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Come vivere, come fare, come comunicare

L’enigma della vita e la psicanalisi. Relazione sociale e dispositivo intellettuale

Il modello cui s’ispira la psicoterapia è il rapporto personale instaurato sul modello del  rapporto sociale fra chi è presunto curare e chi è presunto curato. Senza l’esperienza di associazione, esperienza che consente di elaborare la questione dell’istituzione in quanto istituzione psicanalitica, la burocrazia impera. Burocrazia nel senso della credenza nel potere invisibile e nella predestinazione, nonché nell’inerzia del fatalismo.

L’istituzione psicanalitica e cifrematica, instaura la novità assoluta del dispositivo. Nel dispositivo vige la logica che non poggia sull’alternativa esclusiva, ma sul vel, sull’adiacenza: logica del due e del tre. Non già logica binaria, ma logica della nominazione: diadica e singolaretriale. Logica in cui la contraddizione è originaria e ha il suo modo nell’ossimoro, e è inconciliabile. Contraddizione come modo dell’apertura. Senza rimedio e senza ritorno.

Come nota Luigi De Marchi nel suo libro Il potere forte, a pg. 18, l’equivoco per cui è sorta la psicoterapia è che vi possa essere rimedio, “risoluzione ai problemi degli assistiti”, degli umani. Già qui la psicanalisi come assistenza non è più psicanalisi. L’analisi s’instaura con la decisione dello statuto intellettuale della parola e quindi di ciascuna cosa in quanto si situa sul terreno della parola. Terreno dell’Altro: questa è l’humanitas, l’umanità. Se ciascuna cosa, ciascuna questione è intellettuale, allora è senza soluzione sostanzialistica.

L’analisi comporta, per la via del transfert, che non c’è più soluzione, ma assoluzione. Non vige più il principio causalistico della causa e dell’effetto per ogni cosa, per cui si tratta di cercare la causa, ma anche il modo, la combinazione e la combinatoria. Insomma, nessun elemento è elementare e l’analisi si conclude nell’assoluzione. Assoluzione del legame sociale, cioè genealogico, cioè fantasmatico, del destino di morte.

Non si tratta, quindi di “convivere” con i problemi, ma di assolvere i presupposti problematici. Questo  ha come sua conseguenza formativa di dissipare del moralismo sostanzialista, che ha i suoi risvolti nelle superstizioni.
A pg. 32 del libro, De Marchi scrive: “/…/ solo una risposta umanistica alla crisi esistenziale della cultura occidentale può salvarci dal ritorno dei vecchi fantasmi salvazionisti di stampo religioso o politico e può fare di questa crisi epocale una crisi di crescita creativa e affratellante per l’umanità intera”.

Ogni idea di salvezza, che si volga o no nella promessa della salvezza che istituisce il totalitarismo delle convenzioni, fonda la demarcazione fra l’effettiva libertà intellettuale e ciò che annoda l’ideologia della vendetta come legame sociale. Chi crede nella salvezza s’istituisce come vittima, chi promette la salvezza s’istituisce come carnefice, rinnovando la diabolica coppia schiavo/padrone  di platonica memoria e che si rinnova surrettiziamente dove venga istituita la coppia maestro/allievo o medico/paziente, o curante/curato. Sono queste varianti delle coppia capace/incapace.

La mitologia della salvezza è l’altra faccia della mitologia della liberazione, che si è fatta anche teologia, sul cui conto occorre mettere ogni rivendicazione personale, sociale, religiosa o cosiddetta civile. In un caso e nell’altro, l’appello è a un presunto demiurgo, da imitare o da essere, che, giungendo a conquistare una presunta padronanza sulle “umane cose”, sul sapere, sul destino o quant’altro, potrebbe ricevere la delega sulla vita i ognuno.
Questa credenza se non analizzata o, addirittura, se alimentata, è di per sé sufficiente a orientare ognuno al degrado intellettuale, cioè a formargli una mentalità.

Tutto ciò ruota intorno alla morte e al suo fantasma.


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