Dodicesimo capitolo del volume La realtà della parola
L’amore e l’odio. La famiglia, il diritto, la sessualità
Ruggero Chinaglia Questa sera siamo qui per una scommessa intellettuale, la scommessa che quest’incontro divenga un dispositivo intellettuale in cui si tratti dell’amore e dell’odio, secondo la parola originaria, in un’accezione non molto nota e frequentata. Come notava Panthea Shafiei, intorno all’amore e all’odio esiste una produzione letteraria, artistica e pseudoscientifica ricchissima, che va in direzione del cosiddetto amore nella transitività e nella coniugabilità, dove si tratta dell’amante e dell’amato e quindi di una sorta di passaggio di qualcosa che faccia legame, che costituisca relazione, che costituisca sentimento. È qualcosa di convenzionale, che fa dire “So di cosa si tratta”, “È capitato anche a me”, che si cerca anche di quantificare, tant’è vero che la frase più frequente a proposito dell’amore è la richiesta: “Ma tu mi ami?”, “E quanto mi ami?”, “Mi ami quanto io amo te?”. E qui sorge la disputa se ci sia parità tra il presunto amante e la presunta amata (o viceversa).
L’accezione di amore e di odio che affrontiamo questa sera non procede da questa concezione, ma dalla parola. Quando dico dispositivo intellettuale, dico dispositivo di parola, dove non si tratta solamente di dire qualcosa, e dove ognuno possa dire la sua, meglio se in modo convenzionale, per capirsi facilmente, ma si tratta di parlare, capendo e intendendo quel che si dice; e parlare è l’inconscio.
La scommessa della parola non è capirsi, non è nemmeno comprendersi, ma è che sorga qualcosa di valore, un’istanza di valore, che sorga qualcosa di nuovo che produca ricchezza, produca valore, qualcosa per cui parlare non lasci indifferenti, ma produca magari anche qualche sconquasso, metta in questione, faccia nascere il dubbio, incrini le certezze. Se si produce qualcosa di questo, c’è parola. Se s’incrina una visione del mondo, lì c’è parola. Se, invece, nonostante il gran bla bla, ognuno resta della sua idea, tranquillo, certo della sua ragione, non si può proprio dire che lì ci sia parola, ma una visione del mondo, un’ideologia, una qualche certezza di sé, senza parola.
L’esperienza che sto compiendo da più di quarant’anni ormai, è l’esperienza di correre il rischio della parola. L’esperienza cifrematica, che è sorta nel 1973 e che procede sia per l’aspetto clinico-scientifico sia per l’aspetto culturale anche con il nome di secondo rinascimento, per la forza e gli sforzi di Armando Verdiglione e di altri, gioca la sua partita non per confermare le visioni del mondo, ma correndo il rischio di incrinarle e anche d’incrinare concezioni dottrinarie affermate, concezioni ideologiche consolidate, che sempre vanno nella direzione di un pensiero unico, di un pensiero comune, di un pensiero standardizzante.
Questa esperienza, con la sua pratica, ha prodotto uno iato tra chi mira a mantenere l’idea di mondo, la concezione disciplinare delle cose, l’idea di un sapere che possa essere trasmesso nella sua interezza senza incrinature, senza introdurre alcunché di nuovo. Ha prodotto uno iato, anche una reazione, sicuramente, una reazione a vari livelli, in vari gradi, in vari modi, ma il progetto della parola originaria va oltre le reazioni che incontra nel suo procedere, perché è sostenuto dalla tensione verso la qualità, la qualità delle cose, la qualità del vivere. La formula “qualità della vita” è diventata ormai uno slogan banalizzato, e sufficientemente recuperato nella concezione del comfort. Qui si tratta della qualità assoluta, del modo con cui ciascuno si trova nel gerundio della vita, cioè della qualità vivendo. La qualità vivendo è differente dagli slogan sulla qualità che facilmente si possono udire anche a livello aziendale, pubblicitario, psicologico e in altri contesti, in cui si tratterebbe di un benessere di facciata, cui non corrisponde, però, nessuna attività di ricerca e di impresa nella direzione della qualità, dove si tratterebbe anzi di accontentarsi di quella concezione termodinamica della vita per cui si tratta di fare qualcosa e poi, immediatamente dopo, riposarsi, fermarsi, ricaricarsi. Così, siamo fuori dalla parola, fuori dalla pulsione. In assenza della domanda, perché la questione della parola è anche la questione della domanda.
