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Ventiduesimo capitolo del volume La realtà della parola

La voglia e la realtà della cifra

Ruggero Chinaglia Concludiamo questa sera i lavori dell’équipe e ci rivolgiamo verso altri lavori. Non restiamo inoperosi. È noto il titolo della prossima équipe? Decideremo se si tratterà di una équipe o un’altra cosa. Si conclude questa équipe, ma i lavori proseguono.
Il titolo di questa sera è La voglia e la realtà della cifra.
Se c’è qualche domanda in merito a questo lavoro conclusivo, o rispetto a altre cose, possiamo cominciare da questo. Se c’è quindi qualche domanda, è il momento di formularla. Se invece tutto è già noto, andiamo avanti.
Barbara Sanavia Mi chiedevo cosa intendeva per “la voglia”.
R.C. Questo è materia dell’incontro. Vuole fare lei un’ipotesi?
B.S. Eh, a me ha fatto pensare a questo, ma comincio a pensare che forse lei intenda un’altra cosa. La voglia, cioè, in questo caso, tradurrei il desiderio della cifra, la voglia intesa come desiderio. E la realtà della cifra… La realtà invece faccio più fatica a collocarla, perché la realtà è mutevole, variabile sia per la singola persona e molto di più per ciascuno, per cui la realtà della cifra è difficile da… Mi viene in mente qualcosa, però faccio fatica a immaginare il termine “realtà”.
R.C. Esatto, proprio di questo infatti si tratta: la realtà senza immaginazione, la realtà senza presentazione, la realtà secondo il principio della parola, il principio di realtà, che è il contingente, quindi la realtà nel gerundio. Come prevedere la realtà nel gerundio, se le cose si stanno facendo, se le cose stanno accadendo, se le cose si stanno dicendo? Come immaginare la realtà, nel gerundio? Perché è lì la vita, la parola è lì, nel gerundio. È nel gerundio che è impossibile rappresentare, significare le cose, il che comporterebbe una padronanza sul tempo, un tentativo di abolizione del tempo, un modo per istituire una realtà del fatto, secondo il principio del fatto, cioè di ciò che è già stato.
Ma la realtà non è di ciò che è già stato, la realtà intellettuale è la realtà nel gerundio, è la realtà della parola, cioè la realtà che esige la parola secondo la sua logica nella sua struttura, nel dispositivo in cui qualcosa accade. Parola quindi temporale, non discorso di padronanza. Per questo è essenziale l’analisi, la teorematica.
Il teorema è l’indice che l’analisi è in atto, l’indice che interviene l’assoluzione rispetto a una presa, presunta o tentata, sulla parola stessa, sulle cose, sui pensieri, sui significanti, sui nomi, sulle idee. Senza l’analisi, l’idea diventa principio, diventa principio morale, principio legale, principio ontologico, principio politico, principio di irrigidimento, perché è con l’analisi che si dissipa il sostanzialismo, cioè il fondamento delle cose.
Ognuno ritiene che le cose abbiano un fondamento, cioè un principio di derivazione, un principio di origine, un principio di appartenenza, un principio per cui le cose esistono, sono in sé valide o non valide. Insomma è con l’analisi che si dissipa il discorso di padronanza, il discorso che presume di controllare, di dirigere, di governare la parola, le cose, la pulsione e di togliere quindi la cifra, la qualità di ciascuna cosa, all’approdo. E mai può convertirsi nel fatto o nella verità delle cose, perché la verità è effetto della cifra.
Perché questo possa instaurarsi e compiersi è indispensabile l’analisi, è indispensabile la nominazione, la logica della nominazione senza cui prevale il fantasma materno, cioè il fantasma di ontologia, il fantasma di stabilità. E anziché al caso specifico ognuno si appella al caso generale, alla generalità, alla totalità. La nominazione è originaria, è la logica del due e la logica del tre: questa è la logica originaria. Ma contro questa logica è sorta un’ideologia, con un discorso che è giunto per lo più a coprire questa logica originaria e a far sì che, qua e là, il discorso risultasse predominante sulla parola, il discorso sulle cose, il discorso di padronanza. E ce ne accorgiamo perché in questo discorso, anziché essere sovrana la parola, con la sua azione, con i suoi effetti, con la sua tensione verso la qualifica, diventa sovrana la volontà.
