Ventesimo capitolo del volume La realtà della parola
L’invito alla battaglia
Ruggero Chinaglia Abbiamo molto materiale che giace ancora, praticamente intonso, nei nostri archivi e che attende di essere inserito nei siti e di avere correzione redazionale, in alcuni casi anche trascrizione. Chi può collaborare in queste prossime settimane è il benvenuto, dato che il lavoro, in questo periodo, deve procedere con maggiore speditezza. È materiale frutto di anni e anni di lavoro, incontri, dibattiti, convegni, conferenze, tante cose che abbiamo organizzato. È un contributo alla civiltà.
In alcuni casi esige un affinamento proprio sotto il profilo tecnico, perché nonostante anni di attività, ancora c’è chi ignora l’uso di semplicissimi dispositivi, quali il registratore o la telecamera. C’è chi ignora che la regolazione dell’audio, per esempio, va fatta in modo che non ogni rumore nella sala debba essere registrato, anzi, che solo la voce dei relatori, o del relatore, debba essere registrata, in modo che tutti i rumori molesti, che possono esserci intorno, trovino un filtro. L’audio non va messo al massimo, ma al minimo, in modo che solo la voce s’incida nel dispositivo di registrazione. Purtroppo, in molti casi è stata selezionata con cura la regolazione, in modo che la voce del relatore quasi scompare e tutti i rumori attorno sono registrati, così che nulla si possa considerare perduto.
Tuttavia, per quanto riguarda il recupero e i vari aspetti del lavoro redazionale, per l’immissione del materiale nei vari siti, chi può dare un contributo è il benvenuto.
Com’è noto, abbiamo tre siti. Spero che almeno questo sia noto. Abbiamo almeno tre siti: il sito dell’associazione, cifrematicapadova.it, il sito chiweb.net, sito collegato all’associazione e che contiene tutti i materiali degli avvenimenti che si sono svolti Tutti!?… Magari tutti! Una piccolissima parte del materiale che si è prodotto in questi avvenimenti, ma puntiamo a che in breve sia finalmente a disposizione – poi c’è ruggerochinaglia.it, che contiene testi e articoli riguardanti l’elaborazione di questi anni. Insieme formano una rete, una rete ulteriore, perché sono collegati. E il materiale che si trova nel sito dell’associazione, come elenco, può venire reperito in un altro sito come testo, come video, come media e altro ancora.
Nonostante ci stiamo lavorando da anni, occorre dire che siamo stati sicuramente tra i primi negli anni 2000, forse prima, a avere un sito dell’associazione e Fornasier ha collaborato in modo eccellente, per cui l’associazione disponeva di un sito costruito in modo ingegnoso, nella sua complessità, quando ancora solo grosse imprese disponevano di un sito, e di materiali nel web. Paradossalmente, siamo passati dall’avanguardia alla retroguardia, nel senso che, siamo stati i primi, e poi, piano piano, data la lentezza operativa, tutti gli altri sono passati avanti, pur disponendo di materiali sicuramente meno interessanti dei nostri.
Adesso non è che si possa recuperare il tempo perduto, perché il tempo è irrecuperabile e nemmeno si perde, però possiamo procedere più speditamente affinché queste testimonianze siano a disposizione, non essendo reperibili da nessun’altra parte. Cioè, conferenze e dibattiti tenuti da esponenti internazionali della cultura, della dissidenza, della politica, dell’arte che sono stati qui, a Padova, non sono gli stessi di altre sedi, di altre città. C’è una specificità. E se non sono pubblicati, sono inservibili per altri.
Questo è il lavoro cui ci stiamo rivolgendo. Lo possiamo considerare un servizio intellettuale, rivolto a ciascuno che vi collabora perché, così, ciascuno ha in anteprima l’occasione di consultare questi materiali, di leggerli e ascoltarli. E questo consente l’elaborazione, l’eco. Consente l’ascolto, la scrittura. Cioè, collaborare è un modo di arricchire il proprio itinerario. Questo forse non è ancora del tutto evidente, per qualcuno, però è constatabile.
L’invito è alla collaborazione, giusto per stare nel tema di questa sera e di questi incontri, ossia la collaborazione alla formazione, all’arricchimento, alla valorizzazione di ciò che ciascuno ha in corso, facendo. Questo mi pare importante precisare, perché c’è chi, per esempio, ritiene che la conferenza sia un appuntamento importante e la riunione organizzativa no, perché questo comporterebbe un obbligo, un impegno, un chissà che cosa. Noi non facciamo distinzione. Anche l’équipe è un momento di organizzazione, di coordinamento. Non c’è la compartimentazione nella nostra esperienza, c’è l’esperienza.
