Tredicesimo capitolo del libro Luigi Pirandello L’amore e l’odio
La famiglia senza più edipismo (Superior stabat lupus Novella di Luigi Pirandello)
Ruggero Chinaglia Il vezzo di elencare indica che non si tratta dell’originario, ma di ciò che deve venire giustificato. L’originario è senza giustificazione: è originario. Che bisogno c’è di giustificare l’originario? Ciò che esige giustificazione è proprio ciò che originario non è. A che vale fare l’elenco? Per dire di conoscere già i mali? Per sapere riconoscerli?
Pubblico Per cercare di prevederli, forse. Per evitarli.
R.C. Perfetto, la previsione. Quindi, prevedere il male. Ma ciò è come dire di sapere, presumere di sapere che la base è il male, che il fondamento è il male e che è da evitare, per cui il male diventa il timone.
Evitare il male, ossia il modo migliore di sbatterci addosso perché la rotta va verso il male. Provate a evitare qualcosa e quella cosa, che è sempre davanti, a un certo punto costituirà il bersaglio.
Ma, nell’originario, non importa il male previsto, catalogato, classificato, da combattere, da evitare. Importa l’unicità del caso, che nell’itinerario diviene caso di qualità. In che modo? Senza il canone, con il gerundio. Non per conoscenza, ma provando e riprovando diceva qualcuno, tenendo conto delle istanze, delle esigenze, del progetto, del programma, trovando il modo opportuno.
E quindi importano l’oralità, il transfert, la lingua, la scrittura, la ricerca e l’impresa, il compimento, la conclusione, la qualità, la comunicazione. Non la resa, ma anzi la lotta, lo sforzo fino al compimento del programma. E l’attuazione di quei dispositivi che sono essenziali al programma. Quali dispositivi? Non sono già noti.
“Io non ho un progetto!”. “Io!”. “Ma io non ho un progetto!”. C’è chi dice così. “Io non ho un progetto, io non so qual è il progetto. Non lo so”. Altri, sull’altra riva rispondono “Io non ho un programma”. Da dove viene il programma? Chi lo assegna? È un programma che arriva con la teleferica? È un progetto che arriva per illuminazione? O è qualcosa che esige il calcolo, il disegno, l’ipotesi, l’audacia di formulare un’ipotesi? Ipotesi anche onirica?
Il progetto non è scritto nelle stelle. Non è scritto nemmeno nei geni. Non è già dato, non è predestinato. E il programma si scrive man mano, non è dato una volta per tutte. Eppure, c’è chi asserisce di non avere un progetto o di non avere un programma. E così si enuncia la sfida edipistica e fatalistica, nonché vittimistica, rivolta al presunto colpevole del misfatto di mancata assistenza.
“Mostrami cosa devo fare”, oppure “Mostrati e dimmi cosa debbo fare”, o anche “Mostrati e fammi fare quel che debbo fare, quel che voglio fare, quel che posso fare, quel che non so fare”. “Mostrati!”, e come si mostra, tiro al bersaglio. “Se sei veramente mio padre, se sei veramente mia madre, mostrati, aiutami, allontana da me questo calice!”. “Fammi fare. Liberami!”.
La famiglia originaria s’instaura in assenza di fantasma di morte, di fantasma d’origine, di debito della vita, di pena di morte. La famiglia originaria e senza più l’idea di famiglia di origine come localizzazione dell’itinerario e del destino. Ogni idea di sé, ogni idea dell’Altro è razzista, ossia è rappresentativa di un personaggio che dovrebbe giustificare la differenza e, addirittura, giustificare la giustificazione.
Questo per indicare dove ci troviamo, dove si trovano i personaggi della fiaba che stiamo leggendo. Si tratta di personaggi della fiaba! Nessun riferimento a cose e sopra tutto a persone reali. Certo, può accadere talvolta che qualcuno si rappresenti personaggio di una fiaba. Questo può accadere e non è la fine del mondo. Occorre analizzare la fiaba, analizzare il personaggio. Allora, analizzando la fiaba il personaggio si dissipa, si dissipa sopra tutto se, come notava Pirandello, trova l’autore. Il personaggio che incontra l’autore o, meglio, trova l’autore, non è più personaggio della fiaba, perché con l’autore e con ciò che gli sta attorno, la fiaba non c’è più.