Quante volte sentiamo dire che basta volere e le cose si ottengono, basta volere e i risultati si conseguono? “Volere è potere”. Tante volte sentiamo dire “la forza della volontà”. Sarebbe la dimostrazione della sovranità, perché basta la forza di volontà e si arriva dappertutto. E però, ciononostante, ci sono varie eccezioni a questa sovrana volontà. E come contraltare noi sentiamo spesso dire che ci sarebbe da fare questo, quello, quell’altro, ci sarebbe da dire questo, quello, quell’altro, ma non ce n’è la voglia. Non c’è la voglia di fare, non c’è la voglia di scrivere, non c’è la voglia di lavorare, non c’è la voglia di studiare, fino addirittura alla voglia di vivere. La voglia, la volontà. Questa idea della volontà e, conseguentemente, della voglia, è in realtà la rappresentazione della prestanza del soggetto che vuole o non vuole. Quindi la prestanza, presa nella sua alternativa tra positivo e negativo, ha come sua altra faccia la debolezza, l’alternativa fra il sopra e il sotto. Prestanza: stare sopra, stare prima, stare davanti, cui si contrappone stare sotto, stare dopo, stare dietro. Sopra o sotto, sempre nell’alternativa. E cosa sancisce, cosa conferma l’alternativa? Il soggetto, che è il soggetto dell’alternativa, il soggetto della padronanza che deve padroneggiare l’alternativa, che deve essere più forte dell’alternativa, o più debole dell’alternativa, a seconda di quale credenza prevalga.
Allora, la volontà. La volontà, da Socrate e da Platone in poi, è sempre la volontà di bene, quindi si tratta per il soggetto di volere il bene. Ciò che il soggetto deve volere è il bene e questa idea di volontà, come volontà di bene, è poi confermata dalla teologia cristiana, che aggiunge alla volontà di bene la colpa e il peccato come pericoli in cui potrebbe incorrere la volontà che non fosse di bene.
Il bene è sovrano, e in questo primato della volontà, sovrana non è la parola, ma il bene. Le cose si dirigono al bene, devono dirigersi al bene, e ognuno vuole il bene. Deve volere il bene. La volontà è la volontà di bene. Ognuno vuole il bene. Vuole! Deve volere! La vita segue a questa volontà. Quindi, prima la volontà di bene e poi la vita nei suoi modi, la vita secondo il bene. Ma il bene, a sua volta, è nell’alternativa, quindi con il pericolo di male. Il primato della volontà di bene ha, come sua conseguenza, la minaccia e il pericolo costante del male. Ma chi è il garante che questa volontà da seguire, sia volontà di bene? “Dio lo vuole”, per esempio. E se Dio lo vuole, il popolo lo vuole, e se lo vuole il popolo… Però, talvolta, non è sicuro, quindi vale la formula di auspicio: che Dio lo voglia! È auspicabile, no? Oppure che lo voglia il cielo. Chi lo vuole?
Il principio democratico si chiede chi lo vuole, e allora s’instaura, sul principio dell’accordo generale, quello di complicità su cui possano scatenarsi le guerre. Quindi, nelle varie formulazioni inerenti la volontà, compare una declinazione o una coniugazione del volere che indica il soggetto come agente delle volontà, agente del volere, agente della voglia. Questa affermazione del soggetto a cosa può portare? A credere che il soggetto possa fare ciò che vuole, perché la volontà è sovrana! Se la volontà è sovrana, chi vuole può fare quello che vuole, e ciò starebbe a indicare la sua libertà. Fare quello che si vuole sarebbe indice della libertà soggettiva. E il soggetto per definizione, il soggetto per antonomasia deve sentirsi libero, altrimenti muore, crede di morire, ma non per scherzo! Il soggetto è soggetto alla morte. La prima cura del soggetto è la morte. La prima cura del soggetto è la liberazione dalla morte, la salvezza dalla morte. Dunque, la morte è il primo pensiero del soggetto e l’affrancamento dalla morte è la sua mira suprema. Non è una questione secondaria. Senza l’analisi, così va il mondo.
Così come è impossibile convincere, è impossibile anche dissuadere il soggetto. Una vera psicologa dice che il soggetto può scegliere tra più opzioni: scegliere quello che conviene, scegliere quello che piace, scegliere quello che si vuole. Ogni psicologo è educato a questo: riconoscere che importante è scegliere quello che si vuole. Scegliere con quale criterio, se il soggetto è soggetto alla morte, se il soggetto crede nella morte? Se il soggetto confida nella salvezza, qual è il criterio della scelta del soggetto? Quale sarà la scelta libera? La libera scelta sarebbe secondo la volontà, scegliendo quello che si vuole?
In questa fantasmagoria in cui l’ipostasi è vigente, in cui il discorso di padronanza è sovrano, in cui vige il fantasma materno, possiamo avere varie rappresentazioni della volontà, ognuna delle quali deve confermare che a volere è il soggetto, che la volontà è soggettiva, che l’agente della volontà è il soggetto. Quindi, dalla volontà pura, che è la volontà di bene, incontaminata, alla volontà buona, che è la volontà che consente di agire secondo il dovere. E quale dovere se non quello di bene, che poi diviene buona volontà? Il soggetto ci mette, per lo più, la sua buona volontà! Poi magari non ce la fa perché è soggetto, però ha una buona volontà, e la sua volontà è buona, conforme al dovere di bene.