In che direzione ciascuno va? In una direzione ideale? Nella direzione di un non precisato traguardo, che per molti, poi, corrisponde alla tanto temuta morienza? È quello? Si va in quella direzione? No. La domanda va in direzione del compimento del progetto e del programma, ma occorre che il progetto e il programma s’instaurino, si precisino e si avviino e proseguano. Il proseguimento non è scontato, non è automatico, che vi sia proseguimento, vuol dire innanzitutto non accettare l’idea del cedimento.
Il cedimento. Può sembrare cosa difficile il cedimento, ma anche rimandare una cosa al giorno dopo, a un’ora dopo, rispetto all’occorrenza che la esige, è un cedimento. Rispetto all’esigenza di qualcosa che urge, pensare di non farcela, pensare di non essere all’altezza, pensare di non essere adeguati all’idea per cui il progetto sorge e comincia, è un cedimento. Pensare di dover fare ricorso a qualcosa che aiuti dall’esterno per avere la forza sufficiente per fare, è un cedimento. E non si tratta nemmeno di trascendere nell’euforia, perché anche l’euforia è un cedimento. Ma, è un cedimento ammesso dall’apparato sociale, perché avrebbe il suo rimedio. Come la disforia. E pure la nozione di depressione è un cedimento, è un cedimento ammesso dall’apparato, perché avrebbe il suo rimedio, rientra nell’economia del sistema.
Nella parola, questa economia del sistema non c’è, perché non c’è sistema. Vivere l’esperienza della parola è qualcosa di particolare. Difficile da capire, senza viverla, perché vuol dire non accettare il compromesso fantasmatico con se stessi e con le rappresentazioni che ognuno ha dell’Altro, delle cose, della facilità, delle difficoltà e quant’altro, e con la misurazione che ognuno fa di sé rispetto al possibile o al probabile. E non accettare le concessioni che ognuno si fa e fa anche a chi si trova accanto a sé.
Nella parola c’è la solitudine radicale, per cui nessuno può concedersi o concedere nulla. Chi può concedere qualcosa a qualcuno? Chi ha quest’idea crede di formare una sorta di coppia in cui c’è chi sta sopra e chi sta sotto. Chi ha potere e chi no. Queste alternative del sopra e del sotto, del dentro e del fuori, del positivo e del negativo, nell’infinito non hanno lo stesso valore, la stessa portata che nel sistema, e nella parola si tratta dell’infinito. E non c’è più la necessità di pensare che qualcosa finisca.
Che c’entra questo, direte voi, con l’amore e con l’odio? C’entra, perché, come notava nel suo intervento introduttivo Panthea Shafiei, la comune accezione di amore è regolata sulla sua fine.
“Ci ameremo sempre!”. È uno scongiuro. Cosa vuole dire “Ci ameremo sempre”? Sempre quanto? “Per sempre”. Cioè, fino alla morte? Ma chi morirà prima? E quando? E già l’idea della fine si è introdotta. E questa è un’idea che, ritenendo l’amore un sentimento, non può essere tolta. Un sentimento, uno stato dell’animo. Ma dell’animo di chi? Dell’animo umano. La caratteristica precipua dell’uomo è di avere una certezza, quella di morire. Allora, quanto più l’amore è introdotto in un ambito umano, tanto più sarà modulato e sostenuto da ciò che è ritenuto umano e, in prima istanza, dall’idea di fine.
