Gerusalemme e la cifrematica
La questione essenziale per ciascuno è la questione intellettuale, da cui quella culturale procede. È la questione aperta che spinge in direzione della cifra, del valore assoluto.
Sono circa trent’anni che ho avviato il mio itinerario nella cifrematica, ossia nella parola originaria. Sono circa trent’anni che la mia vita è nell’esperienza della parola originaria, esperienza che continua a sorprendermi per le trovate, le invenzioni, le acquisizioni che in essa si susseguono. Esperienza, non sperimentazione, quindi senza esperimenti, senza conferme e senza linee guida. Senza sistema di riferimento, senza linea e senza cerchio. Effettivamente, si tratta di esperienza scientifica, nel senso che da essa procede la scienza della parola. Scienza della parola che diviene cifra e non parola che diviene scientifica, cioè fissata in schemi e in convenzioni stabili, fisse, immutabili. In questo sta parte della sua difficoltà e della sua incompatibilità con regimi di idee totalitarie.
Ciò che comunemente viene chiamato scienza, con il suo riferimento al pozzo, (si dice spesso “è un pozzo di scienza”, no?), è un sacco, un sacco di sapere che dev’essere confermato da ciò che accade. È quindi un’ipoteca sull’avvenire, un imbrigliamento dell’avvenire, una riduzione dell’avvenire a ciò che dev’essere già previsto.
Si è trattato di un incontro non personale, non con la persona Armando Verdiglione, ma, in prima istanza con un nome che ha avviato lo svolgimento della domanda in un itinerario intellettuale incomparabile con quanto avveniva prima di quell’incontro. Quell’incontro ha instaurato Gerusalemme nel mio itinerario. Ha avviato la questione ebraica, la questione cattolica. Si tratta di verificare la questione islamica.
Nell’epoca che istiga al facile benessere, al relax, alla calma psicofisica da ottenere a ogni costo, anche con i sussidi della chimica, farmaceutica e non, nell’epoca che si nutre dell’alternativa, della dicotomia con la relativa prescrizione alla competenza sul bene e sul male, nell’epoca della performance che deve dimostrare padronanza e controllo sulle emozioni nonché una perfetta gestione dei desideri, chi si avvale dell’interlocutore per ragionare, per fare, per istituire il progetto e il programma di vita? Il sistema delle prescrizioni e dei divieti, il sistema rappresentato dall’apparato disciplinare, può sostituire l’interlocutore? Il sistema in cui ognuno viene a rappresentare una macchina termodinamica a lento ma costante e inevitabile esaurimento, può sostituire la parola originaria?
Ciascuno di noi, se vive nella parola, viene da Gerusalemme. E a Gerusalemme l’arte, la cultura, la scienza sono originarie.
La civiltà è il modo con cui l’arte, la cultura, la scienza si dirigono da Gerusalemme verso la qualità assoluta, procedendo dall’ignoranza e dalla sua doppia articolazione.
Gerusalemme è in questo caso non già la città santa, ma l’indice dell’assenza di luogo della parola, l’assenza di conoscenza sulla parola, di predestinazione, di gnosi. La civiltà cui la parola tende è senza gnosi. La civiltà è ciò che sta dinanzi a noi come scommessa di vita, come progetto e come programma di vita. Come dare un contributo alla civiltà e quale contributo dare: questa è la scommessa intellettuale che trae ciascuno a divenire protagonista nella politica del tempo, nella sessualità.
Questa civiltà sta dinanzi a noi, non alle spalle, non nel passato. È una civiltà sena vestigia, senza ricordi. E, tuttavia, non esente da tradizione, e da invenzione, cioè è civiltà della memoria che si scrive. La civiltà segue la scrittura della memoria. Questa civiltà che è quindi motivo della scommessa è civiltà dell’avvenire, è motivo del fare. È motivo della politica. E quindi, niente politica senza arte, cultura e scienza della parola. Niente politica senza Gerusalemme. E Gerusalemme è senza la gnosi.
Perché Gerusalemme è così importante? Perché Gerusalemme s’instaura con le fondazioni della parola e con esse si distingue dal discorso greco che è sorto come reazione a esse.
È proprio grazie alle fondazioni della parola che gli ebrei stessi considerano il testo ebraico, il loro testo, il testo stesso della legge come mai scritto, mai finito; è un testo sempre in corso di scrittura e ciascuno contribuisce con il suo racconto, con la sua lettura alla scrittura del testo. Il rotolo della tradizione, della memoria ebraica è senza fine e ciascuno è tenuto a dare il suo contributo. Se leggete Abraham, il bel romanzo di Marek Halter, trovate una testimonianza indicativa in questa direzione. Leggendo i romanzi di Pier Francesco Paolini, Parole e sangue e di Edelio Tomasi, La bella d’Egitto, troviamo gli elementi della mitologia e del mito inerenti le donne e la madre.
