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Quinto capitolo del libro La lampada di Aladino

I giovani e la conoscenza

 Ruggero Chinaglia C’è chi ha da formulare domande in merito alle cose udite o in merito a quelle da udire? Proposte, suggerimenti, notazioni?

Giacomo Conti Lei, la volta scorsa, diede una risposta al mio intervento e, in breve, disse questo: “Chi è che decide quando uno ha bisogno? Chi è che può valutare questo? Come fai a essere sicuro che un tuo simile, quello al quale tu dedichi il sentimento, abbia bisogno dell’affetto, dell’amore? Chi è che può indovinarlo?”. Lei finì con questa domanda e la cosa mi ha lasciato silenzioso. Avrei voluto interromperla per dire: “Lo so, però bisogna anche provarci, bisogna andare anche vicino”. Probabilmente si ricollega a quello che può essere sviluppato questa sera con la conoscenza. Non lo so. Io aspetterei la fine della serata per chiederle o aspettare da lei un prosieguo di questa problematica.

R.C. Lei chiede chi decide del bisogno di aiuto? Bene, siamo proprio nella questione di questa sera, in effetti.

Cecilia Maurantonio Mi chiedevo, sempre in seguito al primo incontro, a proposito del non dell’essere e del non dell’avere, impossibili da realizzare, se questo non, come impossibile dell’avere e dell’essere, non indichi già che non c’è un aiuto che possa essere dato.

R.C. Lei vuole dare la risposta?

C.M. C’è questa questione che per me si presenta: in che modo intervenire quando ci sono delle necessità. Pensavo che qualcosa procede sempre dalla parola, che non è né il non avere né l’avere, ma questo non che diviene qualcosa, che a un certo punto interviene.

R.C. Non ho sentito finora molte questioni relative alla lampada di Aladino. Ma c’è chi ha letto il testo? Nessuno. Ah, ecco, lei l’ha letto. Ce n’è almeno uno. Quindi, è chiaro che stiamo facendo la lettura di questo testo, è chiarissimo.

C.M. Non ho ancora inteso come si situi la principessa in questo testo. A me è apparsa più come un pretesto per il personaggio di Aladino, per svolgere la questione di come diventare figlio del sultano.

R.C. Dice che Aladino vuole diventare il figlio del sultano?

C.M. È evidente che è impossibile occupare il posto del sultano.

R.C. Va bene. Quindi lei s’interessa alla principessa.

C.M. Sì, perché se non ci fosse la principessa…

R.C. C’è un libro edito da Spirali Ma chi è questa bella principessa, che si può leggere. È un libro “all’indice”, ma si può leggere. Allora, mentre lei si chiede chi è la principessa, io mi chiedevo chi sono i giovani. Chi sono i giovani di cui tanto si parla e ai quali sono dedicate tante cose, tante raccomandazioni, elogi, improperi?

Pubblico Quelli del Grande fratello.

R.C. Quelli del Grande fratello sono i giovani? È un’ipotesi. In effetti, al Grande fratello ogni quotidiano dedica almeno una pagina, con tante notizie e precisazioni. Ma perché quelli sarebbero rappresentativi dei giovani?

Pubblico Lo spartiacque.

R.C. Cosa fanno per meritarsi questa qualifica? Che cosa li caratterizzerebbe come giovani?

Mauro Rampin Basta guardare il Grande fratello per rendersene conto.

R.C. Ah ecco, lei che lo guarda, ci dica qualcosa.

M.R. Io non lo guardo.

R.C. Non lo guarda!

M.R. Non riesco a guardarlo più di tanto.

R.C. Quindi, almeno un po’ lo guarda.

M.R. Un po’ sì.

R.C. Sulla base di quel poco, che cosa ne dice? Perché quelli sarebbero i giovani?

M.R. Perché vedo che molti giovani ci tengono a questo tipo di programma, ambiscono a farne parte, fanno i salti mortali pur di conquistare uno spazio nella trasmissione.

R.C. Sì, quindi ci sono tante persone che ambiscono a questo. Ma perché questo li renderebbe e li qualificherebbe come giovani? Perché lei dice che questo sarebbe il paradigma dei giovani?

M.R. Potrebbe diventarlo, questo è il rischio.

R.C. Questo è il rischio. Quindi, lei non è d’accordo con questa formulazione.

M.R. No. Però, non dovrebbe accadere.

R.C. Secondo quale criterio?

M.R. Perché basta guardare il programma per rendersi conto della bruttura che c’è dentro e, nonostante questo, continua a essere proposto.

R.C. Ma no, proprio per questo!

M.R. Purtroppo, è un programma di successo.