Il gerundio della vita, il gerundio della ricerca, il gerundio dell’impresa, il gerundio della scrittura, il gerundio dell’amore, come potrebbe instaurarsi, con l’idea di fine? Proviamo a pensare al gerundio: amando, vivendo, facendo, parlando. Il gerundio non trae all’ipotesi di finire. Gli altri tempi e modi possono anche presumere che ci sia una fine, ma il gerundio – facendo, vivendo, parlando – è senza fine, senza fantasma di fine. L’amore originario e, accanto, l’odio originario si instaurano senza il fantasma di fine, che è fantasma di padronanza.
L’idea di fine, può sembrare una cosa terribile, orribile, negativa e può produrre contraccolpi non da poco: i cosiddetti attacchi di panico, altro non sono che un’accentuazione dell’idea di fine, della negazione di un’ipotesi di avvenire, una negazione del gerundio dell’amore e del gerundio dell’odio. Ma è l’idea di fine, che regge la credenza di poter padroneggiare le cose, proprio perché “tanto, a un certo punto, finiscono…”.
Senza l’idea di fine, come pensare di poter gestire e padroneggiare qualcosa che è nel proseguimento? È ben più arduo, più impegnativo, eppure tutto il miraggio della civiltà dal suo sorgere a oggi è improntato su questo: sulla padronanza, sulla possibilità di gestire, padroneggiare, possedere, controllare quel che accade. Potere prevederlo, potere calcolarlo, potere gestirlo per dire “Sì, sono io il padrone”. La parola esige che sia dissipato questo fantasma di padronanza che regola i rapporti sociali e che mantiene questa concezione dell’amore come sentimento tra Tizia e Caio, che dev’essere “per sempre” come promessa e talvolta come scommessa, ma ben sapendo che è vano promettere ciò che non è possibile sapere né prevedere come accadrà e in che termini.
Oggi l’amore è definito un sentimento. Ritengo che, tra breve, nella manualistica psicologica, sociologica e disciplinare di ogni tipo, diventerà un’emozione. Mentre il sentimento sarebbe uno stato dell’animo tra la coscienza, la capacità e la facoltà di sentire, l’emozione è considerata il prodotto di un impulso, di uno stimolo, di un’azione che viene dall’esterno e che suscita, come reazione, quell’emozione. Non so se qui ci sono insegnanti, medici, psicologi o quant’altro, ma sia nell’ambito della scuola sia in altri ambiti, l’importanza che oggi viene ascritta alle emozioni è in forte aumento. Per esempio, nel settore dell’impresa, nelle aziende, oggi è proposta come grande invenzione l’intelligenza emotiva, come forma di padronanza e di controllo delle emozioni, che sfocerebbe nel comportamento consapevole, in grado di consentire l’autoefficacia.
Di cosa si tratta? Sembra una bella cosa. Una nuova intelligenza, l’intelligenza emotiva. Ma quella che sembra una novità, altro non è che la riedizione del vecchio organicismo millenario, per cui ogni cosa deve avere la sua sede in un organo. Questa intelligenza emotiva, con tutte le sue emozioni che oggi vengono ascritte e localizzate nell’encefalo, altro non è che la riedizione della medicina aristotelica greca e di quella cinese, in cui in ogni organo c’è la sede di un’emozione, con i suoi umori. Una concezione umorale.
Oggi, buona parte di ciò che passa come neuroscienze ha come programma l’innalzamento dell’importanza dell’emotività, con la relativa abolizione dell’importanza del ragionamento. Si tratta di emozioni! Tutto si basa sulle emozioni! “Che colpa ne ho io se faccio così, se mi comporto così! È per l’emozione!”. Ognuno ha le sue emozioni. Incontrollabili. Lo schema è questo: c’è uno stimolo e una risposta; il tutto è mediato dalla chimica. Che bello! Questa à la novità scientifica. Occorre ragionare bene, quando si sente proporre questa “novità della scienza”, perché non si tratta di scienza, si tratta di ideologia. È quell’ideologia che propone la padronanza, il controllo, la gestione di sé e dell’Altro, affidata alla sostanza.
“Mettete pure il cervello in cantina, perché basta l’encefalo, con la sua chimica”.
