anche.
R.C. Anche verbale. È stato messo a verbale?
Il titolo è L’avvenire e l’idea dell’avvenire, che non sono da confondere, perché un conto è l’avvenire, che resta imprevedibile e irrappresentabile e un conto è l’idea dell’avvenire, con cui viene negato l’avvenire stesso. Occorre non confondere e non sovrapporre queste due questioni antitetiche.
Accade, a un certo punto della vita – “Prima o poi” direte voi – no, a un certo punto – senza prima e senza poi – che si ponga la questione o venga posta a qualcuno la questione: “Cosa farai da grande?”. Quanto grande? Cioè quando?
La questione è seria e importante, ma può accadere che, proprio lì, proprio in quel punto, se è inteso come un prima o un poi, possa cominciare a agire il fantasma di origine e, agendo, venga negato l’avvenire; e con l’insorgenza di questo fantasma si produca la rappresentazione dell’animale fantastico anfibologico, ossia la negazione del due con la rappresentazione dell’alternativa.
È per l’animale fantastico anfibologico che può intervenire la rappresentazione di sé, la rappresentazione dell’Altro, la rappresentazione del domani, la rappresentazione dell’avvenire. Rappresentazione che nega l’avvenire e lo pone come ostaggio del fantasma di padronanza, dell’idea di padronanza, dell’idea di potere stabilire quando e come fare e se fare, cosa fare, e perché fare.
Questa modalità della padronanza, con la sua fantasmatica, sostituisce all’avvenire il prima e il poi, l’idea di potere gestire in una successione spaziale ciò che è da fare, secondo una modalità canonica, ordinale, cronologica, vigente nel discorso occidentale, come discorso di padronanza, come discorso soggettivo.
Così, in questa idea cronologica, l’avvenire diventa il poi, cioè un’ipotesi rimandabile, gestibile. La padronanza del soggetto è padronanza di potere attuare il rimando, rispetto all’occorrenza.
Il poi, il dopo che toglie l’occorrenza a favore della rimandabilità, deve risultare prevedibile, deve consentire una visione in nome del principio di padronanza, che è anche principio di conoscenza, di sapienza, cioè di subordinazione del fare al sapere.
Questo è il principio di padronanza che si volge nella sufficienza, nell’idea di sufficienza. Il soggetto sufficiente è tale in quanto soggetto al sapere e sottopone, sottomette il fare a questa idea, per cui l’alibi più frequente diventa: “Non so cosa fare”, “Non so come fare”, “Non so”, quindi “Non faccio”. Come se il fare dovesse conseguire al sapere! Ciò perché c’è un’idea di fare rappresentabile, spaziale, senza l’invenzione, senza il tempo, come rappresentazione della soggettività. Il fare diventa la rappresentazione del soggetto, soggetto agente che può agire solamente rispetto al sapere. L’azione deve risultare conforme al sapere.
L’avvenire è così negato. Il fare è negato, perché questa subordinazione al sapere nega l’Altro, e “il fare” non è sovrapponibile alle “cose da fare”, cioè alle cose che il soggetto fa. Il fare è la struttura dell’Altro, cioè il fare sta nel registro pragmatico, e non è sovrapponibile all’elenco delle cose da fare. Le cose si fanno se non è negato il registro pragmatico, che è l’intervallo dove sta l’Altro. Se il fare è sottoposto al sapere, l’Altro è negato, perché il sapere non sta nell’intervallo.
Il sapere è una proprietà e un effetto della ricerca, quindi è un effetto del registro frastico. Il sapere riguarda la ricerca, non è nel registro pragmatico. Sottoporre il fare al sapere vuole dire togliere propriamente il pragma, togliere l’Altro, abolire questo registro e rendersi ostaggi dell’immobilismo, dell’impossibilità.
Tutto ciò in nome dell’idea di origine, della presunta idea della propria origine che, sempre per via di questo principio di conoscenza, principio di sufficienza, costituisce un’ipoteca sull’avvenire.
Così, in nome del principio dell’origine, per ognuno comincia la rappresentazione di sé, dell’Altro e dell’avvenire, e dunque la negazione: la negazione di sé in quanto il sé è irrappresentabile e triale, la negazione dell’Altro in quanto l’Altro è irrappresentabile e triale e la negazione dell’avvenire, irrappresentabile in quanto mai avvenuto. L’avvenire mai può volgersi nel fatto, nell’avvenuto, nell’avvenimento.
