Secondo capitolo del libro La lampada di Aladino
La lampada dell’erotismo
Ruggero Chinaglia C’è qualche suggerimento, riflessione o l’esigenza di qualche chiarimento?
Andrea È possibile avere una breve sintesi degli argomenti affrontati nello scorso dibattito?
R.C. Lei c’era la settimana scorsa? Ah, ecco, non c’era. Impossibile recuperare, perché noi facciamo l’analisi. Come si può fare la sintesi? La breve sintesi è impossibile. La brevità è una proprietà dell’itinerario, ma non può mai giungere alla sintesi. Perché, si chiederà lei, non può giungere alla sintesi? Perché non c’è sintesi possibile. Il processo di qualificazione avviene per divisione, e la divisione è senza rimedio. Sintesi indica la ricomposizione che sarebbe togliere la divisione per attuare una ricomposizione. Ma questo sarebbe un procedimento “contro natura”, contro la natura delle cose, in quanto la natura delle cose risente della divisione. Non è nei nostri mezzi attuare una sintesi, attuare una ricomposizione che è solo ideale, perché il processo per divisione è strutturale. Non è che lo vogliamo noi, ma è che, non volendolo, avverrebbe in un altro modo. Invece no, la divisione è un processo irreparabile, senza rimedio!
A. Comunque, c’è anche un modo più semplice per avere la sintesi di quel che è stato detto la settimana scorsa. Ci sono delle cassette che vengono registrate, quindi, se uno volesse, può fare a casa una sintesi se sono disponibili le cassette. Poi, penso che sarebbe molto divertente potere risentire con calma quello che viene esposto qui e pensare su quanto detto, con calma.
R.C. Sì, ma non sarebbe comunque una sintesi.
A. Ma, infatti, perché cercare la sintesi quando abbiamo la tecnologia?
R.C. Già, perché?
A. Chi lo stabilisce? È più semplice!
R.C. Ah, ecco, una questione di comodità!
A. Di economia.
R.C. Di economia. Lei è capitato questa sera nel posto giusto al momento giusto.
A. Lo so.
R.C. E per di più lo sa. È per quello che è venuto?
A. Sì, perché m’interessava molto il titolo di stasera.
R.C. E conta di trovare quello che cerca?
A. Di ascoltare un interessante punto di vista.
R.C. Un punto di vista, il mero punto di vista. Ah, ho capito.
A. Stimolante.
R.C. Pure! Uno stimolante punto di vista. È per questi stessi motivi che la settimana scorsa non c’era?
A. No.
R.C. Per altri motivi?
A. Mah, non so se erano altri oppure no, erano motivi miei.
R.C. Se erano suoi, non veniamo neanche a sindacare. Ma lei ha letto la fiaba di Aladino e della lampada meravigliosa?
A. Me l’hanno letta da piccolo.
R.C. Da piccolo. Sempre per comodo ha ritenuto di non andare a rileggerla?
A. Diciamo che comunque uno fa una selezione di quello che può leggere, giusto?
R.C. In base a cosa fa una selezione?
A. In base alle indicazioni che trova.
R.C. Quindi, a bella posta lei non l’ha letta?
A. No, perché?
R.C. Applicando questo principio di selezione.
A. No! Il fatto è che, secondo me, uno può avere buona volontà nelle cose, in tutto quello che fa, però si scontra con dei limiti che, piaccia o no, per quanto mi riguarda sono oggettivi.
R.C. Esatto.
A. Poi possiamo discutere.
R.C. Per quanto la riguarda, lei ha ragione.
A. Per quanto mi riguarda, sì.
R.C. Ma solo per quanto la riguarda! Effettivamente, la buona volontà non basta, non basta a nulla. La buona volontà sarebbe ispirata al principio di causa sufficiente.
Pubblico Io volevo portare un esempio, fare una domanda: si parla della lampada…
R.C. Ne stiamo parlando.
Pubblico Secondo lei, se lei domani decide di fare una gara come Ben Johnson, per esempio, basta la buona volontà?
R.C. Non erano male quei risultati. Per cominciare andrebbero anche bene! Ebbene?