Poi c’è la volontà generale. La volontà generale secondo l’Illuminismo è la ragione stessa. Se qualcosa è secondo la volontà generale è secondo la ragione, quindi incontrovertibile, non contraddicibile, senza errore. La volontà generale è senza errore. Non sbaglia mai, perché è comunque l’indice della ragione. “La volontà è ragione”, quando diventa volontà generale. E così, allora, ogni atto è giustificato, data la volontà generale: dal linciaggio, alla guerra, alle varie rappresentazioni della volontà generale, fino alla volontà di credere. Ognuno vuole credere a ciò che vuole. La volontà di credere è libera. La libera volontà di credere, ossia il compromesso con la fede. Con questa volontà di credere, la fede è negata. Non c’è più la fede come operatore, dio come fede, ma la volontà di credere. Allora, la volontà come volontà di bene, quindi come capacità e facoltà del soggetto di conseguire il bene, e accanto, la voglia. La voglia, che sarebbe l’impulso irrefrenabile. La volontà, la voglia, l’appetito razionale, l’appetito irrazionale, volontà di bene, desiderio di bene. Si tratta, tra volontà, voglia, desiderio, di conciliare il conflitto tra la volontà di bene e l’impulso irrazionale degli istinti.
Questa è la fantasmatica: che l’istinto abbia impulsi irrazionali, mentre la volontà è volontà di bene, secondo la ragione. In questa proposta e rappresentazione della soggettività, la pulsione è esclusa, abolita, negata. La chiamata in causa degli impulsi, che sarebbero irrefrenabili, che cosa comporta? Che volere è potere. La volontà, la voglia, che viene dagli impulsi, è irrefrenabile, voglia irrefrenabile, mentre il volere ancora potrebbe essere soggetto al raziocinio, alla ragione soggettiva.
Voglia, appetito, desiderio. La voglia deve trovare appagamento. L’appetito deve trovare appagamento. Ma, qui, appagamento è inteso come idea di fine. La voglia deve finire con l’appagamento. La volontà deve finire con il conseguimento dell’obiettivo stabilito. La volontà sarebbe, rispetto alla voglia, di una maggiore complessità, perché indicherebbe un disegno, un progetto rivolto a un fine, che deve trovare la sua fine nel conseguimento del risultato. Sia con la voglia, sia con la volontà, ciò che è comunemente proposto è il fantasma di fine. L’idea di piacere conseguente all’idea di fine.
In quanti modi può porsi l’idea di fine? L’idea di fine che nessuno sa di avere, tantomeno di coltivare! Il soggetto poggia su questa idea, ma nulla sa di questa idea. A un certo punto accade che si ponga per qualcuno un’idea di cambiamento. È legittimo, dice la buona psicologa. Ognuno ha il diritto di coltivare la sua idea di cambiamento, di formulare e coltivare il suo desiderio di cambiare. Addirittura il suo desiderio di ricominciare un’altra vita, di cambiare quello che non è più appagante e ricominciare di nuovo, daccapo. Chi sarebbe così ingeneroso da negare a chicchessia il soddisfacimento di questa idea di cambiamento? Ma che cosa indica questa idea? Qual è il timone del cambiamento? È il fantasma di fine o il fantasma di morte o il fantasma di fine del tempo, che nessuno sa di avere, e che, tuttavia, agisce.
Il fantasma di fine può avere come sua modalità di azione un’impostazione algebrica, ossia palingenetica della verità, della vita, del mondo, per cui il tempo è dato per finito, il mondo è dato per finito. Dalla fine del tempo o del mondo, nasce il tempo nuovo, un mondo nuovo, un soggetto nuovo: è l’idea della rigenerazione. La fine è necessaria per la rigenerazione. Oppure, il fantasma di fine può seguire una modalità geometrica che procede dalla frammentazione, dalla distruzione, dalla significazione del male, del negativo riferito all’Altro: una significazione dell’Altro, con attribuzione. Interviene, così, come significazione della volontà di bene, lo spirito amante, che nega l’Altro, nega lo spirito costruttivo, nega il punto vuoto; il fine è il presunto bene di sé e purificando il male dell’Altro, all’insegna del purismo. Questo è il terreno della volontà, della voglia, del desiderio soggettivo dove si tratta dell’agente della volontà, l’agente della voglia, l’agente del desiderio.