L’idea di controllo sull’avvenire sancisce la condanna alla paura. Questa è la gabbia per ognuno. Ognuno sta nella gabbia dell’origine e dei suoi corollari, gabbia dove può esercitare la padronanza. Ognuno esercita la sua padronanza nella gabbietta in cui vive come soggetto, in cui può controllare, presumere di controllare, l’oggetto, il tempo, l’avvenire e dove esistere. L’esistenza è questa: la creazione della gabbia, della gabbietta.
Quanti allevano canarini, pappagallini, animaletti da tenere in gabbia, come promemoria di qual è l’ambiente in cui vive: la gabbietta! Ognuno sta nella gabbietta come figlio dell’origine. Ognuno è figlio dell’origine. E sarebbe atto di tracotanza tradire l’origine! Sarebbe un’insubordinazione rispetto all’amore ideale del padre e della madre, che l’origine dovrebbe sancire.
È questo il tradimento per ognuno che, quindi, si rivolge a vivere conformemente alla sua idea di origine. E anche quando pensa di ribellarsi, in realtà la applica, perché l’idea di origine agisce non secondo il controllo soggettivo, ma nonostante questo! E anche quando qualcuno pensa di compiere un atto innovativo, fa qualcosa che è conforme all’idea di origine. E si lamenta magari! Si lamenta di non riuscire, di fallire, di avere difficoltà, di non riuscire a costruire.
La costruzione esige l’Altro che, se è negato, non può dare la sua mano. Dall’idea di origine alla credenza nel fatto, nell’accaduto, alla ricerca dell’atto fondante, il passo è brevissimo. Ognuno cerca e trova la giustificazione di ciò che non fa, perché purtroppo quella è la sua origine. Basta pensare al Gatto con gli stivali.
Come inizia la fiaba del Gatto con gli stivali? Il mugnaio muore e aveva tre figli: al primo lascia il mulino, al secondo l’asino, al terzo il gatto. E il terzo figlio dice: “Caspita, una volta mangiato il gatto e fatto un manicotto per l’inverno con la sua pelliccia, io morirò di fame!”. Questa è la negazione dell’avvenire attraverso la rappresentazione. Ma, a quel punto della fiaba, c’è la chance. La chance di non proseguire nella fiaba secondo l’idea di origine, che è anche idea di morte, ma che s’instauri l’interlocutore.
La rappresentazione non si realizza, non si conferma il fantasma di genealogia, che è l’altra faccia del fantasma di origine, cioè il legame con ciò che è accaduto, con il presunto trauma primigenio, con la macchia, la colpa, il guaio, ciò che è pensato determinare il seguito, perché, essendo accaduto prima, il poi sarebbe conseguenza di ciò che è ritenuto il suo fondamento.
Questa è la soggettività connessa al fantasma di origine, che diventa agente come fantasma di morte, e ognuno si giustifica perché non può e non sa. Soprattutto non sa! Se sapesse… Ma, non sa! Se sapesse potrebbe anche fare qualcosa, perché potrebbe sapere se questa cosa possa andare bene… Ma, se poi va male? Può andare male! La “cosa” può andare male.
E il soggetto, così osservante rispetto al bene, può correre il pericolo che qualcosa possa andare male? No! Piuttosto si astiene. Non può correre questo pericolo. Tra la minaccia di male e la promessa di bene, occorre attenersi alla promessa di bene. Tanto, questa promessa può realizzarsi successivamente! Mica è necessario che avvenga subito! Può avvenire dopo, un domani, in un avvenire successivo.
La spazializzazione è questa: l’idea che possa accedere qualcosa successivamente, perché subito sarebbe “troppa grazia”! Scherziamo? Subito? Con il pericolo della minaccia di male, piano ragazzi! Piano! Pensiamoci su, non una, non due, ma tante volte! Piano, c’è tempo! Faremo un domani. Intanto, astenendoci, siamo sicuri che la cosa possa andare bene; ma finché c’è la minaccia di male, meglio rimandare.