Quante volte avrete sentito dire che anche nell’amore, in fin dei conti, si tratta di chimica: la chimica della personalità; nella sessualità, si tratta della chimica: la chimica dei corpi. Chimica ormonale, chimica dei mediatori, chimica della sostanza. E questo si chiama animalità, l’amore animale. Questa è la chance della civiltà che si annuncia con le neuroscienze. L’apoteosi delle emozioni, l’amore emotivo, ossia azione e reazione, meglio se chimica, botta e risposta. Non c’entra il calcolo, il progetto, la comunicazione, il dispositivo che occorre s’instauri in vista del progetto dell’avvenire. No, si tratta della chimica, si tratta del sentimento chimico, si tratta dell’emozione chimica. E questo comporta sempre che ci siano due persone, due entità, due modi, il positivo e il negativo e la durata. L’amore comincia, quanto potrà durare? È già finito. L’amore che è sottoposto all’idea di durata è già finito, perché l’idea di durata è idea di fine: così è pensato il tempo.
Il tempo non è pensabile, non è immaginabile se non con questo escamotage della durata: la durata è la rappresentazione della fine. “Quanto dura?” vuole dire “quando finisce?”. E della cosa si potrebbe anche parlare a lungo, e potrebbe anche fare ridere, se questa fantasmatica non comportasse una quantità rilevante di limitazioni. Per esempio, l’insonnia, l’attacco di panico, l’astensionismo dal fare, l’abbandono scolastico, l’abbandono degli studi, il fermarsi proprio un esame prima della laurea… eccetera. Non sono cose genetiche. Oggi si dice: “Tutto è scritto nel codice genetico”. Ma quale codice genetico! Per quanto si possano mappare i cromosomi, i geni, i trasmettitori, le particelle, è inimmaginabile la loro combinatoria e quella delle cose che si dicono, che si fanno e accadono, è incalcolabile, non ripetibile.
Nulla può essere previsto, nel momento in cui sorge una combinatoria di parole, di progetti, di istanze che sono imprevedibili. Può suscitare sgomento l’idea che, allora siamo veramente esposti all’imprevedibile, nel mare aperto. Ma, è una chance, a condizione di avere la bussola, di non essere senza la bussola. La bussola della vita, come riprende il titolo del numero appena stampato di questa bellissima rivista “La città del secondo rinascimento” che viene edita a Bologna, dall’Associazione Progetto Emilia-Romagna, in collaborazione con Spirali, veramente interessante e che consiglio a ciascuno di leggere.
Non c’è da avere paura, la paura è solamente a partire da qualcosa che si presume di sapere e che risulta preso in un’anfibologia, cioè in una doppia possibilità: la possibilità positiva e la possibilità negativa. Allora, la possibilità negativa è temuta. Così, quando qualcuno pensa di “avere l’amore”, vivrà nell’angoscia di perderlo. E quando pensa di “possedere” l’amata o l’amato, avrà giorno per giorno il rovello della perdita dell’amato bene. Questo è fantasma di padronanza, fantasma di possesso, fantasma di controllo. Tutto ciò è sentimentale. Il vero sentimento è la paura.
La paura è il vero sentimento per gli umani.
Se invece parliamo dall’istanza di soddisfazione, cioè dell’esigenza costitutiva della pulsione che è l’istanza di soddisfazione, l’amore è questa istanza, quanto alla ricerca e alla scrittura della ricerca. Quindi, nella formulazione di un progetto è impossibile che non ci sia l’amore, altrimenti il progetto stesso non si formula. Amore che è istanza di soddisfazione e che esige che questa istanza si scriva. E anche l’amore si scrive, nel proseguimento, nella ricerca. Freud aveva formulato la proposta dell’amore da transfert. Chi ha letto qualcosa di Freud avrà trovato questa formula “amore da transfert”. Anche Freud, in qualche modo, scriveva in etrusco, per la sua epoca, e non veniva letto, non veniva capito, perché chi lo leggeva, convertiva immediatamente quello che trovava scritto nella cosa più vicina a sé. E anche oggi, avviene così. Quando un testo è difficile, si fa un adeguamento. È sempre stato così. Gli amanuensi, quando si trovavano a copiare gli scritti di qualche filosofo, poeta o scrittore, e trovavano una formulazione che non era proprio in linea con il codice, con l’ideologia, con il canone del convento o della scuola in cui si svolgeva la copiatura, correggevano nella formula più facile da capire. Chissà quante cose interessanti sono state perdute attraverso questo processo che pure ha consentito di leggere molte opere dell’antichità.
