Le donne, l’odio, la famiglia. Educazione, integrazione, integrità
“Noli me tangere”. “Non c’è più contatto”. “Μη μου απτου”.
Cristo enuncia la resurrezione con il teorema dell’integrità. Nulla è più tangibile con l’integrità, per via dell’intero, e l’indicazione che ne consegue è: “Nulla può toccarmi”, dato che le cose procedono per integrazione. Procedono per integrazione dall’apertura e secondo la loro particolarità. Per integrazione, ossia secondo l’intero.
Giungere a questa constatazione nell’epoca del contatto per antonomasia, nell’epoca dove ciò che è fatto valere è il contatto, i “contatti”, dove tutti debbono contattarsi, dove il valore sembra essere dato dai contatti, esige uno sforzo intellettuale e di umiltà quanto alla ricerca.
Non c’è più contatto, toccamento, sfregio.
Con il suo motto e con il suo gesto, così ben rappresentato nel bellissimo dipinto del Correggio che abbiamo utilizzato nel manifesto di questo nostro incontro, Cristo contribuisce al registro intellettuale della parola originaria. Cristo, il filius genitus nec generatus, il figlio in assenza di genealogia, diviene l’emblema della procedura della parola e del suo funzionamento.
“Nulla può più toccarmi” e quindi “Non puoi toccarmi”, non enuncia un divieto, ma l’impossibile della rimozione e della resistenza, il “non” originario essenziale allo statuto della parola che è secondo l’intero. La parola non può essere toccata, procede per integrazione. Il corollario è che non c’è più attrito.
Eppure, quante volte c’è chi rileva che è “in attrito” con qualcuno, o che si è sentito toccato, quindi ferito, offeso da qualcosa o da qualcuno, e la pelle, magari, presenta irritazioni, escoriazioni, pruriti, eczemi, psoriasi, grattamenti, toccamenti: e chi si sente toccato ritiene di dover restituire il contatto, il toccamento, il colpo, fino alla percossa, alla sberla, al pugno, al taglio, andando dalla ferita all’omicidio: sono vari tipi di erotismo da contatto.
Con l’assioma dell’integrità, non c’è più il tabù del contatto. Né la necessità della resa dei conti.
Ho cominciato questo nostro incontro dalla questione dell’integrità, dell’intero, dell’integrazione perché è essenziale alla vita di ciascuno e alla civiltà. Oggi, integrazione è un termine molto usato, molto in voga e diffuso, che soprattutto in materia di immigrazione indica che occorre fare posto a chi non ce l’ha, con il fantasma quindi che il posto dato all’altro venga sottratto a qualcuno. Nell’intero non c’è questo problema, l’intero non manca di nulla, e le cose procedono secondo l’intero. Per integrazione vuole dire proprio questo.
Che ciascuna cosa avvenga e sia nello statuto dell’integrità ha conseguenze pratiche molto precise per ciascuno: non c’è chi sia carente, mancante di qualcosa e nulla può costituire una perdita irreparabile. L’idea della perdita è, prima di tutto, un’idea che consegue alla fantasia di possesso, alla fantasia di potere possedere la parola e quindi le cose, addirittura le persone. Quante volte sentiamo dire la formula: “Sei mia”, “Sei mio”, diretta alla persona amata, moglie, marito, compagno, figli. Non è da considerare casuale, né innocente.
La perdita, la privazione, l’offesa, l’insulto, la rivendicazione, la vendetta, il “pan per focaccia”, il “botta e risposta” procedono invece secondo la procedura per saturazione, per colmamento, per sommazione, per risarcimento, dove si tratta della fantasia del danno da riparare, da ripagare.
Questo per indicare che l’analisi, nel suo modo, segue la procedura per integrazione, senza cui non può avvenire. L’analisi ossia la teorematica che consente di constatare che non c’è più soluzione.
Chi si accosta a un problema con l’idea della soluzione s’invischia nel problema e non lo attraversa, perché ha come riferimento un modello algebrico in cui negativo e positivo debbono equivalersi, bilanciarsi, tramite il processo di riduzione a zero.
L’idea della soluzione è anti culturale, è meccanicistica, è psicofarmacologica, drogologica. Attorno all’idea di soluzione ruota il fantasma di padronanza, che ha la sua punta nella possibilità di previsione dell’avvenire e di eliminazione dell’errore.
La mitologia televisiva sempre più persegue la mitologia della soluzione. Ieri ero in televisione per un’intervista e l’intervistatrice era molto preoccupata che l’intervista risultasse facile agli ascoltatori e soprattutto fornisse soluzioni. Parlavamo di questioni molto serie, che sono anche argomento del nostro incontro, figuriamoci se nel tempo di un’intervista possono fornirsi “soluzioni ai problemi della gente”. Già l’idea di soluzione è problematica, figuriamoci quelle di fornirle tramite televisione! Eppure è proprio così: la forma più seguita di televisione è quella che propone lo spaccio di soluzioni.