Il soggetto padrone, questo fa, rimanda. Esercita la sua padronanza sul tempo rimandando, così può governare la sua paura sul tempo, sul male, sull’avvenire, su ogni cosa, perché la paura, una volta accettata, si estende! La superstizione è questa: l’accettazione della paura e l’attribuzione alle varie cose della giusta causa sulla possibilità di male.
Domani è il 17. Il 17, non è mica un numero come gli altri, è il 17. E, allora, la radio nazionale dedica al 17 il suo giusto tributo. E raccoglie i pareri degli ascoltatori su come e perché, su quali scaramanzie, su quali aspettative riservare a questo importante aspetto della vita: la superstizione.
Superstizione, predestinazione. Questa cosa è destinata a andare bene o no? Che destino ha? Perché, se avesse una buona predestinazione ancora ancora, ma se avesse una cattiva predestinazione?
Ecco come esercitare la delega o a dio o al cosmo. Le stelle sono d’accordo con questo programma? Perché, se le stelle non sono d’accordo non possiamo sfidare la minaccia di male, soprattutto quando è sostenuta dalle stelle! Se è già scritto che le cose vadano male, è inutile. Tanto vale attenersi a questa scrittura. Perché correre il pericolo, fare la fatica di dedicarsi, rivolgersi a che le cose si scrivano, se sono già destinate a andare male?
E così ognuno esiste, cioè si rappresenta nel mondo finito, al riparo, senza la necessità pragmatica, senza audacia, senza sforzo, in un sistema termodinamico, un vero sistema finito, senza nessuna istanza, in pace, riposando, già in pace, in attesa, poi, della vera pace eterna.
Da una parte la delega a Dio, se può fare la grazia, da un’altra la delega al cosmo e, dall’altra ancora, la padronanza in nome del sapere, in nome del bene, senza la parola. Tutto ciò nega la parola.
E ognuno ha ricordi: ha il ricordo dell’origine, dei corollari dell’origine, ricordi della famiglia, della casa, dell’infanzia, dei fatti che hanno determinato l’ipoteca sull’avvenire. E ognuno, ricordando, conferma l’ipoteca. Ma, cosa ricorda? Ricorda una fantasia d’origine cui si trova legato, in una gabbietta. E la ricerca diventa la ricerca del fondamento, della causa prima, di chi ha costruito la gabbietta, di chi ha, con malevolenza, sancito l’impossibilità assoluta, e quindi merita solo la vendetta per questo spreco di amore che non è ricambiato.
Tutto questo gran lavorio è senza lavoro, senza analisi, senza industria, senza l’allestimento di dispositivi, senza l’assetto rivolto al compimento della domanda, addirittura senza la domanda.
Ognuno è disposto a giurare che non c’è la domanda. Nel suo caso c’era una volta la domanda, ma poi basta, è stata travolta, cancellata, negata, non c’è più! Ignorando che senza domanda non c’è vita. La questione è questa: senza la domanda non c’è vita, senza l’Altro non c’è vita.
La dottrina della conoscenza che nega l’Altro, nega anche la vita. La conoscenza è senza memoria e vive di ricordi, vive sul passato, sulla rappresentazione del passato, sulla riproposta del fantasma d’origine.
Altro conto la memoria, che si scrive nel gerundio e che non rilascia la conoscenza, ma trae le cose alla scrittura, e risente della tensione verso la cifra. Niente valore senza memoria. La memoria è valore attuale, si tratta della memoria della ricerca e memoria dell’impresa, non come la ricerca passata e l’impresa passata, ma la ricerca in atto e l’impresa in atto, di cui la memoria è la struttura in atto.
È questa la costruzione. Lo spirito costruttivo non è quello che dice “Ho fatto, ho fatto. Eh ma, sono sempre le stesse cose. Ho provato. È inutile provare ancora, ho già provato”. Non c’è nessuna costruzione in questo. È la negazione della domanda questa soggettività. È proprio l’apoteosi dell’idea di origine come negatività assoluta entro cui mantenersi imbecille.
Chi osa costruire? Chi osa il gesto audace per l’invenzione secondo la provocazione, secondo la funzione, secondo l’idea originaria e non il ricordo di sé, della famiglia di origine, della genealogia, del cerchio? Chi osa? Questa è la questione che, in quanto questione aperta, travolge ogni soggettività, ogni padronanza, ogni principio di sufficienza ispirato al saper fare, all’idea di abitudine.