Pubblico Lei, che pensiero fa?
R.C. Ah, questa è la sua curiosità? Proprio Ben Johnson. Lei ha scelto proprio uno a caso.
Pubblico Mi sembra che sia chiara la mia domanda. Se lei vuole rispondere, bene.
R.C. La sua domanda è chiara, e adesso vediamo di rispondere. Ma lei ha chiamato in causa la buona volontà per giustificare che cosa? Accennava a dei limiti personali.
Pubblico I limiti non sono personali, esistono. Giusto?
R.C. E quindi?
Pubblico Quindi, la domanda… Se no la cosa si trasforma in una seduta di psicanalisi.
R.C. Addirittura!
Pubblico C’è scritto Ruggero Chinaglia, cifrante e psicanalista.
R.C. Dove?
Pubblico Sul manifesto appeso alla porta.
R.C. Io non leggo nel manifesto le cose che lei dice.
Pubblico È vero, non c’è scritto psicoanalista, ma cifrante, però nel primo ciclo di conferenze a cui ho assistito c’era scritto anche psicoanalista. Giusto?
R.C. E questo farebbe problema?
Pubblico No, non ci sono problemi. C’è una domanda, non c’è una risposta e c’è una scena che sta accadendo.
R.C. Però io ho preso nota. Adesso vediamo se nel corso dell’incontro riusciamo a rispondere. Altre domande? Lei aveva terminato? Perché è stata un po’ interrotta la nostra conversazione dall’irruenza del nostro amico.
A. Forse volevo cambiare sintesi in ripetizione. È possibile?
R.C. Lei ha letto questa fiaba?
A. Grosso modo, si può dire, anni che furono.
R.C. Cioè se l’è fatta raccontare. Però è differente leggerla. Può essere anche istruttivo. Ma nel corso di queste “sedute”, come dice il nostro amico, noi faremo la lettura della fiaba, anzi la stiamo già facendo. La settimana scorsa avevamo terminato chiedendoci chi fosse Aladino, in particolare chiedendoci se fosse il figlio del sarto, come dice la fiaba, o, per caso, il figlio del sultano, dato che questo sembra essere il suo destino, e ci chiedevamo anche perché ha bisogno della lampada. Che cosa indica la lampada dato che nella fiaba ciascuna cosa procede dalla lampada? Questo ci incuriosisce assai, perché non bisogna nemmeno trascurare, nella lettura di questa fiaba, che a raccontarla è Shahrazàd, la figlia del visir che la racconta al sultano. Perché gliela racconta? Questo è noto, apparentemente la racconta per impedire al sultano di ucciderla. Apparentemente. Poi, saranno da individuare motivi ulteriori. Ma la fiaba di Aladino è raccontata da Shahrazàd, e questo è un elemento di cui tenere conto. Adesso vediamo perché non è elemento trascurabile.
Dunque, Aladino ritiene di essere predestinato a diventare il sultano più ricco del mondo, ha questa predestinazione il cui segno, possiamo dire anche l’origine di questa predestinazione, sta proprio nella lampada che gli è affidata dal mago. Il Mago Africano è il personaggio che irrompe nella fiaba dopo che il padre di Aladino è morto. Dicevamo che il mago è lo sdoppiamento del padre morto; il padre morto si sdoppia nel padre buono e nel padre malvagio, e il Mago Africano è il padre malvagio, mentre il padre buono è il genio della lampada.
La lampada assicurerebbe la predestinazione e la genealogia di Aladino; quindi, in questa genealogia, Aladino non è più il figlio del sarto, ma sarebbe il figlio del sultano. Ma questo è un capitolo che per il momento lasciamo in sospeso. È però un dettaglio importante il mago, in quanto è il mago a dire a Aladino che è destinato, anzi, predestinato a diventare il sultano più ricco del mondo. Dunque, c’è questa scena in cui al figlio del sarto poverissimo tutto sarebbe precluso e l’avvenire negato. Miseria e povertà le caratteristiche di questo avvenire, mentre al figlio del sultano sarebbero concessi tutti i beni e tutte le ricchezze. Per Aladino, una volta entrato in possesso della lampada, s’instaura un incantesimo per il quale ogni cosa che serve viene dalla lampada in quanto tale. Lui ordina al genio della lampada e la cosa si realizza, però nei termini in cui è stata ordinata. È questo l’incantesimo: la lampada fornisce a Aladino ogni cosa senza differenza e senza variazione rispetto a come Aladino comanda.