Altra cosa invece la volontà come struttura, non già come azione del soggetto diretto al bene, ma la volontà come struttura, che chiamiamo voluntas: volontà senza soggetto. Volontà come struttura, non più come azione o prerogativa di qualcuno, struttura! La struttura non è governata da qualcuno, non è diretta da qualcuno, è struttura della parola, è struttura temporale, è struttura che procede dalla nominazione. Allora, dalla voluntas come struttura sorge il desiderio, che non è più il desiderio di qualcuno, il desiderio di qualcosa, che si può enunciare come “voglia di” o “non voglia di”, ma è la struttura dove funziona l’uno, il significante come funzione, mai identico a se stesso. Il significante differisce da sé. Questa è la voluntas come resistenza.
Il desiderio ha la sua sede nella resistenza, nella voluntas, nella struttura dove il significante, funzionando, differisce da sé. Nessuna volontà di bene, nessuna volontà di male, nessuna volontà che deve raggiungere il suo fine, ma la voluntas come la struttura in cui il desiderio è indice del funzionamento e mai può essere detto completamente incontrando il suo paradosso. L’uno, funzionando nella struttura, mai può realizzarsi, ma sempre differisce.
Non c’è plurale, ma la differenza da sé del significante; il desiderio è l’indice di questa struttura. Il desiderio trova la sua condizione nello sguardo. Lo sguardo non è una proprietà dell’occhio, non appartiene all’occhio, è una proprietà della parola e causa il desiderio. L’occhio è pretesto per lo sguardo, il sembiante, causa di desiderio, anche causa di sapere.
Nessun antropomorfismo del desiderio. L’uomo desidera? Io desidero? Tu desideri? Impossibile coniugare il desiderio, che è l’indice della struttura dove funziona il significante. In quanto differente da sé, manca a se stesso e quindi, nel varco del suo funzionamento, produce l’effetto di desiderio. Ma, se vige il discorso di padronanza, se vige il soggetto, quindi in assenza della nominazione, in assenza dell’analisi, la differenza da sé del significante viene a rappresentare un deficit soggettivo, una carenza soggettiva fino alla rappresentazione della morte, in quanto il soggetto attribuisce a sé questa differenza che si produce nel funzionamento del significante, e l’avverte come lacerazione, ferita, morte. Il rimedio a questa lacerazione, a questa ferita, a questa rappresentazione insanabile, incolmabile, intoglibile, qual è? È il sentimento, con la sua altra faccia, il risentimento. Ispirati all’idea di salvezza, all’idea di rimedio, all’idea di agente, dovrebbero rappresentare la causa, cui viene attribuita la colpa di ciò che manca.
Ma ciò che manca non manca a qualcuno, manca al significante nel suo funzionamento, è ciò che fa la differenza, il differire. Sentimento e risentimento sono gli indici della negazione del funzionamento del significante. Ciò che è negato al significante viene attribuito a un altro uno, quindi a qualcuno, a qualcun altro. Non è difficile da capire, con l’analisi. Senza l’analisi è impossibile capire questo, perché il soggetto è sovrano e è senza parola. Per il soggetto la realtà è la realtà finale, è la realtà ultima, è la realtà delle cose, la realtà dei fatti, la realtà della soluzione finale, la realtà del cambiamento da fare, per una realtà migliore, una nuova realtà, la realtà che segue la fine del tempo.
La realtà intellettuale è la realtà che poggia sul suo principio, il contingente, dove funziona l’Altro, dove le cose non finiscono, dove non hanno rappresentazione; realtà che si stabilisce nel gerundio: parlando, facendo, vivendo. La realtà ultima, la realtà dei fatti è senza racconto, senza parola, è la realtà delle cose finite. La realtà della parola è la realtà senza soggetto. È la realtà che s’instaura sul principio della parola e sulle sue virtù, sulla leggerezza, sull’anoressia, l’aria, la libertà. Non è la libertà di scegliere ciò che piace, è la libertà di ciascuna cosa di divenire cifra. E la cifra non è già data. Tra queste proprietà c’è anche l’integrità.
La parola è integra, non è malata, non è affetta da qualcosa, è senza negatività. La negatività è attribuita dal soggetto e al soggetto, quindi è qualcosa che necessita dell’ipostasi soggettiva. Non è originaria! La questione è la tensione verso la cifra, la tensione verso la qualità, la rivoluzione delle cose in direzione della qualità, la domanda in direzione della cifra.
La domanda è domanda di cifra. La cifra non è già assegnata, non è già stabilito quale sia. Ciascuna cosa ha l’eventualità di divenire cifra, ma non è una eventualità ontologica, una predestinazione. La tensione, la rivoluzione, la domanda, la direzione verso la qualità non è qualcosa di automaticistico, non è qualcosa di innato, né di ontologico, né è frutto di predestinazione, non è un destino già scritto. Dove, quando, come.