Adesso, per capire bene ciò, leggiamo. È una cosa semplice, ma può risultare impegnativo capire come accade che il personaggio non c’è più e non c’è più nemmeno la fiaba; e dissipandosi la fiaba, s’instaura la fabula, s’instaura la saga, s’instaura un’altra scena, s’instaura lo statuto intellettuale e lo statuto temporale, cioè senza riferimento al passato, ai ricordi, all’idea di origine e sopra tutto all’idea di fine, che sono idee micidiali. Cosa vuole dire micidiali? Che riguardano o il suicidio o l’omicidio. Adesso vediamo come.
Siamo a Roma, tre mesi dopo le vicende di cui abbiamo parlato poco fa, in una sera d’inverno nel quartierino dove hanno trovato sistemazione Bebè e Marco Perla, qui trasferitisi. Una sera d’inverno alla porta bussa un vecchietto. Chi sarà questo vecchietto? Ebbene, è Corrado Tranzi, che avevamo incontrato proprio all’inizio della fiaba. Suona. E mentre aspetta che gli venga aperta la porta ha:
…le ciglia aggrottate e gli occhi torvi che palesavano un’ansia spasimosa.
Era un po’ ansioso. Non diciamo inquieto, ma ansioso. La serva gli apre, Tranzi si presenta e dice – Il signor Perla? La serva risponde: Non sta bene. – E la signora? Neanche. Tranzi insiste – Io sono medico. Capita proprio a fagiolo. tizio sta male, tizia pure, io sono medico, sono qua. E quindi Corrado Tranzi entra.
Marco Perla gli va incontro, aiutato dalla serva e… Restarono per un momento entrambi, di fronte, come precipitati l’uno verso l’altro a guardarsi dal tempo remoto, in cui per l’ultima volta si erano veduti.
Si vedono e praticamente è una visione, non è un incontro. È una visione del passato. Si vedono a partire dall’ultima volta.
In un attimo, con tutte le memorie balenanti di quanto era loro accaduto – Non è che si vedono, s’incontrano, si parlano. No, si vedono e in un attimo tutti i ricordi ce li hanno davanti. Perché questi ricordi –dovevano colmare il vuoto di tutto quel tempo per riconoscersi così cangiati.
Devono riconoscersi cambiati. Però devono riconoscersi, quindi sono cambiati ma sono loro. Devono riconoscersi per riconoscere tutti i ricordi, in modo che tutti i cambiamenti siano ricondotti all’identità del personaggio. Passati gli anni è successo di tutto, ma loro sono loro, sono gli stessi, sono quelli.
Oppresso di stupore, ansimante, Marco Perla credette di scorgere negli occhi del Tranzi l’animo con cui questi gli si rifaceva incontro. Non doveva pensare il Tranzi ch’egli avesse voluto prendersi una rivincita sposando sua figlia, poiché da lui aveva avuto tolta la madre? – Si vedono dopo tanti anni e il primo pensiero è “Lui, cosa penserà di me? Che cosa penserà lui di me?” – E non doveva a un tal pensiero essere pieno d’odio e d’orrore?
Si sentì mancare, sprofondare – Eh certo: “Cosa penserà lui di me? Ma penserà…”. – Ma si ritrovò invece tra le braccia di lui, sorretto premurosamente; udì invece la voce di lui che gli diceva: –Tu… così… Ma stai male davvero! – Si sente accolto, consolato, lui pensava che l’altro lo odiasse, invece no, gli vuole bene.
E provò un sollievo, un refrigerio, un conforto, tanto più vivo e dolce, quanto più inatteso e insperato. Prese a singhiozzare, a gemere tra i singhiozzi, mentre quegli, insieme con la serva, lo riconduceva alla poltrona, nello stanzino:
– Ti manda Iddio! ti manda Iddio.