In questo incantesimo, in questo incantamento genealogico, la differenza e la variazione sarebbero considerati un maleficio. Ogni differenza rispetto a come le cose devono essere, a come sono volute, a come sono ordinate da Aladino sarebbe il segno del maleficio, del male, della corruzione, il segno dell’incesto. In questa genealogia, in questa discendenza diretta dall’origine, dalla lampada, le cose non avvengono, non accadono, non divengono, ma “sono”, sono in quanto tali. È questo l’incantesimo! Aladino ordina alla lampada, ma è senza parola. La vita di Aladino è senza parola e vive nell’oscillazione tra il beneficio e il maleficio.
La predestinazione di Aladino, più che la sua vita, come dicevamo all’inizio, è la sintesi della sua origine, è la sintesi della lampada, è la breve sintesi del suo destino; come dire che a Aladino è tolta la vita. Si chiarirà meglio nel corso della serata questo dettaglio. Alla vita di Aladino, in modo particolare, è tolto il godimento, il desiderio, il piacere. Ciò che dà il suo statuto alla vita è la domanda con le sue vicende, il suo svolgimento, la sua ricerca, la sua riuscita, con i dispositivi che la riuscita esige. Tutto ciò per Aladino è tolto. C’è la lampada, ci sono le cose, e basta ordinare alla lampada e le cose “sono”. Quindi, la lampada toglie a Aladino l’itinerario. Aladino, nella sua predestinazione, ritiene che per diventare sultano, per essere sultano, deve avere le cose, deve possederle. Avere per essere. È in questa mitologia che si trova Aladino. Per diventare sultano deve avere gli schiavi, le schiave, le ricchezze, il palazzo, i beni, deve avere tutte queste cose, e la lampada gliele fornisce, perché senza queste cose non sarebbe mai il sultano. Senza le cose, Aladino è il povero Aladino, miserrimo, figlio di un sarto, senza nemmeno l’indispensabile per sopravvivere. Senza le cose, senza avere le cose, non è. E la lampada sarebbe la condizione di questo avere e di questo essere.
Nessuno sforzo per Aladino se non quello di ordinare alla lampada di procurare le cose, di avere le cose. Questo è il suo destino: per essere, deve avere! Se non ha, non è! Questo è il suo destino, questa è la sua condanna. Se non ha, muore. Se non è, muore. Per avere deve uccidere. In questa predestinazione sono previsti la morte e l’assassinio. Il pericolo è quello di non avere e di non essere. Corollari della condanna a questo destino sono la vendetta, la colpa, la pena, con le rispettive rappresentazioni, corollari che indicano propriamente l’assenza della parola, l’assenza della parola originaria e la fantasmatica sostanzialista.
Pubblico Che termine diceva? Fantasmatica?
R.C. Sì. Nella fantasmatica dell’idea sostanzialista non c’è il processo di qualificazione, ma le cose sono tali.
Pubblico Che cosa vuole dire “tali”?
R.C. Sostanziali, sono tali. Non entrano nella parola, ma sono in quanto tali, per cui non esigono nessuna ricerca, nessuno sforzo, nessuna domanda, nessun percorso, nessun cammino, nessuna vicenda, nessun racconto, nessuna descrizione, nessuna ingegneria, ma “sono”, sono così e arrivano così dalla lampada. Si tratta, dunque, di essere sulla scia della lampada, sulla linea della lampada. Si tratta di potere usufruire dei benefici della lampada, di avere la lampada, di conoscere la lampada, di trattare la lampada, di sapere come usare la lampada. Non serve altro, basta la lampada.