Tutto ciò esige lo sforzo, esige la costruzione, esige che ci sia l’analisi e la cifratura, quindi la conversazione, la narrazione, il racconto, il dispositivo della parola, lasciando che gli effetti si producano. Non negandoli, non ponendo continuamente limitazioni, controllo, modi della padronanza perché la volontà di bene debba prevalere! No, lasciando. E che cosa lascia che gli effetti seguano? È la struttura, che lascia che vi sia l’effetto di senso, l’effetto di sapere, l’effetto di verità. È la struttura. Se la struttura è negata, questi effetti sono tolti.
C’è chi ha inteso, confidando nell’agente taumaturgico, che la cifrematica sia aspettare che la qualità arrivi, senza fare nulla, senza costruire nulla, senza analizzare nulla, solamente aspettando che arrivi la qualità con il suo agente. Questa è la speranza comune di ogni soggetto, la speranza di essere salvato, la speranza di scampare dal giudizio universale. Questa idea non ha nemmeno la chance di essere assurda. È un’idea comune, proprio banale, ma l’esperienza, la nostra esperienza, l’esperienza che è in atto, nulla ha a che vedere con questa ideologia. E esige tuttavia le sue prove, le sue testimonianze, i suoi dispositivi perché esperienza della parola, esperienza della qualità, esperienza pulsionale; e per ciascuno è differente. Occorre quindi che ciascuno indichi la specificità, i modi, i termini, le acquisizioni della propria esperienza, che non è propria in quanto personale, ma esperienza della proprietà intellettuale della parola.
La proprietà intellettuale non è proprietà di qualcuno, non deve essere tutelata come facoltà personale, difesa da ingerenze altrui! La proprietà è proprietà della parola. Questa proprietà, che è la proprietà intellettuale, va indicata. Non va tutelata, va pubblicizzata, perché sta in questo il valore dell’esperienza. Se ciò che è acquisito nell’esperienza trova il pubblico, non viene perso, anzi! È questo il modo per indicare che avviene senza fine, senza limitazione, senza pregiudizio. E allora, per integrazione, a cosa si aggiunge cosa e la ricchezza aumenta. Nulla è perduto, anzi! Abbondanza, ricchezza, fluenza, qualità dell’esperienza, il piacere dell’esperienza, senza più odore di malattia mentale nelle sue varie sfumature, rappresentazioni, banalità e pregiudizi. E non sono pochi.
La battaglia è da combattere perché il pregiudizio sia dissipato! Innanzitutto per chi vi s’imbatte, in grado, avvalendosi dei mezzi e degli strumenti della parola, di dissiparli. E poi anche per contribuire a chi questi mezzi ancora non sa che ci siano, e possa cominciare a avvalersene.
Ecco, se c’è qualcosa da aggiungere, qualche domanda di precisazione, qualche nota per dimostrare che non eravamo qui solo circondati dai muri, ma eravamo in un auditorium, dove giunge l’eco di quel che si dice. L’eco, l’ascolto, qualcosa d’Altro. C’è chi osa dare un contributo?
Fabrizio Moda All’inizio ha usato molto il termine principio, sarebbe una parola che indica una tesi ontologica? Qualcosa di fisso per cui il principio di qualcosa sarebbe qualcosa di immodificabile? Cioè “io non faccio le cose per principio”, o “io faccio le cose per principio”, sarebbe una fissità?
R.C. Quello sarebbe “per partito preso”.
F.M. Fare per principio sarebbe per partito preso?
R.C. Sarebbe per ideologia, per credenza. Avere dei principi, cioè, vuol dire avere dei pregiudizi saldi. Qui si tratta del principio della parola, la parola nel suo principio. Uno dei principi della parola è l’anoressia intellettuale, un altro è la leggerezza, un altro è la libertà. Sono principi della parola. Principi, cioè qualcosa che indica l’originarietà della parola, la libertà di divenire cifra. La parola è libera di qualificarsi, non è racchiusa in un qualche contenitore, ma è libera. Il principio della parola, la parola nel suo principio, per dire la leggerezza, l’aria, l’anoressia, cioè senza sostanza. Principi della parola in questo senso.
F.M. Quindi, quando si dice il principio della parola, s’intende qualcosa di originario, mentre se lo dice il soggetto diventa un’ipostasi, una fissazione.
R.C. Quando c’è il ricorso a un principio, per lo più si tratta di principi morali, principi legali, principi ideologici; i principi sono forme di ancoraggio, per dire che il criterio non è secondo la particolarità, ma secondo una convinzione, secondo un’appartenenza, secondo un’ideologia, secondo una religione. Questi non sono principi della parola, sono principi soggettivi. Il principio della parola è senza l’alternativa fra noi e loro, voi e loro, senza appartenenza. Esige l’infinito.