Corrado Tranzi lo informa che l’ha cercato a lungo, poi gli chiede:
– Tu hai sposato mia figlia?
– Non lo avessi mai fatto!
– Non dovevi farlo, Marco! – rispose pronto il Tranzi, con una voce strana, che voleva parer di rimprovero e di rammarico soltanto, ma in cui vibrava un furore a stento contenuto. – Come, come hai potuto farlo?
– Te la puoi riprendere, ora! Te la puoi riprendere… – disse allora affrettatamente il Perla senza togliersi le mani dal volto. – Te la puoi portar via…
E gli spiega che ha in mano una lettera dell’amante di lei: buttò in faccia all’antico rivale – antico rivale – tutto il male che da lui aveva sofferto, tutto il bene che in cambio aveva fatto, per riceverne poi in premio questo tradimento.
Quindi Tranzi ne ha combinate di cotte e di crude, gli ha portato via la ragazza, l’ha sposata, ha abbandonato la figlia. Lui invece ha accudito la figlia di lei e di lui, l’ha addirittura sposata, l’ha allevata. Tutto il bene. E lei l’ha tradito. Quindi, c’è una sorta di bilancio tra il premio che doveva avere per il bene fatto e la pena che invece ne è scaturita. Un’ipotesi di bilancio tra il bene e il male. Premio, pena, colpa, merito. Lui aveva fatto tanto bene e in premio ne riceve il tradimento. Mentre sarebbe stato giusto che quello che aveva fatto tanto male ricevesse la sua pena. L’idea di vendetta è questa, il premio e la pena. Chi applica, chi commina la pena, chi somministra il premio? A chi appellarsi?
A quel punto si fa avanti Bebè, ossia Ebe, che era chiusa in camera e sente questi schiamazzi; accorre e si affaccia alla porta.
Lo accolse spettinata, mezzo discinta, tutta affannata tra le lagrime, come già sua madre la prima volta lo aveva accolto in quel lontano mattino di primavera, quando lui, giovane medico, era stato chiamato per caso in una farmacia.
Era lei! Era lei! la sua Ebe che lo riaccoglieva così come si può accogliere un estraneo in un momento d’improvviso, supremo bisogno! E ben chiaramente nello sguardo ostile le si leggeva, che se ella non si fosse trovata in quel tremendo frangente, non lo avrebbe accolto, non avrebbe voluto vederlo.
E allora lui tenta di abbracciarla ma lei lo respinge.
– Non mi abbracci? … Oh, figlia mia! /…/ Tu hai ragione. Ma tutto il male, tutto il male lo fece tua madre con la sua morte!
Loro sono salvi. Tutto il male lo fece sua madre morendo!
– E chi l’ha scontato? disse Ebe, guardandolo con dura freddezza negli occhi. E a quel punto ammette: Sì, sono stato colpevole verso di te…
– Comprendo… comprendo perché lui t’ha sposata… Tu non sai, tu non puoi sapere…
Rabbrividì; – a quel punto, Ebe rabbrividisce – Comprese; domandò anche lei a bassa voce, inorridita:
– La mamma… Lui?
– Sì, sì…
E in questo riconoscimento provarono, l’uno, una rabbia feroce, come per un tradimento infame che colui, profittando vigliaccamente della sua assenza, gli avesse fatto con la madre; l’altra il ribrezzo, l’abominazione come per un incesto che quegli avesse perpetrato su di lei.
Altro che personaggi! Qui ognuno si situa al posto di un altro in una fantasmagoria, in una fantasmatica di rapporti attraverso cui si inscrivono in una genealogia. E che cosa consente questo inserimento nella genealogia? Al Tranzi una rabbia feroce. Il vantaggio di inscriversi in una genealogia? Una rabbia feroce. All’altra il ribrezzo, l’abominio, come per un incesto. Veramente l’infernale.
Si ritrassero tutti e due nella camera; ne serrarono l’uscio e parlarono a lungo tra loro.