Il discorso greco, dicevo, si afferma come discorso finito, discorso di conoscenza, discorso definito, dove la definizione è l’aspirazione principale. Riuscire a dare la definizione di ogni cosa per inscriverla al suo posto nel catalogo delle cose sembra la missione del discorso greco. Discorso greco che noi possiamo anche chiamare discorso occidentale, il discorso di riferimento, il discorso dominante. Discorso di padronanza e di controllo sulle cose, sui pensieri, sui desideri, sulla vita e sulla morte. Paradossalmente, sopra tutto, sulla morte.
L’aspirazione massima del discorso occidentale è la conoscenza sulla morte per prevederla, gestirla, economizzarla. E questo non avrebbe poi così grande importanza se non risultasse l’orientamento che questo discorso prescrive ai tutti con le sue discipline, con le sue ideologie, con le sue mentalità. Il discorso occidentale è quel che resta del testo ebraico dopo averne espunto i paradossi.
Leggiamo nella Torah, per esempio: “Non nominerai il nome di Dio”, e: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo”. Anziché prendere questi “comandamenti” come prescrizioni per fondare una legge severa e rigorosa, occorre leggerli, senza pregiudizi, senza tesi da dimostrare, secondo la logica della parola. Allora l’importanza di Gerusalemme e del suo testo emerge precisamente. Occorre leggerli come paradossi, paradossi del comandamento. Con questa lettura, il comandamento né prescrive né vieta, ma indica l’originario; indica la direzione della parola originaria. Quel che è originario non è prescrivibile e non è vietabile.
Leggendo il primo comandamento, risalta una questione logica. “Non nominare il nome”. Si tratta del nome di dio o del nome? Si tratta del divieto a nominare il nome o della constatazione che il nome è innominabile? Che non c’è chi conosca il nome e quindi non può nominarlo. Che dio stesso è inconoscibile. Dio esclude il paganesimo, esclude l’idolatria, così cara all’epoca contemporanea.
Questione non da poco, se Platone successivamente vi si dedicò lungamente per stabilire cosa fossero i nomi, da dove venissero, se si conoscessero. E dovette, per così dire, creare il legislatore, quale demiurgo fra i nomi e dio. Il legislatore quale soggetto della conoscenza dei nomi, quale soggetto avente coscienza dei nomi. Senza il legislatore di Platone, il nome resta inconoscibile e il discorso greco non può sorgere. Non può istituirsi un fondamento della parola, del discorso, che quindi possa farsi in nome del nome, in nome di qualcosa che sia il nome fondamentale. Questione nodale per l’aspetto intellettuale, per l’impossibilità a formarsi ogni fondamentalismo.
La questione risulta essere non che si possa vietare di nominare il nome, bensì che il nome è innominabile. Il nome è innominabile e anonimo; il nome non ha nome e il nome è impronunciabile, perché funzionando, secondo ciò che Freud ha chiamato funzione di rimozione, funzionando il nome, è differente e vario quel che si dice; il nome, quindi, risulta nella struttura della parola, ma mai è pronunciabile, perché, funzionando la rimozione, il nome non può costituirsi come nome del nome, cioè a significarsi e dunque a chiudersi in qualcosa di stabile.
Tutto ciò è interessantissimo, perché comporta l’incodificabile della lingua e l’insignificabile, comporta quindi che ciò che si dice mai si ferma nel suo andare verso la qualificazione. Noi diciamo che la parola procede verso la sua cifra, la parola si rivolge alla sua qualità, quindi c’è questa tensione della parola verso la sua qualifica, perché non è già dato il valore della parola.
Leggiamo, quindi, anche il comandamento “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo”, non tanto come divieto alla rappresentazione di qualcosa, ma come constatazione che l’immagine è irrappresentabile e invisibile. Ciò che ciascuno vede non è l’immagine; l’immagine resta invisibile, resta irrappresentabile perché è qualcosa nella struttura della parola che mantiene la sua invisibilità, e quindi possiamo intendere per questa via ciò che diceva Freud quando indicava l’immagine non come visiva ma come acustica.
E forse possiamo cogliere in modo più esteso la portata del motto freudiano “Non sanno che portiamo loro la peste”. Ci sono delle implicazioni che riguardano il pensiero ebraico nell’invenzione che Freud ha fatto della psicanalisi. In particolare la questione del sogno non è certamente secondaria all’importanza che ha nel pensiero ebraico la questione della parola, del racconto, la questione di una lingua che esiste nell’atto in cui si formula, non secondo un codice prestabilito, non per seguire e confermare verità già date.