Dicevamo che il titolo di questa sera è noto. Ci sono domande? Ci sono annotazioni? Doveva esserci un intervento di Fabrizio Moda, ma non ha preso la cosa in modo, come si dice, estremo. Ha ritenuto di potere giustificarsi rispetto all’appuntamento. Questo intervento non ci sarà, almeno non questa sera.
Se ci sono altre domande, intanto per cominciare, curiosità rispetto all’incontro precedente o a quelli prima ancora, possono dirsi.
Barbara Sanavia Mi piace questo titolo.
R.C. Beh, ne siamo felici.
B.S. In particolare la parola battaglia, che non vedo negativa, cioè non è la guerra, la battaglia.
R.C. Eh, no.
B.S. Perché io nella battaglia ci vedo la forza, la forza di battersi per quello in cui si crede e di non accettare quello che non va, non subirlo. Per cui c’è la forza di fare per il cambiamento. Al giorno d’oggi, non è molto diffusa la battaglia, la guerra sì, le guerre sì.
R.C. Sì, soprattutto la battaglia intellettuale. Perché si tratta di questo: la battaglia è battaglia intellettuale. Non è il duello, non è la rappresentazione del duello, non è il massacro, la carneficina, lo scontro, è battaglia intellettuale, è battaglia per la vita, non per la morte.
Allora, l’invito alla battaglia, come dire l’invito all’instaurazione della parola. Dove, come, quando s’instaura la parola? Non è già data la parola, non è pronta all’uso. E credere che una domanda di aiuto o una richiesta di aiuto, sia indice della domanda autentica di ricerca e d’impresa, e basti di per sé a instaurare l’analisi, il dispositivo intellettuale e quant’altro, è fallace. Sarebbe facile, ma non è così.
Ognuno si rappresenta l’aiuto, per così dire, a sua immagine. Gnosticamente, si rappresenta l’aiuto secondo l’idea di bene e di male, e è raro che intervenga la generosità e la fede nella riuscita senza che intervenga la rappresentazione gnostica del bene e del male. Ogni richiesta è richiesta di bene, per cui rispondere a una richiesta di bene è molto impegnativo – è il meno che si possa dire – perché rischia di chiudere la domanda nella risposta alla richiesta.
La domanda non esige risposta. Esige di trovare il modo perché abbia corso, perché si svolga, perché possa rivolgersi alla sua cifra, perché possa trovare la valorizzazione. Dare aiuto equivale a confermare la rappresentazione del bene e del male. E perché la domanda possa rivolgersi alla cifra, la rappresentazione del bene e del male è proprio ciò che occorre trovi dissipazione, non conferma. Dare aiuto è qualcosa che è molto pubblicizzato come altruismo, ma l’altruismo, appunto, che cosa risulta? Risulta una forma di specularità, dove ciò che trova conferma è la rappresentazione.
Poiché l’aiuto è una proprietà dell’Altro, non può essere somministrato o comminato a misura della bontà d’animo, se non confermando le mitologie e le mentalità che questa bontà d’animo comporta. L’aiuto viene dall’Altro, quando l’Altro interviene. Quando interviene! E perché intervenga, occorre che s’instauri la parola con le sue proprietà. Non è che l’Altro è qualcuno caritatevole che si presta a fornire aiuto.
L’Altro sta nell’intervallo, sta nel silenzio, nella funzione vuota. Esige che sia in atto la logica funzionale. L’Altro è differenza assoluta, quindi ciascuna rappresentazione del bene o del male è un modo per abolirlo. E la richiesta di aiuto è, per lo più, veicolata dalla rappresentazione di come questo aiuto debba essere fornito, di quale sia, perché ognuno ritiene di saperlo, vuole l’aiuto che vuole, l’aiuto che gli serve. Ma, questo non è l’aiuto, questo è l’aiuto fallico. L’Altro non è funzionale a soddisfare la richiesta, interviene nella domanda. E non è noto dove la domanda si rivolga. Perché questo avvenga, si deve instaurare la parola.
Cosa vuol dire che la parola s’instaura? Quando, come, dove s’instaura la parola? La parola s’instaura con la nominazione, con le sue proprietà, con le sue caratteristiche, con la logica del due, la logica del tre e la combinatoria che da queste logiche, con le varie intersezioni si produce.
Senza la nominazione s’instaura una sistematica, dove ognuno crede di sapere quel che gli serve. Cioè, s’instaura il sistema del soggetto, che è rappresentato dal fantasma di padronanza, dal fantasma di possessione, nonché dal fantasma di fine. Il soggetto si regola sulla padronanza, sulla possessione, sulla fine. Detto altrimenti, sulla spazializzazione delle cose e della parola, sulla localizzazione della parola, sulla finitezza, ossia sulla conoscenza.
Tolta la nominazione è abolito l’ascolto; allora le cose significano, vengono a significare secondo l’idea alternativa del bene e del male, della vita e della morte, del volere o del potere, del sapere o del non sapere. Ma lì, non c’è più la parola, c’è un sistema di controllo e di padronanza.