Lui le racconta tutti i patimenti, le vicende, le vicissitudini, le peripezie, le lotte. La disperazione negli anni, la difficoltà. E le comunica come
…il pensiero di lei, sì, gli era stato dapprima odioso, perché non riusciva a staccarlo da quello della morte della madre; gl’inacerbiva la piaga e lo rendeva feroce.
Colpa/pena. La madre muore, di chi è la colpa? Ecco il pensiero odioso verso il presunto colpevole. Questo pensiero – gli inacerbiva la piaga e lo rendeva feroce – feroce, dunque animale. Fino a che non avverte una pietà verso la figlia abbandonata. Pietà, non rimorso. Perché pensava che i nonni avrebbero sempre provveduto a lei. E pensò che, avendola lui abbandonata così, avrebbe dovuto compensarla di questo abbandono. E come? Facendola ricca, per compensarla, per ripagarla. E infatti tornava da ricco per chiudere i conti!
– Troppo tardi?
Troppo tardi, sì. Il tradimento – gli spiegò Ebe – non lo aveva commesso lei, lo avevano commesso la nonna e Marco, prima.
Cioè, quando le avevano nascosto le lettere del suo amato artista.
Dunque, c’è un risarcimento. Questa è la questione. C’è l’idea di un risarcimento da fare, c’è un debito contratto e un risarcimento da fare per cancellare il debito. C’è l’assunzione della colpa e questa colpa esige un risarcimento, deve essere pagato lo scotto. Come pagare lo scotto? Come cancellare il debito? L’idea di un debito morale che può essere cancellato, perché solo il debito morale può esserlo. Ma, in effetti, per ognuno si tratta del debito morale. In che modo l’idea del debito morale preclude l’andamento, preclude l’impresa, preclude l’economia e la finanza? Perché prima bisogna pareggiare i conti? E come? Come pareggiare i conti? Tranzi lo capisce subito come si fa a pareggiare i conti!
Non era provvidenziale, che lui, fin da quella sera, appena arrivato, si potesse avvalere della sua qualità di medico?
Come pareggiare i conti? Avvalendosi della sua qualità di medico!
Un brivido gli percorse la schiena.
La qualità di medico. Un brivido gli percorse la schiena. E comincia a camminare per la stanza mangiandosi le dita, stropicciandosi i capelli, la testa fra le mani. Insomma, ha qualche pensiero.
Da anni e anni gli erano abituali certi terribili dialoghi con se stesso, che non potevano avere altra conclusione che in un atto estremo. Conosceva il ribrezzo per questo atto, il tumulto di tutte le energie vitali insorgenti a impedirlo, la volontà che le domava, lo sfogo che allora si davano quelle, nell’immaginare la vita che sarebbe rimasta per gli altri, dopo la sua morte.
Dunque, Corrado Tranzi da anni pensa al suicidio. Se venisse a saperlo uno psichiatra immediatamente lo prenderebbe in cura per evitarglielo, ignorando che il fatto di pensare non comporta nulla. I pensieri sono tanti. Ma lo psichiatra pensa che solo quelli negativi devono essere presi in considerazione. Dunque, da anni pensa al suicidio. Ma quella sera no. Quella sera non pensa al suicidio. Quella sera…
Ma qui l’atto violento da compiere non era più contro se stesso;
E cosa cambia? Niente. Se stesso, l’Altro. Di che si tratta nella struttura del suicidio o dell’omicidio? Suicidio e omicidio hanno la stessa direzione di togliere l’Altro. Suicidio e omicidio si dirigono verso l’Altro, verso l’idea dell’Altro rappresentato ora da sé ora da un altro.
…e la vita che sarebbe rimasta per gli altri, non gli si rappresentava più come in una triste inutile successione di casi press’a poco invariabili. Qui, gli altri non erano più estranei indifferenti. Egli vedeva sua figlia; e la vita che gli si rappresentava, dopo l’atto violento da compiere, era quella di lei.
