La tentazione
Il cibo come tentazione. Cibo e erotismo
Abbiamo dato come titolo a questi quattro incontri La tentazione. E abbiamo indicato quattro argomenti, quattro temi per svolgere l’argomento: Cibo e erotismo, La vita come reality, Farsi vittima, Stress e relax.
Sono quattro traiettorie per indagare intorno alle idee, alle credenze, ai luoghi comuni che stanno alla base di molti cedimenti che non consentono di affrontare le difficoltà e che spesso sono pretesto d’incagliamento nella vita di molte persone, giovani o no.
Innanzi tutto, perché tentazione? Questo termine evoca qualcosa di proibito, di vietato, di negato, qualcosa che abbia a che fare con il male e che quindi negherebbe il bene come ciò cui invece le cose dovrebbero essere orientate.
Come mai questo termine “tentazione” che originariamente traduce il termine greco peirasmos e che indica anche prova, esperienza, sollecitazione e che quindi non ha nulla di negativo, diventa poi invece il significante di qualcosa che volge al negativo? Da notare che peirasmos è affine, adiacente a peiras, peirasis, che indicano il tentativo, lo sforzo, la tensione a intraprendere.
L’accezione originaria di tentazione indica qualcosa che spinge alla ricerca e che quindi si accosta alla curiosità. Possiamo anzi dire che non ci sarebbe curiosità senza tentazione. Quindi la tentazione è necessaria intellettualmente. Tentazione è tentazione di capire, d’intendere, di sapere.
Ma, se alla curiosità viene posto un limite, o un freno dovuto alla presunzione di conoscere già ciò di cui si tratta, questa presunzione nega la ricerca, nega l’ingenuità, nega anche la particolarità di ciascuna cosa, inserendola invece in una sorta di casellario comune in cui il significato e il valore sarebbero già assegnati.
Il problema sorge quando sia constatata una discordanza tra il valore presuntivo, standard che quella cosa dovrebbe avere e ciò che viene constatato vivendo, nel corso dell’esperienza. Spesso lo scarto viene assunto e quindi riferito a sé in termini di inadeguatezza o di incapacità a “essere all’altezza della situazione”, oppure viene attribuito a altri, in termini di inganno o malevolenza. Tutto ciò ha delle conseguenze.
In che modo si combinano la tentazione con il cibo e poi cibo e erotismo?
La prima tentazione di Cristo che Matteo e Luca ci raccontano nel loro Vangelo, si riferisce appunto al cibo: “Se sei Dio, comanda che questi sassi diventino pane, (o questa pietra diventi pane)”. Al che Gesù risponde:”Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.
La tentazione comincia con una richiesta di dimostrazione dell’identità: “Se sei Dio”, fai questo. Si tratta della richiesta di una dimostrazione dell’identità, da cui dovrebbe derivare una capacità o una volontà.
È una tentazione sostanzialista dove la metamorfosi da una sostanza a un’altra sarebbe garantita appunto da un’identità certa, un’identità che dovrebbe dimostrare una genealogia, una discendenza che sarebbe segno di un’appartenenza.
Ci sono varie cose in questa tentazione: l’idea di sostanza, l’idea di potere padroneggiare la sostanza, l’idea che questa padronanza sulla sostanza verrebbe da una certa origine, da una certa appartenenza. Fantasma di genealogia, fantasma di origine, fantasma di appartenenza. Fantasma di padronanza, capacità, possibilità. Fantasma di poter fare in quanto si è: “se sei…, allora fai”.
E questo è uno dei luoghi comuni più diffusi, quello di legare la capacità, o la possibilità all’essere. E allora ognuno cerca o crede di dovere essere per poter fare. Da qui poi anche la fantasia che per fare occorre sapere come si fa e non già capire come occorra fare.
A suffragare questa credenza c’è una tentazione ancora più antica di cui La Bibbia ci narra: è la tentazione di Adamo e Eva nel Paradiso terrestre , l’Eden. Anche qui la tentazione è posta come conseguenza di un divieto:
Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, [17]ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti».
[4]Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! [5]Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male». [6]Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. [7]Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.
[8]Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. [9]Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». [10]Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto».
[11]Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?».[12]Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». [13]Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».
È immediato il riferimento di Eva all’inganno: non è che lei ha creduto a qualcosa, ma dice di essere stata ingannata. Anche questo è motivo per riflettere.
Sono due esempi non trascurabili del modo in cui il cibo diventa sostanza, diventa addirittura il segno dell’identità, dell’essere, del sapere. Con una serie di conseguenze.