Come s’instaura la parola è indicato dall’auctoritas e dall’abundantia, che sono gli indici che inaugurano la parola, non come apparato così detto di comunicazione intersoggettiva, ma la parola nella sua logica e nella sua struttura, la parola ingovernabile che rilascia effetti. La prima sensazione che indica che la parola si è instaurata, è, per esempio, l’auctoritas, con l’aumento, l’incremento. Qualcosa si avverte come rilancio, come rimozione, come crescita. Qualcosa non è più inerte, uguale a se stessa, come si pensava.
Come viene avvertita l’auctoritas? Anche come fantasma di esclusione, qualcosa risulta fuori portata, quasi inaccessibile. E, rispetto all’idea di potere disporre a piacimento di questa o quella cosa, interviene un senso di esclusione, un fantasma di autorità. Questo è un indice che qualcosa funziona nella rimozione, qualcosa, cioè, non è più liscio come prima, risulta spigoloso, scabroso. Le cose non vanno come si pensava dovessero andare, qualcosa non funziona, qualcosa non va. Ecco, lì sta accadendo qualcosa che il soggetto non può più padroneggiare o impedire o favorire; è fuori controllo. È incominciata la parola!
Comincia, così, la necessità della conversazione, perché questo lascito della parola si chiarisca e proceda, poiché il chiarimento non finisce mai. Non è mai abbastanza!
E così l’abundantia sul versante della resistenza. L’abbondanza, cioè quel che si produce dall’onda del va e vieni delle cose. Da questa onda si produce del sapere inedito.
Qualcosa si aggiunge, ma non a costituire conoscenza. Si aggiunge, si affianca, per cui c’è aumento da una parte e abbondanza dall’altra. Aumento e abbondanza. E le cose procedono differentemente, a meno che non siano governate dal soggetto, il quale stabilisce che, invece, occorre mantenere le cose nella conoscenza, nella padronanza, nella rappresentazione soggettiva.
Nulla è automatico. L’instaurazione della parola non va da sé, esige lo sforzo della ricerca, lo sforzo dell’impresa, la generosità per non accontentarsi e potere dire: “Ecco, ne ho abbastanza, ne so abbastanza, so già tutto, le cose stanno così”, perché le cose non stanno mai ferme.
E dall’auctoritas e dall’abundantia, procede la ricchezza, e accanto all’auctoritas e all’abundantia, la fluenza. La fluenza nell’intervallo. L’ascolto si avvale di questo, come la comunicazione. Non è che basti sapere cosa vuole dire questo o quello, senza la teorematica! Cioè, senza l’indagine che riguarda l’analisi, senza l’indagine che riguarda la qualificazione e senza la scrittura di questa indagine, perché l’indagine non è mai finita, la cosa non è mai finita, la cosa non giunge mai alla significazione.
Se giunge a significazione, c’è qualcosa che ha interrotto il processo intellettuale. Se interviene lo stupore, rispetto a ciò che è materia di analisi, di indagine, di ricerca, vuole dire che c’è una presa soggettiva, che riguarda l’idea di controllo sul tempo. Tempo che, nella sua irruzione, è pensato come violenza subita. Contro questa violenza, lo stupore, che serve a proteggere dalla violenza del tempo.
Capita di sentire persone che si dicono stupite, stupefatte rispetto a un’ipotesi, a un’eventualità, a una formulazione che assolutamente sconvolge il canone. Ecco, questo stupore, questa stupefazione indica un fantasma di stupro. Lo stupore viene da questo, dalla reazione a qualcosa che è avvertito come violenza.
Il tempo è anche violenza, interviene violentemente. Non interviene gradualmente, delicatamente. Il tempo, in quanto taglio, interviene come violenza e con violenza, possiamo dire. Gli effetti del tempo sono effetti violenti, scardinano le credenze! Contro questo scardinamento, può esserci reazione. Il soggetto reagisce a questa irruzione, si ribella, dice: “No! Non è così. So io come deve essere!”. E cerca di contenere il tempo, di mediare e usa tutte le accortezze del caso, contro il tempo: “Ci devo pensare un momento, occorre riflettere, pensarci bene, bisogna rispettare tutte le possibili eventualità…”.
La pratica del rispetto è una pratica di contenimento del tempo. Qualcosa fa irruzione e che cosa viene contrapposto a questa irruzione? Il rispetto! Che è l’altra faccia dello stupro! Il rispetto come contenimento dell’idea di violenza, del fantasma di violenza.
Un aspetto del fantasma di violenza è quello dell’idea di potere essere rapiti o sequestrati. Una fantasia che aveva avuto un’acme qualche decina di anni fa quando, effettivamente, avvenivano alcuni sequestri, ma, rispetto al numero di sequestri effettuati, la fantasia di potere essere sequestrati era dilagante. E non era una fantasia relativa alla realtà del sequestro, ma relativa al contenimento del tempo, anche nell’esperienza di parola.