La formula giuridica dell’assoluzione va dal non avere commesso il fatto alla constatazione che il fatto non sussiste. Questa è una formula interessante: “Il fatto non sussiste”! Formula che, se considerata nel suo estremismo, dovrebbe portare all’abolizione del reato di falsa testimonianza, perché, se il fatto non sussiste, come potrebbe essere testimoniato in modo univoco? Ciascuna cosa non è tale, ma entra nel racconto e in un processo di qualificazione, per cui differisce e varia ciascuna volta, non da persona a persona, ma persino di volta in volta. Se io racconto qualcosa adesso, non è lo stesso racconto che posso fare domani o prima o dopo, perché il fatto non sussiste.
Le cose non vengono dalla lampada in quanto tali. Da dove vengono? E dove vanno? E come ci vanno? Vanno per via di racconto. Senza racconto non vanno da nessuna parte. Quindi, vanno per via di parola, per via di ricerca, per via di analisi, cioè per via di assoluzione. Cioè, la constatazione che il fatto non sussiste, che il fatto non c’è più, è il teorema dell’analisi. Da quando la parola è originaria non c’è più il fatto in quanto tale. Il fatto non sussiste. Dunque, il fatto non c’è più perché non c’è mai stato nella parola. Nella parola originaria, il fatto non sussiste, non c’è mai stato. Allora, com’è che si è instaurata “l’idea del fatto”, che possa esserci “il fatto”, che possano esserci le cose in quanto tali, senza differenza, senza variazione, senza sfumatura, senza racconto, senza funzionamento linguistico, quindi senza metafora, senza spostamento, senza catacresi? L’obiettività!
Pubblico Cos’è la catacresi?
R.C. L’abuso, l’abuso linguistico. Katà to kreon, secondo l’occorrenza. Catacresi, abuso linguistico.
Pubblico Sarà la voce del verbo crino.
R.C. Crino, clino, clinein, crinein clinica, giudizio, piega, piegatura; è la questione dell’occorrenza linguistica.
Pubblico Cancellare.
R.C. No, giudicare. Clino piegare. La piega. Sono momenti differenti del processo, della procedura di qualificazione per cui le cose si dicono, e dicendosi si dividono, e dividendosi si piegano, e piegandosi vanno in direzione della cifra. Non sono mai tali. La clinica è in direzione della qualificazione. La clinica è ciò che consente di cogliere qualcosa nello specifico. La clinica, così come il giudizio. Non è il giudizio morale, è il giudizio dell’Altro, il giudizio che procede dalla molteplicità, giudizio temporale.
La complessità linguistica è intoglibile, complessità che è propria della parola e mai può essere espunta a favore del gergo, a favore di una lingua unica, comune, che sarebbe la lingua con cui Aladino si rivolge alla lampada, nell’incantamento, nell’incantesimo. Ma ciò che entra nella struttura del racconto ha la sua condizione nell’assoluto e la sua prerogativa nell’assoluzione.
Assoluzione, analysis è lo scioglimento da qualunque origine, da qualunque significato dato, da qualunque detto predeterminato perché la lingua si avvale della metafora, della metonimia, della catacresi, essenziali nel processo di qualificazione, imprevedibili, non certamente atti volontari o predeterminabili o predeterminati. Possiamo dire che sono assolutamente senza coscienza. Il modo con cui metafora, metonimia, catacresi intervengono parlando, è totalmente estraneo alla volontà e alla coscienza, e l’esperienza della parola originaria è innanzi tutto esperienza di questa assoluzione. E come corollario possiamo dire che non c’è più lingua comune.
Nessuno parla la stessa lingua, addirittura nessuno parla la sua lingua e nessuno dice ciò che vuole dire. L’analisi indica l’assoluzione dal volere dire, dal potere dire, dal dovere dire, dalle modalità predeterminate del dire. Cioè, il funzionamento della parola, parlando, comporta l’impadroneggiabilità della parola, l’assoluta assenza di padronanza e di controllo sulla parola, su ciò che si dice. E l’impadroneggiabilità, questa assenza di controllo senza rimedio, ha come indici qualcosa che ha scatenato la reazione contro la parola originaria, indici che sono la castrazione, la mancanza e il limite.