Altre forme di principi si trovano nel finito, a sancire i confini di un’idea, di una credenza, di una certa modalità. Principio è in un’accezione precisa in questa direzione, che non assegna alla parola una delimitazione, ma ne coglie l’aspetto infinito, di libertà, di assenza di sostanzialità.
F.M. Poi, non mi è ancora chiara l’idea di agente. Significa una cosa attorno alla magia o ha altre connotazioni?
R.C. Senza magia. Dio non è una cosa magica, è una credenza religiosa. Dio non è un personaggio della magia. Riferirsi a dio è un’impostazione magica? No, è un’impostazione religiosa, però pensare che dio faccia qualcosa, vuol dire che dio agisce, sarebbe agente. Quando uno si rivolge a dio e dice. “Fammi la grazia, fammi andare bene questa cosa”, allora dio si mette in moto e fa andare bene quella cosa? Sarebbe il funzionario agente, che in nome e per conto, fa le cose. Quello è l’agente! L’agente è chi agisce. Nulla di magico, ma è una rappresentazione antropomorfica di dio.
Dio agisce? Uno dice: “Dio lo vuole”. E che fa dio, vuole? Ha una volontà e agisce per volontà? Essere nella mente di dio. Cosa fa, ha una mente? È un umano? Questo è l’antropomorfismo: la rappresentazione di dio come un umano, come feticcio insomma. Dio come feticcio, è l’idolo a disposizione. Pronti! “Dio lo vuole”, pronti! Dio sa, dio vede e provvede, pronti! Dio è sempre in allarme, vede e provvede. Ma dove sta per vedere e provvedere? Dove sta?
F.M. Sant’Agostino diceva dove sta, anche se in termini ironici.
R.C. Ma diceva che non ha la facoltà di fare. La stessa idea di dio creatore è, il meno che si possa dire, discutibile, perché vuol dire che può fare. C’è una versione della Bibbia che dice che non ha creato, ma ha dato il nome alle cose. Allora c’erano già, chi le ha fatte? Ci sono vari paradossi che esigono un’articolazione rispetto all’idea di agente, all’idea di inizio, all’idea di origine. L’idea di origine è l’idea di fine. È il suo pendant. Non è che c’è l’idea di origine senza l’idea di fine. L’idea di origine procede dall’idea di fine. Come mai tutta questa preoccupazione dell’origine e della fine, non dell’atto che è in corso? Come mai tutta questa attenzione a dove vanno a finire le cose? Dove vanno a finire, se non finiscono? Se c’è gerundio non finiscono. Possono finire? Può finire il gerundio? Certo, se è negato, allora tutto può finire. Chi si chiede da dove è nato l’universo è perché si chiede quando finirà. Allora vuole calcolarlo, vuole calcolare quando finirà; per sapere quando finirà deve sapere quando è cominciato. È un circolo, una circolarizzazione, siamo in un fantasma di morte.
F.M. Mentre quando si dice che dio opera, la fede opera, s’intende che è da lì, in qualche modo, che nasce la pulsione per…
R.C. Nasce? Nasce da dio? Dio è madre allora. La pulsione è data. No, dio non dà. Se non fa, nemmeno dà. Opera!
F.M. Ecco, opera. E s’intende?
R.C. Opera la connessione, opera, connette. Connette, è la connessione tra…, è operatore. Dire che opera vuol dire che è operatore, ma l’operatore non fa. Il fare è nella struttura. L’operazione è una logica: è operazione sintattica, frastica, pragmatica, è connessione fra la causa, il funzionamento e ciò che si dice e si fa. La fede è operazione. La fede! Dio come fede. Dio è un nome come un altro.
Dio come fede, se proprio vogliamo attribuire a dio qualcosa, dio è la fede. Non la fede in dio, ma dio è la fede. Quando si dice di avere fede in dio è una ridondanza, perché o questo indica la fede o indica, invece, la delega. La delega a dio vuol dire che la fede non c’è più. La fede non è delegare a dio qualcosa perché faccia lui, ma la fede è fede nella riuscita, è la fede per trovare il modo. Nessuna delega, anzi! Comporta che per la riuscita nulla è delegabile e occorre fare quel che occorre. La fede trae con sé l’intensità, il ritmo, la forza, non la delega! Chiaro?
Allora, tutto ciò che la religione propone a proposito di dio è una riduzione, una diminutio, rispetto a dio nella parola, perché lo rende un fantoccio, un burattino nelle mani degli umani: dio a immagine e somiglianza. Quando si dice che creò l’uomo a immagine e somiglianza, in realtà è dio che viene creato a immagine e somiglianza dell’uomo e questa è l’idolatria.