E così abbiamo già compiuto il passo dalla tentazione al cibo e quindi siamo già nella materia dell’incontro di oggi. Riprenderemo questa connessione con la tentazione, però prima occorre qualificare ciò di cui si tratta quanto al cibo.
Qual è la natura del cibo, di cosa si tratta quanto al cibo? La risposta può sembrare semplice: cibo è quello che mangiamo, quello che ci consente di nutrirci, di alimentarci, mangiare, bere quindi soddisfare la fame, la sete, e attorno a questa idea del cibo sono fioriti tanti modi di dire. Per esempio, Feuerbach sosteneva “Noi siamo quello che mangiamo” quindi ecco già un’idea di cannibalismo “Noi siamo ciò che mangiamo”, siamo cioè diventiamo la sostanza che introduciamo nel corpo inteso come sacco, ecco l’idea di poter acquisire le proprietà, le virtù di quello che introduciamo, che era il motivo per cui il nemico morto veniva mangiato per incamerarne la forza, il valore, il coraggio, l’audacia.
La questione però parte un po’ più da lontano, cioè parte dalla parola, e dunque qual è il cibo nella parola. E dato che nella parola non c’è sostanza, la parola si caratterizza per questo, per la sua insostanzialità, per la sua leggerezza con le sue virtù che fanno sì che ciascuna parola, ciascun termine, ciascuna cosa che viene designata possa qualificarsi e quindi non restare ontologica. Quando non c’è questa proprietà della parola, che è la proprietà del cibo in assenza di sostanza, quel cibo che costituisce nutrimento, alimento senza entrare nella mitologia della sostanza e in ciò che la caratterizza, c’è l’alternativa fra sostanza buona, positiva e sostanza nociva.
Il termine cibo indica ciò che si può prendere con la mano, ciò che è a portata di mano e occorre per il vitto. Ciò che si prende con la mano.
Di quale mano si tratta? Della mano intellettuale dove positivo e negativo non stanno in alternativa, ma seguono il modo dell’ossimoro. Il modo del vel, con cui ciascuna cosa sta accanto all’altra, senza negarla o nuocerle.
La questione del cibo è quella del dispositivo alimentare che concorre al dispositivo immunitario. L’immunità, assenza di peso, assenza di obbligo, di dovere, assenza cioè di comunanza. Particolare e specifico si combinano nel dispositivo immunitario, e nel dispositivo alimentare in cui ciascuna cosa risente della leggerezza, della libertà e non è segno di qualcosa. Questo è essenziale per non fare del cibo l’alternanza fra il bene e il male, fra il positivo e il negativo.
Dispositivi della giornata di Machiavelli
C’è chi di dice “Questo cibo mi è indigesto” “Questo cibo mi fa male” “Questo cibo io non lo posso mangiare, perché poi sto male” “questo mi fa bene e questo mi fa male”. Questa demarcazione fra il bene e e il male, è una demarcazione che sorge con la nozione di sostanza, che interviene quando sorge l’idea di fondamento, idea che sorge quando viene applicata alla materia della parola la dicotomia: la dicotomia, cioè quel taglio che divide le cose in positivo e negativo.
La coscienza, ossia il sapere comune e il senso comune. Coscienza di colpa e senso di colpa assumono il sapere del negativo e del male, inteso come male attuale e male ereditario: la coscienza di colpa è il peccato attuale il senso di colpa sarebbe il peccato originale.
Se il cibo, assume il segno positivo o negativo, assume cioè la potenzialità di fare il bene o il male dell’Altro, allora questo cibo diventa il segno stesso e diventa la sostanza in grado di fare il bene o il male dell’Altro. Assumere “questo cibo” che ha acquisito questa significazione istituisce quella forma di cannibalismo, che diciamo bianco, cannibalismo bianco, senza cioè vittima sacrificale, senza spargimento di sangue, che dà luogo al pasto di amore o al pasto di odio. Il pasto di amore è la rappresentazione di una scena, di un luogo dove l’amore sia rappresentato, cioè dove deve avvenire o essere fatto secondo un canone: e si tratta quindi della negazione dell’amore, è il pasto in assenza di amore; il pasto di odio è la rappresentazione di una scena senza tempo, di una scena che quindi riproduce un misfatto; è la rappresentazione di una riproducibilità e permanenza della colpa e della sua coscienza; è la scena in assenza di odio cioè di tempo che invece irrompe, incalza, interviene; è il pasto senza odio, in questa precisa accezione. (Wqew). L’odio è la proprietà del tempo che incalza. Non passa, non scorre, non finisce, ma irrompe, incalza. Questo è l’odio originario. Ben lungi dalla rappresentazione che ne viene fatta nei termini della repulsione, o dell’adirarsi verso qualcuno. Così il pasto di odio è il pasto senza l’odio originario, il pasto che si trova nell’alternativa della sostanza, presa nella dicotomia. Quindi, dove all’amicizia deve corrispondere anche l’inimicizia, e l’amico rappresenta anche la sua altra faccia, il nemico. È il pasto in cui ognuno è disposto a credere nell’errore dell’Altro, quindi nella malevolenza dell’Altro, che deve trovare corrispondenza alla benevolenza, dove quindi ognuno si dispone a credersi vittima dell’Altro. E si alimenta di questa sua credenza. Il cibo che assuma questa credenza, alimenta questa credenza e alimenta anche il vittimismo della presunta vittima. Allora, i cosiddetti “disturbi dell’alimentazione” quanto debbono al cannibalismo bianco? Al pasto di amore e al pasto di odio? Questo che adesso chiamiamo cannibalismo bianco si dispiega su due fronti: il naturalismo e il mentalismo con due fantasmatiche che si presentano con la formula del ritorno alla natura o alle cose buone di una volta.