Castrazione, mancanza, limite: tre termini, tre significanti aborriti. Castrazione? Per carità, non ne parliamo neanche! Mancanza? “Non manco di nulla io! Sono tutto d’un pezzo”. Limiti? “Io non ho limiti”. Oppure il contrario: “E sì, purtroppo sono stato totalmente castrato, sono mancante di ogni cosa”! In un caso o nell’altro questi termini vengono rappresentati soggettivamente come attributi dell’essere o dell’avere, attributi soggettivi, per cui la castrazione è intesa come castrazione soggettiva, la mancanza come mancanza soggettiva, mancanza di qualcosa, e il limite come limite personale, come impedimento rispetto a qualcosa. È il modo di ragionare di Aladino. Aladino ragiona così! Pertanto, deve ricorrere alla lampada come rimedio alla castrazione, alla mancanza e al limite.
Ma di cosa si tratta, nella parola, quanto alla castrazione, alla mancanza e al limite? La castrazione è ciò per cui c’è il godimento, e il godimento non è mai completo, non è mai finito, non raggiunge mai il colmo, cioè la castrazione avviene in un dispendio senza contenimento, la castrazione è il dispendio pulsionale, è il dispendio della parola sul versante della rimozione, è il dispendio costituito dallo sforzo di parlare, dallo sforzo intellettuale, dallo sforzo di dire ciò che si vuole dire senza mai potere farlo. Questa è la castrazione, perché dicendosi le cose non sono ma divengono; avvengono e divengono, entrano in un processo temporale per cui si dividono, dividendosi si piegano, piegandosi si odono.
Tutto ciò producendo una traduzione, un funzionamento che produce una traduzione. Non è la stessa parola, non è la stessa cosa. Quel che si racconta è differente e vario. In questo sta la castrazione, in un dispendio inesauribile il cui effetto è per un verso il senso, per l’altro il godimento. Allora, la castrazione è la sensazione dell’inesauribilità del dispendio. L’inesauribilità del dispendio è la castrazione. Quindi, castrazione di qualcuno? No! Castrazione personale? No, affatto! Castrazione nel processo di qualificazione della parola, castrazione nel dire. Castrazione che si ha nel gerundio, dicendo.
Dicendo, dicendosi, le cose si espongono alla castrazione, esigono la castrazione. Nulla di negativo, nulla di male, anzi, è qualcosa di strutturale, è qualcosa senza cui il godimento non si effettua, ma è anche qualcosa di non padroneggiabile, su cui non può essere esercitato il controllo, da cui la reazione con la sua prescrizione alla padronanza.
La volontà: se vuoi, puoi! Vuoi chi, puoi che cosa? Tu chi? Chi sarebbe questo soggetto volente? Chi sarebbe? È il soggetto che si esaurisce, il soggetto dell’esaurimento, soggetto esauribile. È il soggetto oggi alla moda, ossia il soggetto depresso. La depressione altro non è se non il modo con cui viene chiamata la reazione alla castrazione, l’evitamento della castrazione, il rimedio alla castrazione. Come? Abolendo la parola, abolendo i dispositivi di parola e assumendo la sostanza, assumendo la prescrizione genealogica, assumendo la lampada di Aladino, la lampada che fornisce le cose così come devono essere, come dovrebbero essere. Infatti, il godimento, in quanto effetto dell’atto di parola, è inassegnabile, non può essere assegnato, previsto, quantificato, predeterminato, prescritto, e quindi la castrazione è il corollario di questa non assegnabilità del godimento.
Contrariamente a quanto viene pubblicizzato, propagandato da ogni soggettivista, da ogni soggetto, la castrazione è ciò che lascia godere nel varco tra un equivoco e un altro equivoco. Nel varco, non nel continuum né nella sintesi. Nel varco. Cioè, il godimento non è riproducibile. È proprio qui la questione. È contro la non riproducibilità del godimento che sorge la reazione alla castrazione, tentando di istituire una precettistica del godimento, una riproducibilità del godimento, cercando di localizzare dove, come, quando stia, sia, avvenga il godimento, in che misura e in che quantità. E non è l’ideologia della droga, questa? Non è la stessa ideologia della droga quella che propone una riproducibilità scientifica del godimento con la sua posologia? “Mi faccio una dose di godimento”. “Quando?”. “Adesso, dopo, più tardi, quando ne ho voglia”. Mitologia che insegue la fantasia, l’idea di una sostanza che possa fornire il godimento in misura nota e riproducibile.