La soluzione è l’altra faccia della sostanza, l’altra faccia della droga. La soluzione in pillole. Così, anche chi si dice più che favorevole alla formazione, alla cultura, alla necessità dell’educazione e dell’insegnamento secondo criteri intellettuali inseguendo l’idea della soluzione, magari anche facile, fornisce non già un servizio intellettuale, ma pillole di psicofarmaco. E non è forse il modo più seguito anche dalla medicologia?
Ognuno vuole sapere come si fa, nessuno, o quasi, si avventura in un itinerario di ricerca che richiede insegnamento e formazione come acquisizioni e non come somministrazioni. Questa della somministrazione è la mitologia della droga in base alla quale ognuno vuole avere il piacere a comando, a dosi multiple, senza rischiare nulla.
Ognuno, cioè, si aspetta di avere il modo e non di trovarlo. L’esperienza analitica e cifrematica consente di trovare il modo per proseguire e non cedere dinanzi alla difficoltà.
Da dove viene questa mitologia? e come trova alimento nell’epoca contemporanea?
Il femminicidio. In questo periodo il senso comune è “toccato” e quindi scosso da una questione per altro non nuova, ossia la violenza sulle donne che è agita da mariti, amanti, compagni, fidanzati lasciati o minacciati di essere lasciati.
La cronaca, che è sempre più cronaca nera, in quanto è quella che fornisce più audience, fornisce sempre più numerosi questi casi di violenza: casi in cui la recessione da un patto viene punita anche con la morte. Si tratta di cronaca della vendetta. Da dove viene la vendetta? Da dove viene l’ostilità?
Occorre partire dalla famiglia. E bisogna andare oltre la concezione sociologica, ideologica della famiglia ritenuta come luogo delle relazioni fondamentali e dell’unione.
La famiglia non è un luogo; la famiglia non è il luogo dell’origine comune. Sarebbe allora anche il luogo dell’incesto. Sarebbe il luogo da cui fuggire o da cui potere essere cacciati in nome della colpa per scontare la punizione. Secondo la mitologia della tentazione diabolica. Sarebbe il luogo della vendetta del torto subito. E in nome di che cosa è agita la vendetta, se non come riparazione del torto subito e della conseguente perdita?
Basta leggere il mito di Edipo.
La famiglia è alleanza. E per ciascuno si tratta di trovare il modo con cui l’alleanza originaria costituisce la traccia da cui ciascuna cosa procede per entrare nell’itinerario in corso, in ciò che si dice, in ciò che si fa.
L’alleanza segue il modo dell’apertura, allude al legame e non all’unione; l’apertura è caratterizzata dal principio di contraddizione che ha il suo modo linguistico nell’ossimoro. Quindi: legame/slegame, giuntura e separazione che non contraddicono l’alleanza. La famiglia è così caratterizzata dal modo dell’apertura, dal principio di contraddizione e non c’è da appellarsi a una presunta unione ideale, non c’è da prescrivere nessuna unità ideale.
Non c’è sintesi, quindi, ma analisi.
Se invece la famiglia è intesa come luogo dell’origine, come luogo della genealogia, getta un’ombra davanti a ognuno, un’ombra che deve essere evitata: questa diventa la bussola nella maggioranza dei casi: l’evitamento dell’ombra della famiglia. Ombra immaginaria, ombra fantastica che tuttavia condiziona la rotta del corso della vita.
L’alleanza non è con qualcuno, non è legame genealogico o di servitù; è alleanza intransitiva, ossimoro, legame/slegame nella simultaneità.
Che la famiglia sia intesa diffusamente secondo il fantasma di origine e di genealogia anziché come traccia dell’apertura è indicato dai problemi riscontrabili nell’educazione sia all’interno delle famiglie stesse, sia anche dai modelli pedagogici forniti istituzionalmente. Risalta l’ostracismo che è esercitato nei confronti dell’autorità. La mitologia famigliare vigente è che i genitori debbono essere amici dei figli e quindi eliminare ogni tipo di barriera che possa frapporsi al soddisfacimento dei desideri dei figli. Così la frustrazione è bandita come il male assoluto. Cosa indica la frustrazione? La vanità di potere conseguire la padronanza sull’oggetto, il possesso sull’oggetto, di potere fare dell’oggetto del desiderio la fonte del piacere.
Già Freud era chiaro al proposito: l’oggetto causa il desiderio, non lo soddisfa. La frustrazione è quindi costitutiva della domanda e del suo ripetersi e del suo svolgersi.
Che vi sia frustrazione comporta che vi sia atto e domanda quanto al desiderio. Puntare all’abolizione della frustrazione introduce alla mitologia della droga in cui il piacere è padroneggiabile e ripetibile a comando, anzi a somministrazione.
Così l’autorità, che è autorità del nome, del padre in quanto nome che funziona, è necessaria perché vi sia aumento, crescita.
L’auctoritas sta nelle cose che incominciano e crescono e aumentano, procedendo dal non della rimozione. Così, con la rimozione, il sì e il no diventano fiori del tempo e non significano solo il permesso o il divieto a fare qualcosa.