La questione è quindi quella dell’analisi, di un dispositivo di parola in cui ciascun elemento risulti originario, non gravato dal peso dei ricordi, delle significazioni, dei divieti o delle prescrizioni che ne fanno un segno di qualcosa.
L’elenco dei cibi che possono fare bene o male indica che la funzione di zero è sospesa, che l’originario è sospeso. I cibi da evitare, i cibi nocivi, dannosi, allergizzanti, intossicanti… Se la funzione di zero è sospesa è sospesa anche la crescita. La funzione di zero contrassegna nella sembianza, la nascita, la natura; nella dimensione di linguaggio contrassegna il rinascimento, con la sua auctoritas, con il rilancio, rigetto, rimozione. Ma, sul principio della sostanza, negata la funzione di zero, la sostanza può fare bene o fare male, e così il cibo.
“Cosa ho mangiato? Qualcosa mi ha fatto male.” “Questo fa bene, questo fa male”. “Questo lo digerisco e questo no”.
Sul principio della sostanza, che è il principio del nome del nome, le cose, la vita sono statiche, sono ferme: così si può credere che siano conoscibili. Se il cibo risulta inscritto nel discorso alimentare, nel discorso sanitario, nel discorso comune, se cioè il cibo è tolto dalla parola, o se la parola è tolta dal cibo allora diventa la sede di azione dell’idea di sostanza con la sua dicotomia, alternativa. Il fantasma di negatività e di fine agisce sul cibo. E il cibo ne diventa l’agente.
Sorge così l’alternativa fra il pasto di amore e il pasto di odio. Ossia il pasto senza amore e il pasto senza odio. Il pasto senza l’altrove. Il pasto dove il ricordo la fa da padrone. E la memoria è espunta.
Quella che viene chiamata dal discorso sanitario “anoressia mentale” e anche la ”bulimia mentale” e che costituiscono i cardini dei cosiddetti “disturbi dell’alimentazione” altro non sono se non il frutto dell’applicazione al cibo, ma non solo, alla vita, del pasto di amore e del pasto di amore. Possiamo anche chiamarlo cannibalismo bianco.
Attribuire al cibo la portata di agente del fantasma di fine, o del fantasma di origine, o del fantasma di morte, o del fantasma di possessione, o del fantasma di padronanza. Se qualcosa o qualcuno diventa fantasmaticamente l’agente del fantasma materno, ossia il rappresentante di qualcosa contro questo qualcosa, ritenuto la causa, si appunta ogni rivendicazione, ogni protesta, ogni recriminazione, ogni vendetta. In questo contesto ogni cosa entra nel cerchio del personalismo, nell’idea di sé che deve essere mantenuta, se non addirittura difesa, protetta da quanto viene ritenuto attacco (anche dalla rimozione quindi che viene contrastata con l’omertà, con la reticenza e quant’altro). Dove aleggia il personalismo, la sua idea diventa difficile instaurare dispositivi, perché l’idea di sé lo contrasta.
Il cibo, il nutrimento, l’alimentazione: in nessun caso si tratta della sostanza; e lo dimostrano gli alunni coloro che si alimentano di ciò che li fa crescere. Il cibo è cibo intellettuale. Che non si contrappone a quello sostanziale, perché questo non esiste, come nota Machiavelli nella lettera del 10/12/1513 (p.15).
Di cosa si tratta allora quanto all’erotismo? Semplicemente della presunta conoscenza del piacere e della sua presunta riproducibilità.