Dunque, si rappresenta la vita. Il dramma è questo: rappresentarsi le cose! Rappresentarsi la vita, rappresentarsi la morte, rappresentarsi il nemico, rappresentarsi il bene, rappresentasse il male. Così, ognuno pretende di dovere somministrare il rimedio. Il suo rimedio, l’atto estremo che costituirà il rimedio, l’atto estremo che costituirà la giustizia, l’atto estremo della ghigliottina.
Non avrebbe esitato un momento, se avesse dovuto agire contro se stesso.
Noi constatiamo che non è vero. Da anni e anni gli erano abituali certi terribili dialoghi con se stesso. Da anni e anni. Altro che non avrebbe esitato un momento.
Ma agire contro un altro, e a tradimento – a tradimento – gli rendeva il ribrezzo invincibile.
Quindi ci pensa su tutta la notte.
Altri aveva allevato sua figlia, altri la aveva finora mantenuta, per altri ella era ancora in vita. Egli non aveva mai fatto nulla per lei.
C’è una partita doppia. Deve pareggiare la partita doppia.
Doveva far questo, ora. Non aveva più altro da fare.
Non c’è più altro da fare. Non c’è più l’Altro. Quando l’Altro è abolito, allora c’è l’alternativa. E il modo opportuno è il modo dell’alternativa, o bianco o nero. Non c’è più la gamma, non c’è più la serie delle sfumature, non c’è più l’infinito delle sfumature entro cui trovare il modo. Tolto l’Altro, tolto l’irrappresentabile, tolto ciò che esige il calcolo, tolto ciò che esige la strategia, resta l’alternativa. O vita o morte. O bene o male. Per pareggiare i conti. Per essere pari. La parità. Terribile l’idea di parità. Assurda la parità.
L’idea di parità è antica. Il pareggiatore per antonomasia era tal Procuste che pareggiava i viandanti, pareggiava le differenze. Chi era corto veniva allungato, chi era lungo veniva accorciato perché occorreva essere pari, tutti pari, in quanto la differenza sarebbe discriminante; invece no, tutti uguali. Anzi, di più: pari! Pareggiati!
Le aveva portato la ricchezza; – per pareggiare i conti – ma a che poteva valere per lei, ormai legata com’era a quel vecchio – ricca ma legata al vecchio. Che se ne fa? – dopo il sacrifizio del suo amore? – il suo amore ha sacrificato – Perché avesse valore per lei quella ricchezza, perché ella potesse dire di dover veramente la vita a suo padre –
ah, ecco la questione: come metterla in debito! Lui che era in debito, come mettere in debito il creditore?
Attenzione, perché si tratta di questo nei rapporti sociali. Come mettere in debito colui al quale qualcosa è dovuto. Che non abbia a pretenderlo! Come fare in modo che Ebe possa dire di dovere veramente la vita a suo padre? Ecco il progetto: come fare tornare in debito per affrancarsi dal proprio debito. Astuto. Molto astuto. Banale, ma in realtà questa è la prassi. Chiunque riceverà qualcosa di non richiesto si chiederà “Ma allora sono in debito! Gliela farò pagare”! “Ha voluto mettermi in debito? Gliela farò pagare”! Banale, ma ognuno può riscontrare socialmente se questa è o no la procedura, il compromesso sociale.
Perché Ebe possa dire che gli deve la vita – bisognava recidere, annientare quella che ella doveva agli altri.
Ella è in debito con gli altri della vita? Eh no, solo al padre può dovere la vita. Ecco il pareggiatore dei conti. Lui la renderà ricca. Lui rimetterà il suo debito restituendole l’unico debito morale ammesso: il debito della vita al padre. Ma questa è la genealogia. Questo non è il padre originario. Questo è un personaggio della fiaba che regge la genealogia, che regge il debito morale sociale. Questa è la fiaba.