L’impossibile della rimozione sta già in quello che si dice e impedisce che le cose siano tali. Le cose nella parola inseguono la loro qualità, tendono alla qualità e al valore e questo processo esige anche il “non” della rimozione oltre a quello della funzione di resistenza.
Così, è molto problematico quando i genitori, entrambi o soprattutto il padre, rispetto a un bambino o anche a un ragazzo, anziché fornire indicazioni sulla condotta o sul da farsi chiedono al bambino cosa voglia fare invece di indicare cosa sia da fare in quella circostanza. Il bambino sicuramente non ha gli strumenti per decidere e deciderà sempre secondo un malinteso principio del piacere immediato. Si tratta di andare oltre questo principio del piacere consentendo alla frustrazione di intervenire e di modulare e ritmare la questione del desiderio e del piacere.
Pertanto, l’educazione esige l’autorità che è proprietà del nome, senza cui il bambino si chiede: ma il padre dov’è? E va a cercarlo altrove.
E allora torniamo alla questione della violenza che viene agita sulle donne e sugli altri. Un bambino che non abbia fatto i conti con la frustrazione riterrà facilmente che ogni differimento del piacere sarà un torto che subisce e che chiede immediata soddisfazione, anche con la vendetta. Senza frustrazione si avvia l’ideologia del vittimismo. Cui segue l’affrontamento e il duello come modo del litigio. Senza indulgenza, senza tolleranza.
Nel dispositivo, il modo del tempo implica l’assenza del fatto. Nessun fatto di amore e nessun fatto di odio. Anche, nessun segno di amore e nessun segno di odio. Il concetto di amore e il concetto di odio appartengono all’utopia gnostica. L’amore e l’odio sembrano potere accomunare tutti in una facile comprensione, tutti sapendo di cosa si tratta. Presumendo di conoscere l’umano. “Non conosco uomo”, avvia un altro modo dell’amore e dell’odio.
Amore e odio non sono attribuibili alla relazione. Questo è da capire. “Relazione d’amore” e “relazione d’odio” sono le formule per potere attribuirli al soggetto e alla relazione intersoggettiva: amore fra uomo e donna, con le varianti; odio fra uomo e donna, con le varianti. Così può intervenire il fantasma di gestione e di economia dell’amore e dell’odio fra padre e figlio o padre e figlia, tra madre e figlio e madre e figlia. La relazione intersoggettiva, relazione sociale, si avvale del principio di reciprocità e relative rivendicazioni, per un’economia e gestione dell’amore mentre l’economia dell’odio introduce il principio del razzismo, con la compatibilità della differenza e la giustificazione dell’Altro.
L’amore attiene non già all’avere, ma al dare e l’odio attiene non già alla vendetta, ma al lasciare.
L’amore per via di pulsione s’instaura per il non dell’avere e il non dell’essere, quindi non procede né dall’avere, qualcosa o qualcuno o l’oggetto o la cosa, né dall’essere qualcuno o qualcosa, o essere oggetto per altri. La conseguenza è che, con la pulsione, non c’è più nessun presunto soggetto dell’amore o dell’odio, né attivo né passivo, né inerte.
Pertanto, la fantasmagoria di poter essere o rappresentare il soggetto della castrazione o della mancanza esige l’analisi. Analisi dell’amore e dell’odio. Analisi della credenza nella soggettività, nella padronanza, nella gestione o nell’economia della castrazione e della mancanza; nell’assunzione della povertà e della miseria e del personaggio che ne scaturisce, il soggetto della povertà e il soggetto della miseria. Questa credenza nell’assunzione dell’amore porta a rappresentare l’impossibilità di fare, per essere il personaggio della fiaba. E qui si tratta d’interrogare la fiaba.
L’assunzione dell’odio, invece, preso nell’alternativa fra amico e nemico, si volge in erotismo. Ad escludendum.
La nozione di odio più comune è l’odio transitivo che presuppone il soggetto che odia. Si tratta dell’odio inteso come vendetta, come rancore, dell’odio della vittima o del carnefice: è l’odio come sentimento umano, quindi giustificato, l’odio come coscienza.
L’odio è il custode dell’impresa; l’odio è il custode dei talenti che all’occorrenza occorre impiegare per il compimento, per la conclusione, per la cifratura.
In nessun caso le cose vanno da sé. In ciascun caso quel che si fa esige il dispositivo opportuno: è opportuno in quel caso e non generalmente. Solo se interviene l’odio il principio protocollare dello standard può non prevalere.
L’odio indica il ritmo e l’incalzare del tempo. Impossibile il rimando con l’odio. In sua assenza, il personaggio in cui ognuno si riconosce prevale per espellere l’urgenza e la necessità e “ci pensa”. L’odio è pragmatico e finanziario.
Prendere e lasciare. L’idea di abbandono, di abbandonarsi o di essere abbandonati è la variegatura con ognuno tenta l’economia dell’odio pur imbattendosi nell’odio.