R.C. E questo va benissimo per l’epoca. Quello che non capisco è perché lei accosta il Grande fratello ai giovani.

M.R. Perché mi sembra che i giovani di oggi, rispetto alle generazioni precedenti, siano un po’ meno giovani.

R.C. Quindi, non sono giovani. Sono giovani o non sono giovani?

M.R. Mi sembra che non siano all’altezza dei giovani delle generazioni precedenti dal punto di vista della qualità, solo questo. Volendo fare una valutazione, la produzione di programmi come questi rappresenta degli scontri.

R.C. Quelli non sono giovani, sono i fratelli. Lo dice il titolo stesso della trasmissione, dedicata ai fratelli di cui individuare il capostipite, il numero uno, il “Grande fratello”.

M.R. Nessuno sembra guardarlo; poi, in realtà, il programma è stravisto.

R.C. Sarebbe interessante capire chi lo segue e se chi lo segue possa effettivamente qualificarsi come giovane.

M.R. È seguitissimo dai giovani, il pubblico che lo guarda è un pubblico giovanile.

R.C. Ecco, è giovanile, ma quel che è giovanile indica effettivamente i giovani? I giovani sono giovanili? Chi è giovane, chi sono i giovani?

Pubblico Secondo me, giovane è chi non cede agli idoli, presi in senso lato. I ragazzi, non li chiamo giovani, del Grande fratello e chi li segue, cedono agli idoli di linguaggio, di comportamento, anche di affetto, credo. Io penso di non averlo mai visto o per qualche secondo.

R.C. Per partito preso?

Pubblico Non per partito preso. Sapendo un po’ di che cosa si trattava.

R.C. Ah ecco, sapendo un po’!

Pubblico Ho verificato per qualche secondo, qualche minuto, forse. Però, poi i miei meccanismi di autoprotezione si sono attivati e allora ho cambiato canale o spento il televisore.

R.C. Ah, lei ha dei meccanismi di autoprotezione. E anche di autodistruzione?

Pubblico Sì.

R.C. E come fa a individuare gli uni dagli altri?

Pubblico Le rispondo giovedì prossimo.

R.C. Prende tempo!

Pubblico Forse dalla tensione nervosa.

R.C. Quindi dal fastidio.

Pubblico Prima si diceva, questi giovani, sono giovani o sono vecchi?

R.C. Questo è l’auspicio. Infatti, la questione non è anagrafica.

Pubblico Dovrebbe riguardare l’iniziativa che ha una persona. Riguarda lo spirito, per me.

R.C. Sì. Quindi, non già l’età anagrafica, ma lo spirito. Questo già sposta parecchio la questione. La mia proposta è che giovani sono coloro che combattono. Che combattono ciascun giorno la battaglia intellettuale, senza riferirsi al passato, senza riferirsi al sistema, senza riferirsi alle consuetudini, alle abitudini, al già visto, al già saputo. I giovani sono coloro che non possono fare a meno della curiosità, perché non ne sanno mai abbastanza. Giovani sono coloro che non credono agli idoli, certamente, non credono alla sostanza, non credono al fondamento di ciò che, poi, diventa abitudine, consuetudine, credenza, sostanza. Quindi, i giovani, senza riferimenti all’età anagrafica, sono coloro che vivono all’orlo della vita, cioè dove le cose sono estreme, dove la parola è estrema, senza mediazione. I giovani sono coloro che mai giungono a dire “Noi sappiamo”.

“Noi sappiamo che” è la formula più diffusamente usata per alludere a una presunta verità già acquisita, già stabilita, una verità fondamentale e indiscutibile su cui tutti dovremmo essere d’accordo. “Noi sappiamo”, una sorta di captatio benevolentiae per istituire un sistema di riferimento cui appellarsi, un sistema da rispettare, anche per istituire, fra chi sta attorno, una complicità di appartenenza. “Noi sappiamo”. Noi. Noi che sappiamo, siamo noi. Noi e gli altri. Un modo d’istituire la cerchia, di fare cerchio, un modo d’introdurre la genealogia come genealogia del sapere. Noi che sappiamo, noi che siamo d’accordo su questo, apparteniamo allo stesso sapere, apparteniamo alla stessa genealogia e dobbiamo partecipare della stessa armonia sociale.

Questo è il messaggio, non tanto subliminale, che questa formula propugna. Spesso, il fondamento di questo “noi sappiamo” è una superstizione, una consuetudine, una fantasia, un fraintendimento, un dato in realtà né verificato né attendibile, su cui tuttavia sorgono presunte verità epocali. “Noi sappiamo”. Questa formula avoca al “noi” la garanzia di una verità condivisa, riconosciuta, che consente di potere affermare come verità la propria opinione, la propria credenza, però proposta come verità.