“Eh, ma io sono abituato a fare così, a pensare così, a credere questo. Sono abituato a fare quello che desidero, a fare quello che voglio, a fare quel che mi piace”. Bella gabbietta questa, no? Le sbarre della gabbietta: fare quello che si vuole, fare quello che piace, fare quello che si desidera. Così la gabbietta è proprio confermata e l’avvenire è tolto, perché è rappresentato da quel che piace, dal piacere previsto, da quel che si vuole, cioè dalla volontà di fare e dal desiderio come attribuzione soggettiva.
Così ognuno s’ispira al probabile e al possibile. Cos’è meglio fare? Quali sono le percentuali di riuscita? Intanto c’è un 50% che possa andare bene e che possa andare male, e poi ci sono probabilità e possibilità che sono da calcolare con l’indagine di mercato, per esempio, sentendo il parere degli esperti, sentendo il parere degli amici, sentendo cosa ne dice la famiglia, così da orientarmi sulla probabilità e sulla possibilità. Tutto ciò vuol dire non formulare un disegno, non formulare un progetto, non formulare un programma, ma vivere di predestinazione delegando alla possibilità e alla probabilità la riuscita.
Sul principio della delega non giunge nessuna riuscita, perché la riuscita non è conforme al mondo e alla sua visione. La riuscita è pulsionale. Esige la domanda, il suo corso. Esige la vicenda della domanda e non la padronanza sulla domanda. Esige la necessità pragmatica. In nome della visione del mondo, in nome del bene, la riuscita è negata. È questo che ci dice il film Spider, di David Cronenberg .
Vigendo il principio del ricordo, il commento al film Spider è facilissimo, di una facilità irrisoria. C’è il signor Cleg, il nostro amico Cleg, il “vostro” amico Cleg, che a lungo è stato ospite del manicomio. È stato in manicomio, poveretto. Poi viene dimesso e va in un ambiente più confortevole, dove rimemora e rivive le sue disgrazie.
Uscito dal manicomio, il soggetto cosa fa? Rivive e rimemora le sue disgrazie, le negatività per cui tutto ciò è accaduto e si giustifica. E trova che, sì, così è andata, ma non poteva che andare così, perché lui è Cleg e da quella famiglia, da quell’origine questo poteva nascere, no? Che altro?
La mamma era così, il papà era così e lui è diventato così. È degno figlio di tale madre e di tale padre! Da una famiglia simile, che tipo di vita potrebbe auspicarsi e venire? Questa: manicomio, uscita dal manicomio, ritorno al manicomio! D’altronde, lui ha vissuto un’infanzia in cui il papà gli ha ucciso la mamma, poi se ne è andato con una prostituta e che lui ha pensato bene di uccidere, ricambiando il favore che il papà gli aveva fatto! Questo è il commento. Il commento è così! Lo vediamo benissimo: Cleg arriva dal manicomio, va nella casa famiglia, rivive e ripensa tutte le disgrazie che ha avuto e, chiaramente, poiché il suo destino è segnato, al manicomio deve ritornare!
Se leggete le recensioni a questo film, questo vi dicono, che così è accaduto. Lei dice di no, però, applicando i criteri soggettivi questo è ciò che è rappresentato. Questo è ciò che vediamo nel film: il papà va con la prostituta, uccide la moglie, sta con la prostituta e Cleg uccide la prostituta. E quindi compie giustizia! Psicologicamente, sociologicamente, psichiatricamente questa è la vicenda del film.
Ma, se teniamo conto dell’aspetto narrativo, della narrazione dei dettagli e se indaghiamo clinicamente, forse la storia è un’altra. Anzi, sicuramente la storia è un’altra; esige però la costruzione, non l’applicazione del realismo per spazializzare il racconto nella cronologia, e l’ascolto di ciascun dettaglio e, soprattutto, l’articolazione, l’elaborazione e la dissipazione dell’applicazione della dicotomia alle cose.
Con la logica della parola il racconto è un altro. Il protagonista del racconto chi è? È Mr. Cleg? O Bill? Bill/Cleg? Dennis/Cleg o Spider? O è la signora Wilkinson? O Yvonne? O è la signora Cleg? Chi è protagonista del racconto?