Il soggetto difende il suo modo di considerare vere le cose, che è un modo o algebrico o geometrico, presumendo una possibile ripetizione senza differenza o la differenza senza ripetizione. Quello che la soggettività non accetta, non ammette, non tollera è che l’equivoco non venga risolto, che l’equivoco non trovi soluzione.
E che l’equivoco non trovi soluzione si chiama, ancora una volta, auctoritas.
Il qui pro quo, che è la struttura della metafora, non trova mai soluzione. Qui pro quo. E dopo un qui pro quo, ce n’è un altro. Perché dovrebbe trovare soluzione? Un altro qui pro quo, l’equivoco. Pretendere la risoluzione dell’equivoco, vuol dire abolire la stessa funzione di rimozione, vuol dire abolire il transfert. Il qui pro quo è la struttura del transfert. Qual è il prodotto di questa struttura? È il senso come controsenso. Qui pro quo, il senso non è mai stabile.
L’idiozia regna sovrana dove si presume possa tradursi, essere comunicato, essere dispensato il senso della vita. Ecco la domanda pacificante: “Qual è il senso della vita?”. Non c’è, non c’è il senso della vita. C’è il senso di un dettaglio, il senso di un qui pro quo, da lì viene il senso. La vita non ha un senso. Pensare al senso della vita vuole dire credersi un vegetale, il quale vegetale è lì, inerte, fermo. Allora, la sua immobilità darà un senso generale al suo esistere lì, come vegetale, ma la vita nella sua complessità non ha senso.
L’idea di un senso della vita è mortifera, è ideologica, è moralistica, è mortale. Solo l’idea che questo possa avere una risposta è l’avallo all’idiozia. Il senso della vita, il senso della morte; ma cosa vuol dire? Il senso del qui pro quo. Sì, c’è un qui pro quo, qual è il senso di questo qui pro quo? Può un qui pro quo diventare l’equivalente generale della vita? Beh, sì, se quel qui pro quo diventa tutta la vita. Cioè, c’è chi fa di un qui pro quo il rappresentante di tutta la vita, il segno, la significazione di tutta la vita. Ecco, allora il senso della vita è lì, ma la vita è già finita; è in quel qui pro quo che la rappresenta come soggetto, cioè come un’entità stabile. Non c’è soluzione al qui pro quo, perché è essenziale!
Chi cerca la soluzione è uno zombie. Gli zombies cercano la soluzione, la soluzione definitiva. Anche Hitler aveva trovato la soluzione finale del suo problema. Ciò è indicativo, la soluzione effettivamente è così, indica la fine del problema, anche la fine della questione. L’idea di soluzione è idea di fine. Chi spera nella soluzione è un credente della fine, bisogna che sia chiaro questo!
Ci sono tante religioni, la più diffusa è la religione della fine, che ha i suoi seguaci tra coloro che credono nella soluzione. E se prestate orecchio a quel che si dice attorno a voi, troverete che vivete tra credenti di questo tipo: credenti nella soluzione, credenti nella fine, che, poi, si lamentano se questa credenza produce tutta una serie di casini, di sintomi, di inconvenienti, tutti avallati dall’apparato che fornisce i rimedi, e tutti bene accetti perché sono tutti casini codificati. Un esempio? La mitologia della depressione, che chiaramente è una credenza nella fine. Anche chi dice che non ce la fa, crede nella fine. Anche chi dice che non può farcela da solo e deve avere l’aiuto dal ricorso a questa o quella sostanza, crede nella fine. Anche chi somministra la sostanza, crede nella fine. Chi crede di essere qualcosa di finito, che non ce la fa, ha già abolito la parola. La fede nella riuscita è espunta, la generosità tolta, c’è la credenza nella soggettività, nell’idea di finitezza. Nulla mai comincia per un soggetto.
Quale auctoritas se qualcosa non incomincia? Nessuna auctoritas. Ma che qualcosa incominci non vuol dire che è cominciata una volta per tutte, che è cominciata una volta per sempre, che essendo cominciata può soltanto finire… L’incominciamento è nell’atto! L’incominciamento è nella costanza dell’atto. Chi pensa d’incominciare e poi finire toglie la costanza. È un soggetto finito.
Che qualcosa cominci non indica l’origine della cosa, perché l’incominciamento è funzionale: indica che è avviato un funzionamento, una logica, non che è stata trovata l’origine della cosa! No, la cosa è senza origine e comincia a funzionare. Funzionando produce qui pro quo: lì l’auctoritas. L’auctoritas sta lì, e proseguendo a funzionare le cose crescono, aumentano. Lì sta l’auctoritas, che non è un canone né l’imposizione di una veduta del mondo agli altri, né l’imposizione di norme e regole.