Dal “noi sappiamo che”, poi si passa, per esempio, a “la psicanalisi afferma che”, “la scienza afferma che”, “la medicina afferma che”. Ogni fesseria diviene sentenza, diviene verità: “Noi, inquisitori della Germania…”! Nel 1400 gli inquisitori si chiedevano, formulandola per iscritto nel loro manuale, Il martello delle streghe, se fosse cattolico dire, pensare qualcosa che contraddicesse le formule aristoteliche dei Dottori della Chiesa. Oggi, come ieri, viene posta la domanda se sia scientifico dire o pensare qualcosa che contraddica il breviario della così detta comunità scientifica, che cioè non sia incluso nel protocollo accreditato dai maggiori istituti di ricerca e dalle relative pubblicazioni. Il protocollo è l’applicazione del risultato statisticamente più conseguito, ma difficilmente tiene conto della differenza che contrassegna ciascun caso. Viene da chiedersi se interpellare il protocollo non sia una forma di delega, se affidarsi al protocollo non sia una forma di rassegnazione. Ogni protocollo incomincia, fatte le debite varianti con “Noi sappiamo che”. Per esempio, in medicina, “noi sappiamo che la sopravvivenza a una determinata malattia, la mortalità, la recidiva, la durata, la guarigione o quant’altro, si verificano in certi termini in una data percentuale di casi”, e su questa percentuale viene posta la scelta per una data terapia. Queste sono le basi delle cure dell’istituzione sanitaria che, essendo istituzione pubblica, ritiene di dovere basarsi sul probabile, sulla probabilità, secondo la statistica, quindi fatta salva la media dei casi. Quando diciamo “Noi sappiamo che”, ci appelliamo a questo criterio, a questa modalità della prevalenza del generale sul particolare, del generale su ciascun caso, che quindi non esiste più a favore della media generale dei casi.

Ma se questo è il criterio del pubblico, qual è il criterio del privato? C’è un criterio del privato? Su cosa si basa la disputa fra pubblico e privato? Dovrebbe vertere sul criterio in base al quale viene deciso il dispositivo da attuare caso per caso. Allora, di cosa si tratta nel pubblico? Secondo Giulio Giorello, si tratta della conoscenza, ossia del sapere pubblico e controllabile, cioè verificabile e falsificabile, quindi del sapere epistemologico, la conoscenza il cui posto è nel seno stesso della società democratica. Così dice Giulio Giorello in un quotidiano, oggi. Questa è la filosofia della scienza attuale: la conoscenza è strettamente connessa alla società democratica.

Dunque, la conoscenza è democratica, è conoscenza popolare, anzi, è direttamente connessa al potere del popolo, alla democrazia, cioè il pubblico è in realtà impopolare. È pubblico ciò che è popolare, ciò che pertiene al popolo, ciò che è del popolo. È curiosa questa faccenda. Il problema del pubblico, nella sua accezione di conoscenza e di scienza, è che deve rispondere alla caratteristica che non c’è niente di attendibile se non è dimostrato e valutato collettivamente. Collettivamente! Il perché è abbastanza chiaro quanto al pubblico. E allora il privato? Che cos’è il privato?

Per lo più, questa distinzione tra pubblico e privato riguarderebbe il business, il privato sarebbe il business personale di qualcuno che avrebbe un tornaconto particolare rispetto al servizio pubblico. Ma, in questo modo, il privato sarebbe l’altra faccia del pubblico, cioè dove pubblico e privato diventerebbero i sinonimi di gratuito e di a pagamento. Pubblico ciò che è gratuito, privato ciò che si paga. Ma è una mera idiozia ridurre a questo la questione del pubblico e del privato. È chiaro che, in questa accezione, pubblico e privato seguono la stessa logica e non giungono a qualcosa che effettivamente li distingua.

La questione è che l’istanza del privato è l’istanza della cifra, cioè del caso di cifra, dell’unicum che giunge alla qualità. Questa è la questione del privato, cioè di qualcosa che non ha la sua attendibilità dalla dimostrazione e dalla valutazione collettiva, ma che trova la sua validità dall’efficacia del caso unico. La questione del privato è la questione dell’istanza della salute come istanza di qualità. Le cose procedono dal due e si rivolgono alla cifra secondo la loro particolarità. Questo è l’assioma del privato, del privato come caso di cifra.