E ancora oggi, avviene così. La formula “amore da transfert” che Freud ha coniato più di cento anni fa è stata intesa come l’amore che chi si trova nell’esperienza analitica riserva, prova, riversa sull’analista. Cioè, è stata tradotta in erotismo. L’amore da transfert sarebbe la relazione tra lo psicanalista e chi fa l’analisi: una rappresentazione della coppietta. Un modo di riprodurre la coppia papà e mamma, marito e moglie, medico e paziente, maestro e allievo, che diventa psicanalista e analizzante. E cosa li lega? L’amore da transfert. Beh! Avvilente, se non capissimo che questa è la via facile per rappresentare il legame sociale, la relazione sociale. Avete idea di che cos’è una relazione sociale? Allora, dovete aprire il giornale e andare alla ricerca della rubrica “relazioni sociali”. La trovate su tutti i giornali. Quali sono? Andate a vedere quali sono le relazioni sociali, che ogni giornale vi presenta e di cui vi dà ragguaglio. Sono le relazioni presunte, sostenute dal segreto di mamma. Il segreto della sessualità come segreto di mamma, da chi è detenuto oggi, come allora? Nelle fantasia degli umani è detenuto dalle prostitute. Nella rubrica delle relazioni sociali, questo trovate. L’elenco di chi detiene il segreto di mamma delle relazioni sociali.
L’amore da transfert nulla ha a che vedere con la relazione sociale. È l’amore che si situa nella parola. E la prima struttura, parlando, è quella della metafora. Provando a descrivere una cosa, una persona, qualcosa che vi interessa, che entra nella qualificazione, la prima struttura è metaforica. È la formula del “come se”. Parlando freudianamente, la rappresentazione di cosa non si sovrappone a quella di parola, per cui c’è uno scarto, lo scarto del “come se” e in questo scarto sta l’amore strutturale, l’amore della ricerca, l’amore che non si chiude mai, che non finisce mai, l’amore da transfert. È questo l’amore costitutivo, l’amore della ricerca. E anche in quella che può sembrare transitività tra uomo e donna, donna e donna, uomo e uomo, in ciò che si annuncia transitivamente, si tratta dell’amore che si trova nella struttura della parola, perché senza parola non c’è amore. Al massimo potete trovare qualche elemento erotico, l’erotismo.
In italiano la parola amare indica ciò che i latini traducevano con diligere, che indica la scelta, indica l’elezione, indica il processo per cui qualcosa esige di venire valorizzato. Qui sta l’amore. ҅Erᾶw, in greco, indica l’erotismo, eros indica l’erotismo, l’amore è un’altra cosa, eppure, nel luogo comune, nella mentalità, nella facile traduzione, gli umani si rappresentano l’erotismo come meta, e ogni erotismo è buono per un cedimento, e trascurano l’amore, che è l’istanza di soddisfazione.
Qual è la differenza tra l’amore e l’erotismo? Che l’amore è senza fine, l’erotismo esige di finire. È pensato dare soddisfazione finendo: questo è l’erotismo! L’atto erotico ha importanza per la sua fine. Lì viene situato il piacere presunto, conosciuto che deve ripetersi in ogni atto, per l’appunto erotico. L’amore, invece, è irrappresentabile, è istanza: istanza di soddisfazione della ricerca.