Questa riproducibilità delle cose oggi è pubblicizzata come scientificità. La scientificità di un metodo sta nella sua possibile riproduzione, riproducibilità. Ciò che è riproducibile è scientifico perché così non c’è castrazione, non c’è mancanza; abbiamo le cose che vogliamo e quindi siamo. Cosa siamo? Cosa? Quindi, questa mitologia sostanzialista che mira a espungere la castrazione sotto l’egida della padronanza, risponde a una certa idea di pienezza di sé, senza cui il soggetto sarebbe mancante o perdente o privo, privato di qualcosa. E dato che sarebbe mancante o privo o limitato, deve sopperire con la droga perché non ha ciò che gli consentirebbe di essere. Perché non ce l’ha? Perché gli sarebbe stato tolto o perché ne sarebbe stato privato o perché ne sarebbe mancante.
E questo è il caso emblematico dell’epoca attorno a cui si è radunata l’Italia in questi giorni, il caso solenne di Pantani, il caso dell’eroe sfortunato che è stato privato dell’aura, del titolo e che, dunque, è caduto nell’abisso della droga. Occorre analizzare allora questo caso che trova l’Italia commossa, con una commozione cerebrale di dimensione nazionale; tutti cervelli commossi. Una volta questo caso di commozione cerebrale sarebbe stato definito “buttare i cervelli all’ammasso”. Adesso no, è semplicemente un caso di commozione cerebrale nazionale che, tuttavia, fa riflettere sull’entità, la qualità di questi cervelli che, se pur commossi, dovrebbero pure essere cervelli. Ma la commozione è senza cervello, questo è il punto.
Questo è il caso di un soggetto della pienezza, della vittoria, della ricchezza, della potenza, il soggetto a cui, improvvisamente, viene tolta proprio la vittoria, la ricchezza, il titolo e viene dichiarato impostore. Che cosa accade a questo soggetto? Questo soggetto, che dunque non ha più un posto nella genealogia, questo soggetto muore. Chiaramente, muore. Ma non c’è ombra di dubbio che sarebbe morto. Lo constatai questa estate dopo che comparve sui giornali la notizia che era stato ricoverato nel non plus ultra, nel luogo della resurrezione, dove veniva sottoposto a test psicodiagnostici e a terapie motivazionali. Proprio la tecnologia per il ripristino della soggettività. Peccato non avere qui il quotidiano di ieri che celebrava i fasti di questa tecnica.
Ebbene Pantani muore perché non poteva andare differentemente. Essendo soggetto della genealogia, essendo soggetto della vittoria, essendo soggetto sostanziale, senza parola, soggetto della lampada, muore, e al colmo, al massimo della celebrazione, la commozione nazionale lo dichiara malato di mente. Per quello è morto: era malato, malato di mente! La nazione è salva, è morto semplicemente un malato di mente. Nessuno c’entra. Qualche cattiva compagnia, è chiaro, ma il sistema è salvo, il sistema è sano, è lui che era malato, era depresso, un caso di malattia. E, perbacco, ci commuoviamo, ma prendiamone atto: era malato!
Quindi, da una parte resta la mitologia sostanzialista del campione, campione innocente, dall’altra viene salvato l’uomo. È morto perché era malato, ma l’uomo è sano. Era un brav’uomo. L’umanità è salva. Purtroppo, alcuni si ammalano, pazienza, ma il genere è salvo, il discorso che lo sostiene è valido. Non è nemmeno il caso di indagare sulla questione, va tutto bene, è morto un malato. Commuoviamoci perché dispiace sempre, un così bravo ragazzo, ma per il resto tutto bene. Nulla gli è imputabile: le scelte sbagliate, l’uso della droga, l’eventuale doping; era malato, senza responsabilità. Il soggetto ammalato è il soggetto senza responsabilità.