B.S. È un susseguirsi. È Spider che s’immagina sarebbe diventato Mr. Cleg, e invece poi è Dennis.
R.C. Ah sì? E come mai Dennis fa questo viaggio immaginifico sull’avvenire?
B.S. Fa parte della vita.
R.C. Come fa parte della vita?
B.S. Cioè, lei l’altra volta aveva chiesto, chi è Spider? Chi è Dennis? Chi è Cleg?
R.C. Spider/Cleg.
B.S. Per me, Spider è il soggetto bimbo, diciamo. Dennis è il nome, è lui, originario. In alcuni momenti il papà lo ha riconosciuto come Dennis, e Mr. Cleg è la fantasmatica.
R.C. Interessante.
B.S. Cioè, come lui s’immaginava sarebbe stato da grande in quanto figlio di quei due genitori che sono… Che al momento gli sembravano due depravati.
R.C. Precisamente. Proprio così. Questa è la lettura! Mr. Cleg è l’idea di sé, quindi la rappresentazione dell’avvenire se… se… se…! Se l’origine fosse quella, se il fantasma materno dell’origine avesse il suo corso.
Il film presenta, al suo inizio, l’arrivo del signor Cleg in stazione, e termina con la partenza di un’auto dove, apparentemente, c’è il signor Cleg. In realtà c’è Dennis, cui un adulto si rivolge e gli chiede: “Sei pronto per tornare da noi, figliolo?”. Quindi Dennis è stato via, è stato da qualche parte. È stato fuori casa? È andato per un periodo altrove, fuori casa, e in questo periodo, ha avuto una serie di rappresentazioni anfibologiche sulla famiglia, sul papà, sulla mamma e su di sé.
Prima di tutto sulla mamma, perché Dennis ritiene che il papà trascuri la mamma e si rivolga a altre donne, prostitute, per soddisfare le proprie esigenze sessuali. E la mamma, però, nonostante questo, è dedita al marito, gli presta attenzione, gli dedica le sue attese, i suoi atti. Insomma, gli rivolge il suo amore e il marito non la disdegna. Quindi, la madre, che non si cura di Dennis ma va con il marito, è per ciò stesso una prostituta! È una donnaccia! Merita di morire! E, infatti, il marito la uccide.
Ma, poi cosa fa? Porta a casa la prostituta che diventa la padrona di casa. Anfibologia della madre: madre santa, madre buona, madre puttana. Madre virtuosa, madre trascurata dal marito, madre prostituta che va con il marito e trascura il figlio. E quindi la madre va punita!
Anche il padre va punito, perché non ricambia l’amore che il figlio gli rivolge. E così Spider progetta la sua vendetta, di uccidere il papà e la mamma con il gas.
In questa rappresentazione della vendetta, però, si dissipa l’anfibologia della madre: Yvonne non c’è più! Yvonne, dalla capigliatura bionda, non c’è più e c’è la mamma dalla capigliatura castana! Non c’è più l’anfibologia, e quindi non c’è più la necessità di uccidere, di punire. Non c’è più la negatività paterna e materna, e in questa dissipazione dell’anfibologia, il signor Cleg non ha più la necessità di uccidere la signora Wilkinson. Addirittura, il signor Cleg non c’è più!
Dennis, quindi, torna a casa, serenamente, con il papà che è andato a prenderlo! E il film narra di questa rappresentazione anfibologica di Dennis sul papà, sulla mamma e su di sé, sul suo avvenire rappresentato secondo l’anfibologia materna e paterna. È dissipata l’idea di rovina strettamente connessa a questa rappresentazione dell’origine!
La rappresentazione dell’origine nega la riuscita e prescrive la rovina, in quanto il tempo non c’è più, il tempo è finito, c’è la negativa del tempo con tutte le sue correlazioni, prima fra le quali, appunto, l’idea del matricidio.
Si combina così, una negazione dell’Altro, la vita senza il tempo e senza l’Altro; è la conferma di un’idea rovinosa.
Questo è il film.
Chi vive come Dennis, attraversando le rappresentazioni dell’origine? E chi vive come Mr. Cleg, confermando la gabbietta e le sue sbarre? Questa è la questione che si pone per chi non accetta la minaccia del male e la promessa del bene. Questa è la questione che questo film ci rilascia, a nostro avviso.