Accanto all’amore, ma nell’intervallo, sta l’odio. Accanto, non in antitesi. La vulgata che cosa fa? La vulgata, che come ogni vulgata è bifida, cioè, presenta le cose con un corno positivo e un corno negativo, un’ipotesi positiva e un’ipotesi negativa, mette l’amore da una parte e come sua rappresentazione antitetica, pone l’odio. Li converte in sentimento amoroso e sentimento odioso. Ma, questo non è l’odio. Si può chiamare rancore, rivendicazione, vendetta, ma non è l’odio.
L’odio non è il contrario dell’amore, non è la sua antitesi. Anche l’odio è istanza di soddisfazione, ma in un altro registro, ossia nel registro pragmatico, non più nella ricerca, ma nel fare. L’odio è quell’istanza che impedisce il rimando, impedisce di procrastinare le cose, impedisce di cedere, impedisce l’invischiamento. Diceva prima Panthea Safiei, che la proprietà dell’odio è il lasciare, e senza invischiamento, senza adesività. Impossibile mantenere la presa sull’odio, perché l’istanza di soddisfazione è pragmatica.
L’etimo di odio è incerto ma c’è un termine greco wqὲw, che lo richiama e indica l’incalzare. Le cose incalzano. Questo incalzare delle cose verso la conclusione è l’odio, come proprietà del tempo. Non proprietà di qualcuno di odiare un altro, questa è psicologia e la lasciamo alle discipline zoologiche, cioè umane. No, l’odio non è attributo umano, non è una proprietà animale, è una proprietà del tempo. L’odio, nel dispositivo della parola, è ciò che impedisce il rimando, l’accantonamento, il cedimento, perché è instaurato dall’occorrenza.
Cosa accade, per esempio, quando l’odio è assunto come attributo umano? Se quest’estate, in spiaggia o anche in città, provate a osservare le gambe e le braccia di ragazze e ragazzi, in alcuni casi, sono sempre più numerosi, potrete vedere delle cicatrici. Queste cicatrici, sono il segno dell’assunzione dell’odio: l’assunzione dell’odio comporta l’autolesionismo, tagliandosi. È l’idea di poter tagliare il tempo, di contenere l’istanza di soddisfazione pragmatica. Per fronteggiarla è attuato questo espediente: tagliarsi, tagliare la pelle, tagliare la carne, tagliare il corpo, tagliare il taglio, tagliare per espellere l’odio. È l’idea che agisce.
Come per i cosiddetti disturbi alimentari, l’autolesionismo è modo del cannibalismo, il cannibalismo bianco che assume l’amore, che assume l’odio come rappresentazione delle relazioni umane. Ma, la relazione non è umana, la relazione sta nella parola e si tratta di correre il rischio della parola, per quanto d’imprevisto, imprevedibile e non assumibile comporta.
Pubblico Emozioni e sentimenti, ideologia della padronanza. Cartone animato intitolato Inside Out. Ci propinano un’ideologia e dobbiamo essere conformi ai parametri di questa ideologia. Idea di gestione dei problemi.
R.C. È il rischio di non mettersi a seguire i programmi televisivi. Se ci mettiamo “davanti alla televisione” ci sentiremo belli tranquilli, perché sentiremo i nostri pensieri ribaditi, riprodotti, perché quello è il compito della televisione, così come dei social media, o social network: poter ribadire il luogo comune, con buona pace di tutti. E se avete fatto caso, se qualcuno si azzarda in un talkshow a esprimere un elemento di dissidenza, viene subito zittito, con la giustificazione che i telespettatori non capirebbero: è troppo difficile. I telespettatori sono ritenuti tutti imbecilli.
Questo è il compito del sapere distribuito, un compito che è stato assunto dall’apparato del consenso e che, come tale, deve poter contare su una base sempre più estesa, per mantenersi e per giustificarsi, ma purtroppo, è stato imitato anche da altri apparati, come la scuola, l’università, la politica.