C’è chi dice “Ah, che polso fermo!”. Ma, l’auctoritas non è nella fermezza del polso, non è qualcosa che può essere esercitato da qualcuno su qualcun altro.
Che qualcosa risulti misteriosa esige che vi sia qualcuno che dica “Questo è un mistero, un mistero”. Che ci sia l’idea di qualcosa di misterioso, vuol dire che si crede nell’origine delle cose, che si crede che l’origine sia un mistero. Chi crede nell’origine, crede nel mistero dell’origine: vuole trovare l’origine, che è misteriosa, vuole trovare il segreto, il mistero.
Il qui pro quo produce controsenso. E è essenziale, perché dà un contributo al modo. Se invece ognuno fa come se non ci fosse, resta nella sua convinzione e è immobilizzato, perché è rivolto all’ontologia, all’idea dell’essere.
L’essere è immutabile! L’essere certamente non incorre nel qui pro quo. Che essere sarebbe? Cogliere che c’è un qui pro quo è qualcosa di straordinario, è un contributo. La ricerca, possiamo dire, è ricerca del qui pro quo innanzi tutto! Eppure, c’è chi abolisce il qui pro quo. Dice che è un segno della malevolenza altrui, un segno negativo e che tutto dovrebbe andare liscio, senza qui pro quo, che se c’è un qui pro quo è una negatività.
Il qui pro quo è inquietante. Questa è la chance! Non sedare il qui pro quo è una chance. Quando qualcosa sembra misterioso è perché è già nel cerchio dell’uroboro: cerchio che dall’origine porta alla fine. Risulta misteriosa la cosa che è senza la chance dell’analisi. E l’analisi è bandita quando non è accolta l’eventualità del qui pro quo.
Il qui pro quo scardina le certezze, scardina la conoscenza, scardina la soggettività. C’è chi preferisce credersi malato, piuttosto che accogliere l’idea che la parola funzioni!
Il cerchio dell’uroboro è anche il cerchio in cui si trova preso chi pensa di tornare all’origine, di potere fare ritorno, pensa che le cose ritornino, che qualcosa possa ritornare come era prima. Il ritorno è un’idea di fine. Le cose procedono, si dirigono al valore, ma non ritornano, non tornano mai indietro. Che cosa potrebbe tornare indietro? Il ritorno è l’idea del viaggio nell’Ade, il ritorno al regno dei morti o nel regno dei morti. Non c’è viaggio di ritorno. Viaggio di andata, viaggio di ritorno: il viaggio è di sola andata, senza ritorno. Negata l’apertura, il soggetto pensa di potere fare ritorno: fare ritorno a casa, al paese natio, di fare ritorno, di tornare.
“Dove vai?”. “Torno a casa”: è negata così l’apertura, facendo del viaggio un cerchio. E nell’apertura sta come suo modo, l’ossimoro, per esempio legame/slegame. E il legame non va senza slegame. C’è chi pensa di non volere legami, “Io non voglio legami, quindi taglio”. Taglio, non voglio legami, taglio e mi libero. Eh sì, questa è una bella idea soggettiva governata dallo stupore, dall’idea di padronanza, dall’idea di fine, perché non è tenuto conto che tagliare il legame comporta anche tagliare lo slegame. E se l’idea è che tagliare il legame rende liberi, tagliare lo slegame cosa fa? Siamo a livello fantasmatico, sempre presumendo di potere tagliare il legame. “Taglio il legame e sono libero”. Questo dice il soggetto autonomo. Il soggetto autonomo dice: “Mi libero, libero tutti, taglio il legame”. Ma legame è legame/slegame: taglio lo slegame, quindi mi lego! A cosa mi lego? Le varietà sono infinite, ognuno si lega a ciò da cui vuole separarsi.
Quella stessa idea che trae al taglio del legame, taglia anche lo slegame. E nel labirinto, come procede questo legame? L’idea del legame nel labirinto, come procede?
Chi ritiene di potere tagliare l’apertura si trova nel sistema, nella sistematica che si istituisce una volta tolta l’apertura. Qual è il sistema? È il sistema del cerchio. Va da sé: tolta l’apertura s’instaura il cerchio. Non c’è più nominazione allora, c’è l’universalità. Non c’è più il qui pro quo, c’è lo standard, c’è la generalità. Ogni caso è caso generale, è il caso di tutti, già previsto, già saputo, già noto. Come vivere nel caso di tutti, come vivere nel cerchio, come vivere senza la nominazione? Questa è la questione!
La questione intellettuale è la questione della nominazione. Nominazione: logica e struttura della parola, logica diadica, l’apertura, e logiche singolari e triali, il funzionamento, l’oggetto, la dimensione, l’idea.