In questa accezione, pubblico e privato non sono più antitetici, ma esigono l’integrazione a condizione d’intendere il pubblico non già come il popolo, ma come l’infinita varietà e differenza delle cose, in cui ciascun caso è il caso del privato, il caso di cifra, il caso della qualità. Ora, se la formula di Giulio Giorello indica la sua appartenenza al discorso occidentale e al discorso della logica binaria, il caso del privato segue la logica singolare triale senza cui non c’è cifra, quindi segue la logica della parola.

Il privato, secondo questa logica, giunge a qualificarsi come servizio intellettuale. Solo così si dirige verso il suo destino, che è il miracolo. Il miracolo. Solo con il servizio intellettuale può avvenire il miracolo, ossia il caso può giungere all’evento straordinario, imprevedibile, imprevisto, unico, non codificato, non standardizzato, non protocollare. La clinica della parola giunge al caso unico e alla sua cifra proprio perché, con umiltà e generosità, non si affida alla conoscenza della casistica, ma esplora i termini del caso in questione senza riferimento a un sistema già dato.

Nella clinica, per la clinica, noi non sappiamo. Noi non sappiamo, non sappiamo già, abbiamo da indagare, da capire, da intendere, da ascoltare, da elaborare, perché se noi sappiamo, se noi partiamo dal presupposto che sappiamo, sappiamo già, noi siamo in un sistema, abbiamo già istituito un sistema dove è già chiaro il destino nefando, secondo il destino del sistema che, come ogni sistema, è quello di estinguersi, di saturarsi, di finire. Quindi, se noi sappiamo, sappiamo già la fine, sappiamo che finirà e ci adeguiamo a questa fine necessaria. Se noi sappiamo, ci troviamo a condividere l’idea di fine, a condividere il sapere sulla fine. Ogni sapere condivisibile o condiviso è il sapere sulla fine, è il ricordo della fine come ricordo del passato, del negativo, come ricordo di una morale che prescrive la fine. È un ricordo. Ogni sapere condiviso è il ricordo della fine.

Quel che giova invece al servizio intellettuale è non già il riferimento al passato, al sapere condiviso, alla fine certa, ma l’integrazione, nell’attuale, di ciascun dato che la ricerca fornisce. Qui sta una difficoltà, chiaramente, perché per lo più noi sappiamo, facciamo come se noi sapessimo, come se i dati fossero scontati, significassero, come se ogni dato significasse la stessa cosa, e non c’è nemmeno la raccolta dei dati, tanto noi sappiamo. Noi sappiamo per analogia, per consuetudine, per abitudine. “Noi sappiamo”.

Un’altra constatazione frequente nella mia esperienza è che, in relazione a qualche guaio di questa o quella natura, gli umani si chiedono “Perché, perché proprio a me?”, e fanno di quel guaio il segno di una predestinazione negativa, di una malevolenza superiore o della sfortuna. “Perché, perché fra tanti, fra tutti, perché proprio a me?”. Chiedendosi questo, per lo più incontrano la rassegnazione o la rivendicazione o la delega a qualche entità che dovrebbe rimettere le cose a posto; non sempre un’entità metafisica, può essere un medico, un avvocato, un professionista a cui viene fatta la delega di mettere le cose a posto, dato che ci sarebbe stata una predestinazione negativa, una sfortuna che anziché rivolgersi a tanti altri che stanno lì attorno, è accaduta proprio a me. “Perché proprio a me?”.

Eppure, la domanda è chiara e semplice. È accaduto proprio a me, non a altri. Non poteva accadere a altri che a me! Questo che è accaduto proprio a me, è una proprietà del mio viaggio. Quindi, che viaggio sto facendo se mi accadono questi guai? Che tipo di viaggio sto facendo dato che questo è accaduto proprio a me nel mio viaggio? Questa è la questione, dunque.

È una bella domanda “Perché proprio a me?”, solo che è raro che questa bella domanda giunga a avviare la ricerca, a avviare l’indagine, a promuovere una ricognizione intorno al viaggio, alla qualità del viaggio, ai modi del viaggio, addirittura a chiedersi se ci sia viaggio in atto. Raramente questa bellissima domanda promuove il servizio intellettuale, la ricerca intellettuale, l’indagine, l’analisi, la clinica intorno al “Perché proprio a me?”, dove non si tratta di me come soggetto, ma si tratta del dispositivo o, meglio, trattandosi di un guaio, di un apparato in atto che riguarda il modo di pensare, di vivere, di fare o di non fare, di credere, magari di non ragionare, perché chi crede non ha bisogno di ragionare, già crede, sa a cosa credere. Che bisogno c’è di ragionare se so a cosa credere? Io credo, dunque non ragiono. Non c’è bisogno di ragionare per chi crede. Perché occorre pur intendere che, se nulla avviene per caso, fatalisticamente, occorre intendere la ragione delle cose, occorre intendere qual è il contributo che ognuno dà ai suoi guai, perché nessun guaio accade senza il contributo di chi vi incappa, quindi senza una complicità; non è detto che sia volontaria, che uno stabilisca di incappare nei guai, ma tuttavia vi incappa. Come e perché?