A scuola, se un bambino, un ragazzo mostra qualche elemento di dissidenza viene mandato dallo psicologo, perché disturba. E allora sorgono le etichettature: disturbo dell’apprendimento, disturbo dell’attenzione, disturbo da iperattività, disturbi dell’età evolutiva… C’è chi si occupa di capire qual è la domanda che sta in questo apparente disturbo della quiete, perché, evidentemente, il bambino chiede qualcosa in una lingua che non è la lingua facile, perché quello che chiede, non lo sa. C’è un disagio che esige si precisi qual è l’istanza, ma non è che il disagio si possa descrivere e raccontare nella lingua comune. Né nella lingua della coscienza. La questione è inconscia.
Ciò che ancora non è passato culturalmente è la questione dell’inconscio, che non è un contenitore di misteri e di segreti, delle pulsioni abnormi, delle cose spregevoli, come molti credono. L’inconscio è logica, è la logica delle cose e della parola. Logica che non si converte nel sapere comune, non si converte mai in una psicologia, perché è logica particolare.
Ogni disciplina mira a cogliere la media delle cose, il comportamento medio, le esigenze medie, la domanda media, il disagio medio. La media, in modo da poter fare un’etichettatura media. Ciascuno, invece, ha un’istanza particolare e non può trovare soddisfazione nell’inserimento in una media. La domanda è domanda particolare, è domanda di qualità, è domanda di soddisfazione, ma il soddisfacimento non è standard.
La questione culturale, intellettuale è questa, ma è lontana dall’orientamento dell’epoca, perché è antieconomica. Così, per la salute, ciascuno deve trovare la soddisfazione di queste istanze, perché la salute è proprio questo, mentre oggi si parla di sanità pubblica, di salute pubblica, cioè della media; la media dei morti, la media dei casi, la media, lo standard.
La parola è fuori standard, è senza standard, perché punta alla qualificazione di ciascuna cosa. Questa è la scommessa per cui comincia e prosegue un’esperienza di analisi, e in ciascun appuntamento si tratta di questa scommessa. Ciascuna volta, non sempre. Ciascuna volta, nel gerundio, senza idea di fine. Sembra che la dissipazione dell’idea di fine sia molto temuta oggi, perché spalanca un altro panorama.
Anziché vivere nella paura, è molto più interessante vivere senza paura, cioè vivere. La paura non è necessaria, però, considerandosi mortali, è chiaro che la paura interviene. Occorre osare non tanto di meritarsi l’immortalità, che è sempre un modo di ricordarsi la fine e la finibilità, ma osare nel gerundio, osare di vivere nel gerundio, seguendo l’istanza di soddisfazione sia per quanto attiene l’amore sia per quanto attiene l’odio.
Non è una questione di volontà, ma di scommessa.
Pubblico Lei sta dicendo che non bisogna aver paura per poter vivere?
R.C. Sì.
Pubblico Però, la paura, a volte, ci può rendere un attimino più responsabili. Rispetto a alcune situazioni, non sempre la paura può essere una cosa negativa. Nel senso di portarmi a riflettere. Se ti blocca totalmente, allora non riesci a vivere, ma a volte stimola la riflessione e ti può far valutare con più calma la situazione attorno a te. La paura ti può far vedere i rischi.
R.C. Quando interviene la ragione e il diritto dell’Altro. Perché accada quello che lei dice, che è molto interessante, occorre non trovarsi nel sistema binario, cioè nell’alternativa. Nell’amore e nell’odio intesi come alternativa, nel positivo e nel negativo intesi come alternativa, nel bene e nel male intesi come alternativa, nella possibilità e nell’impossibilità intesi come alternativa, nell’ipotesi di potere scegliere se fare o non fare. Dissipata l’eventualità dell’alternativa, dissipato il sistema binario, può intervenire la valutazione. Allora, non ci sarà paura, perché la valutazione è senza paura, proprio perché non ha la biforcazione, questa sorta di condanna a scegliere tra due ipotesi, tra due possibilità, una delle quali è sicuramente negativa ed esclude l’altra; e questo è terrorizzante. Se è dissipato il sistema binario, può accadere quello che dice lei, si tratta di valutare, di verificare, di costituire delle ipotesi e grazie alla prudenza, alla provvidenza, che non è divina ma è della parola, procedere. Questo è un bel passo: la dissipazione del sistema binario, introducendo il diritto e la ragione dell’Altro, cioè il tre. Così, non c’è più la scelta binaria, ma la logica del tre.