L’invito è invito alla battaglia intellettuale, al dispositivo intellettuale, alla questione intellettuale che è la questione della parola, non del sistema, non del soggetto che si erge e si paragona a un altro soggetto. E l’invito esige la sua formula, la sua formulazione, perché nulla è naturalmente invitante. L’invito è invito alla battaglia, invito alla cifra, che esige la sua causa. La causa.
La causa è ignota. La causa non è la giustificazione. La giustificazione soggettiva taglia corto con il qui pro quo, con la differenza da sé del significante, con la differenza assoluta e viene a compromesso instaurando il cerchio soggettivo. La causa è ignota, è la provocazione. Lo psicanalista occupa la posizione di causa, di sembiante se istituisce quel punto di provocazione da cui la domanda si formula. Non è che sa, come, dove, quando, come fare, quale canone adottare. Ciascun incontro esige la sua causa e il rischio che dalla causa procede perché la domanda prosegua.
Accogliere la domanda non è soddisfare la richiesta, esige il modo opportuno e il dispositivo opportuno. Non va da sé che il soggetto accolga la domanda! É chiaro? Il soggetto reagisce. Il soggetto reagisce anche all’accoglimento della domanda, talvolta, perché la domanda dissipa il soggetto. E chi crede nella sua identità soggettiva, non accoglie la domanda e insiste a negare l’accoglimento.
L’invito esige l’interlocutore che è lo statuto intellettuale. L’interlocutore non è qualcuno, non è l’Altro, non è x, y, z, è lo statuto intellettuale che si produce nel dispositivo. Invocare l’interlocutore come deus ex machina è indice di una delega al deus salvatore, una delega rispetto alla salute che si chiama salvezza.
L’invito è l’invito al dispositivo cifrematico: dispositivo intellettuale, dispositivo di battaglia. La parola esige la sua battaglia, non è automatica. L’instaurazione della parola è instaurazione della nominazione, instaurazione dello statuto intellettuale. Sono cose semplici, ma essenziali.
Negato il qui pro quo a favore del senso comune, non c’è scampo. Negato il qui pro quo a favore del luogo comune, non c’è scampo, perché vuole dire che non s’instaura l’ascolto, che non c’è auditorium; nessun effetto di sapere rispetto al funzionamento dell’uno, nessun effetto di controsenso rispetto al funzionamento dello zero, nessun effetto clinico rispetto al funzionamento dell’Altro, ma il mantenimento del pregiudizio.
“Io non ho pregiudizi” è una formulazione da analizzare. “Io non ho pregiudizi” è già pregiudizio! Io non ho, io non sono.
La questione intellettuale non ruota attorno all’essere o all’avere, ma al non dell’essere e al non dell’avere, al funzionamento. Il funzionamento è il non. Il non dell’essere. Non il non essere, ma il non dell’essere. Non. Il funzionamento è lì, nel non.
L’invito è invito alla cifra, alla cifratura, è invito al valore, è invito che si rivolge alla combinatoria, non al combinato, non al già disposto.
Combinatoria. La combinatoria non è già avvenuta, non è già stata. L’incontro non è combinato, non è già avvenuto. Come sarà l’incontro? La paura viene dalla rappresentazione dell’incontro, pensando che l’incontro sia con l’Altro. E allora, c’è chi si scervella, cioè, proprio si toglie il cervello per prevedere, sapere. Devo sapere, come sarà, quando sarà, come avverrà. E non c’è più cervello, c’è encefalo, un encefalo con encefalogramma piatto.
Ma, cervello è dispositivo intellettuale, dispositivo di parola, con la nominazione. La particolarità è la nominazione, viene dalla nominazione, non è che sta chissà dove. L’invito procede dall’apertura, non dall’idea che io ho di come deve essere il domani. L’invito procede dall’apertura e va in direzione della cifra. Tutto ciò si svolge senza conoscenza, nel rischio di parola.
L’invito è sessuale e se non è sessuale non è invito; e se non è sessuale non può essere accolto, è compromesso con la morte, è compromesso con la fine, è complicità sulla fine. Per ciascuno, l’invito è alla cifra, alla qualità, al valore. Questo è l’invito che qui si formula e che si formula con la parola.
Ci sono domande? Domande, notazioni, precisazioni, chiarimenti, qui pro quo. Ci sono qui pro quo? C’è qualche qui pro quo?
Patrizia Ercolani Stavo pensando all’incominciamento. Diceva che con l’incominciamento incomincia qualcosa e, intorno a ciò, pensavo di essermi ingannata, non so. Pensavo che, incominciando qualcosa, non potesse non incominciare qualcosa senza un punto…
R.C. Certo, ci vuole anche il punto.
P.E. Sì, da dove?
R.C. Il punto come condizione, certo, ma…
P.E. Che non fa l’origine.
R.C. No, non fa l’origine.
P.E. Ecco, io invece pensavo che facesse l’origine.