…bisognava recidere, annientare quella che ella doveva agli altri; e il debito che aveva pagato con la propria persona. ‒
Lei aveva pagato un debito con la propria persona. Vi ricordate? Aveva consentito al matrimonio in quanto così pagava il debito del suo mantenimento. Nulla di progettuale in questa vita. Tutto un pagamento di debiti. Tutto un debito dietro altro. Ora faccio questo, così pago questo debito e poi faccio quello, così pago l’altro debito. È tutto un pagamento. Si pagano solo debiti, ci sono solo debiti e più si pagano più i debiti aumentano, perché sono tutti debiti morali che non ammettono che altri debiti, altri debitori. Infatti, la religione lo sa bene. Dice che solo lui può rimettere i nostri debiti. Che quindi ci sono però! Ognuno ha i suoi debiti, se lo ricordi bene!
Senza esitare, poiché così provvidenzialmente il caso lo favoriva…
Dunque, è favorito del caso, c’è una predestinazione positiva, il caso lo favorisce. Fatalismo e vittimismo vanno sempre insieme. Moralismo, fatalismo, superstizione vanno sempre insieme a braccetto. E dato che provvidenzialmente il caso lo favoriva, egli, ormai plenipotenziario:
…egli doveva sopprimere chi aveva fatto per la figlia tutto quello che avrebbe dovuto far lui.
Così si libera, si purga. Si libera da questo peso, da questo debito, siccome lui è in debito. E questo debito è intollerabile. Come assolvere questo debito? Come pagarlo? Facendo fuori il creditore! “Mi hai messo in debito? Te la farò pagare”. “Ti sono in debito? Te la farò pagare”. Perché con tutte le sue colpe, con tutte le sue magagne, Perla aveva fatto tutto quello che avrebbe dovuto fare lui verso la figlia e quindi doveva sopprimerlo.
…sopprimere chi aveva voluto in tutto sostituirlo, ripigliandosi anche la madre nella figlia. – Impacchettamento totale, no? – A questo solo patto poteva dirsi padre. – A questo solo patto. Cioè, come? – Liberandola da tutti i legami contratti dal tempo in cui egli per lei non era esistito, le avrebbe ridato, con questa libertà e con la ricchezza, la vita.
Praticamente è Atena che nasce dalla testa di Zeus. Non c’è nessuna madre qui. La figlia deve la vita al padre. Atena nasce dalla mente di Zeus, dalla testa di Zeus. Atena è un’idea di Zeus in assenza di madre, in assenza del mito della madre e infatti Atena sarà vergine non madre. Ebe è uguale. Zeus genera, dunque Atena è in assenza di madre. E Atena gliene sarà grata, no? Vergine non madre.
Balenò a Ebe il sospetto della truce decisione del padre, nel vederlo la mattina dopo tutt’intento e premuroso nella cura del malato, – premuroso eh! Lo sta per guarire. Lo guarisce per sempre! Ebbe questo sospetto, Ebe? – dopo quanto tra loro era stato detto, la sera avanti? Forse sí; ma si vietò d’assumerne coscienza.
Si vietò di assumerne coscienza. E che importanza può avere vietarsi di assumerne coscienza? Ebbe questo sospetto, anzi ne ebbe la certezza.
Troppo chiaramente però, in fine, parlò lo sguardo di lui, quando, disfatto, curvo sul letto a spiare l’ultimo respiro del moribondo, si rialzò e si volse verso di lei, che gli stava accanto convulsa, atterrita.
Dunque, si vietò di prenderne coscienza, ma gli stava accanto, convulsa e atterrita. Come dire, complice, anzi di più.
Le diceva con quello sguardo di non aver paura perché egli doveva fare così. – Per salvarsi, per renderla debitrice doveva fare così – Se la strinse al petto, le sussurrò tra i capelli:
– Sei libera. Puoi vivere ora.
Le dà la vita “Sei libera. Puoi vivere ora”.
Ma ella sentì che non poteva più, ora, sapendo. E s’appoggiò a quel petto per non scorgere sul letto la vittima.