Allora, come allestire il dispositivo d’indagine, di ricerca, il dispositivo intellettuale per intendere “Perché proprio a me?”. Certamente, la risposta non può giungere dagli apparati che sono coinvolti e compromessi con le stesse credenze che producono i guai, quelle stesse credenze che si costituiscono come idoli e che fondano una religione della sostanza, una religione della droga. L’aiuto non può giungere dalla sostanza, né da chi propone di farne uso, né da chi propone la parola come sostanza, cioè la parola inserita nella prescrizione o nel divieto intendendo la parola come psicofarmaco.

Oggi, anche in relazione alle varie riforme sul tappeto, va di moda dire che l’Italia è il paese europeo che destina meno fondi per la ricerca in Europa, per la ricerca pubblica. È il paese con i minori stanziamenti per la ricerca pubblica. Ma nessuno coglie che quella stessa diseducazione alla ricerca, per cui l’Italia è il paese con i minori stanziamenti della ricerca pubblica, conduce ognuno a trascurare l’investimento nella ricerca intorno alla propria vita, alla qualità della propria vita, alla condizione della vita. Qual è la condizione della vita per ciascuno? Quali sono le condizioni di salute per ciascuno? Per non fermarsi a declamare “Perché proprio a me?”, senza che questo avvii il servizio intellettuale, che non è il servizio a favore altrui; è il servizio per ciascuno, non è il servizio dell’altruismo. È il servizio per ciascuno.

È chiaro che questa domanda non giunge a dissipare la superstizione, la predestinazione, il fatalismo se non nel dispositivo della parola, in un dispositivo in cui la parola è la parola originaria, in cui si tratta, per ciascuno, di un viaggio all’orlo della vita; non nel benessere, non nel confort del quieto vivere, ma del viaggio all’orlo della vita. Direi che possiamo proseguire il dibattito per verificare se abbiamo risposto a alcune questioni, in particolare a quella che poneva il nostro amico. Giacomo Conti chiedeva chi decide del bisogno di aiuto? Forse in parte abbiamo risposto. Cosa dice?

G.C. Sì, sopra tutto a quella domanda che racchiude tanti pensieri e riflessioni: “Perché proprio a me?”.

R.C. Esatto. Perché?

G.C. È una domanda che ho ascoltato non molto tempo fa in un consesso di bioetica. Io volevo aggiungere qualcosa alla domanda che ho fatto prima, dicendo che il mio modesto tentativo di risoluzione era di mettermi di fronte a un caso e, se non altro per tentativi, riuscire a trasferire qualcosa dei miei sentimenti in chi in quel momento, forse, ne ha bisogno per risollevarsi, almeno temporaneamente. È chiaro che è un palliativo il mio, ma so benissimo che più di tanto non posso dare. Questo per me era di grande conforto, perché io non sono uno specialista. Dottor Chinaglia, venga sabato con me mezz’ora, veda se quello che faccio può arrivare a ottenere quello che io mi sono proposto di fare. Vado a fare un’attività di servizio che non specifico e lo faccio perché l’ho scelto io, non pretendo niente. Il fatto del “perché proprio a me?”, induce, ovviamente, chi ascolta o chi osserva uno che è colto da questa legittima ansia, che sicuramente tutti avremmo dentro, a dire “Porca miseria, è vero, uno che vive, purtroppo, è soggetto a questo”.

Io sono sempre del parere, per usare una battuta, che la salute sia una situazione provvisoria che non promette niente di buono, perché, fin che stiamo qui, stiamo bene.

Quello che fanno vedere le statistiche è bello, meraviglioso, splendido, lucente, ma quello che nascondono è vitale. Il pubblico non deve essere, secondo me, la somma dei privati, perché sarebbe facile a questo punto ammettere il concetto di maggioranza, che è molto discutibile, e che poi riguarda sopra tutto chi eventualmente riveste determinati poteri.