Se ci sono domande…
Patrizia Ercolani Io non ho capito bene quello che diceva prima, la connessione tra la paura e l’idea di origine, se la paura è generata dall’idea di origine o viceversa.
R.C. Come viceversa. Quale sarebbe il viceversa?
P.E. La paura nasce come effetto di un’idea di origine, causa, oppure…
R.C. Chiaro che la paura, sempre come presunzione e giustificazione d’impedimento, serve a una negazione dell’apertura. L’applicazione della dicotomia alla relazione produce la paura. Non c’è più apertura, ma solamente promessa di bene e minaccia di male, e lì sta la paura, in questa alternativa. La questione mi pare semplice. Altri?
Occorre dire che è interessante la lettura che ha fatto Barbara Sanavia, quindi siamo molto curiosi di sentire la testimonianza la settimana prossima. Molto curiosi.
B.S. Sarà molto difficile che ci sia.
R.C. Sarebbe rovinoso.
B.S. E se ci sarò, non so.
R.C. Non c’è né se né ma. Dopo quest’annunciazione non c’è modo di esimersi.
Altre domande? Non ci sono altre domande? Tutto è chiaro. Bene.
B.S. Ci sono tante domande. Ma la sensazione che ho, anche da altre conferenze, pur non avendo ben focalizzato le cose… l’impressione è, che il parricidio sia una cosa positiva e necessaria per l’instaurazione del nome.
R.C. Non per l’instaurazione del nome, cioè il nome che funziona instaura il parricidio, non viceversa! Cioè il nome è originario, e anche il parricidio è originario. Non è che il parricidio instaura il nome che prima non c’era.
B.S. Rivelandosi il nome, avviene il parricidio.
R.C. Non è una rivelazione, è un funzionamento.
B.S. Mentre il matricidio mi sembrava avesse una connotazione negativa.
R.C. Sì, in effetti il matricidio è questa negazione della madre, perché il parricidio è secondo la funzione, ma non c’è funzione materna.
C’è matricidio se la madre, anziché come indice, viene fatta funzionare. Allora vige il matricidio, cioè l’applicazione alla madre della dicotomia. In questo senso matricidio, applicazione alla madre, che è l’indice del malinteso, di una funzionalità. La madre non funziona, è indice.
B.S. Pulsionale.
R.C. È indice del malinteso, certo, del modo con cui interviene il tempo.
B.S. Va bene. Ci ragionerò su.
R.C. Esatto. E anche il padre è un indice. Mentre il nome funziona, il padre è indice del nome, l’indice che il nome è innominabile. Questo è il padre come indice, indice dell’innominabilità del nome, perché non è da credere che il padre funzioni. Neanche il padre funziona. Il padre è un indice. Padre e madre sono due indici.
B.S. L’innominabiltà del nome… cioè il nome non è già dato.
R.C. Esatto, il nome è innominabile e anonimo, ha queste due caratteristiche. E ciò è importante e coglibile già nel comandamento “Non nominerai il nome”. Primo comandamento: “Non nominare il nome”!
B.S. Il nome di Dio invano.
R.C. Sì, quella è un’aggiunta. Non nominare il nome! Il nome è innominabile. Non si può nominarlo. Non è solo il nome di Dio che non si può nominare, è il nome! Poi, religiosamente, uno dice “Eh, è il nome di Dio”. No, il nome nella sua originarietà è innominabile, nessuno può dire il nome. E questo è una caratteristica del segno in quanto segno tripartito in nome, significante e Altro. Impossibile dire il nome, impossibile dire il significante, impossibile dire l’Altro.
Sono tre caratteristiche della parola nella sua tripartizione in quanto segno, e da ciò discende tutta una serie di questioni, come quella della lingua che non è comune. Nessuno parla la stessa lingua, e lo si deve a questo.
Nessuno può comprendere. Impossibile capirsi. Si tratta di ascoltare e capire quel che si dice, perché la lingua è altra. Questa è la linguistica della parola, la linguistica cifrematica, la linguistica che già Freud ha posto come la questione dell’inconscio.
B.S. Per cui ognuno può capire solo se stesso.
R.C. No, nessuno può capire se stesso, perché, cos’è “se stesso”? Se stesso sarebbe Mr. Cleg! Certo, se lei ha una relazione avviata con Mr. Cleg, allora può capire Mr. Cleg, può capirsi con Mr. Cleg!