Dunque, è salva la trimurti del discorso occidentale per cui il soggetto è soggetto debole, incapace, malato, trimurti su cui si regge, diciamo così, tutta la schiera dei professionisti della morte, della morte bianca. D’altronde, forse si sarebbe potuto salvare, ma avrebbe dovuto rimanere nel luogo indicato dai professionisti della morte. Allora sì, forse. Ma è stato rapito dal gorgo da cui non c’è ritorno, il gorgo della depressione. Avete provato a leggere i giornali?
Pubblico Dicono depressione biologica.
R.C. Biologica, certo!
Pubblico Non reattiva.
R.C. Non reattiva, biologica, cioè proprio predestinata. Era predestinato a morire, biologicamente predestinato! Una depressione biologica. Chiaro!
Ora, è un caso emblematico per vari motivi. Effettivamente c’è stata una persecuzione. Quanti processi con imputazioni senza base giuridica! Non c’è una legge per la quale potere essere imputato, ciononostante gli hanno istruito una serie di processi. Il giorno prima della conclusione di un Giro d’Italia, dicono che non è a posto e lo squalificano. Ma non è questo ciò per cui è morto. È morto perché si è fatto vittima. Si è fatto soggetto della persecuzione e si è lasciato andare.
È questa la questione della depressione, cioè del lasciarsi andare alla soggettività, perché è chiaro che a un certo punto è venuta meno la spinta, è venuta meno l’istanza di vita essendosi costituito come soggetto della sconfitta, come vittima. Chi si fa vittima, muore. Questa è la questione. L’abbiamo verificato in tante circostanze. Mani pulite; quante persone si sono fatte vittima e sono morte, ma non per suicidio, in modo vario: chi ha avuto l’infarto, chi ha avuto il cancro, chi ha avuto l’ictus, chi ha avuto altre rappresentazioni del male. Farsi vittima è come dire cedere all’idea di fine. È un modo per applicare la condanna, applicare la colpa e applicare la pena.
Ognuno ha la sua idea della vendetta, della colpa e della pena e c’è anche chi si somministra, con posologia differente, ora la vendetta, ora la pena. La castrazione, dicevamo prima, è inconscia, è originaria, è inassegnabile e inattribuibile, così come il godimento. Ma istituire la coscienza della castrazione, cioè localizzare la castrazione in qualcosa, in qualcosa che viene tolto, in qualcosa che viene strappato, in qualcosa di cui venire privati, questo istituisce la castrazione come malattia, il vittimismo come malattia, e di rappresentare il segno di questa ferita, il segno di ciò che è stato tolto, fino alla morte.
Ora, è il caso appena di constatare, per concludere la questione, che Pantani si è inflitto la pena, si è inflitto da sé la massima pena, evidentemente per una coscienza di colpa, credendo alla colpa che nessun tribunale gli aveva tuttavia riconosciuto. Nessun tribunale l’aveva condannato, ma si è inflitto la massima pena. Questo, sia che si sia suicidato il giorno in cui è stato trovato morto, sia che non si sia suicidato “volontariamente”. Si è comunque inflitto la pena di morte.
Ci sarebbe anche da esplorare, da analizzare la mitologia del numero uno. Il numero uno. Chi è il numero uno? È essere il numero uno, il soggetto della pienezza, fuori serie o il soggetto senza la castrazione, senza mancanza. Cioè, sono tutte mitologie che non sono affrontate intellettualmente e che vengono proposte anche dal così detto mondo dello sport come qualità, come proprietà esemplari. No! Sono invece i luoghi comuni della soggettività, i luoghi comuni sostanzialisti, i luoghi comuni che rientrano nella mitologia soggettivistica in ciò che costituisce la base del discorso occidentale, cioè della reazione alla parola originaria. Vari apparati, oggi, mirano a rendere accettabili, come segno di normalità, questi luoghi comuni, queste mitologie e a diffonderle.
Siccome vedo una certa commozione serpeggiante per la sala, che auspico non giunga alla commozione cerebrale, mi fermo qui. Se ci sono domande, notazioni. Non so se ho risposto alle questioni, forse un po’ di traverso, tangenzialmente. Ci riflettiamo magari, valutiamo.
Cecilia Maurantonio Prima lei diceva, a proposito di Aladino, avere, possedere per essere sultano?
