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La crisi senza fine

L’epoca dice che siamo in tempo di crisi, e ognuno non vede l’ora che la crisi finisca. Che ci sia la crisi sembra così autorizzare che si debba averne paura, perché non sapendo come uscirne e quando la crisi finirà: occorre quindi rassegnarsi alla crisi. Quello che non viene considerato da questa ideologia, che fa della crisi un male, una negatività, è che il termine crisi indica l’intervento del tempo in quel che si dice e in quel che si fa, intervento assolutamente incontrollabile, inarrestabile, irrimediabile. La crisi è irrimediabile. E il termine crisi, che in greco indica “giudizio”, “critica”, anche “clinica”, indica che la temporalità, l’intervento del tempo non è temporaneo. Sperare che la crisi finisca vuol dire appartenere a quella ideologia che punta alla fine delle cose affinché poi possa esserci la rinascita. Quell’ideologia che punta cioè a un culto della morte, evitando di cogliere i frutti del tempo, solo perché i frutti del tempo non sono prevedibili, non sono dell’ordine del possibile, non sono dell’ordine del probabile, proprio perché nessuno vive in un sistema, ma ciascuno vive nel tempo, nel tempo che non finisce, non passa, non scorre, dunque non finisce.

Questa ideologia propone invece che per ognuno c’è un dato certo: la fine. La fine della vita, la fine delle cose, la fine del tempo. È questo presunto dato certo che fa sì che ognuno, in quanto presunto appartenente al genere umano, debba vivere con la paura, la paura della fine, perché la fine è certa, anche se non è certo il quando. E allora ognuno si mette a misurare il tempo, il tempo che resta. E questa idea di fine è ciò che scatena la paura, è ciò che fa auspicare la fine della crisi.

Ma l’altra faccia della fine della crisi è la fine del tempo. La fine della crisi è la fine del giudizio, è la fine della critica, è la fine dell’intervento del tempo. Si auspica la fine della crisi e si teme la fine del tempo, la fine della vita, senza accorgersi che sono la stessa cosa. Ma è applicato un segno diverso perché il ragionamento è fatto secondo il principio algebrico, dove alle cose, preordinatamente, è posto un segno che può essere positivo o negativo, ma per convenzione, per ideologia. In realtà noi non sappiamo cosa sia positivo o negativo in direzione del valore. Può infatti accadere che, per via della cosiddetta crisi, qualcuno intraprenda un nuovo mestiere, magari lamentandosi: “Guarda te cosa mi tocca fare”, e attraverso questo, che sembra un ripiego, giunge a qualificare la sua vita, giunge alla riuscita, giunge a trovare il valore nella scrittura della sua vita. Non l’avrebbe mai fatto basandosi sulla conoscenza, invece accade così di cogliere i frutti del tempo, non potendoli preordinare, non potendoli prevedere, ma con l’instaurazione del gerundio della vita. Solo facendo, vivendo, parlando, scrivendo, le cose possono qualificarsi.

Ma affinché ci sia questa apertura, questa disposizione alla qualificazione delle cose, che poi può condurre alla qualità, occorre che ci sia l’assenza dell’ideologia del negativo, e quindi una crisi interminabile, una crisi costante, che impedisca qualunque pretesa di stabilità. Provate a pensare a un sistema stabile, un sistema in equilibrio, è un sistema morto. La seconda legge della termodinamica afferma che un sistema giunge all’equilibrio quando è stabile, cioè quando non c’è più entropia, non c’è più attività vitale. È questo a cui tende ogni essere umano? Alla sua stabilità? La stabilità viene raggiunta a entropia zero, condizione di un sistema morto. Questa è l’uscita dalla crisi. Ecco che occorre accorgersi di alcuni paradossi che sottendono alla logica di sistema, una logica di buon senso, di senso comune, che non coglie la questione della particolarità, e soprattutto la questione del tempo. Tolto il tempo, è la fine. Per accogliere questa ipotesi di crisi costante è essenziale il dispositivo intellettuale, è essenziale l’analisi, il racconto che rilascia una struttura, essendo dissipata l’idea di sostanza, l’idea che fa dire “Le cose sono così”. Se le cose fossero così, noi non avremmo nessuna ragione di parlare, nessuna ragione di raccontare, di scrivere, di fare, perché se le cose fossero così il tempo sarebbe già tolto e la qualità preclusa. Noi tendiamo alla qualità proprio perché le cose non sono così, e c’è un’istanza di narrazione, un’istanza di parola, un’istanza di racconto che ci travolge, nonostante ideologie, credenze, soggettività, e ci trae alla qualità per via della domanda.

La qualità non è la comodità. Oggi c’è una propagandistica della qualità che la fa coincidere con la comodità, con l’agio. La qualità oltre la specificità, oltre la precisazione, è giunge attraverso un racconto e la scrittura della struttura di questo racconto. Occorre che questo racconto avvenga in un dispositivo dove c’è ascolto, dove c’è chi non lascia che prevalga l’ideologia dello standard. Occorre dunque un dispositivo maestro/allievo, non una coppia maestro allievo, un dispositivo maestro/allievo, dove possano essere colti i frutti del tempo. Questa, come briciola di accenno, è la questione dell’analisi, che quindi trae alla questione intellettuale. L’analisi: ciò grazie a cui il cifratore può giungere a dire che in quel che si dice, in quel che racconta, nella sua esperienza di vita, non c’è più sostanza, non c’è più alternativa rispetto a ciò che occorre, non c’è più soluzione, e dunque non c’è più padronanza da esercitare.


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