B.S. Non un se stesso già dato.
R.C. Se stesso. Occorre indagare cosa si dice dicendo “se stessi”, perché c’è una rappresentazione del sé che vorrebbe che ci fosse la possibilità di essere in pace con se stessi. E molti asseriscono proprio questo: il problema è di stare in pace con se stessi, di stare bene! Anzi, addirittura di stare bene con se stessi. Sarebbe la mummificazione. Stare bene con se stessi vuole dire comunicazione tra mummie. La mummia sta bene con se stessa, effettivamente. Lei sta bene con se stessa?
Sabrina Resoli Mi pare di no.
R.C. Ecco, qui si tratta di capire di cosa si tratta; non della mummia, ma, di cosa?
S.R. Di un’altra entità.
R.C. Esatto.
S.R. Però una domanda, anche l’autorità è indice del funzionamento del nome?
R.C. No, l’autorità è un lascito del nome nel suo funzionamento. È una conseguenza, come l’aumento, la crescita. È una conseguenza. Nulla può aumentare e crescere se il nome non funziona, perché quel che è, non cresce. Nulla può crescere se è, se esiste. Se è tale, come fa a crescere? Cresce solo ciò che tende a qualificarsi, allora c’è crescita, aumento, variazione, differenza, ma senza funzionamento non c’è crescita.
Sì, ma altre notazioni, anziché quiz, anziché la riedizione del “Rischiatutto”? Qualche notazione, qualche testimonianza dell’elaborazione in corso, di un dubbio? Non ci sono dubbi, solo certezze. Lei ha una certezza da dirci?
Tiziana Resoli Un’annotazione, una questione. Stavo pensando alla differenza che c’è fra – parlava prima del soggetto che nella sua gabbietta ricorda il passato, la famiglia, alla ricerca dell’origine, alla ricerca della pecca, alla ricerca di capire che viene da lì e va verso quella direzione – dove non c’è l’elaborazione del ricordo e, invece, quando c’è l’elaborazione del ricordo e l’attraversamento, quanta differenza ci sia.
R.C. Questa formulazione del ricordo mi sembra un compromesso. Manteniamo il piede nella scarpa del ricordo e un altro da un’altra parte, però sempre manteniamo il ricordo.
È questa stagnazione del ricordo che si tratta di analizzare. Il ricordo di sé è il ricordo dell’origine. Il ricordo è negazione dell’analisi. L’analisi è senza il ricordo. Fino a che è possibile porre l’ipotesi di un ricordo, occorre effettivamente interrogarsi su che cosa si vuole mantenere come fondamento.
La costruzione è senza ricordo, l’avvenire è senza ricordo, l’occorrenza è senza ricordo. Invece il ricordo impedisce l’occorrenza, impedisce l’avvenire, impedisce la costruzione. È come mettere una pastoia al passo e al piede, il ricordo. Se il nome funziona, se il significante funziona e se l’Altro funziona, come fa a reggere l’ipotesi di ricordo?
Perché vi sia ricordo bisogna che ci sia una sospensione del funzionamento, quindi il ricordo è il nome del nome che è addotto; cioè il ricordo consacra qualcosa in nome del nome. In nome di Allah, bisogna purificare l’infedele. In nome di Dio… Nel nome di Allah, nel nome dello stato, nel nome del popolo, nel nome di Dio. Quel nome non funziona! È nome del nome.
Così, quando s’instaura un significante padrone. Schreber diceva: “Io sono il presidente”. Ma, se io sono il presidente, allora c’è un problema. “Io sono presidente”, e quel significante non funziona più! È consacrato. Io sono il presidente rappresentato. C’è il soggetto presidente. Presidente è nome del nome.
“Io sono il figlio, io sono la figlia, io sono il figlio maggiore, io sono il figlio minore, io sono il figlio prediletto, io sono, io sono io, io sono e faccio quello che voglio”. Che problemi! Io so e quindi… Io non so e quindi… Tutti ricatti in nome del nome, del sapere raggiunto o non raggiunto, in nome del bene, in nome del male. In nome di…
“In nome di”, non c’è inconscio! “In nome di”, non c’è parola! C’è una serie di rappresentazioni, di esistenze che si volgono in ricatto o riscatto e vivono nell’anfibologia. Nessuna educazione può instaurarsi con l’anfibologia.