Quando si dice “fammi la grazia”, gli si dà addirittura del tu, confidenzialmente, come a un servitore, no? Tutto ciò esige ben altra elaborazione che non quella spicciola, e direi, piuttosto superstiziosa, che viene proposta dal catechismo. Così come dal Corano. Dio lo vuole. Oppure, Allah, è grande, è piccolo. C’è un dio grande e uno piccolo. Allah è il più grande di tutti. E quanti sono? E dove stanno? C’è un convegno di dei? Gli dei riuniti in convegno eleggono Allah il più grande di tutti, gli altri ci sono, ma sono più piccoli. Chi deve essere convinto di questo? Così come quando partivano i crociati e dicevano: “Dio lo vuole! Dio lo vuole!”. I crociati di serie B, perché c’erano i crociati di serie A, mandati dal Papa e quindi non avevano di che giustificarsi. Poi c’erano quelli di serie B che dicevano: “Ci sono anch’io! Dio vuole che ci siamo anche noi”. E si accodavano. Oppure dicevano: “Dio è con noi!”. Tutti cercano l’avallo, la complicità, la giustificazione, la garanzia o del popolo o di dio. Queste sono agenzie, agenzie di assicurazione. La parola è senza queste agenzie, è nel rischio. Bene, vedo che la cosa non vi interessa per nulla, quindi possiamo anche terminare qui, o c’è qualche altra domanda?
F.M. Un’ultimissima domanda. Allora la differenza a sé dell’uno mi è chiaro che produce risentimento, no?
R.C. No, anzi, tutt’altro! Negando che via sia la differenza dell’uno, allora c’è risentimento. No! La differenza a sé dell’uno è ciò che comporta il desiderio. Quale risentimento? Il desiderio. Forse mi sono espresso male, ma se lei riascolta forse trova che non ho detto proprio questo, quindi le è chiaro secondo il modo soggettivo. E questo la dice lunga. Questo trae con sé delle conseguenze. Eh, se vogliamo tenerne conto! Lei voleva aggiungere qualcosa? Sembra che si sia svegliato.
Pubblico Mi sono svegliato? Stavo ascoltando. Rispetto al titolo, quando aveva chiesto cosa ne pensavamo, all’inizio volevo dire che la voglia è la volontà di giungere alla cifra.
R.C. Ecco, perfetto. Però così resterebbe un’intenzione, dando per scontato la cifra, dando per scontato che c’è, e presumendo anche di sapere dove sta. La cifra è, per così dire, indesiderabile, perché è un approdo, e quando, dove, come, è indecidibile. Accade. Ma non prevedibilmente, è qualcosa di istantaneo. Quindi sì, certamente può porsi, l’idea può esserci certamente, ma è fuori dalla padronanza, per cui interviene imprevedibilmente e desta meraviglia e piacere. Questo è il bello.
F.M. L’idea della cifra invece come prevedibile, potrebbe essere quella che si dice porre un obiettivo? Gli obiettivi aziendali, gli obiettivi personali sono idee di cifra a buon mercato, diciamo così.
R.C. Diciamo così, sì, chiaro. Per lo più costituiscono limitazioni di solito. Anche gli obiettivi sono sempre al risparmio, perché sono presunti sulla base di una impostazione economica. La prima economia è quella della domanda e quindi economia del bene, economia del male. Su questo, anche quello che può essere un programma, un obiettivo aziendale, risulta in modo economico perché è sempre rappresentato sull’idea di sé, quindi sul pericolo del male. Bene, lei Giorgio dice qualcosa? Una notazione?
Giorgio Fornasier Allora, mi resta un dubbio, una curiosità. Com’è che a un certo punto ci sarebbe stata una parola originaria e poi nella storia degli umani c’è un discorso che si sarebbe opposto a questo, se ho capito bene, addirittura in un periodo storico ben preciso, una civiltà precisa, quella greca. Questo sembra un po’ strano.
R.C. Quella greca è quella di cui abbiamo più documenti.
G.F. Sì, ma mi pare, non lo so, prima ci sarebbe stata una fase dell’umanità in cui questa struttura originaria avrebbe funzionato, non lo so, ai tempi degli Egizi, dei Fenici, e dopo arriva il discorso. Sembra strano.
R.C. Non lo sappiamo se c’era prima, perché prima e dopo sono già modalità soggettive.
G.F. Sì, però prendo atto che ho ascoltato più volte che ci sarebbe stata, appunto, questa origine del camuffamento, chiamiamolo, della parola originaria, con i Greci.
R.C. Nello stesso ambito dei greci sono sorti movimenti che non hanno codificato la parola in discorso. Per esempio, abbiamo tracce…
G.F. Sì, i Sofisti, però abbiamo sempre questa cosa di dare un’origine a una questione, e certamente esiste una padronanza, addirittura trovargli un’origine, mi sembra strano.