L’erotismo pone la questione del piacere, del piacere inteso come desiderabile, e l’erotismo viene proposto come ciò che consente di riprodurre il piacere e di ripeterlo, favorendo quel convincimento in base al quale il piacere è un piacere noto. La questione che, invece, rende la cosa interessante, il piacere è imprevedibile, il piacere è qualcosa che giunge alla conclusione dell’atto, dell’atto sessuale, dell’atto di parola, il quale non corrisponde a un criterio di riproducibilità, di ripetitività, è per questo che l’erotismo manca alla sua intenzione, è per questo che sull’erotismo fiorisce un businnes non indifferente perché promette di poter raggiungere quel qualcosa che viene presunto di conoscere in quanto favorito da un ricordo, ma che, invece, l’atto che segue non garantisce di raggiungere, è qui lo scacco dell’erotismo, perché è impossibile stabilire la conoscenza del piacere. Il piacere sfugge alla presa, è qualcosa che giunge sorprendentemente, del tutto imprevisto su cui non si può fare un calcolo, e non a caso, invece, per promettere questa possibilità questa capacità, questa sicurezza di raggiungerlo, viene allestito anche tutta una farmacologia, una farmacopea per dare una sorta di rassicurazione che c’è questa possibilità di raggiungere, di conseguire, di conquistare una forma comune di piacere, e che questo è garantito da una procedura standard. Non è a caso che, ancora agli inizi del novecento, Freud abbia scritto un saggio che s’intitolava Oltre il principio del piacere proprio per indicare che, contrariamente alle aspettative, delle promesse della fisiologia, della medicina, della filosofia di tutte le varie discipline, la questione del piacere si pone in termini di pulsione, quindi in termini di domanda che, quindi, non può essere codificata una procedura standard per conseguire il piacere. Allora, giusto per concludere questa prima parte della serata, la questione del piacere, del sesso, della sessualità, non può essere chiusa in una canonistica, in una prescrittività, addirittura quello che viene chiamato un comportamento.
L’arte di questo secolo, raffinando l’orientamento della seconda metà del ‘900 sembra essere la dietetica. Non la cucina, come arte della combinatoria dell’alimento, dove si tratta del gusto, del sapore, della novità, anche della degustazione. La dietetica, come modalità del dosaggio e della depurazione della sostanza nociva. La dietetica, quindi, non già intesa come ciò che indica lo statuto intellettuale del nutrimento e del cibo, ma come ciò che rende ogni cosa divorabile o non divorabile, in quanto inscritta nell’alternativa fra rimedio o veleno.
Cosa mangiare? Farà bene o farà male?
E la dietetica come religione si divide fra pasto di amore e pasto di odio.
Su questa alternativa è sorta in occidente la ricerca sulle intolleranze alimentari. Anziché indagare sul dispositivo immunitario, come dispositivo intellettuale, che assicura la salute a ciascuno, oggi si preferisce l’etichetta di intollerante, distribuita a tutti, anche se ristretta a questa o a quella sostanza.
La dietetica si volge oggi in cannibalismo. Ogni pretesto è buono per consumare la sostanza. E il corpo stesso diventa sostanza, e mangiare è mangiare la sostanza che può anche venire rappresentata con il corpo, dell’Altro, morto.
La dietetica oggi si annuncia e si scrive come l’arte, la scienza, la religione del cannibalismo. Mangiare ciò che è simile.
Se l’amore diventa relazione interpersonale, “tu sei il mio amore”, o è presunto potersi rivolgere a un oggetto che ne diventerebbe il bersaglio, entra allora in una mitologia della quantificazione, del dosaggio, diventa cannibalico.
La questione dell’amore è la questione della vicenda della domanda, con particolare riferimento a un suo aspetto, a una sua virtù, cioè il dare. Non già l’essere, non già l’avere, ma il dare.
Non è la questione di fare per amore o di dare per amore, sarebbe ancora nel senso di un debito da estinguere. È l’amore a dare. È l’amore che dà. E non è prestabilito o conosciuto o già decidibile cosa sia dato. Ma, l’amore è contrassegnato dal dare. Il proverbio dell’amore è che l’amore dà quel che non ha e più ne dà e più ne ha.
La fame è di amore perché la domanda è custodita dall’amore, cioè l’amore è custode della pulsione.
L’idea di non farcela, di essere inadeguati, di non avere la capacità sfocia nella paura, con le sue varie forme: l’angoscia, il panico, il terrore, l’orrore, lo spavento. Nessuno vuole ammettere la paura perché è intesa come una debolezza, ma ognuno l’avverte in forme e modi differenti; e reagisce cercando il rimedio o l’antidoto che permetta di scongiurarla pur senza provare a capire perché sia sorta e perché persista e quando e come.