R.C. Ecco, esatto. No, non fa l’origine.
P.E. E allora il punto sta… è simultaneo all’incominciamento, cominciando qualcosa?
R.C. E certo!
P.E. Ah ecco. Non capivo bene la cosa…, o facevo della simultaneità una…
R.C. Ciò che caratterizza la nominazione è la simultaneità.
P.E. E non la successione.
R.C. Certo, è la simultaneità del funzionamento dello zero, dell’uno e dell’Altro, la simultaneità dell’intervento dell’oggetto, la simultaneità dell’idea, la simultaneità della dimensione. Non c’è successione, c’è simultaneità. Dalla simultaneità procedono effetti, proprietà, virtù.
Non c’è il soggetto virtuoso, le virtù sono della parola, sono da individuare nella parola. La nominazione non esiste già compiuta, il viaggio di ciascuno è il contributo alla nominazione. Non so se mi spiego: la nominazione non è una logica cui attingere, non è una logica formale. Il contributo che la restituzione in qualità produce è anche contributo alla nominazione, nel senso che io indico virtù e proprietà delle logiche, le quali diventano cifremi del mio itinerario. Cioè, la nominazione non è una sfera che è già fatta, è chiaro? Perché c’è chi crede che sia una sfera e che si tratta di adeguarsi alla sfera, per diventare sferici. E sarebbero i cocciuti.
I cocciuti, che per un verso sono quelli “de coccio” e per l’altro verso sono quelli sferici, perché la coccia, cos’è la coccia? È la testa compiuta in sé stessa. Il cocciuto è tale perché ha la coccia piena di sé, è già piena, non ci entra nulla di più perché è piena. Il cocciuto è pieno e non può accogliere più nulla. Non può contribuire a nulla. E ce n’è di cocciuti! “Di coccio” per un verso a Roma direbbero “de coccio” per l’altro verso sono con la coccia, cioè con la testa, piena. Il cocciuto ha la coccia. E se è già piena, è immodificabile. Quale formazione, quale differenza, allora? È piena, è così! È coccia!
La partita si gioca sulla coccia o sulla parola? Perché se si gioca sulla coccia, allora uno dice “Io credo questo e la faccenda deve andare così”. E è cocciuto, o cocciuta, è il soggetto cocciuto; maschio o femmina, sempre soggetto. Soggetto cocciuto, per il quale nessuna battaglia è degna di essere combattuta, perché ha la coccia. Non c’è da combattere niente. Le cose sono così, ha il suo pregiudizio e i suoi eventuali compromessi. Oppure c’è la parola con la nominazione, che non è coccia, la nominazione non è coccia, non è completa, non è finita, non è satura. La nominazione è logica e struttura, combinazione e combinatoria infinite. È senza rappresentazione, contrariamente a come è stata postulata la nozione d’inconscio, che si prestava e si presta, a una rappresentazione psichica: quasi a dire l’inconscio è questo. E i più baggiani, dicono: “Qual è l’interpretazione di questa cosa, secondo l’inconscio? Cosa dice l’inconscio di questo? Com’è quella cosa lì, nell’inconscio? Nel substrato, com’è?”.
No. “Com’è?” esige d’indagare. Non com’è, ma come avviene! Come avviene a partire dal qui pro quo. Perché, se io penso che sia così, con il qui pro quo e non è più così! Interviene qualcosa d’altro. Ma il cocciuto dice che non c’è qui pro quo, non c’è equivoco e che l’equivoco sarebbe una cosa brutta, un indice negativo, un segno della malevolenza che confonde le acque, perché vuole male.
La nominazione!
Maria Antonietta Viero C’è una questione che riguarda il cercare la soluzione e invece incontrare il qui pro quo, quindi fare il viaggio. Facendo, il viaggio dissolve l’idea della soluzione, viene meno l’idea soggettiva di potere trovare la soluzione. E dissolvendo l’idea di soluzione, s’incontra l’assoluzione, cioè si assolve qualcosa che è legato all’idea di origine, del fatto. Per esempio, del fattuale viene scardinato, e lì subentra il teorema. Cioè, l’assolvere produce il teorema che non è mai stato, qualcosa non c’è perché non c’è mai stato.
Ciò mi sembra interessante, perché toglie definitivamente l’idea di origine, perché non c’è. Non c’è perché non c’è mai stato, quindi il teorema. È dall’assoluzione che giunge il teorema.
R.C. Esatto, il teorema non toglie, questo è il punto: l’analisi non toglie, non toglie nulla. Non è una pratica di purificazione, non toglie nulla. Chiarisce come mai, a un certo punto, si è insediata una certa credenza.
M.A.V. Una fantasia.
R.C. Indica che quella fantasia si aggrappava a qualcosa, e non è una fantasia originaria. L’originario è senza la credenza. Ogni credenza è un rimedio all’originario, è una giustificazione, è una soluzione contrapposta.