R.C. La ringrazio del suo intervento, perché sono cose attorno a cui occorre discutere, assolutamente, perché c’è una sorta di stupore intellettuale, l’uso di categorie scontate che, per essere comprensibili e condivise, giungono a banalizzare ogni cosa e a togliere la materia dell’aiuto. Lei ha detto tante cose, me ne sono annotate alcune, ma vediamo di tessere qualcosa. Intanto, occorre distinguere l’aiuto dall’altruismo e l’aiuto si qualifica come contributo alla qualità. E l’aiuto è tale se effettivamente contribuisce a questo, ossia se istituisce un dispositivo per cui la qualità s’instaura. Non aiuta per nulla tutto ciò che mantiene lo stato per cui qualcosa, diciamo un guaio, è accaduto. Il conforto, la rassicurazione non aiuta perché è una forma di altruismo che pacifica la coscienza, ma non contribuisce a che s’instauri la salute. È una questione intellettuale. Chi si trova in un guaio, o giunge a intendere per via di aiuto, la logica e la struttura di quel guaio e giunge a instaurare, per via di aiuto, un dispositivo che sovverte le condizioni per cui quel guaio si è verificato, è sorto, oppure siamo nell’altruismo, cioè siamo nell’accettazione, siamo nella rassegnazione. L’altruismo è una forma di specularità pacificante, ma che non giunge a dare un contributo effettivo se non di accettazione del guaio. Ma non si tratta di accettare i guai, per nulla, nemmeno di protestare contro i guai. Non serve a nulla. Occorre instaurare un dispositivo per cui quel guaio giunge a articolarsi. Perché questo avvenga, occorre trovarsi sul terreno della parola, sul terreno dell’Altro, sul terreno della clinica, occorre trovarsi cioè, su un terreno impraticabile che non si fa di statistiche, non si avvale di generalizzazioni, non si avvale di buona volontà. L’aiuto è ciò che consente al viaggio di andare nella direzione della qualità, cioè nella direzione necessaria alla vita; ma questa direzione non è data, non è prescritta, non è stabilita, non è assegnabile sulla base di convenzioni.

G.C. Scusi, è soggetta a limitazioni temporali, è provvisoria, può essere provvisoria, temporanea oppure permanente?

R.C. Direi che ha un carattere di permanenza.

G.C. Da come lo dice lei, senz’altro è assoluta. A questo punto, io che sono partito con le buone intenzioni, nel mio caso, in un certo senso, mi devo arrendere.

R.C. No. Perché si deve arrendere? Occorre combattere. Non arrendersi, occorre combattere.

G.C. Io ringrazio chi ha detto che non occorre essere giovanili per essere giovani. Se è questo, ci sto. Benissimo, non solo, combatto!

R.C. Quindi occorre acquisire gli strumenti per combattere.

G.C. Sì, per aumentare le conoscenze, le occasioni, tutto quello che uno ha e anche le sue virtù.

R.C. Ecco, non la conoscenza, ma le virtù della parola, le virtù del viaggio. Quali sono le virtù del viaggio?

G.C. Fatti non foste per vivere come bruti.

R.C. Sì, ma la formula dantesca occorre non diventi uno slogan per appiattirsi sull’acquisizione di facili formulari e occorre che, effettivamente, indichi la direzione per acquisire quegli strumenti che, soli, conducono ciascun caso alla sua riuscita, alla sua qualità. Questa è la difficoltà, l’attuazione di dispositivi caso per caso; non è mai lo stesso dispositivo. E la riuscita di un solo caso vale avere giocato la partita, perché noi non siamo nella contabilità dei morti e dei vivi, come sembra necessario fare nell’istituzione pubblica, per dare validità a un metodo piuttosto che a un altro. Qui, siamo sul terreno del caso, il cui valore è assoluto e dove la riuscita, il miracolo di un caso vale la partita. Questo è il caso del privato a cui mi riferivo, che non è il privato comunemente inteso, ma è il privato estremo.

Giungere a costituire dispositivi che giungono alla riuscita, caso per caso, è qualcosa di straordinario, che certamente non può essere acquisito come metodologia e applicato come metodologia. È un’altra cosa, un altro modo. Allora, quella che sembra un handicap è una virtù. Lei dice “Io non sono uno specialista”. Esatto. È proprio da lì che occorre cominciare. Non c’è lo specialista, ma c’è chi formandosi alla scuola della parola può dare un contributo a che la logica della parola sia ripristinata. I guai accadono in quanto sospensione della logica della parola, dove qualcosa diventa sostanziale e questa sostanzialità diventa guaio. Quindi, si tratta di ripristinare la logica originaria, la logica della parola, la logica della nominazione, la logica singolare triale lì dove, per lo più, a fare da padrone è la logica binaria, la logica dell’alternativa, la logica del sì o del no.