E così si conclude la fiaba. Perché questa è la fiaba. Fiaba terribile, infernale, macabra, tragica, cruenta. Nefasta. Ma come sarà veramente andata la storia? Questa è la fiaba, ma la storia? Perché nella fiaba abbiamo i personaggi, ma i personaggi sono infernali perché devono esercitare la padronanza sulla vita e sulla morte e trovandosi in questo contesto infernale, nefasto, in questo scenario del male devono liberarsi verso il bene.
Ma quella della storia è un’altra scena. La storia è da costruire. La storia cui la fiaba allude è da costruire. È la storia che giunge per costruzione una volta dissipati i personaggi, cioè una volta che s’instaura non già il fantasma di fine, il fantasma di genealogia, il fantasma di morte, il fantasma di padronanza, ma lo statuto intellettuale che consente di cogliere la struttura fantasmatica e di reperire i termini della storia, non più della fiaba.
Facciamo un esempio e prendiamo la fiaba di Cappuccetto Rosso. Nella fiaba Cappuccetto incontra il lupo. Il lupo muore, la nonna muore, muoiono tutti, poi si salvano. Lei entra nel ventre del lupo, poi ne esce. Tutto ciò è la fantasia di una bambina sulla nascita. La storia è la storia della nascita, mentre la fiaba è quella di Cappuccetto Rosso. C’è una differenza.
Pubblico Sì, se si riuscisse a vedere la storia della nascita.
R.C. Intanto non c’è niente da vedere. C’è da capire.
Pubblico Sì, intendevo con gli occhi della mente.
R.C. Ma per capirlo bene basta che lei legga il libro che uscirà prossimamente in merito. Questo lo abbiamo già esplorato in passato, così come peraltro la fiaba del brutto anatroccolo. È la fiaba dell’ambiente ostile: tutti ce l’hanno con me, tutti mi vogliono male e questo qui, e quello là, e la mamma mi picchia, il papà non mi vuole bene, i fratelli qua, gli amici là, e guarda che razza di casa, e guarda che ambiente. E questo non lo posso fare, quello non sono in grado, lo steccato, lo stagno; tutta una maledizione. La storia invece è quella del cigno. Ossia di chi? È la storia di chi non si pensa, non si vede, ma fa quel che occorre fare per cui non si trova più nella palude. Perché la palude è solo l’idea che ha dell’ambiente! Ma più mantiene l’idea dell’ambiente più è impantanato, più mantiene l’idea di sé più sta nel pantano. Ma se invece segue l’occorrenza, ciò che l’occorrenza esige e attua il dispositivo, nessun impedimento.
Pubblico Nella storia non ci sono impedimenti, ci sono solo nelle fiabe.
R.C. Esatto. Se lei legge le fiabe trova che gli impedimenti si possono superare solo per via magica. Le fiabe sono terribili, insegnano le cose più turpi.
Pubblico Però noi non viviamo nella fiaba.
R.C. È auspicabile proprio di no!
Pubblico Perché lei pensa che si possa non vivere nella fiaba. Questa è la sua scommessa intellettuale.
R.C. Certo, anzi, nessuno vive nella fiaba. Tutti sì. Vivono nella fiaba tutti coloro che si credono ognuno e non tengono conto del progetto e del programma di vita, per cui si pensano e si producono come animali anfibologici, ossia come rappresentanti del segno del bene e del male.
Ma l’analisi consente di dissipare la fantasmagoria della negatività e consente di attraversare la negatività che altro non è se non una struttura fantasmatica che attinge a varie rappresentazioni, per lo più del genealogico, dell’idea di origine, dell’idea di morte. Ecco cosa c’insegna questa novella di Pirandello, di cui adesso, data l’ora, noi non riusciamo a costruire la storia, ma che sarà l’argomento della prossima volta: come dalla fiaba si costruisce la storia.
E il viaggio intellettuale è di non vivere nella fiaba, ma di costruire la storia e la storia è ricerca. E accanto alla storia l’impresa. E questo è l’avvenire, mentre la fiaba è tutta rivolta al passato. Infatti, l’insistenza, qui, è di dovere la vita a qualcuno, di dovere pareggiare i conti con il passato; è tutta una sorta di elogio del passato e l’avvenire è solo a condizione di avere un debito da contrarre. La storia. Come costruire la storia?