Ecco, quindi, la questione ebraica come questione del nome, come questione del padre, senza genealogia. Il nome, innominabile e anonimo, non si può dire, è nome che nessuno ha, è il nome che non si può assumere, è il nome che non si può rappresentare, è il nome che impedisce la sovrapposizione tra il padre e il papà. È nome che funziona. E in questo suo funzionamento c’è la base della parola originaria.
Il Messia è posto come istanza dell’avvenire, quindi compimento dell’avvenire, un compimento che mai può realizzarsi nella nascita del Redentore. Allora questo è molto interessante perché comporta, anche quanto al Messia, un’impossibile sostantificazione e quindi un’impossibile concretizzazione del Messia, che resta un’istanza dell’avvenire, con le conseguenze che ha anche proprio a livello culturale e artistico.
Se la donna è l’indice dell’anonimato del nome, vuol dire che le donne non sono nominabili, non sono tangibili, non sono sostanza. Non appartengono a qualcuno. Se non c’è il legislatore, quale demiurgo dei nomi, quale autore dei nomi, creatore dei nomi, quello che Platone poneva a fondamento della lingua e della genealogia dei nomi, allora non c’è nemmeno chi possa possedere la donna, le donne, chi possa farne rappresentanti della genealogia o dell’ordine sociale.
Nell’esperienza cifrematica di questi trent’anni Verdiglione ha sempre puntato sulle donne nei termini di un’accentuazione del mito di Maria e del mito della madre. Lo statuto intellettuale delle donne procede da questi miti. L’annunciazione trae Maria dalla verginità all’obbedienza, in questo senso alla maternità, cioè allo statuto della madre: un indice del tempo che non passa, in particolare indice del malinteso che non si può togliere.
Cercare di accordarsi con le donne comporta l’espulsione della differenza sessuale. Il toglimento dell’anonimato e del tempo.
In quanto indici le donne non sono l’oggetto della sessualità. La differenza sessuale non è una proprietà delle donne.
“In principio era la parola”, Scrive Giovanni nell’incipit del suo Vangelo.
Con il testo cristiano, il Vangelo, si pone la questione di Cristo, del figlio. Del figlio che funziona. Figlio non genealogico e che comporta che la parola è tripartita. La parola in quanto segno è tripartita: Padre, figlio, Altro dal padre e dal figlio. Leggendo il Vangelo e i testi per esempio di S.Agostino ci rendiamo conto che la questione della religione è una sorta di maschera della questione della parola. Non toglie la logica della parola. Indagando sul testo S. Agostino indaga sulla struttura della parola.
Il testo cristiano spinge in particolare verso la questione cattolica: questione dell’integrità della parola, che non manca di nulla, che quindi non deve purificarsi, convertirsi, venire trattata.
Maria, l’annunciazione, il transfert. L’assenza di genealogia. L’eucarestia, il ringraziamento, l’assenza di sostanza.
L’Islam, pone oggi la questione della tolleranza dell’Altro? L’assenza di governo sulla parola? L’abbandono intransitivo, ossia l’itinerario verso la qualità?
Il testo del Corano forse non è ancora stato letto in modo efficace per cogliere i termini, i miti, il messaggio dell’Islam. Tuttavia occorre prendere pure nota di qualcosa. Quanto alle donne il Corano discrimina fra mogli, concubine e schiave, in nome della purezza e del possesso. È una classificazione molto simile a quella del discorso greco, in particolare fatta da Demostene. La moglie non porta la dote, ma è il marito a conferirle un dotario, una paga. E solo i figli avuti dalle mogli sono figli legittimi. Gravati dal tabù dell’incesto.
Il Corano non nega Gesù. Anzi lo ammette come uno dei profeti. Ma lo indica come figlio senza padre. È un po’ come Atena rispetto alla madre. Non nega nemmeno Maria, né l’annunciazione, ma ne fa una versione gnostica. Toglie l’enigma.
Gesù è praticamente figlio dell’angelo Gabriele che soffia sul seno di Maria la quale sente di avere concepito. Ma non è figlio di Allah. È figlio senza padre.
Il Vangelo dice che il figlio procede dal padre, e Agostino lo conferma. Per il Corano Gesù è un servo di dio come gli altri. È una servitù che non porta al servizio intellettuale, alla tripartizione del segno. È una servitù che si rivolge all’idolatria, al paganesimo, in attesa della fine del tempo.
La verginità di Maria non è negata, ma sono negati il padre e il figlio. Se non nella genealogia. Allah non ha figli, ma servitori e adoratori.