Nessuno sa quanto può dare e quel che può dare. Lei diceva che la salute è una condizione instabile, ma, più che una condizione instabile, è un’istanza, una tendenza, una proprietà del viaggio; non è uno stato. Già pensare allo stato di salute è come averlo perso. La salute è un’istanza del viaggio.

C.M. Quindi lei dice che chi è appena nato non ha già la salute, non è già data.

R.C. Non basta nascere. Occorre rinascere.

C.M. Quindi non è già data la salute.

R.C. Esatto.

C.M. Non è l’assenza del male, la mancanza del male.

R.C. Non è l’assenza del male. Esatto. Brava! Maria Antonietta Viero.

Maria Antonietta Viero Non è ancora formulata in maniera precisa, ma mi chiedevo se la domanda “Perché è accaduto proprio a me”, sia una proprietà del viaggio, e come fare perché questa proprietà del viaggio non incorra nella delega. Come si può trovare la direzione?

R.C. Instaurando dispositivi. Instaurando dispositivi di direzione, di ricerca, per fare, dispositivi da cui il viaggio tragga indicazioni, perché il viaggio non è rettilineo. Il viaggio non è né rettilineo né predestinato, ma esige dispositivi per avvenire e per andare nella direzione della qualità.

M.A.V. Mi chiedevo come rivolgersi al così detto professionista senza delega?

R.C. Il fatto di rivolgersi a un professionista non è automaticamente il segno di una delega. Se io ho un guaio giudiziario, mi rivolgo a un avvocato, cioè non c’è altro modo, nel senso che se si deve andare in giudizio, io non posso andare a parlare con il giudice, devo essere rappresentato da un avvocato. Questo lo stabilisce il diritto. La formula del diritto di procedura stabilisce che l’imputato non può non essere rappresentato da un avvocato. Il fatto che vada dall’avvocato non vuole dire che delego l’avvocato a risolvermi il caso. Io interpello l’avvocato, affido all’avvocato il compito, la mansione di rappresentarmi in giudizio, ma poi non gli lascio fare quello che vuole. Instauro con l’avvocato un dispositivo e do il mio contributo al caso, perché sono casi miei. Chi più di me può essere tenuto a cogliere, ingegnandomi, gli aspetti per cui quel caso va nella direzione della qualità? Certo, non da solo, con quel professionista, con quell’avvocato con cui instauro un dispositivo. Ma non è detto che sia il solo. Io posso instaurare anche differenti dispositivi, con altri, per giungere a cogliere la specificità e la via per cui quel caso giunga in porto, che affianca il dispositivo con l’avvocato e altri ancora. Occorre instaurare dispositivi, indagando sulla questione, sulla logica, sul modo, non accontentandosi della prassi. Né della prassi né del protocollo.

M.A.V. Un’ulteriore cosa. Come un così detto guaio incontra la proprietà del proprio viaggio? Nel senso che potrebbe sussistere una superstizione nella logica binaria, per cui può essere: o fai così, cioè o ti ammetti nel viaggio, oppure ti capitano i guai. Questa è una superstizione? Perché se il guaio può divenire, con i dispositivi, una proprietà del viaggio…

R.C. Proprietà? Non è che il guaio sia la proprietà.

M.A.V. Cioè, come rappresentazione di qualcosa in sospeso, quella che invece è una proprietà del viaggio.

R.C. Precisamente. Esatto.

M.A.V. Sì, ma allora c’è una sorta di iter obbligatorio per la dissolvenza, in questo viaggio. Il miracolo non propone…

R.C. Occorre instaurare dispositivi per cui il viaggio proceda. Nessun dispositivo è obbligatorio o obbligato, perché altrimenti sarebbe come dire che è già noto quale sia. Certamente, occorre intraprendere la ricerca opportuna, questo sì, e i dispositivi opportuni.

M.A.V. Mi sembra interessante l’accezione di privato posta questa sera, come il caso che giunga alla qualità. Mi è sembrato intendere così e come ponga le condizioni di ciascun caso. Mi chiedo allora, come sia difficilissimo pensare al viaggio specifico, all’unicum, nella chirurgia.

R.C. No, anzi.

M.A.V. Come la chirurgia può instaurare il caso specifico?

R.C. È chiaro che il chirurgo, mentre opera, non è che si ispira al caso ideale, ma al caso specifico a cui far fronte.

S.P. Purtroppo, il caso specifico deve essere sacrificato per la prassi; se uno segue la prassi è salvo.

R.C. È salvo!

S.P. Sarebbe il caso specifico. Se per caso gli va male e non ha seguito la prassi è fregato.

R.C. Ma qui siamo nell’infernale, però.