Pubblico E il lupo, chi è in questa fiaba?
R.C. Qui non c’è il lupo.
Pubblico Perché allora Pirandello ha dato questo titolo?
R.C. È tra virgolette. Si riferisce a Fedro: Superior stabat lupus. Qui non c’è il lupo.
Pubblico Tuttavia c’è un legame, no?
R.C. Certo. È la fiaba del vittimismo. Anche la fiaba di Fedro è la fiaba del vittimismo. Ad rivum eundem lupus et agnus venerant, siti compulsi. Superior stabat lupus, longeque inferior agnus. E il lupo, vittimista professionista, che cosa gli dice? “Mi stai sporcando l’acqua, disgraziato!”. “No – dice – veramente io bevo dopo che hai bevuto tu”. “Sei mesi fa hai parlato male di me”. “Ma no, non ero ancora nato”. “Allora è stato tuo padre!”, e se lo mangia. Chi è il vero vittimista? Chi è che deve giustificare i suoi atti con un debito morale altrui? Il lupo. Il lupo è il vittimista della fiaba. Qui c’è proprio il vittimismo applicato alle varie circostanze. È questo che induce a un ulteriore sforzo per cogliere…
Pubblico È difficile trovare l’agnello in questo testo di Pirandello, sembrano tutti lupi.
R.C. Sì, sembrano. Ma qui addirittura occorre andare oltre l’agnello, perché c’è il lupo vittimista e l’agnello vittima. Quindi, occorre andare oltre questa sorta di coppia vittima-carnefice o vittimista perché in questo caso il lupo è un carnefice vittimista. Si fa vittima per applicare la giustizia, la sua giustizia. Come Corrado Tranzi, che deve pareggiare il conto, per cui deve indurre in debito la figlia, che non ha avuto nulla da lui, con la ricchezza, in modo che possa dire che gli deve la vita.
È compito dell’ascolto, della lettura cogliere la struttura fantasmatica per giungere allo statuto intellettuale, perché i cedimenti stanno dove il fantasma prevale sullo statuto intellettuale. Il bello sta nella storia, nel caso clinico, nel caso di cifra. Quindi nella cifratura.
C.M. Volevo chiederle, prima leggeva a proposito di Marco Perla, che […] il premio viene scambiato con la pena.
R.C. Sì, la pena è l’altra faccia del premio e viceversa. La logica è la stessa.
C.M. Mi è venuto in mente il rinfacciare. Il rinfacciare le cose si trova in questa struttura binaria?
R.C. La rivendicazione. La rivendicazione è vittimista.
C.M. Perché rinfacciare rende più evidente l’esclusione del terzo, dell’Altro. Cioè, rinfacciare implica una specularità.
R.C. Certo, è un’ideologia della vendetta dove ci sono la vittima e il carnefice, la vittima che si ribella al carnefice per cui si fa carnefice. Una rivoluzione circolare, un modo di pareggiare i conti, di fare pari.
La questione del terzo impedisce di fare pari, ma non perché sia un impedimento alla parità; è che nell’infinito non c’è parità possibile. La stessa nozione di grande o piccolo – più grande, più piccolo – nell’infinito non ha senso. Allora, la questione è quella dell’infinito, non della logica binaria, ma dell’infinito e della logica singolare triale, dove il terzo non si può abolire. E, dato il terzo, è impossibile Procuste, non ce n’è nemmeno più l’esigenza. Non c’è più il fantasma di rivalità che esige il pareggio, non c’è più nemmeno l’ostilità, questa è la questione. Si tratta, dove la logica binaria introduce il nemico, l’hostis, di reperire l’ospite e l’ospitalità, il dispositivo dell’ospitalità.
Verificheremo fra 15 giorni se nonostante le apparenze anche in questa fiaba non ci sia traccia e qualche elemento del dispositivo dell’ospitalità