R.C. Che Aristotele e Platone abbiano codificato alcune cose, prescrivendo Platone il fine di bene, e codificando Aristotele il terzo escluso, questo è materiale testuale. Che vi sia stata una codifica per cui la logica del tre fosse ridotta a binaria, di questo oggi traiamo le conclusioni. Possiamo anche non trarle, però, magari le traiamo; non per assegnare un’origine, ma per indicare che l’impostazione disciplinare poggia sull’esclusione del terzo e sull’esclusione, da ciò che viene chiamata scienza, di tutto ciò che non è ripetibile… Ne abbiamo parlato in varie occasioni… Il principio di esclusione è attuato verso qualcosa che sorge senza giustificazione, senza l’avallo, senza il consenso dell’agente del discorso.
Questa è la questione della poesia.
G.F. Probabilmente, questa formalizzazione non era una legge generale, era come un semaforo. Se si vuole una società fatta così, occorre il terzo escluso. Magari, in un’altra isola, te la fai.
R.C. Era funzionale al governo della città, certo.
G.F. Poi, se si può far di meglio… Noi abbiamo fatto così, escludendo il terzo.
R.C. Questo lo abbiamo sempre asserito che era funzionale alla governance.
G.F. Sì, fosse una cosa tecnica. Se arriva il terzo viene fuori il caos. Poverini, cercavano di tener su delle società. Non era mica facile.
R.C. Appunto. Ecco, su questo poi sorge la classificazione, la categorizzazione, il razzismo, le pulizie etniche, le fantasie di esclusione, di fine, di male, di negatività che sfociano nelle limitazioni della parola.
Sanavia, un’ultima annotazione?
B.S. Devo riascoltare. C’è molta materia, ma adesso seguivo questo ragionamento.
R.C. Certo, c’è molta materia. E Maria Antonietta Viero, se la squaglia?
Maria Antonietta Viero Esatto. C’era una questione interessante: dove si situa la colpa, negando la differenza a sé del significante, cioè funzionando l’uno… Mi sembrava d’intendere come funziona l’enunciato: “Io no, io non posso. Qualcosa mi è vietato, non posso ammettere”. Allora, mi sembra che la struttura del desiderio comporti l’inganno, l’inganno delle immagini che diventano “fatuate”, per cui probabilmente traggono con sé il ricordo che blocca lo svolgimento.
R.C. Se non c’è l’analisi.
M.A.V. Sì, sì, certo, in una fantasmatica. Allora pensavo…
R.C. In un fantasmatica materna che tolga l’originario e che stabilisca invece origine e fine.
M.A.V. Ma si capisce anche, così svolgendo, come il principio di origine comporti, come si può dire, l’idea della vendetta, perché… insomma, ci sarebbe da dilungarsi un po’ su questo. Poi stavo pensando a quando c’è l’occasione per osare la restituzione di un’esperienza, e quindi dissolvere l’idea della colpa: l’assoluzione esige l’analisi. Pensavo che si osa il passo più lungo della gamba, perché ci si trova nel rischio, altrimenti la vita non ti dà l’occasione di dissolvere il fantasma materno. Quindi, c’è la ricerca, c’è la scrittura, la lettura e lì molte fantasie trovano motivo di analisi.
R.C. Occorre non disgiungere la ricerca dall’impresa, occorre non separare la ricerca che è sintattica e frastica dall’impresa che è pragmatica, cioè non si tratta di accontentarsi di studiare. Lo studium sarebbe questo: isolare il funzionamento della rimozione e della resistenza, e quindi la struttura sintattica e frastica, dal funzionamento dell’Altro e dalla struttura pragmatica.
M.A.V. Sarebbe la messa in opera per così dire, invece del fare.
R.C. Sì, il fare è la struttura dell’Altro. Non si possono scindere queste strutture, però la mentalità cosa prescrive? Che prima bisogna studiare e poi fare, oppure che si può studiare senza fare, oppure che si può fare ricerca e accontentarsi senza il risvolto pragmatico. Tutto ciò è problematico: nella parola c’è la simultaneità del tre, quindi c’è simultaneità fra ricerca e impresa. Se la simultaneità è tolta, c’è soggettività, c’è una presa fantasmatica, c’è l’idea della fine del tempo, c’è l’idea di sé. È istantaneo.
La padronanza è l’esercizio della presunta facoltà di decidere come, cosa, quanto, quando, se. Questo è materiale per l’analisi. La parola è messa in attesa da questa soggettività, è chiaro? La parola è messa in attesa perché è assunto il discorso di padronanza.
M.A.V. Padronanza e sapere.
R.C. ovvero il principio di conoscenza. Il materiale da svolgere è ancora ricchissimo, e a questo noi ci rivolgiamo con la prossima serie di appuntamenti. Grazie e arrivederci.


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