E accanto al fantasma di origine molto spesso c’è il fantasma di autonomia, dove è negato il nome e l’autorità. Negata l’autorità, ognuno diventa autonomo. Cosa fa l’autonomo? Fa quello che vuole. E l’autonomia ha la sua rappresentazione nel cancro. Ogni cellula fa quello che vuole. Allora, qual è la combinazione, la connessione tra fantasma di autonomia e cancro? Questo si può indagare.
Così con altre rappresentazioni: padronanza sul nome, padronanza sul tempo, padronanza sulla domanda, padronanza sulla pulsione… E la pressione schizza. “Aumenta la pressione, allora io prendo la pastiglietta!”. “Eh, non ho problemi io, prendo la pastiglia!”. “Sono soggetto libero, perché ho la pastiglietta da prendere e la pressione allora va bene”!
E chi ha la pressione che sale, chi non può mangiare la carne, chi non può mangiare la frutta, chi non può mangiare i dolci, chi non può mangiare questo, chi non può mangiare quello, chi non può fare questo, chi non può fare quello e ognuno sta nella gabbietta. Però può far uso di tanti rimedi, senza cui potrebbe morire; però intanto ha i rimedi.
S.R. Intanto sopravvive. Non muore, ma sopravvive.
R.C. Non ci si può scherzare. Occorre tenere conto della parola, perché i suoi effetti sono imprevedibili e incalcolabili e sbarrare l’istanza di parola, cioè sbarrare la pulsione e la tendenza alla qualità, non è che va senza problemi. Ci sono dei contraccolpi, contrappassi, contropiedi. I problemi ci sono.
Occorre che già i bambini imparino questo, ma più che lo imparino, lo avvertano, lo ascoltino, perché che un bambino sappia usare un telefonino a tre anni non è indice di un’istanza di qualità per la vita, e invece c’è bisogno di questo. O no? Cosa dice, Novaretti? È dubbiosa.
Fernanda Novaretti Come?
R.C. È molto contrastata.
F.N. No, c’è questa cosa del ricordo che non mi è chiara. Quello che diceva Freud dei ricordi sembrava che fosse una cosa su cui…
R.C. Sì, ma, benedetta figliuola, è un saggio del 1800. Freud ha cominciato da lì. Poi siamo andati avanti. E poi bisogna capire quando Freud dice ricordo o altre cose, perché dice e poi contraddice. Freud ha un andamento molto mobile, che non va letto secondo il pregiudizio del lettore, bisogna affidarsi al testo, cogliendo anche la contraddizione che c’è nel testo.
Quello che è stato fatto con Freud è stato, in realtà, ridurre al minimo le contraddizioni facendone il riassunto, che sarebbe a dire che il signor Cleg è stato in manicomio, ha avuto una madre così, un padre così, ha ucciso la matrigna, e poi è uscito dal manicomio. Cioè, bisogna leggere Freud non come commento, ma come lettura, costruendo un altro testo con la lettura. Chiaro?
Freud è interessante, ma non bisogna imbalsamarlo e fare una lettura che consacri Freud come mummia. È il testo che va letto e nel testo ci sono tante faglie. Non vanno suturate, vanno lasciate, esplorate. Ha preso tante cantonate Freud, non è mica un testo sacro! Anche il Vangelo va letto. Se leggiamo il Vangelo possiamo dire che, forse, Cristo non era il personaggio che viene raccontato. In effetti, il Cristo del Vangelo è differente dal Cristo del Corano. Il Cristo di Luca non è il Cristo di Matteo, non è il Cristo di Giovanni. Ma questo solo per darvi un’inquietudine supplementare. Che non vi culliate sull’idea religiosa di conoscere Cristo!
S.T. Non è neanche così religiosa alla fine.
R.C. Beh, abbastanza. L’idea di conoscenza è religiosa, ma questo lo esploriamo la volta prossima. La volta prossima è il 23. Chissà che accadrà il 23! Voi presumete di conoscere cosa accadrà il 23, e invece ancora non sappiamo.
B.S. Che ci sarà il 23, è sicuro.
R.C. Sì, il 23 ci sarà, ma cosa accadrà non lo sappiamo.