M.A.V. Mi fa pensare, anche, che è così nel dispositivo analitico: una connessione assolve proprio l’idea dell’origine, avviene la connessione.
R.C. Non è automatica.
M.A.V. Certamente, però l’occasione è quel che accade; cioè se nell’accadimento un elemento viene ascoltato, rilevato e produce una sorta di sbarramento, di limite, di non farcela più, lì, parlando, nel dispositivo analitico, con l’analisi, una connessione scardina completamente questa cosa. Ci si accorge che era legato, appunto, a una fantasia che si aggrappava a qualcosa. Quel che offre l’accadimento è sempre qualcosa che poi occorre trovi qual era il legame, il legame/slegame, il ponte, la connessione insomma, rispetto…
R.C. Il ponte è una cosa, la connessione è un’altra.
M.A.V. Allora diciamo la connessione.
R.C. Sì.
M.A.V. Perché la fantasia è di non potere fare qualcosa rispetto a ciò che invece si appunta. C’è un appuntamento e, rispetto a un appuntamento, ho qualcosa da fare, per cui non posso. Poi, invece, facendo l’analisi, realizzando questa cosa, c’è una connessione precisa per cui, quel non potere più, era una rappresentazione che immediatamente assolve, perché assolve da un’idea di. È come se si assumesse la funzione di uccidere la funzione. La funzione uccide, è come se venisse assunta questa funzione di uccidere per cui il non posso fare quella cosa è perché c’è una fantasia di assassinio, una fantasia di uccisione.
R.C. Non sappiamo.
M.A.V. Ma può essere?
R.C. Può essere…
M.A.V. Se è nel funzionamento.
R.C. Caso per caso va indagato, altrimenti sarebbe tutto già stabilito.
M.A.V. Automatico. Poi c’era un’altra questione. Chi non ce la fa, può rivolgersi all’aiuto, alla sostanza, quindi è una delega. E è una delega a qualcosa togliendo la parola, il parlando, togliendo il dispositivo, togliendo questa occasione di dispositivo. Ma, per esempio il farmaco, dove è creduto esserci una malattia, diciamo una malattia, come ascoltare questa cosa? Mi fa pensare a questa cosa, per esempio, una malattia cosiddetta cronica, dove non c’è modo di interrompere questa idea.
R.C. Non c’è modo? Chi ha detto che non c’è modo?
M.A.V. No, sto percorrendo questo filo.
R.C. No, no. Allora, una malattia cronica… Una malattia cronica è un fantasma.
M.A.V. È un fantasma?
R.C. Certo, è un fantasma che bisogna vedere con quali complicità s’instaura. La cronicità è un fantasma, è chiaro? Nella nominazione non c’è cronicità. La questione della cronicità è da analizzare, non da accettare secondo un prontuario disciplinare, che è senza nominazione.
M.A.V. Bene, e allora l’assoluzione di un farmaco rispetto alla parola, come interviene?
R.C. Caso per caso è da esplorare, da valutare. Non è che ci sia un protocollo. C’è un protocollo da applicare? No, caso per caso si tratta di valutare quali sono i dati, e rispetto…
M.A.V. Sì, ma se nella valutazione c’è un farmaco che viene preso, come si mette rispetto alla parola?
R.C. Non c’è un caso ipotetico e generale su cui stabilire un protocollo, non so se mi spiego. Devo ripeterlo dieci volte? Non c’è un protocollo, per cui non c’è neanche il caso del farmaco che viene preso, non c’è quel caso lì, come caso ipotetico e generale. C’è, eventualmente, nello specifico, un caso in cui avviene qualcosa. Quel caso lì è da indagare, ma non si presta a una casistica generale o a una definizione, chiaro?
Altri? Ci sono altre domande? Pensieri sparsi? Pensieri inquietanti? Pensieri tranquillizzanti?
M.A.V. C’era un’altra cosa, o è troppo tardi? Andiamo?
R.C. Quale cosa?
M.A.V. Come stanno insieme l’auctoritas con la fantasia di esclusione; perché mi ha fatto pensare una cosa: che la fantasia di esclusione avverrebbe per abbondanza, per via di abbondanza, dove c’è auctoritas.
R.C. No, per via di auctoritas.
M.A.V. Eh, lo so. Ma se interviene questa abbondanza?
R.C. L’abbondanza è accanto. Già la fantasia di esclusione è un contributo all’abbondanza, se non viene respinto e se viene indagato. È chiaro?
Vi vedo un po’ perplessi. È auspicabile che queste perplessità sfocino in elaborazione, in scrittura, in proposte, per cui chi, riprendendo ciò che dicevamo in apertura, intende collaborare per uno o più degli aspetti che abbiamo indicato, può segnalarlo e verrà accolto.