Non c’è alternativa con il tre, c’è molteplicità, c’è varietà, c’è differenza.
Pubblico Quanto il nostro patrimonio genetico, cromosomico influisce sulla gestione delle emozioni? C’è un’influenza?
R.C. Posta così la domanda… Quanto influisce? Sembra la questione del “Quanto mi ami?”.
Se c’è influenza… Per lei cosa cambia?
Pubblico Quando si parla, parlo della famiglia, quando guardo i miei figli, come gestiscono le emozioni in determinate situazioni, mi chiedo “C’è l’influenza?”.
R.C. Certamente, c’è influenza. Perché pone l’influenza sotto la giurisdizione del codice genetico? Non le pare che l’influenza del tre e l’influenza del tempo, cioè del modo in cui le cose accadono possa già costituire qualcosa di importante? Perché attribuire al codice genetico questa influenza? Influenza è un termine molto specifico.
Ha mai sentito parlare di mimetismo? E non si è mai chiesta in che modo può intervenire il mimetismo nel modo in cui i suoi figli affrontano qualcosa o testimoniano, a loro modo, di essere influenzati da qualcosa?
Pubblico Non ho mai avuto risposte.
R.C. Da chi dovrebbe averle? Da loro?
Pubblico No.
R.C. Il mimetismo non è volontario, né cosciente e tuttavia può intervenire come modo di situarsi in ciò che è rappresentato come famiglia. Se la famiglia è rappresentata come luogo dell’origine, con determinate caratteristiche, ognuno tende a situarsi in questo luogo, preferendo alcuni aspetti ad altri. E questo non avviene secondo il codice genetico, ma secondo un fantasma di appartenenza e di genealogia.
Questa è la questione famiglia che si tratta di affrontare in maniera radicale, perché si tratta di capire dove per ciascuno stanno le radici. Quali radici? Se le radici si rappresentano come origine e configurano la circolarità con il destino, allora sorge un guaio, perché il destino è vincolato alla rappresentazione dell’origine. E ci sarà chi si rappresenterà come vittima dell’origine e dimostrerà questo vittimismo con l’andamento della vita, fino a raggiungere il destino conforme a questa origine che viene rappresentata.
Bisogna leggere le fiabe per capire come incide l’idea di origine, da Hansel e Gretel, a Rosaspina, al Gatto con gli stivali, le fiabe più comuni. Sono per lo più fiabe dell’origine. Se ognuno vive nella fiaba dell’origine, è un vero guaio. Avete presente Il brutto anatroccolo? Vive nello stagno dove tutti ce l’hanno con lui, dove lo pigliano a sassate, a mazzate… nello stagno. Quello è il suo mondo, perché l’origine è quella, è nato da una covata di anatre e quella è la sua origine. È il brutto anatroccolo e vive in conformità allo stagno con tutte le negatività dello stagno e si fa vittima dello stagno. Poi, improvvisamente, non è più anatroccolo, è cigno. Ohibò! La fiaba dell’origine trova una dissipazione. Ma, non è mai stato anatroccolo! Non è mai stato brutto! Lo stagno non era così! Era un’idea, una rappresentazione.
C’è chi dice di essere nato disgraziato, da una famiglia disgraziata, da un padre rappresentato in un certo modo, da una madre rappresentata come matrigna, in uno schifo, e tutto è brutto e tutto è nero e tutto è negativo. Questa è la rappresentazione della negatività dell’origine che diventa negatività del destino. Se non interviene l’analisi, questa negatività rimane a gravare su tutta la cosiddetta vita, che vita, però, non diventa mai. E allora, un conto è la famiglia e un conto è l’idea di origine. Questo, però, meriterebbe un’altra conferenza per le implicazioni che la famiglia ha rispetto al progetto e al programma di ciascuno, cosa non affatto trascurabile.