Come vivere, come fare, come comunicare
L’uomo, il progresso e l’idea di bene. Vivere di psicofarmaci pensando alla morte
L’idea di progresso e l’idea di regresso sono tributarie dell’idea di fine. Procedono da un insieme dato per finito, rispetto a cui qualcosa possa qualificarsi progresso o regresso; ma rispetto a cosa? Rispetto al bene ideale. Progresso e regresso sono modi di riferirsi a un’idea evolutiva, dove il miraggio sta nell’evoluzione verso il meglio, verso il bene ideale.
Questa idea dell’evoluzione sottende l’ideologia apocalittica o messianica: come si riscontra nello stesso libro di Luigi De Marchi, Il nuovo pensiero forte, ed. Spirali, a p. 73: “Lo scontro odierno tra il fanatismo islamico e l’Occidente liberaldemocratico non è dunque solo una delle molte crisi che hanno scosso la storia umana. Esso simboleggia invece il bivio epocale e decisivo dinanzi a cui si trova l’umanità: continuare il cammino di libertà e solidarietà iniziato duecento anni fa col pensiero liberale o invece regredire verso la tragedia infinita delle Guerre Sante che caratterizza da sempre le culture del dogmatismo e del fanatismo religioso”.
Il “bivio epocale e decisivo” è una rappresentazione della fine imminente di chi crede che il tempo finisca. L’idea di sé, l’idea della fine di sé diventa l’idea della fine di tutti, o viceversa. Ma, alla base c’è l’accettazione e la condivisione dell’idea di fine. La fine collettiva. La fine del genere. La coscienza della fine non è che una credenza soggettiva, addotta per giustificare l’ideologia della salvezza da perseguire o da raggiungere o l’ideologia apocalittica, per cui, data la fine, creduta certa, niente “vale la pena”.
Ognuno pensa alla morte: ognuno che partecipa all’ideologia della morte, al realismo della morte, senza astrazione, senza elaborazione, senza pulsione. Senza porre in atto la domanda.
Un giorno viene da me una persona dichiarando di essere “affetta da attacchi di panico”. Diceva di volere capire perché.
Già la presentazione è indicativa: chi si presenta come una diagnosi psichiatrica? Il paziente professionista, psichiatrico, o anche non psichiatrico, ma sempre paziente, sofferente di un male canonico certificato, che risulta economia e segno della morte, in coscienza.
Alla prima conversazione, all’invito a prendere posto sul divano, si oppone dicendo che così non c’è parità, e che così si trova così in posizione d’inferiorità.
Poi, proseguendo la conversazione, aggiunge che non può parlare, non sa cosa dire, perché non sa cosa possa risultare utile, quindi dev’essere interrogata: solo in presenza di domande precise che la “indirizzino verso il nocciolo del problema”, potrebbe parlare. Anche perché, aggiunge ancora, facendo uso di psicofarmaci, il disagio è contenuto, è anestetizzato da questi e non avverte nessuna questione, tanto meno intellettuale.
Ecco, l’apoteosi dell’evoluzione: l’animale evoluto non ha più bisogno di parlare, al massimo di sostenere qualche interrogatorio, perché lo psicopompo mentalista di turno, cui rivolgere la delega sulla propria vita, possa emettere la sua sentenza.
Ecco la psicoterapia ideale, per conformarsi alla vita standard con le risposte standard.
Ecco un caso di coscienza.
E il caso di coscienza diviene caso d’idiozia; la coscienza toglie la proprietà intellettuale, toglie ciò che Giovanni Damasceno, dottore della chiesa vissuto fra il 645 e il 750, chiamava ta idiòmata, le “proprie proprietà”.
Come togliere l’idioma? Come abolire la particolarità della parola? Con la coscienza, con la nozione di uomo quale equivalente generale del genere, equivalente privo di valore.