S.P. Ma è la realtà in cui viviamo. Comunque, non era di questo che volevo parlare. È bello quando si risolve il caso specifico, bellissimo, meraviglioso. Però, quando non si risolve? Si va a vedere se uno ha seguito la prassi. Il così detto professionista è legato. Lei ha parlato di sostanza, prescrizione, psicofarmaco. L’Italia non è solo l’ultima nella ricerca ma, da una certa propaganda, sembra che sia ultima nella prescrizione di farmaci che alleviano il dolore. Viene propagandato il diritto alla somministrazione della morfina, sia per i pazienti neoplastici, ma anche semplicemente nella cura del dolore cronico. Dicono che con la morfina si può vivere benissimo, si sta bene e si può condurre una vita normale, così detta normale. Io penso che sarebbe necessario approfondire questa cosa così pesante.

R.C. Certo. Che dire allora della reintroduzione del Ritalin, che l’Organizzazione Mondiale della Sanità sta propugnando per la sindrome da disattenzione dei bambini troppo attivi, ipercinetici. Ora, c’è una circolare del Ministero della Sanità che fa riferimento chiaramente a una circolare dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che propugna l’uso di questo psicofarmaco per i bambini affetti da disturbo da deficit di attenzione e iperattività, cioè bambini ipercinetici, bambini che disturbano in classe, non stanno fermi, perché il bambino ideale deve stare fermo, deve essere cadaverizzato. Tutto ciò indica che il servizio intellettuale è chiaramente raro e che gli apparati disciplinari inseguono sempre più le vie spicce. L’uso della droga realizza in pieno l’andare per le spicce.

Abbiamo parlato, proprio tre settimane fa, della mitologia della droga come forma di erotismo, cioè l’applicazione di una presunta causa per un presunto effetto, conoscendo quale deve essere l’effetto e, dunque, quale la causa. Questa è l’apoteosi della conoscenza. L’apoteosi della conoscenza è proprio l’erotismo. Ma l’erotismo, dove porta? Porta a togliere il servizio intellettuale, porta a una democrazia del bene e del male e alla somministrazione paritetica, parificata, paritaria del bene e bel male e dei loro presunti rimedi e corollari. A tutto questo occorre dire: non ci sto! Ma non solo dirlo. Occorre proprio non starci. Occorre non abdicare, non rinunciare, non dimettersi dal servizio intellettuale, dalla questione intellettuale come questione di vita.

M.A.V. A proposito di quel che diceva adesso, c’è anche la questione della parità, sull’idea dell’istanza di parità. Sembrerebbe abolita la differenza, la variazione, ma forse sottostà a un’idea di non potere stare solo; cioè l’unicum può essere rivolto, anziché all’assoluto della solitudine con cui procedere, a una fantasmatica che si rivolge all’unicum come un’eccezione, che può portare da un lato al castigo, dall’altro al sacrificio.

R.C. Esatto. Ma queste sono superstizioni. L’eccezione va nella direzione dell’eccellenza. È una questione che riprendiamo la volta prossima, perché la cosa che avevo proprio in mente di affrontare è la questione della solitudine e di come la “nostra” epoca, cioè la “vostra” epoca, neghi la solitudine, e ciò proprio quando afferma che si tratterebbe di stare bene con se stessi, che è l’idiozia somma che spesso, sempre più spesso, si sente dire: stare bene con se stessi! Stare bene con se stessi… Provate a analizzare questa formula, poi la settimana prossima ne discutiamo.

Sabrina Resoli Proprio perché sia ripresa, magari la prossima settimana, vorrei qualche precisazione sulla relazione tra servizio intellettuale e obbedienza. Mi pare che il servizio intellettuale esiga l’obbedienza che, anche in questo caso, non è verso qualcun altro.

R.C. Sì, certo.

S.R. Per esempio, anche obbedienza a questo “non ci sto”, per cui…

R.C. Beh, è una battuta questa. L’obbedienza non è qualcosa di volontario per cui dice adesso ci sto o non ci sto.

S.R. Qualcosa che è avvertito come inderogabile.

R.C. Ecco, che sia avvertita o no, è un’obbedienza inderogabile. È un’obbedienza non soggettiva, inderogabile; è un’obbedienza che dissipa il soggetto e la padronanza che il soggetto vorrebbe avere intorno alle cose.

S.R. Quest’obbedienza esige la dissipazione dell’idea di soggetto.

R.C. Esatto. Quindi di padronanza.

S.R. Perché altrimenti viene intesa come rappresentazione del volere altrui o chissà quale altra rappresentazione.

R.C. Rientra nel fantasma soggettivo, fantasma di violenza, fantasma di rapporto, fantasma di erotismo.

 


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