R.C. Sì. Avere le cose per essere sultano.
C.M. Però, non come il sultano.
R.C. Qui c’è tutto un capitolo, che chiaramente è da elaborare, su questa questione.
C.M. La domanda che mi è sorta è questa: non è esattamente come il sultano, perché…
R.C. Chi ha detto “come” il sultano?
C.M. Nessuno, ma per essere sultano.
R.C. Per essere il sultano. Lei introduce il “come”, per essere “come il sultano”. Benissimo!
C.M. Ma invece è proprio ciò che non c’è, in quanto tutto ciò che Aladino chiede alla lampada è sempre di più di ciò che ha il sultano, dalle pietre preziose alle ricchezze come il sultano non aveva mai posseduto, non aveva mai visto, così il palazzo, il numero degli schiavi, delle schiave.
R.C. Perché Aladino vuole diventare il numero uno. Il sultano dei sultani. Vuole essere il sultano.
C.M. Io non lo so, perché un conto è dire che voleva essere il sultano, ma c’è evidentemente una sua osservazione di una scena che ha quantificato quali sono i beni.
R.C. Esatto. C’è una notazione di Freud molto interessante a proposito del “come”, quando dice: “Come il padre devi essere, come il padre non puoi essere”.
C.M. E poi una domanda attorno all’elaborazione di questa sera del termine erotismo.
R.C. Non lo abbiamo nominato.
C.M. Ma è stato svolto.
R.C. Non l’abbiamo nominato, ma abbiamo indicato. Lei vuole che lo nominiamo? Dev’essere nominato? Che cos’è? Questo fa parte del compito per casa. Il compito per casa per ciascuno è qualificare l’erotismo. Stante il percorso di questa sera, di cosa si tratta nell’erotismo. La prossima volta valuteremo i compiti svolti a casa, perché il mio l’abbiamo letto, l’abbiamo discusso. Adesso, a ciascuno il suo compito. Ci sono altre domande?
Pubblico Io non ho mai letto la lampada di Aladino e non mi dispiace affatto, perché non mi ha mai incantato. Adesso potrei anche dire, forse in maniera un po’ grossolana, non provocatoria, quasi goliardica, che può essere vista come un cenno iniziale di truffa.
R.C. Dove lei individuerebbe la truffa? Può illustrare meglio?
Pubblico Lei ha fatto un cenno, prima, al figlio del sarto ipotetico, al figlio del sultano ipotetico, a questo mago che si fa vedere. Sono figure in una scenografia nella quale ci può stare dentro anche un riferimento, anche involontario, casuale, a quello che ho detto prima, cioè alla truffa o a un qualcosa di artificioso che serve per raggiungere determinati risultati in maniera veloce.
R.C. Bene. Grazie. È interessante questo rilievo, ho preso nota, perché non è del tutto esente da quanto si svolge attorno a questa fantasmatica. L’idea della truffa e l’idea dell’artificio.
Pubblico Presi un po’ come lezione, come moralità da tenere presente.
R.C. Certo, infatti la fiaba si conclude con una morale che viene illustrata. In effetti, per Platone, chi non si attiene alla genealogia sarebbe o un truffatore o un impostore. Platone assegna a ognuno il suo posto su base genealogica, e chi si volesse togliere da quel posto o tentare di occuparne un altro, sarebbe passibile di pena, perché sarebbe un disturbatore dell’armonia sociale.
Pubblico Dove per curiosità?
R.C. Nella Repubblica.
Pubblico Precisamente dove?
R.C. Vuole il versetto?
Pubblico Il versetto non c’è, ma c’è nella Bibbia. Però, visto che ne parla, si presume che la conosca.
R.C. Adesso, proprio i riferimenti. Beh, porteremo i riferimenti.
Pubblico Non ho mai letto, né in traduzione né in originale, riferimenti di Platone alla genealogia. Parto dalla Repubblica che è uno dei dialoghi più conosciuti di Platone. Però, potremo discutere di due codici. Probabilmente lei ha visto un codice diverso da un altro.
R.C. Potremo provare a rileggerlo. Va bene.